QUANDO GARIBALDI SBARCO’ A LONDRA

Quando Garibaldi sbarcò a Londra

Fabrizio Montanari

il 11 Maggio 2021 alle 14:23

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Quando, nella prima metà del mese di marzo del 1864, Garibaldi lasciò Caprera per raggiungere l’Inghilterra, nessuno, nemmeno i suoi più stretti collaboratori, conoscevano le vere motivazioni di quel viaggio. La notizia fece molto rumore e destò molti sospetti in tutti gli ambienti politici del Paese. Se ancora convalescente, dopo le ferite riportate nel 1862 in Aspromonte, Garibaldi aveva deciso d’accettare l’invito degli amici inglesi e affrontare un viaggio lungo e faticoso, qualcosa d’importante doveva pur esserci. Le ragioni potevano essere tante. Ringraziare il governo inglese per l’aiuto offerto durante l’impresa dei Mille, chiedere loro un ulteriore appoggio per liberare Roma e Venezia, incontrare dopo tanto tempo il suo maestro Giuseppe Mazzini, da anni rifugiatosi a Londra, raccogliere fondi per costruire un suo esercito e riprendere l’iniziativa, anche a costo di scontrarsi con il governo piemontese.

A Giuseppe Guerzoni, suo segretario, confidò vagamente di voler assicurarsi l’appoggio inglese alla liberazione della Grecia, della Polonia, di Roma e di Venezia. Ma poi cambiò diverse versioni, tanto da mettere tutto il seguito in confusione. Altri sospettavano che Bakunin, ripartito da Caprera alla fine di gennaio per visitare l’Italia e incontrare i suoi seguaci, gli avesse affidato una missione segreta, che solo l’appoggio politico di Mazzini e quello economico inglese avrebbero reso possibile. I nemici degli italiani e di tutti coloro che anelavano alla unità del Paese, erano l’Austria, la Francia e lo Stato Pontificio.

Era la terza volta che il Generale metteva piede sul suolo inglese. Nel 1847 fece visita alla sua amata Mrs Emma Roberts, nel 1854 invece partecipò a Newcastle ad una manifestazione promossa da una organizzazione operaia di Mutuo Soccorso contro la disoccupazione dilagante e il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità.

In occasione del suo terzo arrivo erano sorti in tutto il paese i Working Men’s Garibaldi demonstration committees, il cui scopo era quello di accogliere e omaggiare nel miglior modo possibile l’Eroe dei Due Mondi. Quelle associazioni per assicurarsi che l’invito fosse accettato spedirono in loro rappresentanza a Caprera i coniugi Chambers di Liverpool, suoi amici di vecchia data. Le loro argomentazioni furono talmente convincenti, che alla fine riuscirono nell’intento. Esse evidentemente incrociarono il desiderio di Garibaldi di rompere l’esilio d’orato di Caprera al quale l’avevano costretto i piemontesi, per riprendere l’iniziativa. Una volta confermata la partenza, il ministro Lord Palmerston, quasi a rivendicarne il merito, fece immediatamente pubblicare la notizia dal Daily Telegraph.

In pochi giorni scoppiò il delirio in tutto il Paese. Da quel momento furono mobilitati i servizi segreti di mezza Europa, si moltiplicarono le pressioni politiche sul governo inglese affinché non sottovalutasse i pericoli insiti in quel viaggio, si richiese una più stretta sorveglianza su tutti gli esuli politici stranieri, specie su Giuseppe Mazzini. Mai viaggio di un personaggio straniero fu più seguito, sorvegliato, temuto e, nello stesso tempo, acclamato, atteso, festeggiato e onorato come quello dell’Eroe dei due Mondi.

Con Garibaldi partirono i figli Menotti e Ricciotti, il suo segretario Giuseppe Guerzoni e il medico personale dott. Basile. Dopo una sosta a Malta, fece rotta, via Gibilterra e Marsiglia, per l’Inghilterra, a bordo del panfilo Ondina di proprietà del conte di Southerland.

La nave giunse al porto di Southampton alle quattro del pomeriggio del 3 aprile 1864. Era domenica, faceva freddo e pioveva. Una folla enorme tuttavia lo stava attendendo fin dalla mattina. Si trattava di gente comune, immigrati italiani, operai, nobili, esuli di molti paesi. Quando lo videro ritto in piedi sulla nave intento a salutarli, andarono letteralmente in delirio. L’eroe, il messia laico, il comandante intrepido era vestito come suo solito con stivali, casacca rossa sotto un mantello grigio e l’immancabile sciarpa rossa. Al gesto della sua mano, quasi benedicente, la folla rispose gridando il suo nome e “viva l’Italia”. Era giunto il liberatore dei popoli, l’eroe di tante battaglie a favore della povera gente, l’incarnazione degli ideali di libertà e di giustizia, conosciuto, amato e invocato in tutto il mondo.

Garibaldi, consapevole che attorno alla sua persona giravano molti interessi politici ed economici, che il Nuovo Regno d’Italia, l’Austria, la Francia e lo Stato Pontificio lo sorvegliavano a distanza, aspettando il fallimento del suo viaggio, affinché nulla potesse essere politicamente strumentalizzato, si affrettò a fa saper di non desiderare d’essere oggetto di dimostrazioni politiche e invitò i suoi sostenitori a non fornire nessun pretesto agli avversari per scatenare tumulti e scontri.

L’Inghilterra, come aveva fatto durante la spedizione dei Mille, restava interessata ai suoi affari in Sicilia e quindi a contenere l’influenza francese; la Francia non intendeva perdere l’appoggio dell’Italia in politica estera e tradire il Papa, l’Austria temeva la potenza inglese e una sua possibile maggiore presenza nel Sud Europa, la diplomazia di Casa Savoia e del suo governo a guida Minghetti stava infine trattando segretamente con la Francia il trattato, che siglato nel successivo mese di settembre, avrebbe portato la capitale da Torino a Firenze, assicurando i francesi e il papato che Roma non sarebbe stata toccata. Ciò che in effetti non avvenne, almeno fino al 1870. Il timore era che Garibaldi e Mazzini tramassero qualche impresa per sollevare il popolo romano e veneziano, capace di vanificare tutto. In effetti, se Mazzini non aveva mai riposto alcuna fiducia nei piemontesi, anche Garibaldi, dopo aver regalato mezza Italia a Vittorio Emanuele II, vistosi relegato in un ruolo secondario, senza truppe e senza mezzi, stava cercando le condizioni per riprendere l’iniziativa. Poi c’erano quelli decisamente contrari alla sua visita. Tra tutti la regina Vittoria che si rifiutò di riceverlo e lo stesso Carlo Marx che parlò a proposito del viaggio di “deplorevole buffonata”.

Una volta toccato il suolo inglese, Garibaldi venne praticamente sequestrato da Mary e Charles Seely, deputato liberale e uno dei più ricchi industriali inglesi, per essere ospitato nella loro dimora di Brook House nell’isola di Wight. Mary, affascinata dalla personalità del Generale, rimase per circa dieci anni in contatto epistolare con lui. In quelle lettere i due amavano ricordare i giorni trascorsi sull’isola e discutere del futuro loro e dell’Italia. In quella splendida villa Garibaldi fu raggiunto per un breve saluto anche da Giuseppe Mazzini, al quale diede appuntamento per i giorni successivi. Incontrò poi il rivoluzionario russo Herzen, il poeta Alfred Tennyson e altri intellettuali. Durante il suo soggiorno in casa Seely piantò in giardino un albero denominato “Albero della Libertà” e venne ritratto dal pittore Attilio Baccani.

Herzen lo aveva raggiunto in tutta fretta per illustrargli la reale situazione politica del paese. I festeggiamenti, le acclamazioni e i riconoscimenti di cui era oggetto rappresentavano, infatti, solo una faccia della realtà. L’altra, quella dei conservatori e della regina, che non gradivano la sua presenza, era altrettanto diffusa e controllava il governo e il Parlamento. Non doveva pertanto illudersi. I banchetti e le cerimonie servivano per ingabbiarlo e tenerlo il più possibile lontano dal popolo. Lo stesso Mazzini, come gli riferì Herzen, era continuamente sorvegliato e spesso oggetto di infamanti accuse. In ogni caso i due si promisero d’approfondire l’argomento con calma nei giorni successivi.

L’accoglienza offerta da Seely fu perfetta, tanto da mettere il Generale quasi in imbarazzo. Durante il suo soggiorno in casa Seely dovette incontrare una moltitudine di politici, di nobili e di intellettuali, che desideravano conoscerlo, toccarlo e congratularsi con lui. Giunsero anche rappresentanti da tutte le grandi città per ottenere la promessa di una sua visita. Le cronache del tempo si soffermarono in particolare sul fascino suscitato dal Generale sulle donne. Pur avendo ormai 57 anni ed essendo perfettamente consapevole di tanta ammirazione, Garibaldi non negava a nessuno, specie alle sue ammiratrici, il saluto e il suo sorriso. Per molto tempo nelle strade e nei salotti londinesi non si parlò d’altro. Era l’argomento del giorno. Inevitabilmente sorsero improbabili aneddoti, dicerie e ricordi che segnarono una intera stagione.

Finalmente, sempre accompagnato da Seely, arrivò il giorno della partenza per Londra. Nella capitale una folla mai vista prima, secondo l’Illustrated London News lo attendevano oltre 500.000 persone, riempiva tutta Trafalgar Square. I giornali parlarono della più grande manifestazione della storia inglese. Tale successo indispettì molto ovviamente la Regina e i membri più conservatori del Parlamento. Il sindaco di Londra gli conferì la cittadinanza onoraria e offrì un sontuoso banchetto a Southampton. Altro bagno di folla lo attese al Crystal Palace, dove Garibaldi tenne un atteso discorso. A Londra fu ospite per undici giorni del duca di Sutherland a Stafford House, e si racconta che, causa l’enorme folla, per coprire i 5 km che separavano la stazione dal palazzo ducale, il treno impiegò circa sei ore. Nel fastoso ricevimento offerto dal duca, Garibaldi incontrò il suo grande sostenitore e organizzatore del viaggio: il liberale lord Henry John Temple Palmerston, già primo ministro e addetto agli affari esteri dell’Inghilterra.

All’epoca della spedizione dei Mille Palmerston, aveva convinto il governo inglese a schierare le navi presenti nel mediterraneo in modo d’impedire a quelle borboniche di muoversi e ostacolare lo sbarco delle Camice Rosse. In realtà in gioco c’era la difesa del monopolio inglese dello zolfo siciliano da tempo oggetto di contenzioso con il governo borbonico, sempre più sensibile al richiamo francese. Il ministro inglese aveva capito che l’impresa garibaldina avrebbe potuto sconfiggere i Borboni napoletani e rafforzata la presenza commerciale inglese in Sicilia.

Secondo alcuni storici pare addirittura che Palmerston abbia finanziato con tre milioni di franchi l’impresa garibaldina. D’altra parte lo stesso Garibaldi, nel 1864, ebbe ad ammettere che “senza l’aiuto di Palmerston Napoli sarebbe ancora borbonica e senza l’ammiraglio Mundynon avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina”.

Contrariamente a quanto accadeva a Trafalgar Square, i cattolici irlandesi, molto legati alle sorti del papato, si radunarono in gran numero ad Hyde Park per protestare al grido di “no a Garibaldi, il Papa sempre”, contro l’arrivo e l’accoglienza riservata al nemico più temibile dello Stato Pontificio. Alla polizia non rimase altro che disperderli con la forza e riportare l’ordine.

A teatro assistette alla Norma e al Ballo in Maschera, visitò l’esposizione agricola di Bedford e fu l’ospite d’onore al banchetto presso la villa del Duca di Devonschire. Non mancò inoltre d’incontrare il principe di Galles, il futuro re Edoardo VII. Conobbe anche l’arcivescovo di Canterbury e un rappresentante della chiesa evangelica. Visitò poi il college di Eton, intrattenendosi a lungo con gli studenti e l’esposizione agricola di Bedford.

Gli appuntamenti politicamente più significativi furono però quelli organizzati a casa di Herzen e del reggiano Antonio Panizzi. Dopo il fugace saluto sull’isola di Wight, Mazzini e Garibaldi ebbero modo di confrontarsi politicamente in casa del rivoluzionario russo a Teddington. Con loro, oltre al padrone di casa, c’erano Ogarff, redattore del giornale Kolokol, Guerzoni, Mordini, Saffi, e il liberale radicale Stansfeld.

I due rivoluzionari, consapevoli di non avere le stesse convinzioni, si sforzarono tuttavia di ritrovare il clima migliore per impostare il futuro lavoro politico in Italia. Roma e Venezia restavano infatti un nervo scoperto che, se non risolto, avrebbe mutilato tutto il lavoro fatto per unificare l’Italia e la stessa impresa dei Mille.

Per primo prese la parola Mazzini che alzando il bicchiere pronunciò, anche per farsi comprendere da tutti i presenti, il suo saluto in francese: “Il mio brindisi comprenderà tutto ciò che noi amiamo e per cui combattiamo. Alla libertà dei popoli! All’alleanza dei popoli! All’uomo che, per le sue azioni, è incarnazione vivente di queste idee!”.

A quel punto Garibaldi alzò a sua volta il calice e fu più generoso di parole del suo interlocutore. Il genovese infatti, sempre diffidente, non volle sbilanciarsi ma sondare le intenzioni del Generale, il quale così si espresse: “Io sto per fare una dichiarazione che avrei dovuto fare da lungo tempo: c’è qui un uomo che ha reso i più grandi servigi al mio paese e alla causa della libertà. Quando io ero giovane e non avevo che vaghe ispirazioni, ho cercato un uomo che potesse consigliarmi e guidare i miei giovani anni; io l’ho cercato come l’uomo che ha sete cerca l’acqua. Quest’uomo l’ho trovato: egli, solo, ha conservato il fuoco sacro, egli solo vegliava quando tutti dormivano. Egli divenne il mio amico e lo è sempre rimasto; mai si è spento in lui il fuoco sacro dell’amor patrio e della libertà! Quest’uomo è Giuseppe Mazzini! Al mio amico! Al mio Maestro!”.

Terminati i brindisi di rito, i presenti testimoniarono che i due rivoluzionari esaminarono la situazione internazionale e si soffermarono sul lavoro da svolgere in Italia per completare l’unità del paese. Mazzini, inoltre, l’avrebbe invitato a visitare città, villaggi, scuole, luoghi di lavoro, parlare al popolo e a raccogliere aiuti economici indispensabili per la prossima campagna d’Italia. Fra i due rimaneva tuttavia una profonda differenza sulle forme e i mezzi di lotta da promuovere.

Per Mazzini, Garibaldi continuava ad illudersi sulle reali intenzioni di Casa Savoia di unificare il Regno, a sua volta il Generale considerava troppo teorico Mazzini e non poneva alcuna fiducia negli spontanei moti popolari di rivolta e sul metodo della “propaganda del fatto”, che già era costata tanto sangue, senza per altro riportare alcun risultato.

Il grandioso e inaspettato successo d’immagine conseguito mise in forte imbarazzo il governo e la Casa Reale. Interessi di politica internazionale suggerirono al governo inglese di trovare una soluzione per mettere fine al viaggio di Garibaldi. La situazione, infatti, rischiava di sfuggire di mano e procurare problemi nei rapporti con la Francia, l’Italia e l’Austria. Per questo le visite alle grandi città, suggerite da Mazzini per raccogliere fondi, andavano assolutamente impedite. La soluzione alla fine fu trovata senza contraddire le scelte precedenti.

Il giorno 17 aprile Garibaldi venne visitato dal dott. William Fergusson, medico della regina, il quale, contrariamente al parere del dott. Basile, medico personale di Garibaldi, lo trovò molto affaticato, anche per i postumi delle ferite riportate nel 1862 in Calabria, e gli consigliò di far ritorno a Caprera per riposarsi e curarsi. La questione ebbe un seguito anche in Parlamento, che salomonicamente prese atto della diagnosi del medico di fiducia della corona. L’assemblea legislativa decise quindi che Garibaldi era ammalato. Più che un pronunciamento politico, il Parlamento fece una diagnosi. Nessuno infatti era in condizione di scontrarsi con il volere della Regina e continuare ad acclamare quell’esaltato avventuriero di Garibaldi. Il Generale, in sostanza, stava diventando ingombrante per tutti, amici e nemici.

Garibaldi comprese perfettamente la situazione, ma prima di ufficializzare la sua decisione, volle incontrare un altro illustre italiano, da tempo residente a Londra. Esule fin dal 1823 perché condannato a morte dal Duca estense, il reggiano Antonio Panizzi si era fatto valere per la sua competenza di bibliotecario, diventando addirittura direttore del British Museum. In contatto con una platea vastissima di esuli, politici, intellettuali e l’intero governo inglese, Panizzi si dimostrò interessato ad incontrare Garibaldi, a capire le sue intenzioni, a consigliarlo sul da farsi. Per questo non esitò ad invitarlo a pranzo nella sua casa di Bloomsbury Square e a presentargli alcuni autorevoli uomini politici inglesi. L’accoglienza fu degna dell’intelligenza del padrone di casa e Garibaldi si sentì circondato da sinceri amici. Panizzi fu anche contattato nei giorni precedenti dal ministro Gladstone, tra l’altro presente alla cena offerta da Panizzi, perché, vista la motivazione manifestamente pretestuosa e falsa adottata dal governo e fatta propria dal Parlamento, convincesse Garibaldi, per il suo e il loro bene, a tornare a Caprera.

I due italiani vollero anche andare, il 21 aprile, al cimitero di Chiswick per rendere omaggio a Ugo Foscolo, morto nel 1827, grande poeta, patriota, amico di Panizzi e molto amato da Garibaldi. Il Generale, commosso, depose una ghirlanda di alloro in bronzo con la seguente iscrizione “…ai generosi, giusta di gloria dispensiera è morte”.

In quei giorni e durante quel viaggio, probabilmente, Panizzi ebbe modo d’illustrargli meglio anche la delicata situazione politica che si era venuta a determinare in Inghilterra con il suo arrivo e rafforzò la sua convinzione di porre termine al viaggio. Anche gli esponenti liberali e più disponibili verso Garibaldi dovettero in qualche modo allinearsi al volere della corona.

Tale decisione, quella cioè di far ritorno a Caprera, Garibaldi l’aveva in realtà già presa all’indomani del responso del medico di corte, anche perché gli fu immediatamente chiaro ciò che quella diagnosi nascondeva.

I timori che Herzen gli aveva prospettato fin dal giorno del suo arrivo si erano puntualmente avverati. Gli argomenti di Panizzi lo indussero dunque ad accelerare i tempi. Prima d’intraprendere il viaggio di ritorno, Garibaldi tornò a Brook House per riprendersi dopo tante fatiche e organizzare al meglio la partenza. E giunse il giorno dell’addio.

Il 28 aprile s’imbarcò sullo yacht privato del Duca di Sutherland per far ritorno nella sua amata Caprera. A chi l’aveva ospitato, agli amici, a tutto il popolo volle lasciare un saluto e una promessa: “Cari amici, accettate i ringraziamenti del mio cuore per la vostra simpatia e per il vostro affetto. Sarò felice se potrò rivedervi in circostanze migliori, e quando potrò godere con tutto agio dell’ospitalità del vostro paese. Per il momento io sono obbligato di lasciar l’Inghilterra. Ancora una volta, la mia gratitudine sarà sempre viva per voi. Giuseppe Garibaldi”.

L’attenzione internazionale per i risultati politici di quella visita aveva messo in allarme tutto il continente e tutti attendevano un segnale chiarificatore da Londra. Garibaldi evidentemente spaventava ancora le capitali europee, timorose di dover affrontare sommosse interne e pregiudicare i precari rapporti internazionali conseguiti.

In realtà la missione inglese di Garibaldi si concluse con scarsissimi risultati politici. Anche gli incontri con Mazzini non avevano sortito alcun piano d’azione comune. Le distanze tra i due rimanevano profonde e solo un astratto desiderio di vedere finalmente unita tutta l’Italia li legava. Probabilmente non ci fu nessuna raccolta di fondi come auspicato da Mazzini o perlomeno non se ne seppe nulla. Dall’incontro tenuto in casa Herzen non scaturì nemmeno un piano organizzativo di sollevazione popolare per liberare Roma e Venezia. Da Londra non giunse dunque nessun segnale che potesse incrinare la continuità della politica estera piemontese, il cui risultato principale fu la sottoscrizione con la Francia della “Convenzione di settembre”, che spostava la capitale da Torino a Firenze.

A quell’annuncio lo sconcerto di Garibaldi fu grande e probabilmente gli sovvenne il monito di Mazzini a non fidarsi del governo piemontese e dei Savoia. Dovette attendere il 1870 per vedere la conquista di Roma, non per mano del popolo romano, come avrebbe desiderato Mazzini, ma ad opera del regio esercito italiano. Con Roma nuova capitale del Regno italico, il compito di Garibaldi volgeva al termine, mentre quello di Mazzini sarebbe continuato anche dopo la sua dipartita, perché dopo l’Italia restavano da fare gli italiani.

Se dal punto di vista politico quel viaggio si rivelò, dunque, ben poca cosa, esso rappresentò invece un incredibile successo mediatico, grazie alla cronaca dei giornali di tutta Europa, che dedicarono grande spazio al racconto dettagliato dei suoi incontri e la calorosa accoglienza offertagli dal popolo inglese.

La fama di Garibaldi aveva superato nel tempo ogni confine, le sue imprese avevano entusiasmato i popoli di ogni continente e tutti gli oppressi aspettavano con fiducia il suo arrivo per il loro definitivo riscatto. La tappa inglese, in effetti, aveva rafforzato le loro aspettative.

L’immagine dell’eroe senza paura, che conosce le sofferenze degli uomini, che sa parlare al popolo ed è rispettato dai potenti della terra, non ne fu scalfita, anzi ne uscì sicuramente rafforzata, contribuendo a mitizzarne il personaggio. Garibaldi restava una risorsa, anche se di riserva, del nuovo Regno italico

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