PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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DIRITTI CIVILI E ISLAM.. G. GARIBALDI DIXIT

 

  1. Diritti civili e Islam, Giuseppe Garibaldi Dixit

di Aldo A. Mola

La copertina dell’edizione anastatica di “Clelia, il Governo dei preti” a cura di A.A.M. nella collana “Il Feuilleton” diretta da Giovani Arpino (Torino, Meb, 1973). In “La mietitura del turco” Giosue Carducci (1835-1907) nel giugno 1897 sferzò l’ignavia dell’Europa centro-occidentale (sempre uguale a se stessa: impotente) a cospetto delle stragi degli armeni e dei greci. Scrisse: «Il Turco miete. Eran le teste armene/ che ier cadean sotto il ricurvo acciar:/ ei le offeriva boccheggianti e oscene/ a i pianti dell’Europa a imbalsamar.// (…) Il Turco miete. E al morbido tiranno/ manda il fior delle elleniche beltà./ I monarchi di Cristo assisteranno / bianchi eunuchi a l’harem del Padascià.»
In soccorso dei greci si mosse una legione di volontari garibaldini, guidato da Ricciotti Garibaldi. Nella battaglia di Domokòs (17 maggio 1897) cadde anche il cinquantaduenne forlivese Antonio Fratti, patriota e deputato alla Camera.

 

Lo Stato d’Italia è uno “stato di diritto” da quando, nel 1861, il Regno fece proprio lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 il cui articolo 24 recita: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono uguali dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salvo le eccezioni determinate dalle leggi”. La confessione religiosa cessò di essere discriminante. Col tempo la libertà di coscienza garantita dallo Statuto divenne costume condiviso, grazie a uno stuolo di spiriti universali. Non accadde altrettanto in regimi teocratici, che subordinano i diritti dei cittadini a una confessione religiosa. Lo spiegò Garibaldi nei suoi romanzi, scritti “per il popolo”.

La scimitarra sull’Europa…

Nei suoi ultimi anni Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807-Caprera 2 giugno 1882) affinò il proprio pensiero politico. Nel 1860, messa a segno l’impresa dei Mille, senza la quale l’unità d’Italia non sarebbe mai nata, vaticinò gli Stati Uniti d’Europa. Dal 1870, dopo la guerra franco-germanica, in cui combatté a fianco dei francesi contro il militarismo prussiano, e la “Commune” del 1871 (da lui deprecata), invocò la “debellatio” dell’impero turco che opprimeva l’Europa orientale. Unì motivi religiosi e culturali a ragionamenti politici tuttora attuali. Se ancor oggi Costantinopoli è Istanbul lo si deve alla “diplomazia” di Londra e Parigi: è la pesante eredità della Guerra dei Trent’anni (1914-1945), quando i vincitori, pur in presenza dello sfascio dell’impero ottomano, lasciarono ad Ankara la cosiddetta “Turchia europea” per interdire alla Russia l’accesso dal Mar Nero al Mediterraneo attraverso gli Stretti. La miopia si paga nei secoli. Se la cosiddetta Unione Europea (irrilevante sotto il profilo politico e quindi militare) volesse per Costantinopoli una sorte migliore, dovrebbe accogliere la Turchia che ha cancellato la memoria di Ataturk e aspira a restaurare il Califfato islamico.

Garibaldi aveva idee chiare sulla Sublime Porta…

C’è un Garibaldi quasi sconosciuto. Molto oltre il corsaro, il guerrigliero, il generale, vi è il politico: alfiere della fratellanza universale e, proprio perciò, strenuo fautore della lotta per sottrarre l’Europa alla dominazione dei turchi e all’invadenza dell’Islam. Garibaldi ne scrisse ripetutamente nel suo ultimo decennio, il meno studiato e pressoché sconosciuto. Così la sua lotta contro il dominio ottomano su qualunque lembo d’Europa e contro la propagazione dell’islamismo (ideato sei secoli dopo il cristianesimo e che non ha mai fatto i conti con la Rivoluzione francese) rischia di rimanere ignorata. È un Garibaldi scomodo. Perciò vi sono buone ragioni per parlarne. Il Generale mostrò senno politico superiore a quello che di rado e avaramente gli viene riconosciuto. Il suo anticlericalismo radicale, solitamente ritenuto circoscritto alla chiesa cattolica, investì ogni forma di intrusione delle religioni nella vita civile e nella libertà delle persone. La sua lotta per la liberazione dello spazio euro-mediterraneo dai “turchi” andò però molto oltre l’ambito religioso. Fu lotta politica, legata alla valutazione positiva dell’espansione degli europei Oltremare e della colonizzazione dell’Africa settentrionale (programma condiviso da Mazzini) da parte della “civiltà occidentale”, razionale, fondata sull’intreccio di scienze, produzione, mercato, progresso civile. Garibaldi non ingabbiava il Libero Pensiero in pochi meridiani e paralleli: per lui era patrimonio universale. Considerava sua missione propugnarlo ovunque. A quel modo fu “eroe dei due mondi”, etichetta altrimenti futile.

Nelle Memorie Garibaldi ricordò la sua lunga dimora a Costantinopoli, una pagina avvolta nel mistero. I biografi la saltano a pie’ pari. Ammalatosi in uno dei tanti viaggi in Oriente (di quale morbo?), vi rimase più del previsto e si trovò alle strette: «La guerra accesa tra la Russia e la Porta (cioè l’impero turco, detto Sublime Porta, NdA) contribuì a prolungare il mio soggiorno. In tale periodo mi successe per la prima volta di impiegarmi a precettore di ragazzi, offertomi dal signor Diego, dottore in medicina, e che mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava. Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo per studiare un po’ di greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni.» I maligni imbastirono molte insinuazioni su quella lunga stagione. Garibaldi ci tornò con una pennellata quando, molti decenni dopo. In una pagina di appunti fustigò “Il prete”: «Si chiami egli prete, Ministro, dervista, Calogero, Bonzo, Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il prete è un impostore, il prete è la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli. Io ho percorso la superficie del globo. In Turchia fui obbligato di fuggire davanti ad una folla di ragazzi e di donne, perché i preti dicevan loro ch’io era un maledetto! In Cina mi successe lo stesso, e voi giunti a Canton, la più frequentata e commerciale delle città Chinesi, non potete visitarla perché sareste lapidato dalla moltitudine suscitata dai preti.»

… e sull’islamismo

L’avversione di Garibaldi nei confronti dell’islamismo non è una cappella laterale della sua vastissima basilica anticlericale. Non è dottrinale, teologica. È propriamente politica. Dall’infanzia aveva appreso, e non solo per racconti popolani ma per esperienze vissute, il pericolo dei “pirati”. Nizza, la sua città, ricordava devastanti incursioni delle flotte turche nel Cinquecento, propiziate dall’alleanza tra Parigi e Istanbul (dal 1453 soggiogata da Maometto II) contro il Sacro romano impero di Carlo V e la Spagna di Filippo II: un gioco diplomatico continuato con Luigi XIV sino a Napoleone III (alleato con Londra, Parigi e l’impero turco contro la Russia di Nicola I: la “guerra di Crimea” decantata dalla storiografia italocentrica per l’intervento del regno di Sardegna a fianco del Sultano). Sulla fine degli Anni Venti dell’Ottocento la pirateria barbaresca rimaneva così minacciosa e dannosa da indurre la Francia di Carlo X, il Piemonte di Carlo Felice e le Due Sicilie di Francesco I di Borbone a una spedizione navale comune. Vi si distinse Carlo Mameli dei Mannelli, padre di Goffredo.

Nel 1827, ricorda il dotto garibaldologo e confratello Maurice Mauviel, il “Cortese”, brigantino sul quale viaggiava il ventenne Garibaldi, fu assalito da corsari. Il comandante, Semeria, ordinò agli uomini di non opporre resistenza per non avere la peggio. In seguito il giovane nizzardo subì due altri assalti pirateschi, mortificanti e umilianti. Gli rimasero fissi nella memoria. Ne scrisse in Manlioromanzo contemporaneo, al quale lavorò sino all’ultimo giorno. Vi descrisse i Riffegni (abitanti del Riff, sull’Atlante marocchino, da lui ben conosciuto nel 1849) e l’Assalto di pirati alla nave “Libertà” che, al comando del capitano Schiaffino, eroe della repubblica Romana, recava “Manlio”, di soli cinque anni, verso lo stretto di Gibilterra alla volta dell’America meridionale. In quelle pagine Garibaldi non parla di “arabi”, né di “turchi”. Vi scrisse: «Come il leone, il Riffegno è bello e forte. Non so se, figlio dell’Atlas, egli si debba chiamare di stirpe caucasea. Ignorante, fiero, feroce, e considerando tutto ciò che non è mussulmano, eretico e niente più d’un cane, il Riffegno è naturalmente pirata; e molti furono gli equipaggi (sic) di legni mercantili sgozzati quando trattenuti dalle calme presso coteste coste inospitali.»

   Manlio non è un romanzetto qualunque. È il “testamento politico” di Garibaldi. Un suo capitolo è un susseguirsi di colpi e di grida, culminanti in una sorta di seconda Lepanto liberopensatrice: «MarsalaMarsala rispondeva un garibaldino all’Allah Urrah degli Ottomani e  si lanciava seguito dai suoi alla riscossa dei difensori della prora.» La battaglia navale vi viene infine risolta da “Vero”, che, precedentemente ferito e curato dal piccolo Manlio, lascia febbricitante la cabina ove è ricoverato al grido «All’armi…Qui non si tratta di bende ma della pelle (sic!) Avanti fratelli!».  “Vero” (nel quale Garibaldi si identifica) a colpi di revolver e di «un coltellaccio che teneva in cintura fece strage orrenda tra i barbareschi, e così i compagni, spinti dall’esempio del valoroso capo e per la propria conservazione».

Estirpare il fondamentalismo dall’Europa…

Sarebbe però meschino ridurre il pensiero di Garibaldi sull’insanabile incompatibilità fra impero turco e civiltà europea a mero riflesso di vicissitudini personali. Esso esprime una visione geopolitica di ampio orizzonte, nell’ambito della guerra secolare tra diritti dell’uomo e del cittadino civili e islam.

Prosatore esondante, Garibaldi sapeva controllare la penna quando necessario. Perciò i suoi scritti vanno centellinati e capiti, più e meglio di quanto sinora sia stato fatto. Il 5 maggio 1873 scrisse al fido Timoteo Riboli, medico, massone, fondatore della lega per la protezione degli animali: «Mentre l’Europa progredisce che fa l’Italia? Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale, ma bensì alla parte virile e generosa che forma la sua democrazia, prodotto delle cento chiesuole in cui la dividono i suoi Archimandriti, Massoni, Mazziniani, Internazionalisti, sono egualmente fautori dell’indolenza democratica in Italia, e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione e della menzogna…». Pigiava su tasti suonati da tempo: riforme per guarire la “gran piaga della miseria”, rifiuto del programma dell’Internazionale (confisca della proprietà privata e dei diritti ereditari…) e condanna della scioperomania che avrebbe precipitato l’Italia nel disastro.

Non parlava per sé. “Agricoltore” (come si classificò alla Camera), Garibaldi era una “filosofia politica in azione”, campione di una guerra di liberazione culturale e politica, come osservò Aldo G. Ricci in “Obbedisco. Un eroe per scelta e per destino” (Ed. Palombo). Per lui l’Occidente era contrapposto alla Turchia in un conflitto di civiltà. Lo scrisse il 4 marzo 1876 a Ferdinando Dobelli, rispondendo all’appello della gioventù slava: «La diplomazia del ventre fu incapace di prevenire l’iniziativa del macello umano. I preti nel connubio dei turchi e satolli del loro oro, hanno lanciato l’anatema contro i seguaci della croce. Ed i settari del palo, dopo d’aver lottato per tenerlo in piedi, devono oggi conformarsi allo slancio degli schiavi che preferirono la morte al servaggio. E voi, ricordatevi di tutti gli oltraggi ricevuti dai feroci ed osceni discendenti di Maometto. Il turco deve passare il Bosforo e solo alcuni ottomani, senza preti, potranno convivere, se onesti, coi loro antichi schiavi. Invalido, io invio un saluto del cuore ai fieri campioni della libertà orientale.» Non nutriva dunque alcuna ostilità nei confronti della popolazione turca ma ne aveva contro il regine teocratico che la opprimeva.

Il Solitario contro l’oscurantismo

Contro la “pax” immobilistica dettata dal Congresso di Vienna nel 1815, ribadita da quello di Parigi del 1856 e dal concerto europeo che di conflitto in conflitto riportava il Vecchio Continente ai confini e alle logiche della Restaurazione, Garibaldi pose il problema delle “nazioni senza stato”, dei popoli inchiodati alle tavole di spartizione delle grandi potenze. In lui vibrava il Risorgimento, lo spirito che aveva fatto nascere l’Italia a Stato indipendente, unica nazione emersa per somma di fortune dalla Restaurazione del 1814-15 e dalla repressione della primavera dei popoli (1848-1849).

Agli occhi di Garibaldi la presenza della Turchia in Europa era una cappa di piombo sulla storia. Bisognava liberarsene. Non per motivi etnici, ma perché bastione del fondamentalismo oscurantista. L’occasione sembrò profilarsi dal 1875 con le rivolte antiturche, dalla Bosnia alla Bulgaria, represse dalla Sublime Porta grazie al sostegno della Gran Bretagna, sospinta dai suoi soliti calcoli geopolitici e da interessi finanziari. Il 17 luglio 1877 Garibaldi scrisse al marchese Filippo Villani: «Mandare i Turchi in Asia, ecco il provvedimento efficace per gli schiavi dell’Europa Orientale; ogni altra misura sarà una tappa di guerra.» Ma bisognava vincere gli intralci della diplomazia, come ruvidamente vergò nel Romanzo contemporaneo: «In questi ultimi tempi, massime per la questione orientale, si è manifestato nel mondo quanto di lurido esiste ancora nell’umana famiglia. L’Austria ha fatto il suo dovere di aquila o piuttosto d’avvoltoio, sostenendo sordamente la causa dell’oppressore e accatastando ogni specie d’ostacoli all’Europa Orientale. Essenzialmente tiranna essa ha fatto quanto doveva. Ma l’Inghilterra, la terra universale d’asilo, l’emancipatrice degli schiavi, non doveva, guidata da un Ebreo [lord Disraeli, NdA] lasciarsi condurre all’esterminio dei poveri servi ed al sostegno di tiranni esecrabili. No! Ed io raccapriccio pensandovi! […] E i preti? Peste dell’umana famiglia, hanno fatto causa comune coi massacratori degli innocenti.»

Nel Manlio Garibaldi passò dalle staffilate contro il clero a quelle specifiche contro «il Turco, che più cristiani uccide e più titoli acquista ai godimenti ed alla gloria dell’immorale suo paradiso e, codardo come sono generalmente gli uomini sanguinari, si diverte a impalare, mutilare, squartare uomini inermi, donne, bambini!!!».

Sospinto dall’orrore, il “Solitario” (come Garibaldi si autodefinì in Clelia) sognò una guerra di liberazione del Mediterraneo dal dominio turco, a cominciare dall’isola di Creta: «Giunta la flotta italiana sulla rada di Canea, v’incontrò la turca, composta di cinque corazzate e se ne impadronì. Mi si chiederà con quale diritto. Ed io risponderò: collo stesso diritto con cui Maometto Secondo si impadroniva di Costantinopoli ed i pirati turchi delle nostre donne, bambini, uomini, etc., per farne degli schiavi…» Non erano sfoghi letterari ma ragionamenti politici. Al marchese Villani il 15 marzo 1878 da Caprera scrisse: «Dunque dopo tanto sangue versato risulterà nell’Europa Orientale uno di quei mostruosi pasticci di cui la diplomazia va famosa. Cosa è questa lunga Turchia che dal Bosforo si estenderà all’Adriatico, passando sul corpo della Bulgaria quasi indipendente, o tra questa e la Serbia da una parte, la Macedonia e la Tessalia dall’altra, le di cui popolazioni se hanno un’ombra di dignità dovranno mantenersi in uno stato perenne d’insurrezione? Quando io dissi al principio di questa guerra: i Turchi dover passare il Bosforo per poter ottenere una pace durevole, e tale è pure la mia opinione d’oggi, ma i turchi che intendano ciò solo: il sultano, le sue odalische, i suoi eunuchi e l’immensa caterva di preti ottomani, non già la popolazione turca onesta e laboriosa che di quanti popoli abitatori del Levante è la migliore. Tale emigrazione sarebbe impossibile, converrebbe però non lasciar in Europa un solo prete turco, che basterebbe a seminar la zizzania in tutta la confederazione; e le moschee cambiar in scuole, ove s’insegnerebbe la religione del vero.»

Garibaldi sperava in un Congresso che esercitasse l’arbitrato internazionale, la ricerca di una soluzione pattizia dei conflitti nel rispetto della libertà dei popoli, che avrebbe comportato con sé la libera navigazione nel Mar Nero (rumeno perché daco-romano) e negli Stretti.

La pace di Santo Stefano e il congresso di Berlino del 1878 dettero tutt’altri risultati: la Gran Bretagna s’impadronì di Cipro e ne fece l’isola della divisione, del conflitto permanente, quale ancora rimane: un equivoco irrisolto nel Mediterraneo orientale. E il gran Malato d’Oriente divenne sempre più la polveriera della futura conflagrazione europea, esplosa nell’estate 1914 dopo la guerra italo-turca per la sovranità sulla Libia e tre guerre balcaniche in due anni: groviglio inestricabile, letto di procuste sul quale la diplomazia inetta inchiodò l’area balcanica.

Il Solitario aveva intravveduto e suggerito la soluzione, ma non ne vide l’approdo ultimo. Nel 1897 Creta insorse ma l’Europa fu solidale con la Sublime Porta nella repressione, come deplorò Giosue Carducci in versi staffilanti. La grande guerra si concluse sul versante orientale con la pace di Sèvres, che lasciò gli Stretti ad Ataturk (massone, sì, ma, come tanti altri “fratelli”, solo sino a quando gli fece comodo) in cambio dell’adozione dell’alfabeto latino e di una parvenza di “laicizzazione”. La seconda guerra mondiale lasciò le cose com’erano, per una somma di errori e nefandezze delle diplomazie, oggi incombenti sull’Unione Europea, a sua volta incapace di politica estera di vasto respiro.

Aveva ragione il Solitario di Caprera. Il cui pensiero perciò venne ignorato: troppo scomodo, sempre attualissimo.

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RENDERÒ IL DESERTO UN LAGO D’ACQUA

RENDERÒ IL DESERTO UN LAGO D’ACQUA

e la terra arida una fontana.

Nel deserto pianterò il cedro, l’acacia,

il mirto e  l’olivo selvatico…

Isaia, 41, 18-19

 

Pochi archetipi hanno esercitato nel tempo un fascino così profondo e fecondo come quello dell’ Albero, il cui simbolismo è diffuso virtualmente in ogni cultura umana. Pur se la trattazione esaustiva del suo significato esoterico e dei suoi innumerevoli miti va ben oltre le possibilità di questa tavola, merita di essere ricordato che l’albero, come l’uomo stesso, è dotato di una duplice natura, terrena e celeste, e simboleggia quell’ asse del mondo ponte fra il mondo della materia e quello dello spirito, cui sono riconosciuti significati e poteri immensi di conoscenza e di vita. Come “arbor vitae” o “arbor philosophica” spesso viene rappresentato capovolto, con le fronde in basso e le radici in alto, a significare il processo della creazione che – a partire dallo spirito – si manifesta nei multiformi aspetti del mondo sensibile. Uno dei più antichi esempi di albero rovesciato è quello descritto nelle Upanishad: “Questo universo è un albero che esiste eternamente, con le radici in alto e i rami che si estendono in basso. La pura radice dell’albero è Brahman, l’immortale, in cui i tre mondi (cioè il cielo, la terra e gli inferi) hanno il loro essere, che nessuno può trascendere, che è veramente il sé”. Metafisicamente l’Albero rappresenta la forza universale, che si dispiega nella manifestazione come l’energia della pianta dalle radici invisibili si dispiega nel tronco, nei rami, nel fogliame e nei frutti. All’ Albero, con alto grado di uniformità, si associano idee di immortalità e di conoscenza sovrannaturale da una parte, di tentazione e di forze mortali e distruttrici (serpi, demoni o draghi) dall’altra. In questa sede ci occuperemo soltanto del carattere “immortalante” dell’albero, carattere che come vedremo passa per analogia a sue singole componenti (rami, frutti…), che diventano quasi simbolo del simbolo.

Già le Tradizioni più antiche testimoniano di una “bevanda di immortalità” che stilla dall’albero come “soma” o “amrta” nel mondo vedico, come “haoma” nelle antiche culture iraniche e soprattutto nella Qabbalah, ove al grande e possente “Albero di Vita” è connessa una “rugiada” per virtù della quale si produce la resurrezione dei morti . Altre volte sono i frutti dell’albero a promettere l’immortalità, come nel caso delle mele del Giardino delle Esperidi o dell’Albero della Vita biblico. Infine, ancora più spesso, sono i rami che appaiono come pegno di resurrezione ed immortalità: il mirto dei misteri eleusini, il “ramo d’oro” di Enea, l’ulivo e le palme della tradizione cristiana e più in generale i rami di alberi sempre verdi o che producono fiori gialli od olii usati nelle lampade, segno evidente della loro natura ignea e solare… .

Lo studio di questi antichissimi simboli rivela importanti e ricorrenti analogie. Consideriamo ad esempio il vischio: questa pianta parassita che sottrae acqua e sostanze minerali alle altre piante era ritenuta dagli Antichi una pianta del regno intermedio (né albero né cespuglio) e secondo la leggenda nasceva dove il fulmine aveva colpito un albero. Per la sua natura sempreverde il vischio era considerato una panacea, nonché simbolo di immortalità. Particolarmente apprezzati nell’antica Roma e presso i druidi celtici, erano i ramoscelli di vischio che crescevano sulle querce. Secondo Ranke-Graves, essi erano considerati gli organi sessuali della quercia, così che quando i druidi li tagliavano con un falcetto d’oro a scopi rituali, attuavano una vera e propria castrazione simbolica. Il denso succo delle loro bacche rappresentava così lo sperma (che in greco significa “seme”) della quercia ed era considerato un liquido con grandi doti ringiovanenti. Plinio afferma che i druidi tagliavano i rami di vischio con falcetti d’oro, li raccoglievano in un panno bianco e li offrivano poi agli Dei insieme al sacrificio di due tori bianchi.  Le tradizioni di tutto il mondo antico raccomandavano infatti l’uso delle mani nude o di strumenti d’oro nella raccolta delle erbe medicinali particolarmente preziose, allo scopo di preservarne la forza. Ecco ad esempio come la Sibilla descrive ad Enea, desideroso di ritrovare nell’Averno il padre Anchise, proprietà e modalità di raccolta del ramo d’oro:

…Poiché se tanto amore e così grande desiderio si trova nel tuo animo di solcare due volte la palude Stigia e vedere due volte il nero Tartaro e ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale, è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro… .

 

e ancora:

 

…Pascendosi le colombe volando avanzano fin dove con lo sguardo potessero giungere gli occhi di chi le seguiva. Quindi, quando giunsero all’ingresso del maleodorante Averno, veloci si levano in volo e discese per l’aria limpida, si posano nel luogo desiderato sull’albero dalla doppia natura (NdT: sia vegetale che aurea) da cui rifulse pei rami lo scintillio dell’oro. Come il vischio, che si riproduce su un albero, suole nel freddo invernale verdeggiare di fronda novella nei boschi, e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l’aspetto dell’oro frondoso sull’elce ombroso, così la sottile foglia d’oro tintinnava al vento leggero… .

 

E’ proprio grazie al ramo d’oro, simbolo dell’albero della vita e analogo dell’aurea verga di Hermes, Enea può attraversare – da vivo – il regno dei morti nelle viscere della terra (“interiora terrae”), compiendo così il suo viaggio iniziatico di rigenerazione. Verde ed oro, simboli di vita e luce…

E veniamo dunque all’acacia, di cui si conoscono 1.200 specie. La botanica classifica l’acacia fra le leguminose della famiglia delle mimosacee, piante arboree o arbustive originarie dell’Australia o dell’Africa centrale. Le acacie in genere presentano foglie bipennate, spesso modificate per adattarsi alle temperature elevate e all’aridità delle regioni australi in cui crescono. Alcune specie recano brevi rami appiattiti simili a spine, detti fillodi, che contribuiscono a svolgere la funzione fotosintetica delle foglie. I semi commestibili, il legname pregiato e le gomme ricavabili da alcune varietà conferiscono al genere un grande valore commerciale. Sul piano esoterico, la natura sempreverde, la presenza di fiori gialli e sopratutto il legno duro e resistente fanno dell’acacia un simbolo del superamento della morte presso numerose culture antiche.

Secondo gli Egizi, gli Dei erano nati sotto l’acacia della dea Saosis, a nord di Heliopolis e lo stesso Horus era emerso da un albero di acacia . Leggende posteriori collegarono l’acacia non solo alla nascita, ma anche alla morte ed alla vita ultraterrena. Nel Libro dei Morti, alcuni bimbi divini accompagnavano il defunto al sacro albero di Acacia, parti del quale venivano battute e schiacciate dal morto: queste parti erano ritenute dotate di un magico potere curativo. Gli Arabi consideravano l’incorruttibile acacia una manifestazione di el-Huzza, Dea il cui nome significava “forte, possente” il di cui santuario si trovava nella valle di Nakhla ed era costituito da tre alberi di acacia arabica, in uno dei quali si manifestava la Dea .

Anche gli Ebrei attribuivano all’acacia un altissimo significato simbolico, tanto da farla entrare nella costituzione dell’Arca dell’Alleanza. Era questo il recipiente nel quale Israele aveva riposto le Tavole della Torah, dopo averle ricevute sul monte del Sinai; su di esse erano incisi i Dieci Comandamenti. L’Arca (si noti come questa parola di origine indoeuropea che indica il “custodire” è alla radice di “arcano”, cioè “esoterico, segreto”), fu trasportata per tutti i 40 anni di viaggio nel deserto, e accompagnò Israele durante i lunghi anni di conquista della Terra Promessa, fino a venire posta nel Tempio costruito dal Re Salomone. Si trattava di una cassa lunga due cubiti e mezzo (Esodo, 25, 10 sgg.; ogni cubito è circa mezzo metro), larga un cubito e mezzo, e alta un cubito e mezzo; veniva trasportata inserendo due lunghi pali negli appositi anelli, come illustrato dalla figura. Quando Israele si accampava, al centro dell’accampamento veniva eretto il Tabernacolo, e nel Santo dei Santi era riposta l’Arca. Questa era composta di due pezzi principali: un parallelepipedo inferiore e un coperchio che lo chiudeva, un chiaro riferimento alla terra e al cielo.

Il parallelepipedo inferiore era formato da tre distinte scatole. Le due esterne erano entrambe d’oro, mentre quella mediana era di legno d’acacia. Senza approfondire i numerosi significati di questa scelta, ci limiteremo a ricordare che lo strato di acacia separava le lamine d’oro come un isolante elettrico, onde permettere a ciascuna delle due di costituire uno schermo separato. Una doppia schermatura, insomma, in grado di isolare completamente la Torah dai campi energetici negativi, e di captare solo quelli positivi. I tre strati del recipiente inferiore alludono anche alle tre dimensioni spaziali cui si aggiunge la dimensione temporale (il coperchio costituito da un’unica lamina d’oro sovrastata dai Cherubini) e la “quintessenza”, rappresentata dalle Tavole della Torah.

E veniamo infine al mito di Hiram, cuore pulsante della simbolica massonica ed in particolare del 3° grado: per non aver voluto svelare la parola sacra ai tre cattivi compagni (simboleggianti l’ignoranza, il fanatismo e l’avidità), il saggio Architetto viene ucciso e sepolto sotto un ramo d’acacia. Lì viene trovato da uno dei nove Maestri inviati alla sua ricerca ed infine disseppellito da tre persone, il Maestro Venerabile e i due Sorveglianti; ogni tentativo di riportare in vita il cadavere fallisce finché il Maestro Venerabile invita i Sorveglianti, sconvolti perché ad Hiram si stacca la carne dalle ossa, ad unire i loro sforzi in una catena vivente e – grazie alle risorse dell’Arte – desta a nuova vita il Maestro assassinato. Non possono sfuggire le analogie fra questo mito ed i molti altri basati sul ciclo vita-morte-resurrezione. Fra tutti ricorderò nuovamente quello di Osiride, dio egizio della vegetazione, ucciso con l’inganno dal fratello Seth. L’illustrazione in alto, tratta dal testo ermetico Atalanta fugiens di Michael Maier (1618) narra il dramma in tre tempi. In alto a sinistra Seth, coperto dall’arco, imbraccia ancora la spada sanguinante mentre ai suoi piedi giace Osiride smembrato. Accanto accorre Iside che rappresenta il secondo tempo del dramma: ritrova il fratello-marito e presumibilmente s’appresta a vendicarlo. Infine, in primo piano, la riesumazione di Osiride operata da tre personaggi, due soldati romani – evidentemente stupiti – ed un ineffabile sapiente orientale raffigurante, secondo il costume dell’epoca, Ermete Trismegisto. Superfluo sottolineare le analogie fra i soldati e il sapiente dell’illustrazione ed il Maestro Venerabile e i Sorveglianti del mito massonico. In effetti, secondo una ipotesi ben documentata, proprio questa illustrazione ermetica del mito d’Osiride sarebbe alle origini della leggenda di Hiram e dei tratti essenziali del rituale d’iniziazione al terzo grado .

Acacia, in greco acacia, significa esente da colpa, innocente, non nocente. Massonicamente si dirà che il Maestro “conosce l’Acacia” ed anche che si diviene Maestri passando da Squadra a Compasso attraverso l’Acacia, cioè che si diviene incorruttibili ed immortali “procedendo dalla rettitudine (Squadra) all’iniziativa “Compasso” passando per l’Acacia (innocenza)” . Simbolo fra i più importanti nell’Istituzione muratoria, l’acacia rappresenta l’iniziato che esce dalla bara di Osiride per trasformarsi in Horus; dell’Agnello di Dio (Cristo) che resuscita; dello stato di rigenerazione che ogni uomo dovrebbe raggiungere superando se stesso. Poiché l’ucciso sopravvive simbolicamente in ogni Maestro, il ramo di Acacia allude agli ideali massonici che sopravvivono alla morte. Gli annunci mortuari massonici vengono ornati con questo simbolo e ramoscelli di Acacia vengono deposti sulla tomba del Fratello defunto…

Secondo Osvald Wirth l’Acacia è emblema della sicurezza e della certezza, poiché la morte simbolica di Hiram, come quella di Osiride e di Cristo, non rappresenta il disfacimento dell’essere, ma una trasformazione che conduce alla Luce, che il colore giallo dei suoi fiori sembra preannunciare. Infine, Mackey nella sua enciclopedia riafferma che l’Acacia massonica con «…la sua natura sempre verde ci rammenta l’immortalità dell’anima libera da macchie». Indicazione che nel termine ‘libera’ cela una consonanza col trentaquattresimo verso aureo di Pitagora: «Allora, lasciato il corpo, salirai al libero etere. Sarai un dio immortale, incorruttibile, invulnerabile» .

Compreso il suo significato, siamo dunque sempre degni dell’Acacia? Certamente no e non c’è nulla di umiliante nell’ammettere le nostre debolezze umane. Osvald Wirth confessava: “Ammesso nove lustri fa in Camera di Mezzo, non posso ancora vantarmi di conoscere l’Acacia. Come voi, in realtà sono rimasto Compagno. I miei viaggi non sono finiti ed io lavoro senza posa a conquistare la Maestria, che sono ben distante dal possedere”

L’essenziale, cari Fratelli, sta tutto in quel lavorare “senza posa” la nostra pietra, sforzandoci di trasformare questo simbolo sublime – il ramo d’oro – in realtà vivente.

 

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FRATE ELIA: IL VADEMECUM

 

Paolo Galiano[1]

 

 

 

Frate Elia (c. 1180 – 1253), pur essendo uno tra i più interessanti personaggi dell’Italia della prima metà del ‘200, rappresenta a tutt’oggi una figura sulla quale non è ancora possibile dare un giudizio definitivo, in quanto le testimonianze sulla sua vita, le opere e gli interessi risultano molto scarse.

 

Per tratteggiare i punti salienti della vita di Frate Elia[2] ricordiamo che egli fu compagno e infermiere di San Francesco e amico personale del papa Gregorio IX e dell’Imperatore Federico II; come Ministro provinciale in Terrasanta pose le fondamenta di quella che sarà la Custodia Francescana per poi divenire il secondo Vicario di Francesco durante la sua malattia e, dopo la morte, il secondo Ministro Generale tra il 1232 e il 1239, periodo nel quale realizzò un primo ordinamento della struttura dell’intero Ordine; fu diplomatico per il Pontefice presso l’Imperatore e in seguito per l’Imperatore presso la corte di Bisanzio; infine va ricordato quale architetto o quantomeno ideatore delle due basiliche dedicate a Francesco ad Assisi e a Cortona, ma anche di strutture militari sulla testimonianza di Mariano da Firenze[3].

 

La valutazione sulle sue azioni è spesso contrastante a seconda dei punti di vista di chi ne scrive, ma in particolare è ancora più controversa la sua attività come alchimista, negata ancora oggi da alcuni, da altri considerata una semplice curiosità scientifica o limitata ad interessi meramente terapeutici, in linea con quella che sarà l’attività di preparazione di sostanze farmacologiche mediante tecniche alchemiche da parte di numerosi suoi confratelli nei secoli seguenti[4].

 

Gli interessi alchemici di Frate Elia erano invece ben conosciuti dagli stessi contemporanei: Salimbene de Adam ne fece una delle tredici accuse (o ad essere precisi defecti) mosse contro di lui[5], accusa che per altro non rientrò tra quelle che portarono alla sua destituzione nel 1239 da Ministro Generale, in quanto a quel tempo l’Alchimia non era ancora arte proibita, perché la bolla pontificia Spondent quas non exhibent di Giovanni XXII contro coloro i quali praticavano la trasmutazione dei metalli in oro e argento fu emanata nel 1317 e solo dal 1396 l’Alchimia venne accusata di eresia da Nicola Eymerich, inquisitore del regno di Aragona, nel suo Contra alchymistas[6].

 

La testimonianza più importante circa l’interesse ma soprattutto l’operatività di Frate Elia come alchimista ci viene dal suo contemporaneo Michele Scoto, alchimista ed astrologo vissuto tra il 1175 e il 1235 o 1236, il quale operò alla corte di Federico II. Nella sua Ars Alchimiae[7] Michele Scoto scrive, a proposito del «magistero minore», di avere di persona sperimentato la tecnica che qui descrive e di «averla insegnata a Frate Elia»[8]; nel capitolo sulla dealbatio ci fa sapere che anche Elia era uno sperimentatore competente: «Pochi ho trovato che la sappiano fare ma vidi compierla da Frate Elia»[9]; infine nel capitolo sulla sublimatio dello stesso manoscritto riferisce di aver usato la tecnica di un «Balac saraceno» e di averla «trasmessa a te, Frate Elia»[10].

 

Possiamo quindi affermare che Frate Elia fu alchimista e conosciuto come tale già durante la sua vita, e non è possibile asserire che egli fosse semplicemente curioso o, peggio ancora, negare la sua attività come alchimista; anzi la Pereira lo pone insieme a Michele Scoto tra i fondatori dell’Alchimia occidentale europea: «Alla corte di Federico II il filosofo, astrologo e mago Michele Scoto compone la sua Arte d’alchimia, che insieme a testi attribuiti a Frate Elia… e ad altri anonimi costituiscono la prima produzione originale in lingua latina successiva alle traduzioni»[11].

 

I codici da noi individuati[12] contenenti opere alchemiche attribuite[13] a Frate Elia (trattati, singole ricette o raccolte, componimenti poetici, citazioni delle sue opere) sono al momento in totale 74 e in essi è possibile individuare copie diverse per titolo o forma del contenuto di almeno sette trattati, di quattro dei quali abbiamo pubblicato la trascrizione dai codici originali con traduzione e commento[14].

 

Per quanto concerne il Vademecum, in assenza di studi specifici su di esso si può solo ipotizzare che sia attribuibile a Frate Elia sia per il numero di manoscritti che riportano per mano degli amanuensi il suo nome, sedici sui venti finora conosciuti, ma soprattutto per il suo contenuto, che ha per centro la preparazione delle “acque”, tema secondo la Pereira[15] sviluppato in modo particolare dagli alchimisti francescani a partire dal Liber compostelle di Bonaventura d’Iseo, collaboratore di Frate Elia[16]: Elia invece mostra già nel Vademecum di conoscere molto bene la distillazione delle “acque” medicinali, ma il suo modo di operare differisce da quello dei suoi contemporanei, in quanto egli pratica la distillazione a partire solo da sostanze minerali e non vegetali o animali, come da Bonaventura e Ruggiero Bacone in poi erano usi fare gli alchimisti francescani, e non a scopo medicinale ma per la trasmutazione dei metalli, che devono essere “curati” della loro imperfezione trasformandoli in Oro o Argento, come si legge nello Speculum alchimiae[17] a lui attribuito.

 

Lo stesso utilizzo esclusivo di sostanze minerali nelle preparazioni si trova in un trattato scritto da  Raymundus Gaufredi, XIII Generale dell’Ordine francescano, tra la fine del 1200 e il 1310, anno della sua morte, il cui De leone viridi[18] (il “leone verde” è il nome dato dagli alchimisti al vetriolo), è coevo a quello di Palermo in cui si trova il Vademecum essendo il manoscritto più antico del XIV secolo[19].

 

Circa la possibile datazione del testo del Vademecum, quello di Palermo[20], uno dei quattro anonimi ma perfettamente coincidente con i testi a nome di Frate Elia, ci conserva nel suo incipit una frase che consente di avanzare un’ipotesi: l’amanuense scrive che un certo Buti aveva consegnato a suo fratello una copia appartenuta ad un «vescovo di Cervia», il quale era in possesso di «grandi ricchezze», forse sottintendendo che esse provenivano dall’oro che poteva produrre con processi alchemici[21]. Il Colinet[22] ne propone l’identificazione con il vescovo e frate domenicano Teodorico Borgognoni di Lucca[23], vescovo di Bitonto e poi di Cervia, il quale, essendo contemporaneo di Frate Elia (era nato a Lucca nel 1205 e morto a Bologna nel 1298), potrebbe essere stato in possesso di una copia originale del Vademecum poi trascritta nel codice di Palermo: se l’ipotesi fosse corretta ciò significherebbe che con il manoscritto di Palermo ci troveremmo di fronte alla copia più fedele dello scritto originario di Frate Elia.

 

Copertina del volume pubblicato dall’autore di questo articolo, edito da Simmetria (2019)

 

Il Vademecum può sembrare un trattato di chimica metallurgica nel quale poco è lasciato ad una possibile interpretazione filosofica[24], ma ad una più attenta lettura si può rilevare come esso si svolga attraverso una serie di operazioni che seguono un preciso schema, dando sotto l’oscura forma delle cosiddette “ricette” le disposizioni per il passaggio attraverso le quattro “opere” dell’Alchimia (opera al Nero, al Verde, al Bianco e al Rosso) fino al compimento del lavoro di trasmutazione con la multiplicatio.

 

Cosa si intenda con “Alchimia filosofica” è argomento che non può essere trattato nell’àmbito di un articolo, ma che l’Alchimia non sia semplice pratica materiale o peggio ancora una sorta di protochimica[25] e abbia un significato anagogico nel significato dantesco del termine è affermato già dagli alchimisti alessandrini quale Zosimo[26] e poi da quelli bizantini a partire da Stefano d’Alessandria[27]. Che il Vademecum in particolare possa essere letto in questo modo lo conferma  indirettamente la Pereira[28]: «I pochi estratti che ne sono stati pubblicati [l’autrice conosce solo i frammenti riportati nel 1927 dalla Briggs[29]] mostrano l’uso di un linguaggio metaforico che, se il trattatello fosse davvero da attribuirsi ad Elia, sarebbe forse la più precoce testomonianza latina di questo tipo di scrittura».

 

Con questo non si vuole dire che il Vademecum, come altri testi di Alchimia, non abbia anche un significato metallurgico, che è la base dell’Alchimia spagirica minerale, ma sarebbe erroneo considerare quest’ultimo come l’unica chiave di comprensione dell’opera, poiché essa va letta avendo presenti le parole di Geber riportate nello Speculum alchimiae: «Ubi magis aperte locuti fuimus, ibi magis occulte, et ubi magis occulte ibi magis aperte»[30].

 

Esaminiamo in breve il senso sottinteso alle operazioni descritte nel trattato, avendo presente, come abbiamo detto altrove[31], che si tratta solo di una delle possibili interpretazioni, essendo l’Alchimia un’arte non soggetta alle leggi razionali delle scienze fisiche.

 

Il tema fondamentale è la preparazione delle “acque” e delle “pietre” che da esse hanno origine attraverso una serie di passaggi, nei quali la distillazione di metalli e minerali  diversi (in numero limitato a differenza di quanto si legge nei codici del Vademecum dei secoli seguenti) accresce progressivamente le proprietà della prima acqua distillata, l’aqua rosea o rosacea[32], un farmaco conosciuto dai medici per le sue proprietà curative.

 

Le operazioni vengono di solito indicate con il nome di “ricette”, e tali realmente sono quando il trattato si occupa di Alchimia spagirica intesa a produrre farmaci o a lavorare i metalli, ma nel caso dell’Alchimia filosofica tali “ricette” possono essere metafora per azioni di altra natura, intese a produrre effetti sul piano animico e spirituale.

 

La prima “ricetta” richiede tre sostanze, vetriolo, sal nitro e cinabro, per produrre l’aqua rosea, da cui con una successiva distillazione si ottiene un’acqua corrosiva capace di dissolvere materiali organici e inorganici, e se ad essa si aggiunge mercurio si ottiene, come leggiamo nel testo, «il fermento per l’opera maggiore al Rosso e per [realizzare]  molte altre meraviglie»[33].

 

Questa “ricetta” indica la prima fase alchemica dell’opera al Nero, l’estrazione dalla materia su cui si lavora dell’acqua descritta nei trattati come «acqua che bagna e acqua che brucia, Mercurio d’acqua e Mercurio di fuoco» o ancora «Mercurio doppio»[34], e per tale motivo detta “acqua corrosiva”.

 

È la prima operazione con cui si separa dal corporeo l’elemento animico e individualizzante che lo vitalizza (perché in esso sono presenti emozioni, ricordi, fantasie e desideri legati a colui che sta operando) e che va eseguita per mezzo di una forza controllata da quella che si può definire una “centralità solare” che non è ancora Oro ma “Oro artificiale”[35], ottenuto dall’alchimista prima di iniziare l’operazione mediante il potenziamento della volontà e di quella che è chiamata imaginatio[36] con tecniche delle quali nulla, al momento, abbiamo trovato descritto in modo esplicito nei testi dell’epoca. Sembra che una simile preparazione fosse considerata così ovvia e naturale che non si sentiva la necessità di mettere per iscritto le tecniche per conseguirla; d’altronde è abbastanza nota l’esistenza di forme di iniziazione ai mestieri nel Medioevo, in particolare con riferimento alle gilde di costruttori e architetti, che dovevano richiedere l’attuazione di tali potenzialità.

 

La seconda “ricetta” consente di ottenere l’aqua viridis che possiede due poteri: è un’acqua corrosiva capace di solvere l’argento e, una volta filtrata e purificata dalle parti grossolane, di tingere qualunque cosa di nero «per dieci giorni»[37]. Il mercurio trattato con questa aqua se unito al piombo e ad una piccola quantità di argento può trasformare il composto in argento di ottima qualità «come se fosse quello dei tornesi, che [supererà] ogni prova»[38].

 

Con questa aqua viridis, proseguendo nell’ebollizione fino all’evaporazione della parte liquida, si ottiene un olio capace di bruciare e di dissolvere la carne, l’oleum philosophorum, di così grande potere che se se ne versa una piccola quantità in una coppa, dice il testo, «è come mettere una balena in un calice»[39], cioè cercare di rinchiudere un’enorme potenza in un piccolo spazio.

 

Con la seconda “ricetta” siamo nella fase di transizione dalla putrefactio (opera al Nero) alla dealbatio (opera al Bianco) chiamata nei testi alchemici opera al Verde, nella quale sono esaltate le qualità corrosive e ardenti di questa ”acqua” divenuta “olio”. Se leggiamo la “ricetta” nel suo senso filosofico possiamo dire che, operando sulle potenze animiche estratte dal corporeo ed eliminando da esse ogni elemento che le rende individuali si produce una forza priva di costrizioni e capace di disgregare le ultime componenti della materia corporea portando a compimento il lavoro di “putrefazione”.

 

Come si legge nel sonetto Solvete i corpi in acqua[40] questa è l’acqua da far bere al “nemico” per dissolvere totalmente le sue componenti fisiche:

 

Datela a bere a quel vostro inimicho,

 

senza mangiare hio dicho cosa alcuna,

 

… sì et in tal modo, che tucto se disfaccia

 

la carne e le ossa e tucta sua iontura.

 

Il “nemico” è la materia nel suo stato elementare, ciò che rimane del piombo-corpo dopo l’estrazione dell’anima mercuriale che lo vivifica e che deve essere disgregato («che tucto se disfaccia») per recuperare le forze di pura potenza di cui è sostanziato, quelle forze indicate nel Pretiosissimum donum Dei come i vermes che si devono divorare l’un l’altro affinché possa nascere il «figlio bianchissimo» e «la terra nera e fetida sia convertita in Argento vivo»[41].

 

La terza e la quarta “ricetta” conducono alla preparazione della Pietra filosofica, il lapis albus e il lapis rubeus, con i quali la preparazione giunge a compimento: si tratta di due passaggi che difficilmente possono essere interpretati alla stregua di semplice operazione metallurgica, anche perché le “pietre” così ottenute possiedono quelle che sono definite «tre virtù»[42], con le quali non solo si ottiene la trasmutazione dei metalli in oro e argento ma si realizza anche ciò che viene chiamata multiplicatio, cioè la capacità di esse di generare altre “pietre” aventi le stesse “virtù”.

 

La terza “ricetta”[43] richiede l’aggiunta di argento e mercurio all’aqua viridis per giungere alla formazione di «pietre bianchissime come cristalli e fusibili come cera»: questo è  il lapis albus, il quale però non è ancora perfetto, in quanto può solo argentare i metalli ma non generare vero argento, quale si può ottenere solo con il mercurio. Con l’ulteriore passaggio della soluzione attraverso le “qualità” basilari dei quattro Elementi, il caldo, il freddo, l’umido e il secco, che costituiscono il tessuto della creazione, si genera la «Pietra nascosta da tutti i filosofi», che ha la virtù di trasformare il mercurio in vero argento e di moltiplicarsi in “pietre” aventi eguali proprietà: «se di questa pietra porrai un’oncia sopra settanta once di mercurio vivo avrai sessanta once della stessa pietra in grado di infondere le sopradette virtù ad ogni sostanza».

 

La quarta “ricetta”[44] richiede per realizzare il lapis rubeus una complessa operazione su tre “acque”: dapprima viene prodotta un’aqua turbida che, ulteriormente distillata, rubifica come sangue di drago dando il lapis croceus, la Pietra citrina, che è ancora imperfetta; mescolando questa con «sole calcinato»[45], cioè polvere d’oro, sul fondo dell’ampolla precipitano «pietre rosse splendenti» che, come il lapis albus della preparazione precedente, hanno la capacità di dorare gli altri minerali ma non di trasmutarli in oro, perché il vero oro si può ottenere solo dal piombo. Con il passaggio della soluzione ottenuta dall’unione delle tre “acque” precedenti attraverso le “qualità” dei quattro Elementi si ha il lapis rubeus perfetto, capace di trasformare il piombo in oro e in grado di generare per multiplicatio altre “pietre” aventi le stesse virtù.

 

Notiamo che se è dal mercurio che si ottiene l’argento, per avere oro l’unico metallo su cui si deve lavorare è il piombo, il metallo meno nobile di tutti, il più umile e disprezzato ma in realtà di fondamentale necessità, perché non solo esso costituisce la materia prima dell’opera alchemica ma ciò che ne rimane come residuo dopo il passaggio attraverso le diverse operazioni (in termini tecnici chiamato dagli alchimisti caput mortuum o faeces) è necessario per ottenere il metallo perfetto, l’oro.

 

Questo insegnamento degli alchimisti è esposto dettagliatamente da Raymundus Gaufredi nel De leone viridi, il quale prescrive di raccogliere e tenere da parte alla fine di ogni operazione queste faeces per distillarle nell’ultima operazione che porta al lapis rubeus perché «faeces est ignis»[46]: frase singolare, in cui è unito il plurale faeces con il verbo est al singolare, a dire che “esso-i-residui” è un’unica sostanza, indipendentemente dalla fase operativa da cui i residui derivano, ed “esso-i-residui”, specifica Raymundus, «racchiudono in sé due elementi, cioè la terra che nascondono e il fuoco»[47], quello dei quattro Elementi che per sua natura tende verso l’alto ed è quindi simbolicamente analogo alla componente spirituale dell’uomo, mentre la terra, il suo esatto opposto nello schema conosciuto dagli alchimisti come “sigillo di Salomone”, è identificata la parte corporea.

 

Il trattato si conclude con una allegoria (attribuita all’alchimista bizantino Archelao in altro manoscritto[48]) in cui si trova la chiave di interpretazione di tutta l’opera: «Il servo rubicondo sposò una moglie nera, e posti nella fossa e portati agli inferi generarono un figlio biondo. Appare chiaro che il servo rubicondo è la Pietra (rossa) sopradetta, la moglie nera è il piombo, la fossa è il vaso [in cui si compie l’operazione], l’inferno è il fuoco [necessario per la distillazione], il figlio biondo è il sole generato dagli elementi predetti»[49].

 

Leggendo tutto ciò secondo il linguaggio filosofico alchemico, se la terza operazione consente di realizzare l’argento detto “dei filosofi” (per distinguerlo dal metallo “volgare”), simbolo lunare, passivo e femminile come potenzialità generatrice, con la quarta si ottiene l’oro “dei filosofi”, cioè il principio attivo, solare e maschile[50] capace di portare alla realizzazione ciò che prima era allo stato potenziale: dalla loro unione (qui presentata come il matrimonio tra il “servo rubicondo” e la “moglie nera”) si genera un ente unico (il “figlio biondo”) non più soggetto alla pluralità della divisione dell’uomo in corpo anima e spirito, ma risoluzione dell’apparente contrapposizione con l’unione del maschile e del femminile, ritorno all’unità originaria, visualizzata come Androgine nelle immagini dell’Aurora consurgens[51] e del Rosarium philosophorum[52].

NOTE

[1] Il presente articolo viene pubblicato per gentile concessione dell’Associazione Culturale Simmetria www.simmetria.org

 

[2] Sulla vita di Frate Elia esiste un gran numero di testi, per cui ci limitiamo a citare tra i più recenti: C. ROSSETTI, Un singolare seguace di San Francesco:Frate Elia, in “Atrium”, 4 (2017), pp. 111-130, con un’estesa bibliografia sull’argomento; A. M. PARTINI e P. GALIANO, L’Opera alchemica in Frate Elia, Roma, Mediterranee, 2018, pp. 53-65.

 

[3] MARIANO DA FIRENZE, Compendium chronicarum fratrum minorum (1522): «Elia da Cortona, frate minorita famoso nell’arte dell’architettura, costruì la chiesa di San Francesco ad Assisi con il Convento e quella di Cortona, e numerose costruzioni fortificate nel regno di Sicilia su richiesta dell’Imperatore Federico» (citato in P. CALZOLARI, Presenza occulta e manifesta dell’Imperatore Federico II nella Basilica di San Francesco ad Assisi ‒ Frate Elia e la congiura del silenzio, in “Episteme”, 6 (2002), senza numeri di pagina.

 

In un recente intervento Cervini nega l’attività di architetto di Frate Elia (F. CERVINI, Elia e l’arte del costruire. Paradigma di un architetto mai esistito, ma non privo di gusto, in Elia di Cortona tra realtà e mito, Atti dell’incontro di studio Cortona 12-13 Luglio 2013, Spoleto, Centro Studi Italiani per l’Alto Medioevo, 2014, pp. 213-232).

 

[4] Sulla farmaceutica francescana rimandiamo ai numerosi lavori comparsi recentemente e in particolare a P. CAPITANUCCI, Agli albori della cultura alchemica e farmaceutica francescana: il Liber Compostelle di Bonaventura da Iseo, in I Francescani e le scienze, Atti del XXXIX Convegno internazionale (Assisi 6-8 Ottobre 2011), Spoleto, Centro Studi Italiani per l’Alto Medioevo, 2012, pp. 203-237.

 

[5] Salimbene de Adam, che era stato accettato nell’Ordine proprio da Frate Elia, riporta nel Liber de praelato contenuto nella sua Chronica (SALIMBENE DE ADAM, Chronica, a cura di C. S. Nobili, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 2002  ̶  trascrizione del ms. Vat. Lat. 7260 della Biblioteca Apostolica Vaticana) come undicesima tra i tredici defecti che venivano avanzati dai suoi detrattori l’avere praticato l’Alchimia e aver ricercato e ospitato laici e religiosi esperti dell’Arte alchemica. Ricordiamo che le scomuniche che colpirono Frate Elia nel 1239 da parte di Gregorio IX e nel 1245 da parte di Innocenzo IV erano ambedue per motivi politici, per aver tenuto frequentazione con lo scomunicato Federico II.

 

[6] M. PEREIRA, Arcana sapienza. L’Alchimia dalle origini a Jung, Roma, Carocci, 2001, pp. 183-185.

 

[7] I tre manoscritti principali dell’Ars alchemiae (S. H. THOMSON, The Texts of Michael Scot’s Ars Alchemie, in “Osiris”, 5 (1938), pp. 523-559) sono: Palermo, Biblioteca Comunale di Palermo, ms 4Qq A10, primo quarto del XIV sec. (THOMSON, The Ars alkemiae, p. 524); Cambridge, Gaius and Gonville College, ms 181, scritto tra il 1260 e il 1450; Oxford, Corpus Christi College Library, ms 125, databile tra il 1250 e l’inizio del XV sec. Sull’argomento si veda anche A. VINCIGUERRA, The Ars alchemiae, the first Latin text on practical alchemy, in “Ambix”, 56 (2009).

 

[8] Ms di Oxford c. 98v (cap. VII, Distinctio de minori magisterio).

 

[9] Ms di Palermo c. 358v (cap. X, Capitulum perfecte dealbationis).

 

[10] Ms di Palermo c. 360v (cap. XXI, Capitulum sublimationis).

 

[11] M. PEREIRA, Alchimia – I testi della tradizione occidentale, Milano, Mondadori, 2006, Quadro storico (senza numero di pagina).

 

[12] Un catalogo dei codici contenenti opere attribuite a Frate Elia è stato pubblicato nel 2018 in PARTINI e GALIANO, L’Opera alchemica in Frate Elia, pp. 117-173; una nuova edizione ampliata e corretta è in corso di pubblicazione.

 

[13] Scriviamo “attribuite”, in quanto finora nessuno studio organico è stato condotto da filologi e storici dell’Alchimia sulle opere a nome di Frate Elia, anche se da più parti auspicato.

 

[14] P. GALIANO, Lo Speculum Alchimiae di Frate Elia, Roma, Simmetria, 2016, trascrizione del ms GKS 1717 della Royal Library and Copenhagen University Library di Copenhagen, XV sec., forma abbreviata dello Speculum alchimiae; Id., La sacra arte dell’Alchimia, Roma, Simmetria, 2017, trascrizione del ms C.2.567 della Biblioteca Nazionale di Firenze del 1491, forma integrale dello Speculum; Id., Il magistero della Pietra filosofica, Roma, Simmetria, 2018, trascrizione del ms Campori 676 della Biblioteca Estense Universitaria di Modena, XVII sec.; Id., Il Vademecum di Frate Elia – Le Acque e le Pietre, Roma, Simmetria, 2019, trascrizione del ms Pal. Lat. 1267 della Biblioteca Apostolica Vaticana, XIV sec.

 

[15] M. PEREIRA, I Francescani e l’Alchimia, in “Convivium assisiense”, X (2008), pp. 117-157: p. 128.

 

[16] Secondo quanto scrive SALIMBENE DE ADAM nel Liber de prelato, citato in PEREIRA, I Francescani e l’Alchimia, p. 125.

 

[17] GALIANO, La sacra arte dell’Alchimia, pp. 219-220: «Per mezzo della proiezione della perfetta medicina riduciamo i corpi imperfetti alla vera perfezione, a causa di ciò abbiamo considerato che nei detti corpi imperfetti ci fosse la vera materia dei metalli, ma diciamo che quella materia è malata per [la propria] natura, e [perciò] la curiamo per mezzo della [nostra] medicina» (ms C.2.567 della Biblioteca Nazionale di Firenze, c. 12r).

 

[18] Pubblicato in P. GALIANO, Raimondo Gaufredi. Il trattato del Leone verde, Roma, Mediterranee, 2020.

 

[19] Londra, British Library, Sloane, ms 2327, cc. 27r-28r, sec. XIV.

 

[20] Palermo, Biblioteca Comunale, ms Qq 4 A 10, databile intorno al 1325.

 

[21] Ms di Palermo c. 408r: «Questo è lo scritto che Lorenzo Buti dette a mio fratello e che disse di aver avuto in modo furtivo da un vescovo di Cervia al tempo della sua morte, il quale disponeva di grandi ricchezze».

 

[22] A. COLINET, Les alchimistes grecs, XI, Recettes alchimiques, Paris, 2010, p. LII. Ringraziamo il Dr Ezio Albrile per averci portato a conoscenza di questo lavoro.

 

[23] Sul vescovo Borgognoni, medico e autore di trattati di chirurgia, si veda M. R. MCVAUGH Alchemy in the Chirurgia of Teodorico Borgognoni, in Alchimia e medicina nel Medioevo, Tavarnuzze (Firenze), 2003, pp. 55-75. A lui sono tra l’altro attribuiti due testi alchemici (De sublimatione arsenici e De aluminibus et salis) la cui paternità è però dubbia, ma sappiamo dai suoi scritti che applicò le tecniche alchemiche alla fabbricazione di farmaci e quindi doveva essere un conoscitore dell’Alchimia.

 

[24] Nei trattati l’Alchimia è chiamata “filosofia” e l’alchimista è il “filosofo” o il “figlio della filosofia”: “filosofia” va intesa nel suo significato originario di “amore per la Sapienza”.

 

[25] PEREIRA, Arcana sapienza, p. 62 nota 27: «L’alchimia, pur potendo essere considerata, per la parte operativa, la matrice della chimica intesa come scienza sperimentale, non è correttamente definibile come chimica primitiva o protochimica».

 

[26] PEREIRA, Arcana sapienza, p. 55, dal Libro sulla lettera Ω di Zosimo: «Quando riconoscerai di aver ottenuto la perfezione (dell’anima) rifugiati presso il Pastore degli uomini e, ricevuto il battesimo della coppa, slanciati a raggiungere i tuoi simili». Evidente il riferimento alla Coppa ermetica e gnostica di cui si legge nel IV trattato del Corpus Hermeticum, Discorso di Hermes a Tat: il Cratere o la Monade (a cura di V. SCHIAVONE, Corpus Hermeticum, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 110-123), e nella XIX Ode di Salomone, scritto di ambiente valentiniano (M. ERBETTA, Gli apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, Marietti, 1975, I/1, pp. 636-638).

 

[27] Si veda in particolare STEFANO D’ALESSANDRIA, Lettera di Stefano a Teodoto (F. SHERWOOD TAYLOR The alchemical works of Stephanos of Alexandria, in “Ambix”, I 2 (1937), pp. 116-139).

 

[28] PEREIRA, I Francescani e l’Alchimia, p. 125.

 

[29] H. BRIGGS, De duobus fratribus minoribus medii aevi alchemistis, in “Archivium franciscanum historicum”, XX (1927), pp. 305-313: pp. 311-313.

 

[30] GALIANO, La sacra arte dell’Alchimia, p. 73.

 

[31] GALIANO, Lo Speculum Alchimiae di Frate Elia, pp. 6-7.

 

[32] Il secondo nome si legge nel ms Pal. Lat. 335 della Biblioteca Apostolica Vaticana c. 33r.

 

[33] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, pp. 43-44.

 

[34] GALIANO, Lo Speculum Alchimiae di Frate Elia, pp. 10-11. “Mercurio doppio” perché nell’Alchimia filosofica l’anima, che viene indicata con il “mercurio” così come il corpo con il “piombo” e lo spirito con l’”oro”, è considerata come intermedia tra il corpo, a cui dà vita e movimento, e lo spirito, e quindi partecipa delle qualità delle altre due componenti dell’essere umano. Graficamente nei trattati alchemici questo viene espresso con due simboli distinti, formati dall’unione della croce dei quattro Elementi con il cerchio del sole-oro sovrastato in un caso dalla falce lunare e nell’altro dal simbolo dell’ariete, segno zodiacale connesso nell’Astrologia del tempo al fuoco.

 

[35] GALIANO, Lo Speculum Alchimiae di Frate Elia, ivi, p. 8.

 

[36] La imaginatio non è la phantasia: questa è una forma di autoillusione, un’apparenza vana creata dal soggetto e C. DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort, L. Favre, 1883-1887, s. v., traduce infatti phantasia con “arbitrio, opinione personale, visio vana” ma anche con “fantasma, spettro”. Per comprendere la distinzione riportiamo quanto scritto nello Speculum alchimiae del ms C.2.567 cc. 11v-12r, attribuito a Frate Elia: «Vedi come secondo la Natura si generano i corpi nelle viscere della terra: questo è immaginare secondo l’immaginazione vera e non fantastica» (GALIANO, La sacra arte dell’Alchimia, p. 218), dove il “vedere” va inteso nella sua etimologia dalla radice *vid, “conoscere”.

 

[37] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, p. 45.

 

[38] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, ibid.

 

[39] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, ibid.

 

[40] Il  sonetto è considerato da molti opera di Frate Elia ma con scarse prove a favore: lo si ritrova con grande frequenza nei codici  di Alchimia per il suo contenuto che costituisce una vera e propria summa del sapere alchemico. I versi qui citati sono tratti dall’edizione a stampa della Summa perfectionis Geberii, Roma, Silber, 1486, in cui è attribuito a Frate Elia. Ad esso abbiamo dedicato un saggio in due parti pubblicato on line sul sito dell’Associazione Simmetria (www.simmetria.org).

 

[41]P. GALIANO, Il Pretiosum donum Dei, Roma, Simmetria, 2017, pp. 96-97 (Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, ms  Guelf. 77.2 Aug. 8°, XV sec., c. 8r).

 

[42] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, p. 48.

 

[43] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, pp. 47-48.

 

[44] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, pp. 49-50.

 

[45] La calcinatio è la perfezione della preparazione di una sostanza attraverso la sua polverizzazione per mezzo del fuoco e conseguente evaporazione di ogni umidità (A. J. PERNETY, Dizionario mito-ermetico, Genova, Phoenix, 1979, s. v.).

 

[46] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms 433 Helmst, c. 215v. All’argomento è trattato in GALIANO, Raimondo Gaufredi, pp. 93-98.

 

[47] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms 433 Helmst, ibid.

 

[48] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Vat. Lat. 4092 (sec. XIV), cc. CLXXXIIIv- CLXXXIVr (GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, p. 42).

 

[49] GALIANO, Il Vademecum di Frate Elia, p. 51.

 

[50] Sarà bene notare che le equivalenze femminile/passivo e maschile/attivo in Alchimia non hanno nulla di ciò che dai moderni è chiamato “maschilismo”: l’Alchimia conosce l’eguaglianza e non l’opposizione delle due condizioni, ambedue necessarie in quanto complementari all’ottenimento del risultato finale. La potenzialità del femminile è necessaria perché il maschile possa portarla a realizzazione, ma senza la capacità attiva del maschile il femminile rimarrebbe semplice e inerte potenzialità.

 

[51] Zürich, Zentralbibliothek, ms. Rh. 172, c. 2r (sec. XIII).

 

[52] Rosarium philosophorum, secunda pars Alchimiae, de lapide philosophico, Francoforte, 1550 (senza numero di pagina), figura dell’Aenigma regis.

 

Note del webmaster di questo sito:

 

Le immagini inserite in questo articolo sono assenti nell’articolo originale dell’autore; esse sono tratte dal web e sono di pubblico dominio

Si ringrazia il dr. Paolo Galiano e www.simmetria.org per la disponibilità alla pubblicazione nel presente sito, in data 18/12/2020

 

 

 

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QUEI TANTI MERITI DELL’OCCIDENTE SOTTO ATTACCO

di Antonio Polito

 

Nel suo nuovo saggio Federico Rampini dimostra che il progresso del nostro mondo si è rivelato un grande vantaggio anche per l’altro mondo

Si può ancora dire «Grazie, Occidente»? Si può ancora riconoscere «tutto il bene che abbiamo fatto»? Possiamo ancora «dirci superiori» per ciò che abbiamo inventato, prodotto e diffuso nel mondo, per la nostra medicina, tecnologia, scienza? Per i nostri sistemi istituzionali, per la nostra libertà?

 

Federico Rampini crede che si possa, e anzi si debba dire. Nel suo ultimo libro, che prosegue in una preziosa opera pedagogica, nega che la storia degli ultimi secoli dalla Rivoluzione industriale in poi possa essere letta «come un lungo romanzo criminale, fatto di sfruttamento abietto, sofferenze, guerre coloniali, saccheggio delle risorse naturali». E dimostra, con il supporto di un’ampia mole di studi e di autori, che al contrario il progresso del nostro mondo si è rivelato un grande vantaggio anche per l’altro mondo, perché ha determinato ovunque, seppure in gradi e tempi diversi, un miglioramento senza precedenti di condizioni di vita, livelli di istruzione e di benessere, diritti e libertà.

 

L’idea del titolo — racconta l’autore nell’incipit — gli è venuta in Tanzania, quando ha visto un pastorello masai a guardia del gregge di capre con l’occhio fisso sul suo cellulare: «Non può certo supplire a un’istruzione ancora spaventosamente carente, ma è uno strumento per spezzare l’isolamento e aprire una finestra sul mondo. Qualcuno nel suo Paese usa lo smartphone per conoscere le previsioni meteo e pianificare meglio i raccolti; o per gestire qualche piccola attività commerciale. Ecco: quel pezzo di tecnologia l’abbiamo portata noi al pastorello masai. Insieme a tutto il male che abbiamo fatto all’Africa e agli africani, vuoi vedere che c’è un’altra faccia della medaglia?».

Quei tanti meriti dell’Occidente sotto attacco

 

La copertina del libro

 

Ovviamente c’è. Oggi scriviamo «energia fossile» accostandola inevitabilmente a uno scenario di disastro climatico. Ma aver trovato il modo di trasformare il calore in movimento ha reso possibile l’impossibile. Per milioni di anni quasi tutta l’energia necessaria a muovere le cose veniva dai muscoli di uomini e animali. Di conseguenza, anche nelle società più sviluppate, al massimo il 10/15% della popolazione poteva passare il tempo a leggere e scrivere. L’istruzione di massa, l’adolescenza come età dello studio, è dunque un’invenzione occidentale. Oppure prendiamo la meccanizzazione dell’agricoltura, accusata dell’impoverimento di massa dei contadini. È grazie all’aumento senza precedenti di produttività agricola se «un adulto medio del 2000 era del 50% superiore per statura e peso di un suo antenato del 1900. In gran parte del resto del mondo, inclusi Cina e Giappone, l’arco di vita si è allungato di quasi quarant’anni. Anche in Africa, nonostante malaria e Aids, la longevità media era di vent’anni superiore nel 2019 rispetto al 1900».

 

Durante la maggior parte della storia umana le donne sono state macchine per la riproduzione. La medicina moderna, la profilassi e le campagne di vaccinazione, la raccolta dell’immondizia e la distribuzione di acqua potabile, tutte invenzioni occidentali, hanno abbattuto la mortalità infantile, così che le donne non devono più avere in media cinque parti e passare la vita adulta in gravidanza o in allattamento. Insieme con i frigoriferi e le lavatrici, i preservativi e la pillola, l’Occidente ha introdotto un po’ alla volta in tutto il mondo un formidabile progresso nella vita delle donne e nella loro libertà. Tranne, guarda caso, nei Paesi retti da regimi dichiaratamente anti occidentali, come l’Iran degli ayatollah e la Gaza di Hamas. Ci sarà del resto una ragione per cui il sistema occidentale ha avuto tanti imitatori (primo tra i quali il Giappone alla fine dell’Ottocento), e nessun governo occidentale «ha mai cercato di amministrare il proprio Paese in base al confucianesimo o al taoismo?».

 

Ciò nonostante, la cosiddetta Generazione Z, educata nelle nostre istituzioni culturali e dai nostri libri al catastrofismo e al pessimismo sulle sorti dell’umanità (il che deve avere qualcosa a che fare con il dilagare di disagi e sindromi psicologiche), è convinta che siamo ricchi perché abbiamo derubato i poveri. Caricatura un po’ grottesca del marxism

 

Speriamo che i giovani di questa «generazione ansiosa» leggano questo libro. «Non date retta ai catastrofisti, il mondo non sta andando a pezzi. La verità è questa: se doveste scegliere in tutta la storia dell’umanità il periodo migliore in cui essere vivi, scegliereste quello attuale»; e questo non lo ha detto Rampini ma Barack Obama appena otto anni fa. Criticare il nostro modello di sviluppo è giusto, a patto di sapere ciò che ne ha scritto un suo insospettabile critico, il pensatore di lingua madre araba Amin Maalouf: «Tutti quelli che combattono l’Occidente e contestano la sua supremazia, per delle buone o cattive ragioni, vanno incontro a un fallimento ancora più grave del suo».

 

TAVOLA SEGALATA DAL FR.’.  A.’.  F.’.

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SOTTO QUELLA CIOTOLA PIENA DI STELLE

di Antonio Binni

 

Sotto quella ciotola piena di stelle che gli uomini chiamano cielo, l’universo è gravido di mistero. L’uomo si fa querens e il querere si fa dovere, necessità, felicità. Dovere, in quanto tributo che l’uomo deve pagare al suo essere razionale. Necessità, quale unica forma di consolazione concessa al suo fragile essere mutevole. Al postutto, fonte di autentica felicità per essere l’uomo nato al fine di conseguire una conoscenza stabile e certa del vero, non desumibile dalle tare delle res obscurae del sensibile regno della mutevolezza. Il nostro pensiero interrogante oggi ha come oggetto un tema fra i più complessi e delicati, seppure per certo fra i più affascinanti. Si insegna che il compito e il fine dell’Arte regia sono costituiti dal rendere l’uomo umano, sempre più umano, sempre più pienamente umano. È la nota lezione di Fichte (che può leggersi in Filosofia della Massoneria, nella seconda edizione italiana pubblicata nel 2019 da Mursia editore. Su questo tema cfr. amplius il nostro scritto Fichte. Filosofia della Massoneria comparso nel numero di Officinae del mese di Novembre 2021). Il significato profondo di questo assunto esige però preliminarmente di appurare in che cosa si risolva l’umanità, che cosa la sostanzia, che cosa l’alimenta. All’approfondimento di tutti questi temi saranno pertanto dedicate tutte le successive considerazioni. A questo fine aiuta sicuramente un approccio all’argomento dal profilo storico, sia pure circoscritto all’essenziale. I primi che alla problematica hanno dedicato una specifica attenzione sono stati sicuramente i Greci. Nella loro grande epoca hanno infatti posto l’accento sulla necessità di dare un significato e un senso alla parola umanità, che hanno poi inteso come il punto di arrivo di una educazione necessaria per superare la naturale animalitas dell’uomo. L’uomo, unità di corpo, anima e spirito, sebbene essere razionale è infatti, e rimane pur sempre, un essere animale. Animalità che può essere tuttavia corretta, e perfino completamente eliminata, con la παιδεία, non essendo a questo fine sufficiente la semplice attribuzione all’uomo di una anima immortale o della facoltà della ragione. Troppo noti, per essere elencati singulatim, sono poi gli strumenti dei quali si avvale la παιδεία per contrastare l’arbitrio degli istinti e la barbara brutalità. Valga piuttosto ricordare che la virtus romana altro non è che la incorporazione della παιδεία elaborata dai Greci, pur restando vero che la humanitas viene per la prima volta pensata ed esplicitata con questo nome solo al tempo della Repubblica romana. La parola παιδεία viene infatti tradotta con la parola humanitas. Nella sua essenza, il primo umanesimo resta quindi un fenomeno specificatamente romano che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cristianesimo ravvisa invece la humanitas dell’homo nella sua limitazione rispetto alla deitas. L’uomo, in questa prospettiva, non è infatti di questo mondo, inteso invece come un semplice luogo di passaggio transitorio verso l’al di là. È noto che il Rinascimento – tra il XIV e il XVI secolo – celebra la humanitas nella sua latitudine più vasta. L’aforisma del drammaturgo latino Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (“Sono uomo, nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo”) era infatti il più amato e il più citato dagli umanisti della renascentia romanitatis, nonostante poi che, nel suo contenuto, si continui a intravedere ancora la pratica del vizio come prova di una umanità non ancora del tutto raggiunta. Salda comunque rimane ancora la convinzione che il destino della persona umana sia non soltanto l’autotrascendenza, ma addirittura la divinazione. In questa prospettiva, il modello diventa allora il Salvatore, vero uomo e vero essere divino. Da ultimo, ma non per ultimo, non è inutile ricordare che l’umanesimo rinascimentale ha costituito il movimento culturale e educativo più influente in Europa in tutto quel periodo. Nella funzione educativa si riconosce poi un’importanza decisiva alla cultura, intesa come il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. Alla cultura sottostanno infatti sistemi di valori, significati e visioni del mondo che possono risultare determinanti fino al punto di divenire fonte di divisione sociale. Come accade, ad esempio, nella cultura contemporanea dominante in Occidente, che esclude ogni forma religiosa dai valori riconosciuti perché degradata a mera superstizione o, addirittura, a oscurantismo. Per concludere sul punto, la cultura è come una lente che può chiarire o distorcere convinzioni in apparenza, e non solo, innate. Proprio perché pervasiva – le sue idee riempiono le nostre teste – può essere sana o tossica. Per questo – la ripetizione si impone – costituisce un fattore educativo di portata determinante. (Per un approfondimento di questo argomento ci permettiamo di rinviare al nostro precedente scritto dal titolo Massoneria e cultura pubblicato sul numero di questa Rivista uscito il 23 maggio 2021). Per esaurire questo sommario excursus dell’Umanesimo storicamente considerato, corretto è infine affermare che il fenomeno de quo, considerato nelle sue varie forme, attinge in modo determinato alla antichità, spingendosi talvolta fino a farne un calco integrale. Fatta eccezione per l’umanesimo di Sartre che lo concepisce invece come esistenzialismo. Ciò doverosamente seppur sinteticamente ricordato, al fine di delineare il nostro pensiero sull’argomento va precisato innanzitutto che tutte le forme di umanesimo che si sono via via affermate fino ad oggi presuppongono – come è evidente – l’“essenza” universale dell’uomo. È dunque a questa “essenza” che si deve far capo se s’intende dare, come ci si è proposti, un sicuro fondamento e un preciso contenuto a quella umanità che si vuole costituisca la cifra caratteristica e la peculiarità distintiva dell’uomo UOMO. Secondo l’insegnamento tradizionale inaugurato da Platone, l’essenza dell’uomo deve essere ravvisata nel suo essere una possibilità. Quando si afferma che la humanitas è l’essenza dell’uomo si vuole pertanto dire che l’uomo è arbitro delle sue scelte, potendo diventare umano o in-umano. In-umano, in quanto figlio dell’arbitrio e della sopraffazione, autentico inferno per il tormento di non amare nessuno. Umano perché agli antipodi del negativo, che, in quanto rifiuto della ragione, merita il marchio della riprovazione. Il che, se non andiamo errati, autorizza legittimamente a sostenere che l’umano esiste nell’uomo soltanto in nuce. Infatti, è solo quando da potenza si trasforma in atto che l’umano si dispiega in tutta la sua latitudine per divenire ciò che autenticamente è. Il che postula allora la domanda su cosa consista il contenuto dell’umano, quale sia cioè la sua cifra, ossia la peculiarità che lo caratterizza. A chi scrive queste note l’umano, quale sintesi di valori inalienabili e inespropriabili, va colto essenzialmente nella cura dell’altro come dono da offrire e mettere in comunione con quello di cui ciascun altro è portatore. Una cura aperta in termini universali, perché estesa a livello non solo umano, ma pure sociale, planetario, cosmico. Anche se, in primis, indirizzato all’uomo con la diffusione di semi di verità, di bontà, di bellezza, ma pure di sostegno materiale nei confronti dei più bisognosi, degli umili, dei diseredati, a questi ultimi uniti nel loro rispettivo dolore. Il che – sia detto per incidens – è tanto più urgente in questa attualità connotata dalla indifferenza. Si tratta poi di una cura, dove la sottolineatura è perfino superflua, non nel senso astratto di un impegno generico ma in un senso concreto, indirizzata nei confronti di una persona specifica: impegno duraturo che non deve passare rapido come il soffio di un vento di montagna. Il che postula una generosità coltivata giorno per giorno, come avviene per una piantina a primavera, e nel contempo la forza eterna del bene che si custodisce nel tempo, con radicale esclusione di ciò che soffoca. Altrimenti il negativo strangolerebbe e ucciderebbe lo slancio generoso. Prendersi cura dell’uomo vuol dire, in sintesi, insegnare all’uomo germogli vivi di tenerezza che, una volta coltivati dall’apprendista-uomo, gli consentiranno di donare agli altri la propria autentica essenza, come dire la ricchezza più preziosa del proprio essere, sostanza composita perché in quel contenitore confluiscono logica, generosità, tradizione, valori e, più in generale, lo stesso inconscio collettivo.

Da qui una responsabilità educativa di carattere generale che comporta la messa in atto di una delicata e risoluta paideia secondo la regola pedagogica della gradualità. In ogni caso, una educazione al difficile, tanto per l’educando quanto per l’educatore, posto che un’azione educativa coerente implica l’indicazione di sentieri di vita orientati al bene: un richiamo energico a vivere la vita in pienezza e responsabilità, trasformandola creativamente ogni giorno nell’arte del dono. Fare di se stessi gli artefici del miracolo di trasformare l’altro in una immagine di virtù è la realizzazione del sogno che nutre l’uomo-uomo, l’uomo umano. La non umanità coincide allora con il porsi fuori dell’essenza dell’uomo. Come a dire vittime del dominio dell’istinto, dell’arbitrio, del sopruso, della sopraffazione, della forza e della violenza (purtroppo così attuali mentre scrivo!). Stare dalla parte dell’umano e servirlo con scrupolo e costanza significa conclusivamente contrastare, con ferma determinazione, tutto ciò che anche soltanto appanna la luce che scaturisce dalla ricchezza della cura dell’altrui. Nella nostra società contemporanea significa, in specifico, contrastare tutto ciò che c’è di insidiosamente distruttivo, quali le pressioni competitive, la seduzione del consumismo, l’invadenza della pubblicità e tutti gli altri influssi che modellano negativamente l’attuale modo di vivere. Sul piano intellettuale l’opposizione e il contrasto vanno poi indirizzati a quella corrente culturale, oggi dominante nel mondo occidentale, chiamata postmodernismo, perché filosofia essenzialmente scettica. Il suo principio basilare è infatti questo: la verità è soltanto tutto ciò che è vero “per me”. Con la conseguenza che l’assenza di una verità oggettiva finisce per impoverire l’umano perché, a questa stregua, viene meno un punto di riferimento sicuro nella vita di ciascuno di noi, gioia e guida che tengono lontano dall’insensato vagare tra incertezze e rischi oltremodo pericolosi. Dunque, se si vuole rendere l’abitante di questo mondo, tanto complesso e difficile, sempre più uomo, sempre più umano, sempre più pienamente umano, non solo nella sfera dell’esercizio individuale della speculazione ma proprio nella concretezza del sensibile, occorre, a ben vedere, compiere ogni sforzo nella divulgazione della paideia, posto che quest’ultima fornisce tutti gli strumenti necessari per affinare l’uomo fino a trasformarlo in un uomo autentico. Impresa da compiersi senza posa, perché in questa costruzione lenta, faticosa, sempre soggettivamente appagante, oltre che collettivamente arricchente, non v’è in verità mai fine.

 

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴

Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato

Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi

Via San Nicola de’ Cesarini 3 (Roma)

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A PROPOSITO DI MAESTRI DI VTA

A PROPOSITO DI MAESTRI DI VTA

di Antonio Binni

 

Chiamiamo Maestri di vita coloro che insegnano l’arte del vivere. Con le loro dottrine e il loro personale esempio influenzano l’esistenza di una vasta moltitudine di esseri umani. Nel tempo e nello spazio. I loro insegnamenti – autentici percorsi di spiritualità – incidono profondamente su tutta la vita di chi li ascolta e li segue, con l’intenzione e la volontà di ripercorrere le orme del maestro prescelto secondo il modello della sequela o imitatio. Questi seguaci si denominano discepoli. All’evidenza, non possono poi essere confusi con gli allievi di quanti (semplici docenti, professori, o istruttori) si limitano invece a insegnare la loro arte, senza avere alcuna pretesa di influenzare il resto della vita dei loro alunni, studenti, apprendisti. Riproporre all’attenzione di quanti sono alla ricerca di un senso per la loro vita gli insegnamenti di questi antichi maestri, si noti, non è un vago esercizio della memoria. Né un gesto di curiosità, quale può essere quello di un turista che si attarda in un paese remoto. Né, meno che mai, è un far rivivere il pensiero di personaggi storici autorevoli. All’opposto, significa offrire concreti strumenti utili alla crescita spirituale di chi è incamminato su questa strada. Come perspicuamente ha insegnato Aristotele quando ha scritto: “non stiamo indagando per sapere cosa è la virtù, ma per diventare virtuosi, dato che altrimenti l’indagine non sarebbe di alcuna utilità” (così in Etica Nicomachea n. 2, 1103 B). Appunto, inutile, perché una volta conosciuto l’esempio, a nulla serve, se poi non lo si vive. Ciò che in questi Maestri di vita desta poi la più viva ammirazione è l’assoluto rispetto della libertà e della indipendenza, tanto del discepolo quanto del maestro. Questi, infatti, lungi dall’imporre percorsi esistenziali, si limita, all’opposto, semplicemente a proporli con l’intento evidente di fare diventare il discepolo ciò che è realmente. Il loro insegnamento genera infatti autenticità, che, palesemente, è proprio l’opposto di quanto causa la supponente autorità, fonte di prevaricazione, conformismo e morte spirituale. Questa indipendenza e libertà si estende poi perfino al suggerimento di abbandonare la dottrina proposta, una volta divenuta inutile. Come insegna, ad esempio, Buddha con la nota parabola della zattera, che, utile a travalicare il fiume, diviene addirittura un peso da abbandonare una volta raggiunto il suo scopo con successo. O, sempre per esemplificare, come predicava Zarathustra che, mentre scendeva dalla montagna seguito dai suoi discepoli, raccomandava a ciascuno di loro di ascoltare le sue parole, ma di prendere la propria strada. Rimane comunque incontestabile che gli insegnamenti etici e spirituali proposti costituiscono esempi preziosi di indubbia utilità per quanti sono orientati a dare alla propria esistenza un senso preciso. Di fronte alla pluralità dei modelli di vita proposti dalla Storia si pone il problema di quale fra essi scegliere. Siamo dell’avviso che, nella scelta, riveste un ruolo decisivo il rapporto che ciascuno di noi ha con la propria esistenza. Sicché, chi è indotto a gustare la vita come un dolce sapore non potrà che guardare con favore all’insegnamento di Socrate, affascinato dalla meravigliosa ricchezza della esistenza. Oppure a quello di Confucio che, credendo convintamente nella vita, mirava a unire gli esseri umani in un sistema coeso al fine di generare armonia nella convivenza sociale. Chi, invece, avverte la necessità di rinunziare alla vita non potrà che far capo a Buddha per essere sostanzialmente questo il suo insegnamento, come è attestato dalla forma di vita proposta ai suoi discepoli, chiamati a essere monaci e perciò destinati a rinunziare agli elementi strutturali della vita: il lavoro, la sessualità, la famiglia, la curiosità intellettuale, i divertimenti e, perfino, la dimensione estetica con l’obbligo di rasarsi il capo. Chi, infine, è governato dal più radicale pessimismo non potrà che far capo all’insegnamento di Schopenhauer e Leopardi. Si parva licet, sia poi consentito all’autore di queste note succinte di manifestare il proprio ottimismo nei confronti della esistenza, perché quello che la vita ci ha dato e continua ancora a darci rinnova ogni giorno l’incanto. Siamo poi perfettamente consapevoli che il pessimismo, proprio perché esseri umani, ha da sempre i suoi motivi. A noi sommessamente sembra però che debba riconoscersi prevalenza all’ottimismo. E non già per una predisposizione psicologica. E neppure per un comandamento di fede. Quanto invece perché, nonostante i nostri limiti e i nostri errori, conserviamo sempre una insopprimibile attitudine al bene. Da come si è argomentato l’inciso, per quel poco che può interessare, ne segue la personale preferenza per quei maestri – Socrate in primis – che nutrono stupore nei confronti della meraviglia che colora la vita tanto degli uomini, quanto del creato da essi abitato. La vita eccede qualunque dottrina. Non può, pertanto, escludersi il fatto che nel tempo si muti il maestro, e perfino più di un maestro. Con la conseguenza di uno o più cambi di indirizzo nella sequela intellettuale morale e spirituale. Né può destare meraviglia il fatto che, di questo o di quel maestro, si finisca per accettare soltanto un singolo insegnamento, o anche più di uno, visto che si è inclini a accogliere ciò che è più consentaneo alla propria natura. Il che però avviene, inoppugnabilmente, soprattutto perché nessun maestro ha raccolto in sé tutti gli aspetti costitutivi della umanità. In tutti i loro insegnamenti, oltre a talune intime contraddizioni, è possibile infatti riscontrare pure alcuni limiti precisi. Uno dei maggiori dei quali è poi sicuramente la tendenza a valutare negativamente la natura femminile. Però, non così per Socrate. Né per Gesù che, fra i propri discepoli, annoverava pure donne. Se, per concludere sul punto, nessun maestro ha lasciato una dottrina tale da insegnare l’esistenza perfetta, occorre allora guardare a quel deposito di preziosa ricchezza come a un laboratorio etico e spirituale dove attingere insegnamenti e spunti per creare un proprio originale modello di vita. Il che, da altro verso, ribadisce che quello più importante di tutti è il Maestro interiore, che è, appunto, quello che nasce e si evolve su basi arricchenti, come frutto del duro, severo lavoro quotidiano, volto a sviluppare l’umano che esiste in ogni uomo. In via di corollario, ne esce però riconfermata l’utilità di tutti i precedenti maestri, anche se provvisori e parziali, posto che tutte quelle dottrine costituiscono, quanto meno, una proficua fonte di ispirazione. Dove l’utilità è poi doppia. Innanzitutto perché la conoscenza e il governo di noi stessi è lavoro troppo impegnativo per essere svolto in solitudine. Col rischio, perciò, di non conseguire risultati apprezzabili. Anche a causa della confusione etica e teoretica che caratterizza i nostri duri giorni, orfani di valori perduti, privi di nuovi, che si rifiutano di apparire all’orizzonte. Sicché, ancor più delle generazioni precedenti, necessitiamo degli insegnamenti dei grandi maestri del passato. In secondo luogo, perché i risultati ottenuti con il nostro solitario impegno finirebbero, molto verosimilmente, per coincidere con verità etiche già note, oltre che definitamente acquisite. Donde la totale inutilità degli sforzi, quando porsi sulle spalle di giganti consente invece di costruire su solida roccia un proprio sistema etico di vita, almeno soggettivamente appagante. Il compito precipuo del massone è quello di trasformare se stesso in altro da sé, sviluppando al massimo grado l’umano nel quale consiste la sua specificità di uomo. In quest’opera, autenticamente ciclopica, il massone deve guardare agli antichi maestri con devozione e gratitudine per consolidare quello proprio interiore, per certo il più importante di tutti, per essere proprio quest’ultimo la guida più sicura nella costruzione della propria vita etica e spirituale.

 

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴

Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato

Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi

Via San Nicola de’ Cesarini 3 (Roma)

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LIBERI DI COSTRUIRE

Liberi di costruire

Autorità presenti,
Signore e Signori,
Fratelli Carissimi,

il tema che abbiamo scelto quest’anno di proporre all’attenzione e alla riflessione è incentrato sui processi legati alla costruzione.
Per noi Liberi Muratori, antichi costruttori di cattedrali, la simbologia e la prassi costruttive assumono una importanza centrale. I nostri Rituali esaltano l’opera architettonica, il processo di edificazione, secondo una metafora che lega indissolubilmente l’idea di perfezionamento per così dire “edificatorio” esterno con quello interiore, perché pensiamo che non si possa costruire un Tempio, tanto simbolico quanto reale, se non attraverso la erezione di un corrispettivo Tempio interiore, di un “foro spirituale” più intimo che a sua volta riesca a sovrintendere ad un percorso di crescita condotto all’insegna dell’etica, della tolleranza e della ricerca di una civile armonia.

La costruzione per un Massone è, quindi, innanzitutto, una forma di “educazione” o, più semplicemente, di “auto-educazione” alla costruzione etico-morale di sé: il Libero Muratore apprende a operare un continuo rinnovamento, un continuo perfezionamento. E per far questo deve apprendere ad essere un uomo libero.
E’ nella libertà che l’uomo diventa se stesso; è nella consapevolezza che può diventare cittadino del mondo, non più succube della realtà ma artefice del suo destino.
E mai come oggi, a nostro avviso, c’è bisogno di uomini liberi.
Lo vediamo ogni giorno: la società contemporanea, particolarmente quella italiana, sta attraversando una crisi morale ed etica, che colpisce e talora mortifica sia la collettività sia le soggettività. Una realtà che noi Liberi Muratori non possiamo accettare passivamente: a noi spetta avanzare delle proposte.

La Massoneria regolare – è bene ribadirlo subito chiaramente – non ha scopi direttamente politici, né tantomeno entra nell’agone della competizione partitica, anzi se ne astiene rigorosamente. Ma proprio grazie a questa sua condizione di neutralità istituzionale, deve cogliere tutta l’opportunità derivante da tale speciale asimmetria; essere cioè parte integrante e viva della società con autorevolezza di giudizio, ma senza correre alla ricerca propagandistica di consensi elettorali e di facili riconoscimenti. La nostra diversità deve invece risaltare attraverso la continua capacità di porre l’attenzione su temi centrali, anche quando possano sembrare o peggio risultare scomodi, di insistere sui temi dell’etica e della sfera valoriale, quando altri non hanno più né tempo né voglia, né forse interesse a farlo.

Il tema della libertà di pensiero e di intenti rientra tra i minima moralia del discorso massonico, al punto che la certezza della libertà d’animo dei nostri Fratelli è stato sin dal secolo decimo-ottavo il prerequisito indispensabile per l’ammissione all’Ordine. Il Massone deve essere uomo libero nel suo status e ancor di più nelle sue convinzioni, nelle sue scelte, nelle sue decisioni; quindi, cittadino nella pienezza della sua responsabilità, mai suddito supinamente schiacciato agli interessi dei diversi poteri, pronto a servire ancor prima che gli sia ordinato. Uomini senza libertà non hanno vere responsabilità, sono servi. Più grave però è quando a tale libertà essi hanno rinunciato da soli.

La nostra Istituzione mira perciò ad enfatizzare il rafforzamento di tutti quei sentimenti capaci di riscattare l’essere umano dall’apatia della rassegnazione, dallo sconsolato abbandonarsi alla perdita di fiducia nelle costellazioni valoriali che hanno fondato le moderne società civili, e che oggi, invece, sembrano ripiegarsi su se stesse, in una sorta di drammatica eclissi del coraggio ci-vico, di crescente disimpegno e scoramento generale.
La frequenza con cui nel mondo profano si cerca di far prevalere la forza a discapito della ragione ci spinge non a rinchiuderci in noi stessi, quanto a reagire con la riproposizione di grandi argomenti sui quali riteniamo che si stia giocando il futuro di una civiltà intera.
Il trinomio che abbiamo proposto: Responsabilità, Partecipazione e Rinnovamento si lascia declinare in forme molteplici. Alcune fuoriescono dal nostro campo d’azione, altre sono profondamente intrinseche ad un processo di riflessione etica e soprattutto spirituale.

Con una certa sconforto ci tocca constatare che la Responsabilità sembra purtroppo la grande assente nella realtà dei fatti. Le classi dirigenti, non solo nello scenario pubblico, sembrano preferire il modello autoritario della deresponsabilizzazione, del privilegio fondato su un’autolegittimazione che scaturisce da posizioni dominanti e privilegiate rispetto a scenari di profonda sofferenza. Chi ordina sofferenze, spesso – e la realtà lo comprova – non sarebbe capace neanche di sopportarne la minima parte. E ciò è eticamente inaccettabile. Nelle vecchie scuole militari si insegnava che per ordinare agli altri di pulire le latrine, bisognava averlo fatto in precedenza; allo stesso modo, per poter pretendere da altri il sacrificio supremo bisognerebbe essersi trovati nella condizione di aver già ricevuto ordini simili. Insomma l’esempio e la dedizione sarebbero virtù essenziali. Al contrario, la filosofia spicciola dei “furbetti” i quali pensano che basti mandare i più sfortunati avanti, per poi passare a raccogliere un domani gli onori della vittoria, ma che nel frattempo hanno già pronta la via di fuga in caso di sconfitta, è una palese manifestazione di dispotismo e di abuso morale.

Il potere senza responsabilità è marca distintiva della tirannide, non della democrazia. Maggiore è la quantità di potere, maggiore è la responsabilità dinanzi a se stessi, dinanzi agli altri, dinanzi all’Essere supremo, comunque lo denominiate, che è figura di riferimento essenziale anche per la Libera Muratoria che lo riassume nella sigla GADU: Grande Architetto dell’Universo.
Molti non sanno che nelle fasi emozionanti che precedono l’iniziazione alla Massoneria il neofita si vede porre tre domande, che costituiscono il suo unico testamento massonico: gli si chiede, infatti, perentoriamente, di specificare quali siano a suo avviso i propri doveri, in ordine: verso l’Essere Supremo, verso se stesso e verso l’Umanità. Non si tratta di un giochino, né di un indovinello. Si desidera, invece, saggiare con tali questioni la coscienza morale di chi si avvicina alla nostra fratellanza su di un tema rispetto al quale tutte le istituzioni civili dovrebbero a loro volta interrogarsi e mettersi alla prova: quello della Responsabilità.

Per questo, il tema della Responsabilità ha costituito un filo rosso distintivo in questi anni di rinnovamento vissuti dalla Libera Muratoria; un rinnovamento che ha riguardato temi di natura diversa anche se tutti legati tra loro. Per fare solo qualche esempio, sul rapporto uomo-natura: possiamo lasciare ai nostri successori un mondo distrutto e violentato, senza più risorse utilizzabili? Sul rapporto tra etica civile ed etica individuale: quale spazio lasciare alle scelte dei singoli dinanzi al finis vitae? In una società che affronta la bioetica solo in modo strumentale, noi ci siamo interrogati sul dolore e sul rispetto della diversità delle scelte. E ancora: quale dovere abbiamo nei confronti dell’educazione e della formazione delle giovani generazioni attraverso la tutela e la valorizzazione della scuola e della ricerca scientifica? Un Paese che vede i migliori cervelli in fuga verso altri Paesi ci preoccupa, perché ciò è indice di una morte annunziata per il nostro futuro. Cosa faremo quando ci saranno rimasti i peggiori o i meno coraggiosi? Cosa faremo quando avremo regalato una élite professionale, intellettuale e scientifica per perdurare nel familismo, nella arrogante noncuranza delle eccellenze? Dove andremo mai? Il futuro è nelle scelte di oggi, nella nostra responsabilità. Oggi, ci troviamo nel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale, non solo economica, ma anche spirituale, “destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione” e della cultura. Queste le parole usate dalla filosofa Martha Nussbaum che prevede tinte fosche per il nostro futuro: la modernità, a suo avviso, sta accantonando quei saperi che sono invece indispensabili a mantenere viva la democrazia; se così sarà, allora formeremo “generazioni di docili macchine” e non di cittadini: non più in grado di pensare autonomamente, di “criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone”. In questa triste realtà, il futuro della democrazia appare veramente appeso a un filo.

La Massoneria non ha risposte ma insegna a fare domande, a creare uno spazio libero in cui voci diverse possano confrontarsi, in cui non domini un pensiero unico, quanto piuttosto l’incontro tra pensieri, religioni e filosofie diverse. E’ per questo che dalla Responsabilità scaturiscono anche la Partecipazione e il Rinnovamento: perché il cittadino diventa soggetto protagonista delle scelte presenti e delle conseguenze future.
Ma la libertà di coscienza non è un dono che viene dall’alto né una cosa che si può comprare: è una conquista. Perché essere cittadini è un impegno. “La patria di un cittadino è dove lui suda, piange e ride, dove pena per guadagnarsi la vita”, ha scritto Jorge Amado. Non si è cittadini sulla carta ma in una terra precisa, e lottando per giustizia sociale e diritti. Libertà, per noi Liberi Muratori, fa binomio con Laicità; entrambe sono componenti essenziali di ogni democrazia liberale costituita da cittadini che aderiscono a una pluralità di concezioni del mondo, nella bellezza della differenza e delle proprie idee civili e religiose. Vogliamo contribuire, come costruttori, a delineare un ethos civile che deve trovare il “vincolo” di una nuova convivenza, come incitava Giordano Bruno.

Il modello della Libera Muratoria può e deve essere un modello di crescita, uno strumento di consapevolezza. E un moltiplicatore, unendo ciò che è disperso. E’ questo il nostro compito, da sempre. Il Maestro d’Opera ha un solo amore: costruire. L’umanità, per noi, è infinitamente e definitivamente più importante dell’economia.
Per questo, proprio nelle difficoltà del momento presente, i Liberi Muratori del Grande Oriente d’Italia ribadiscono solennemente tutto il loro impegno intellettuale, morale e materiale per fornire un contributo che possa servire la società civile e il nostro Paese. E ciò attraverso tutti gli strumenti formativi che contribuiscano ad accrescere le istanze di maturazione del cittadino, a operare per rinsaldare il vincolo di fedeltà alle istituzioni civili, alla Carta Costituzionale ed al Pre-sidente della Repubblica, come autorità suprema garante dell’ordine e della democrazia.

Così come abbiamo fatto in occasione della nostra attivissima partecipazione alle celebrazioni per il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, con iniziative e manifestazioni di altissimo livello, come riconosciutoci anche dalle Istituzioni pubbliche, oggi ci troviamo non solo a ribadire, ma a rinsaldare quel patto di fratellanza stretto tra gli eroi del Risorgimento, i Padri della Patria, e l’Italia, che ora vediamo impegnata come parte integrante di una più vasta Comunità Europea, ove l’idea di Fratellanza deve tornare a svettare come marca distintiva. Alla Responsabilità, pertanto, vogliamo affiancare anche la solidarietà, un maggior senso di appartenenza comune, minori antagonismi nazionalistici e, soprattutto, lungimiranza. Le élites che hanno sbagliato paghino, ma non ci sembra tollerabile che un popolo intero come quello greco o quello cipriota sia ridotto alla fame. Dovrebbe essere l’idea stessa di Civiltà Europea a impedirlo.

Non saremo noi a proporre ricette, ma sappiamo che tutti nostri Fratelli sono attivamente impegnati, ciascuno secondo le sue convinzioni e la sua libera coscienza, a portare un contributo di ragionevolezza e di costruzione nell’edificazione di una più giusta casa comune.
Libertà di costruire significa proprio questo: realizzare una storia comune. Non soffiare sulle braci del malinteso ma fare strada all’incontro. Una prospettiva che non si costruisce a colpi di leggi o di pratiche religiose ma con una sensibilità etica che deve essere promossa per avere cittadini protagonisti e non sudditi, capaci di legami di autentica solidarietà. Laicità, pluralità ed etica del dialogo sono i presupposti per costruire. Quello che dobbiamo cercare, per costruire il futuro, è proprio il senso profondo dell’esistenza. E noi Liberi Muratori questo senso possiamo trovarlo nel nostro lavoro, sotto la volta stellata del Tempio massonico. E possiamo pertanto proporlo a tutti gli uomini che vogliano, come noi, insieme a noi, cercare nuove strade.

Il cammino massonico è un cammino iniziatico, in cui il tema centrale è quello del passaggio simbolico attraverso il buio della morte verso una nuova luce. Ciò dovrebbe servire ad aprire gli occhi a chi, nella sua immaturità, si crede immortale e avanza con la cecità intollerante di troppe acritiche sicurezze. La provocazione prodotta dalla Iniziazione serve ad apprendere il senso profondo della Fratellanza, non per farne uno strumento di prevaricazione, di favoritismo, ma una risorsa interiore, una forza morale in più da spendere quando si potrebbe vacillare. Dovere massonico è quello di contribuire al bene ed al progresso dell’Umanità. Non saprei come trovare una responsabilità collettiva maggiore di questa. Una responsabilità dinanzi alla quale ciascuno di noi ha assunto degli impegni verso l’Essere Supremo, verso se stesso e l’Umanità.

La storia che noi vogliamo è luogo di responsabilità, e spazio di accoglienza. Non bisogna avere paura: è sui confini che si promuove la ricerca. E’ guardandosi negli occhi che cadono le ombre.
Lo abbiamo fatto in questi 14 anni di Gran Maestranza, continueremo a farlo con l’orgoglio di essere uomini liberi e lo sguardo rivolto verso il futuro.
Questa è la nostra storia, questa è l’azione che porteremo avanti, nel Tempio e nell’agorà. Lo faremo con i labari e i libri, i convegni e i giovani che bussano numerosi alle nostre Logge. Lo faremo con intelligenza e passione, guardando con fiducia al domani e continuando a pensare, a volare alto e a costruire.
La nostra storia la scegliamo noi.

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IL SIMBOLISMO ALCHEMICO DI MARIA

Il simbolismo alchemico di Maria

(di Filippo Goti)

E’ indubbio come molti dipinti che ritraggono la narrazione sacra cristiana, e non a caso uso qui il termine cristiana in quanto mi riferisco a quella pluralità di espressioni religiose che sono nate dal cristianesimo (il quale è espressione spirituale e non formale), hanno valore e significato alchemico. Dove ovviamente, e correttamente, intendiamo l’alchimia come l’arte di mondare, separare, e trasmutare le varie componenti di quel mosaico cacofonico che è l’essere umano. L’arte sacra, con le sue codifiche avvenute dal VII secolo in poi, favorevolmente si è prestata a traghettare nel corso dei secoli messaggi iniziatici; e l’attento estimatore della stessa, a prescindere dal luogo e dal tempo, ha la possibilità di interpretare questi messaggi sapienziali tramite le forme, gli spazi, i colori intelligentemente miscelati dall’artista. Il quale artista è a sua volta “iniziato” all’arte in “botteghe”, per tramite della continua frequentazione del maestro e del fertile connubio che in tali ambiti esisteva fra arte, scienza, cultura, e religione.

Scuole di arti e di mestiere, di cui fin troppo si sente la mancanza in un mondo di molteplici maestri senza chiavi, e che aiutavano il genio a esprimersi.

1. Il Rosso, il Blu e il Bianco nell’Arte Sacra

http://www.fuocosacro.com/pagine/1/maria1.pngI capolavori del passato ci tramandano un’immagine della Madre di Gesù avvolta in un bianco splendente o in un blu che rimanda all’infinità del cielo, quando questi colori non sono entrambi utilizzati congiuntamente, assieme ad altri quali l’oro o il rosso. E’ però indubbio che è nel blu e nel bianco che i maestri dell’arte sacra hanno immortalato la Maria di cui stiamo trattando, intravedendo in essi lo strumento con cui veicolare il loro messaggio. Ovviamente nell’arte sacra i colori rivestono una particolare importanza, e sono a loro volta il frutto di sapienti miscelazioni di metalli ed estratti, in una sorta di alchimia meccanica, che è preludio di un’alchimia d’intelletto e di spirito. E’ quindi opportuno nel riferirmi alla preponderanza del bianco o del blu, legata ai sacri vestimenti, adottare i termini Maria Bianca o Maria Blu.

Nel linguaggio iconografico il bianco rappresenta la purezza, l’inizio di una nuova vita non macchiata dal peccato, oppure una vita che è stata preservata o mondata dalla corruzione terrena. Nei vangeli troviamo il bianco nella vesta battesimale, così come il Cristo è avvolto di bianco durante la resurrezione. Numerosi sono poi gli angeli che scendono sulla terra in bianche vesti, rappresentando essi il pensiero divino che in quanto tale non può che essere puro in sé stesso.

E’ quindi ovvio che la Maria Bianca rappresenti l’elemento della purezza così anche in rispetto ai dettami dogmatici quali l’Immacolata Concezione (Maria è stata concepita priva di ogni peccato e monda dalla corruzione della carne) Nascita verginale (Maria ha concepito Gesù senza conoscere uomo) Verginità perpetua (Maria non ha conosciuto uomini e non ha procreato dopo la nascita di Gesù).

Il Blu è l’altro colore con cui troviamo rappresentata Maria. Nel linguaggio sacro il blu, nelle sue varie gradazioni ed intensità, rappresenta il mondo spirituale come il rosso, ma con una profonda differenza. Mentre il Rosso è il colore dello Spirito, del divino in sé divino, il Blu rappresenta la creatura che liberandosi dalle passioni terrene, dalla corruzione di questo mondo, attraversa la soglia del divino. Troviamo questo colore quindi non solo nella rappresentazione di Maria, ma anche in quella degli Apostoli. Indubbiamente il blu rimanda anche all’idea stessa di vita, accogliendo in sé il colore delle acque e quello del cielo, ponendo l’accento quindi sulla natura umana e terrena della Maria. Mentre il bianco rimanda ad un’idea di staticità, il blu è un colore fortemente connesso al dinamismo, al mutare, alla trasformazione e alla vita impetuosa; per questo anche a mio avviso la sua affinità con il mercurio non può che essere piena.

Il Rosso è un colore che non di rado, seppur in misura inferiore al bianco ed al blu, accompagna le sacre rappresentazioni di Maria. Il Rosso è associato al fuoco spirituale, alla divinità amorevole che dall’alto dei cieli discende sulla terra, al sacrificio, all’azione di trasmutazione del fuoco. Il rosso è associato agli esseri spirituali, alle manifestazioni del divino tramite lo Spirito Santo, ed in genere è riservato allo stesso Gesù, in quanto la sua natura è anche divina. Qualora investa anche gli Apostoli o la stessa Maria, sottolinea come lo Spirito Santo sia disceso su di loro concedendo i suoi doni spirituali e ultrasensibili.

Il Rosso è il colore dei cherubini, i quali sono una schiera angelica posta oltre il trono divino, questo ad indicare la loro estrema vicinanza al potere e al pensiero divino.

Genesi 3,24 “E esiliò (il Signore Dio) l’uomo e pose a oriente del Giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante per custodire la via dell’albero della vita.”

E’ un rosso, quello iconografico, che rappresenta un amore divino intenso a cui niente che è impuro si può opporre, un amore che è forza dirompente che tutto arde senza consumare ciò che è puro.

2. Il Sale e Mercurio

http://www.fuocosacro.com/pagine/1/maria2.png Prima di procedere è bene ricordare come gli alchimisti solevano attribuire ai vari elementi, fasi dell’opera, colori ed oggetti, dei significati ed attributi spesso intercambiabili, in guisa della scuola di appartenenza o delle necessità comunicative. In quanto se variabile poteva essere il processo con i suoi elementi, il risultato dell’Opera non doveva mutare: la trasmutazione in oro del grossolano, la separazione di ciò che è puro da ciò che è impuro. Del resto l’arte alchemica è per l’appunto un’arte, e come tale non può e non deve essere imbrigliata in schemi fin troppo meccanici e ripetitivi, volendo essa stessa rompere le catene ove l’umana natura ci ha costretto. Via umida e via secca sono termini didattici, è male coglie a colui che pensa di imporre una manichea separazione fra le stesse. Nel processo alchemico spesso ci rendiamo conto che brucia maggiormente l’acqua, resa corrosiva, rispetto al fuoco a fiamma lenta. Il quale processo alchemico è costellato di rischi difficilmente calcolabili, poiché investe una serie quasi infinita di elementi, quasi mai inerti, di combinazioni e permutazioni.

Terminate le considerazioni precedenti, non rimane che chiederci a quali elementi dell’opera alchemica è associata Maria Madre?

Seguendo la logica dell’arte sacra, che vuole una Maria con addosso bianche vesti, o una Maria con la tunica o il velo blu, possiamo quindi introdurre il concetto della Maria Bianca e della Maria Blu. La prima riconducibile al Sale e la seconda al Mercurio,che come ricordava Gerhard Dorn (XVI secolo) il blu, nelle sue varie sfumature, è il colore del mercurio.

Il sale è elemento alchemico associato al corpo e alla materia per la sua qualità di cristallizzarsi, di raccogliere in forma i suoi elementi essenziali. Il sale nasce dall’evaporazione delle acque per mezzo del fuoco. Questa sua duplicità (acqua e fuoco) la ritroviamo nelle sue caratteristiche ambivalenti di elemento che induce conservazione, ma anche di distruzione tramite corrosione. Il Sale va quindi dosato secondo i bisogni e le necessità, e così come il sale volgare in virtù della cristallizzazione si organizza in forma, così il sale filosofico è quell’agente che sul piano sottile dispiega la forma adeguata attorno allo spirito. Questa la Maria Bianca, vergine e pura, che a seguito dell’annunciazione, concepisce Gesù: dando quindi forma all’essenza.

Matteo 1:18

La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.

Luca 1:34

Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?»

Luca 1:38

Maria disse: «Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola». E l’angelo la lasciò.

Come in precedenza suggerito la Maria Blu è associata al mercurio. Questo elemento per gli alchimisti è la semenza del metallo, attraverso cui è possibile, con l’aggiunta delle adeguate misure e qualità ignee dello zolfo, conseguire ogni altro metallo, fra cui ovviamente l’oro alchemico. Il mercurio è associato al femminile, alla passività, all’umidità, e alla fertile indifferenziazione. Il mercurio corrisponde quindi ai fluidi, all’acqua, ma anche al seme (per la tradizione occidentale il seme femminile, mente lo zolfo corrisponde al seme maschile). Il Mercurio non da forma a ciò che non è forma, niente esso attiva e raccoglie in se. In quanto il mercurio per sua primaria natura è polimorfo, ed assume esso ogni forma insita nel suo essere semenza metallica.

« Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea, e c’era la madre di Gesù. E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”. Gesù le disse: “Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta”. Sua madre disse ai servitori: “Fate tutto quel che vi dirà”. C’erano là sei recipienti di pietra, del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei, i quali contenevano ciascuno due o tre misure. Gesù disse loro: “Riempite d’acqua i recipienti”. Ed essi li riempirono fino all’orlo. Poi disse loro: “Adesso attingete e portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. Quando il maestro di tavola ebbe assaggiato l’acqua che era diventata vino (egli non ne conosceva la provenienza, ma la sapevano bene i servitori che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Ognuno serve prima il vino buono; e quando si è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora”. Gesù fece questo primo dei suoi segni miracolosi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui. »

(Vangelo secondo Giovanni 2,1-11)

L’angelo dell’Annunciazione e il Gesù delle nozze di Cana altro non rappresentano che lo zolfo, (il terzo elemento alchemico alla basa di ogni sostanza ed elemento, principio attivo e maschile), che combinandosi in modo ed intensità diverse determina nel primo caso il concepimento del Lapis-Cristo, e nel secondo caso la trasmutazione della materia (nel primo caso lo zolfo impone al sale di cristallizzarsi, nel secondo caso è il mercurio che ha azione di reagente o di acceleratore alla sua azione). Ovviamente i tre elementi sono comunque e sempre presenti, seppur in dose diverse in ogni processo, ed anche la loro apparente assenza va letta come non azione esplicita, ma potenziale. Così come nel simbolismo dell’arte sacra la successione dal bianco al blu, o dal blu al bianco per la madonna altro non è che la volontà di far risaltare la purezza come elemento necessario alla divinazione, oppure la sua condizione di privilegiata fra le creature e da cui la purezza. Nell’immaginario alchemico si procede dall’interno verso l’esterno (questa la successione, in quanto le prime fase sono interiori al crogiuolo), indica le fasi dell’Opera, e le dosi necessarie agli elementi dell’Opera. Così se è il bianco a costituire il vestito e successivamente abbiamo un velo azzurro, è suggerito come sia necessario prima immettere il sale nel crogiolo e successivamente il mercurio, oppure come nel caso dell’annunciazione abbiamo un Angelo, significa che la Lapis Bianca, rappresentata da Maria, deve essere ancora sottoposto alla forza dello Zolfo, al fine di concepire il Lapis Cristico.

Ai tanti che sostengono come la Maria Maddalena è sempre raffigurata di rosso, mentre Maria Madre di Gesù di bianco o blu, è bene ricordare che questo confronto ha ben poco senso, in quanto si pretendere una valutazione qualitativa, laddove questa non vi è rappresentando le due Marie momenti e vie diverse dell’Opera stessa. Del resto l’arte sacra ci tramanda innumerevoli opere dove Maria Madre ha vestimenti di color rosso, questo ad indicare come l’elemento spirituale inevitabilmente arda in lei, anche se l’iconografia classica si predilige porre maggiormente l’accento sul bianco ed il blu. E’ pur bene riflettere, quando siamo davanti ad una sacra rappresentazione dei secoli passati, quale indumento assume il colore bianco, blu o rosso, e quale processione questi colori rappresentano: la veste è legata alla corporeità, il velo all’intelletto, il manto al diaframma fra ciò che è dentro e ciò che sta fuori.

L’opera alchemica, così come gli elementi alchemici, non è un ferreo alternarsi di operazioni fra loro slegate, ma è un costante e circolare calcinare, separare, riorganizzare, sublimare e trasmutare. Dove i vari elementi raccolgono attribuiti e qualità, seppur in intensità diversa, gli uni dagli altri.

http://www.fuocosacro.com/pagine/1/maria4.pngIl sale e i suoi cubici cristalli sono tratti dall’acqua grazie all’azione del fuoco, ma è esso stesso fuoco che brucia sulla carne viva, che corrode gli elementi, che assorbe l’umido. Così come il mercurio assorbendo il sale, si purifica a sua volta, risultando capace di mondare da ogni incrostazione opprimente e velante l’oro.

Vale qui in ultima analisi il detto che solamente chi ha l’oro può fabbricare l’oro.

Nel secolo XV apparve ad opera di un francescano errante di nome Ulmannus un testo alchemico dal nome Libro della Santa Trinità (1415-1419), che associa alle varie fasi ed elementi alchemici temi proprio della mistica e dell’iconografia cristiana. In questo testo alchemico, ancora oggi largamente indecifrato, si narra come l’Uomo sia nato dall’azione congiunta di un duplice Sole: Il Sole Spirituale ed il Sole Nero. Seppur non è questa la sede di narrare delle similitudini fra questo testo e la sapienza gnostica, rimanendo nel solco del presente lavoro è interessante notare come il Sole Spirituale sia un Rebis formato da Gesù “la pietra maschile della purezza”, e da Maria “la pietra femminile della Grazia”, la loro unione avviene nella plenitudine del Dio Padre “la pietra oleosa”. Nel libro della Santa Trinità si sottolinea come anche Maria è consunstanziale al Padre, e non solo Figlio, in quanto anche lei sarebbe nata nello Spirito Santo. Dando quindi vita ad una matrice il cui dissolversi e coagularsi è il punto di origine di ogni essere ed ogni creazione. E’ interessante notare come la Maria tratta nell’immagine a corredo sia avvolta in vesti di un blu intenso, sottolineando quindi il suo carattere squisitamente mercuriale. Essa viene incoronata, sacralizzata, dal Cristo verde (sale), e dal Padre rosso (zolfo), durante un’azione congiunta.

Nel rinascimento i circoli neoplatonici, i mistici cristiani, si espressero attraverso ardite, quasi surrealiste, visioni del rapporto esistente fra Creatura e Mondo Divino, per cui non possiamo stupirci che in tale fervore culturale e sapienziale le vie proposte all’Opera Alchemica ricordano più un percorso individuale, che una strada maestra per molti.

3. Conclusione

Abbiamo visto, in questo lavoro introduttivo, come arte sacra, misticismo ed alchimia sono depositi dello scibile iniziatico fortemente connessi, e malgrado questo lavoro non intenda fornire espliciti suggerimenti operativi ma promuovere solamente delle riflessioni, è indubbio come un’Opera Reale non possa essere privata di questi apporti, così come del genio individuale.

Il tendere della Maria dal bianco al blu, dal sale al mercurio, da ciò che è cristallino a ciò che è metallica semenza, dal mondo organico a quello metallico, non è altro che il mutare di ogni elemento su questo piano. Elemento che in virtù della presenza della scintilla divina, zolfo, del fuoco trasmutatore, modifica il proprio stato e composizione in guisa di un’opera in perenne corso e senza soluzione di continuità. Così se è il sale che si rende forma e raccoglie lo Spirito disceso dal mondo superiore, in quanto su questo piano tutto deve avere una forma, ciò avviene perchè sussiste il mercurio passivo e femminile che incontra il mercurio maschile ed ativo, in modo tale che alla semenza divina pura in quanto pura essenza, si unisce la semenza femminile di una pietra pura poiché preservata dalla corruzione. Così è la Maria Blu, in cui l’elemento mercuriale ha maggior rilevanza e presenza, che agisce nelle nozze di Cana, spingendo il figlio a manifestarsi e compiere il Miracolo. Del resto non è compito del mercurio, adeguatamente attivato dal sale, mondare e rendere espresso il Lapis, qui rappresentato dal Lapis-Cristo ?

Come la stessa Alchimia tramanda ed insegna gli elementi sono finiti a fronte di infinite combinazioni e permutazioni. Così il singolo elemento sottoposto all’azione ripetuta degli altri elementi, più e più volte modifica la propria composizione e qualità. Così la Maria Bianca e la Maria Blu possono essere intese come l’espressione di un unico elemento che ha attraversato varie fasi di lavorazione.

E’ quindi la prospettiva e la scienza alchemica che si riveste di elementi cristiani, oppure è il nucleo essenziale del mistero cristiano ad essere uno scrigno alchemico?

(Autore: Filippo Goti)

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Dicembre 2012

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DUE PASSI IN MAREMMA

DUE PASSI IN MAREMMA “Insolita e misteriosa” (Marisa Uberti) Ritorniamo in Maremma, con piacere, dopo qualche tempo; questa volta scendiamo un po’ più a sud e ci portiamo in alcune località assai suggestive, sia costiere che dell’entroterra, dove il paesaggio … Continua a leggere

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PEDAGOGIA DELLA LIBERTA

PEDAGOSGIA  DELLA LIBERTA’

Gran Loggia 2007

“Pedagogia delle libertà”

Allocuzione del Gran Maestro Gustavo Raffi

 

Gentili Autorità intervenute, Signore e Signori, Carissimi Fratelli,

 

il Grande Oriente d’Italia non ha finalità partitiche o interesse nell’azione politica, che deve svolgersi conformemente alle regole democratiche in altri contesti ed in altri ambiti istituzionali.

La nostra funzione appare, invece, quella di stimolare la società civile su temi qualificanti, intorno ai quali riteniamo di poter portare un contributo sereno e razionale, in modo da prendere parte al difficile cammino di costruzione di un contesto civile migliore e più giusto.

Sulla scorta degli esempi più limpidi della Libera Muratoria, la nostra Comunione cerca di assumere un ruolo preciso, quello di spazio fecondo per la libera elaborazione di un pensiero critico, che esalti la voce di una dimensione laica ed interculturale, purtroppo non sempre gradita nel nostro paese. Ben più di un’agenzia della moderna laicità – come l’ha definita con rispetto lo storico Paolo Prodi -, la Massoneria contemporanea svolge nuovamente un ruolo storico di azione intellettuale e socio-culturale, volta non tanto alla difesa, quanto piuttosto all’espansione di tutti quei principi etici che conformano la Carta dei Diritti Umani e che cementano le fondamenta necessarie per ogni prassi civile indirizzata alla realizzazione di una “tolleranza” attiva e costruttiva.

Il nostro operare fuori dalla politica ci lascia fortunatamente quello spazio enorme che permette di soppesare con profondo rispetto le ragioni e gli argomenti di tutti, di meditare soluzioni diverse in uno spirito di continuo esame e di dubbio permanente, senza aspirare al successo in termini di numero o di potere. Per tutte queste ragioni, il tema fondamentale scelto quest’anno, quello della “Pedagogia delle libertà”, non è affatto né casuale né banale. Nel corso del suo lungo cammino, la Massoneria si è di norma posta come laboratorio di idee, come spazio libero e adogmatico di incontro tra uomini diversi, che, attraverso il dialogo e lo studio, accrescono la loro spiritualità, affinano la conoscenza, rinsaldano la morale e si preparano a vivere socialmente, in forza dei valori di tolleranza, libertà, eguaglianza e fratellanza.

Vi rammento che i Massoni hanno sempre lavorato alla costruzione delle più importanti istituzioni democratiche, alla redazione delle costituzioni moderne, alla definizione filosofico-giuridica dei principi fondamentali sui quali sono state create istituzioni straordinarie come la Società delle Nazioni, la Croce Rossa ecc.; non dimentichiamo, inoltre, che i Liberi Muratori hanno sistematicamente lottato per il suffragio universale, per la scuola pubblica e gratuita, per l’abolizione della pena di morte, lavorando attorno ad un’idea in continuo rinnovamento della piena dignità dell’uomo. Che tale patrimonio democratico e libertario, mirante alla difesa della centralità dell’essere umano, come soggetto e non come oggetto educativo da indottrinare, come protagonista responsabile delle sue scelte e non come suddito o bolso consumatore di merci, venga spesso sottaciuto non ci stupisce affatto, anche se tale silenzio non ci impedisce di continuare su questo duro sebbene al contempo necessario ed entusiasmante cammino.

Che cos’è infatti la Massoneria se non una palestra di continua e mutua educazione! Chi entra in Massoneria, lo fa perché sente la necessità di perfezionarsi attraverso un cammino spirituale e, conseguentemente, accetta un percorso che lo costringe a mettersi in discussione, ad affrontare attraverso i nostri rituali alcuni temi archetipali di enorme profondità. Desidero ancora una volta sottolineare che la Massoneria educa anche a non trovare le risposte essenziali già confezionate. Al contrario di tante associazioni politiche e religiose, il Massone viene da subito invitato a non accontentarsi della vulgata comune o a credere supinamente a quanto gli viene detto anche in Loggia, e non solo fuori. I riti, i simboli, intorno a cui lavoriamo, servono a suscitare interrogativi, dubbi, perplessità, e richiedono risposte che non sono aprioristicamente determinate o scontate, ma alle quali ciascuno deve avvicinarsi in un continuo adeguamento delle sue conoscenze e delle sue sensibilità.

Tali caratteristiche rendono la Massoneria una realtà atipica, poiché essa non impone affatto un credo, né smentisce le verità eventualmente proposte da altri; semplicemente, si fa per dire, invita l’iniziato a rimeditare quanto egli ritenga di aver conosciuto in via definitiva e a ritornarvi sopra in modo più profondo e critico, grazie al libero esame e al confronto critico con gli altri. Si tratta, pertanto, di esperire attraverso il lavoro nel Tempio una pedagogia di libertà, adogmatica, aperta alla conoscenza ed al dubbio costruttivo, ma anche pronta a misurarsi con le nuove scoperte o con nuove e originali prospettive, mai assunte però in forma unilaterale.

 

La Massoneria dovrebbe per sua costituzione essere anticonformista, e quindi pronta a cogliere i nuovi stimoli che attraversano la società, ma allo stesso tempo così matura da saperli coniugare con la sua tradizione di prudenza, di saggezza e di pacata riflessione. Questo, insomma, è o dovrebbe essere, quando vi riusciamo, il nostro lavoro. Non bisognerebbe stupirsi, allora, a fronte di una così particolare impostazione, del fatto che i Massoni si sentono oggi profondamente colpiti dalla inadeguatezza con cui aspetti etici fondamentali per tutta la nostra società vengono di fatto trattati.

Da tempo abbiamo espresso la nostra preoccupazione sul fatto che la laicità dello Stato si stia profondamente annacquando. Ogni tema cruciale diventa oggetto di un negoziato tra teologia e mondo laico, tra proclami da crociata e richiami al dogmatismo religioso e accordi più o meno sottobanco, in un mercato delle libertà che ci appare inqualificabile. Non solo il nostro paese si è ritrovato con una delle peggiori normative rispetto alla ricerca scientifica concernente i diversi aspetti della genetica e della fecondazione artificiale, ma si è tecnicamente dichiarato che la fecondazione eterologa sarebbe un reato per puri motivi legati ad una posizione teologica specifica, non condivisa né dalla comunità scientifica né da una parte della stessa Chiesa Cattolica.

Il fatto poi che prestigiose istituzioni religiose abbiano proposto una pedagogia del disimpegno invitando i cittadini a non votare in occasione del referendum, nel merito del quale il Grande Oriente d’Italia non aveva espresso alcuna indicazione di voto se non quella di esercitare il diritto di voto, è stato indice di una manifesta strategia diseducativa nei confronti soprattutto delle generazioni più giovani. Come istituzione pedagogica la Massoneria non poteva infatti delegittimare uno dei più importanti strumenti della libertà di espressione del cittadino e per questa ragione invitare soprattutto i giovani a mantenere alta la considerazione per le dinamiche essenziali del confronto democratico, denunciando come scellerato l’invito, da qualunque parte provenisse, a disertare le urne. Ma altri e più difficili argomenti sono emersi nel panorama presente e di fronte ai quali non possiamo tacere.

I Massoni non hanno timore di interrogarsi sul tema del dolore e della morte, ma anche di porsi qualche interrogativo nel merito sulla questione del diritto di concludere con dignità il cammino dell’esistenza. Nessuno di noi si sente perciò nella posizione di poter giudicare, o peggio condannare come peccatori coloro che, esaurite tutte le possibilità messe a disposizione della medicina e posti in una condizione umiliante, chiedono che sia interrotto l’accanimento terapeutico a cui sono stati sottoposti. Non si sta invocando una deregulation che liberalizzi o incentivi il suicidio, ma vorremmo che ogni essere umano, date certe condizioni ben definibili sul piano scientifico e deontologico, possa restare padrone della sua vita e della sua morte e non giacere come un prigioniero incatenato ad un corpo che è divenuto per lui solo una prigione inaccettabile. La vita è certamente un dono, e rispettiamo coloro che ritengono inaccettabile abbandonarla anzi tempo anche se posti nelle peggiori condizioni. Si tratta di una convinzione che fonda le sue ragioni in motivazioni profonde e serissime, ma tale convinzione dovrebbe legittimamente determinare le scelte di coloro che la professano, e non ricadere come un diktat valido per tutti. Riteniamo che ci siano momenti dell’esistenza (o di un’esistenza che non è più pienamente tale, almeno per chi soggettivamente la sta esperendo) davanti ai quali lo Stato dovrebbe rispettare la dignità e la libertà di coscienza del cittadino, di chi in particolare patisce in prima persona; momenti in cui il giudizio altrui debba essere sospeso ed in cui le diverse opzioni etiche, religiose, culturali e spirituali abbiano il pieno diritto di coniugarsi nella loro libertà, ma anche nella loro diversità. Non è ammissibile che una sola pretesa verità assoluta possa essere imposta alla comunità civile come l’unico vincolo etico-morale da accettare senza deroghe. Lo Stato laico ha il pieno dovere di rispettare il dolore e, nei casi stabiliti, riconoscere la legittimità da parte del singolo di sottrarvisi, poste determinate condizioni. Una sorta di dittatura morale sul corpo malato viene, invece, spacciata come valore universale, mentre si tratta piuttosto di un’imposizione illiberale di stampo totalitario. Ricusiamo, inoltre, tutte le accuse che, anche di recente, vengono evocate contro le famose lobby laiciste, che minerebbero i valori fondamentali della vita e della società. La Chiesa Cattolica non ha mai condannato in modo inequivocabile né la pena di morte né lo strumento della guerra e, nella sua storia plurisecolare, ha fatto uso sia dell’uno sia dell’altro quando lo ha ritenuto necessario. Peraltro, sappiamo bene che molti Massoni per ragioni di coscienza non accetterebbero mai l’eutanasia, ma allo stesso tempo essi non imporrebbero mai agli altri una loro scelta personale su di un argomento così ontologicamente privato e terribilmente lacerante. Questa per noi è libertà nella diversità; esercizio delle proprie convinzioni senza vincoli teologici da imporre agli altri. La Chiesa ha certamente tutto il diritto di richiamare i suoi fedeli alle proprie verità, alla sua teologia, alla sua morale. Crediamo che sia invece inaccettabile che essa ritenga di poter assumere una tutela morale sulla libertà di coscienza di tutti gli Italiani, e soprattutto sul loro Stato, in modo che le sue leggi non siano conformi ai principi di laicità riconosciuti dalla Costituzione Repubblicana, ma a quelli dell’autorità religiosa. Le invettive contro il laicismo e, soprattutto, contro il relativismo di cui saremmo uno dei principali colpevoli sono molto deboli e argomentate solo sulla base di una faziosità aprioristica.

 

Anche in questo frangente, siamo costretti a constatare che il relativismo è proprio di coloro che non sanno uscire da una cornice ristretta, considerata come efficace e vincolante in eterno, senza che essa sia mai soggetta a discussione e, come invece accade nelle scienze moderne, al criterio di falsificabilità. Relativismo è questa terribile autoreferenzialità che rende una parte del pensiero teologico assolutamente impermeabile al mutamento delle conoscenze, dei paradigmi storico-epistemologici, e che ripete nei secoli, senza ammettere il diritto di scelta, la propria posizione inamovibile. Non basta criticare l’antimodernità dei fondamentalismi, quando non si riconosce la legittimità di opzioni altre, di percorsi alternativi e soprattutto di categorie non subordinate ad un preciso sistema teologico-filosofico. La certezza del possesso della verità assoluta non può tramutarsi in una imposizione generalizzata da parte di una Chiesa sull’intero corpo sociale se non in una teocrazia.

Non si fraintenda. La Massoneria non combatte le religioni; anzi, spesso ha facilitato il dialogo tra gli appartenenti a fedi e confessioni diverse ed ancora oggi, in molti paesi extraeuropei, essa resta uno dei migliori veicoli per la diffusione dei valori di convivenza laica e democratica, secondo la lezione del parlamentarismo britannico che attraverso le logge si è irradiato a partire dal ‘700 in tutto il nostro continente ed oltre. I Massoni agiscono con riferimento alla grande opera del Grande Architetto dell’Universo, e per questa ragione considerano il loro simile un fine e non un mezzo, sempre pronti a cercare la via del confronto aperto e aprioristico. Anziché riunirsi tra omologhi, essi aspirano a coinvolgere persone di estrazione, idee e culti diversi, perché è in tale complessità che ritengono di acquisire maggior saggezza e conoscenza. La paideia massonica insiste infatti su un metodo che ad ogni passo ribadisce la provvisorietà del nostro sapere, come i nostri Templi, la cui volta rappresenta un cielo stellato, simbolo della incompletezza dell’opera già svolta e della necessità di andare oltre sul cammino della sapienza e della verità. Per il massone, scoprire di avere torto è un risultato positivo, giacché egli si rende conto di aver lasciato indietro un errore a cui era in precedenza legato e non una sconfitta irrimediabile. Tale via non è contro le religioni, anzi può arricchire l’homo religiosus, aprendogli prospettive nuove e mai immaginate in precedenza. Si tratta, pertanto, di vivere una dimensione di incessante ricerca del perfezionamento interiore, che si apre all’altro ed alle sue diverse prospettive, che si muove tra trasparenze ed ostacoli, senza mai rinunciare all’ascolto ed alla tolleranza. Questi i nostri strumenti ed i nostri valori antichi, la cui validità ci pare inalterata ancor oggi. Ritorniamo così al tema della pedagogia delle libertà. Nel solco di una storia secolare, vogliamo ribadire l’importanza della scuola pubblica e della formazione universitaria, così come dell’educazione permanente degli adulti.

Ogni investimento dedicato ai giovani, alla costruzione di una identità forte, matura, attenta ai cambiamenti epocali ed alle sfide della modernità, non può che ritornare in futuro decuplicato nei suoi effetti. Il cittadino viene formato a partire dall’asilo, attraverso la serietà e la professionalità di coloro che ne curano la crescita.

In Italia, paradossalmente, la figura degli insegnanti, a partire dai maestri elementari, sembra rimasta ancorata ad un passato in cui il solo fatto di andare a scuola, in un’aula calda o perlomeno non gelida, doveva apparire come un privilegio. E’ inevitabile richiamare allora la memoria di uno dei più grandi massoni italiani del passato, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte, Giosue Carducci, il quale dal suo magistero non cessò mai di sottolineare la radicale importanza dei docenti, del loro ruolo civile, attori principali nel processo di costruttori di un paese e della sua identità, enfatizzando quindi la straordinaria fecondità dell’istituzione scolastica.

 

Inoltre, bisogna insistere sulla fondamentale importanza della Scuola di Stato come strumento di integrazione degli stranieri, come luogo di costruzione dei cittadini futuri, evitando che si cada nel modello della scuola-ghetto, ove le diverse confessioni si fabbricano il proprio modello educativo in una sorta di tregua armata con le altre comunità. Il rischio è quello di allevare nuovi relativismi, nuovi fondamentalismi, fucina di uomini e donne che non si identificheranno affatto con la Costituzione della Repubblica e con la società aperta, ma solo con la propria comunità. La costruzione di un processo di pace mondiale passa anche attraverso queste sfide locali, o se si vuole, glocali, giacché la postmodernità insegna che anche la dimensione più piccola può assumere rilevanza generale in determinati momenti. Proprio perché uniformata a profondi principi di auto-educazione del cittadino, la Libera Muratoria esalta la valenza positiva di tutte le istituzioni formative e pedagogiche preposte alla formazione dell’individuo. Non è compito della Libera Muratoria pronunciarsi su temi scottanti quali quelli dei cosiddetti PACS o DICO; diverse sono le opinione dei singoli massoni su tale questione. La materia è certamente difficile, ma non sembra degna di un paese maturo una discussione basata su proclami e scomuniche, sui richiami alla famiglia naturale senza una riflessione assennata sulla complessità della vita di relazione e sulle sue costellazioni che da essa scaturiscono nella realtà del XXI secolo. Ci troviamo allora dinanzi a paradossi bizzarri. Si difende a giusto titolo la famiglia naturale, che in realtà è il frutto di una complessa evoluzione storica e sociale, mentre non si ricorda che nel nostro paese è diventato drammatico per le donne lavoratrici avere figli, senza strutture adeguate e senza servizi degni di questo nome. Dove le adozioni sembrano delle Forche Caudine e la possibilità di trovare un lavoro stabile alza sempre di più l’età media dei giovani che entrano finalmente nella dimensione del mondo degli adulti. Abbiamo però anche qualche dubbio sul fatto che la famiglia naturale, una volta costituita secondo il rito concordatario, possa essere sciolta dai tribunali rotali, cancellando giuridicamente anche gli effetti civili, come se nulla fosse mai accaduto. Si danno infatti pesi e misure diverse e fortemente squilibrate a svantaggio della dignità di uno Stato Laico. Auspichiamo, quindi, per il futuro che tali problemi siano oggetto di un confronto civile e aperto e non di un nuovo braccio di ferro tra la dottrina della fede e la società civile. Le valenze pedagogiche della sociabilità massonica si coniugano in una contesto più ampio ed articolato, che non si pone affatto al di fuori di un atteggiamento responsabile rispetto alla complessità sociale del mondo globalizzato, che appare determinata da una dinamicità sino a qualche anno or sono inimmaginabile. La realtà sociale è, infatti, attraversata da rapidi mutamenti nei modelli culturali, nei costumi, negli atteggiamenti e nei comportamenti, individuali e collettivi, che impongono o, comunque, ingenerano continui adattamenti e innovazioni. La complessità, a sua volta, è foriera di numerose sfide per l’uomo d’oggi. Per altro verso, i progressi nel campo scientifico e tecnologico, i processi di globalizzazione dell’economia, le nuove emergenze planetarie, i forti flussi migratori provenienti dai Paesi più poveri e il sorgere di nuovi razzismi costituiscono ormai una sfida sociale, culturale e politica molto impegnativa per le società occidentali. In effetti, i temi, i problemi e le prospettive appena richiamate si configurano come fattori di disagio esistenziale. D’altra parte, l’espansione esponenziale delle informazioni veicolate dai mezzi di comunicazione di massa mentre, da un lato, offre possibilità di istruzione e di stimolo culturale, induce, dall’altro, pericolosi atteggiamenti di conformismo e rischi crescenti di manipolazione. Questi scenari ci consentono di concludere che viviamo immersi in una società complessa e cognitiva ma, ahimé, anche incerta e, perché no?, sotto molti aspetti, volgare (assolutamente priva di finezza, di signorilità, di garbo) e sguaiata (mancante di decoro, di decenza, di educazione); inoltre, inducono ad inquietanti interrogativi, che potremmo sintetizzare nel seguente quesito: «Che tipo di uomo per questa società?», non dimenticando, però, di aggiungere: «per immaginare e realizzare un mondo migliore?».

Ora, è ovvio che la risposta più immediata sia « un uomo capace di dominare la complessità e di ritrovare, di conseguenza, l’orizzonte di senso». Facciamo riferimento, quindi, ad un uomo, dotato di autonomia intellettuale e di creatività progettuale, protagonista della sua esistenza, che egli nobilita ad ogni istante con i valori che gli sono propri, la volontà e la libertà, e che gli consentono, queste ultime, di essere e mantenersi persona.

 

Ma, oggi, esistono “condizioni fisiologiche” che aprono una prospettiva positiva in tale direzione? O sono ben presenti nel contesto contemporaneo premesse che favorirebbero ben altre e pericolose derive? La risposta a questi interrogativi non è di quelle che possono essere date con superficialità. Non è difficile dedurre che oggi sono molte quelle che potrebbero essere definite emergenze esistenziali. E’ ragionevole, allora, ritenere che il futuro attende il loro superamento, impone una necessaria ed ineludibile rimodulazione delle coordinate che garantiscono all’uomo il recupero di una dimensione in grado di consentirgli un’esistenza in sintonia con se stesso e con il mondo. Ed è questo il progetto che postula, legittima ed invoca il contributo del pensiero e dell’azione della Massoneria. Occorre allora individuare quale ruolo potrebbe essere giocato dal Grande Oriente d’Italia, nel processo di costruzione della civiltà del terzo millennio, soffermandoci sul perchè della sua presenza, sui suoi principi e sulle sue finalità, sugli obiettivi da individuare e proporre ed sui conseguenti compiti da svolgere. Sotto il primo profilo, quello della presenza, la Massoneria trova una legittimazione filosofico-ideologica in quanto ha elaborato ed è portatrice di una propria Weltanschauung che contempla il rispetto delle diversità, alimentato e nobilitato dall’adozione dei valori dell’uguaglianza, della fratellanza, della libertà e della tolleranza; ma ha anche una propria paideia, per una pedagogia dell’umano. In ordine ai principi ed alle finalità, invece, le sarà sufficiente attestarsi su quelle adottate fino ad oggi, che possono essere riassunte nella dichiarata volontà di lavorare per il bene ed il progresso dell’umanità. La Massoneria è e resta un Ordine iniziatico i cui membri operano per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e dell’umana famiglia; che propugna la tolleranza, il rispetto di sé e degli altri, la libertà di coscienza e di pensiero, promuove l’amore per il prossimo e ricerca tutto ciò che unisce fra loro gli uomini ed i popoli per meglio contribuire alla realizzazione della fratellanza universale. Inoltre, essa afferma l’alto valore della singola persona umana e riconosce ad ogni uomo il diritto di contribuire autonomamente alla ricerca della verità. La Massoneria, poi, è apolitica e non tratta questioni di politica e di religione. Il massone presta la dovuta obbedienza e la scrupolosa osservanza alla Carta Costituzionale dello Stato nel quale risiede ed è tenuto ad astenersi dal partecipare, sostenere o incoraggiare qualsiasi azione volta a turbare l’ordine liberamente e democraticamente costituito della società. Quanto agli obiettivi, la Massoneria si configura come un laboratorio di idee, motore, quindi, di una propria elaborazione culturale e di una propria proposta di fronte ai grandi temi che si affacciano, di volta in volta, sulla ribalta della società. La Massoneria intende abitare il futuro sorretta dalla certezza di una “tradizione” ideologico-esoterica costituitasi nel tempo e che annovera tra i suoi protagonisti personaggi che hanno contribuito a fare la storia del mondo. Fin dai suoi albori speculativi la Massoneria ha saputo immaginare un progetto rivelatosi formidabile fattore di cambiamento per il mondo intero. Questo progetto, fra l’altro, contemplava e contempla: diritti civili, libertà, uguaglianza, organizzazioni internazionali a garanzia delle tutela di questi stessi valori e così via. Quali gli ulteriori obiettivi la Massoneria può oggi individuare per continuare a contribuire al bene ed al progresso dell’umanità? Per ora, nell’impossibilità di enumerarli, anche perché molti saranno definiti in itinere lungo il procedere della civiltà del terzo millennio, è sufficiente sottolineare che essi sono compresi nel Progetto di un Nuovo Umanesimo per il Rinascimento dei valori, la sola via per pervenire ad una Civiltà della Persona edificata sui fondamenti culturali della Massoneria, vale a dire, uguaglianza, libertà, fratellanza, tolleranza; valori, questi, che conducono all’amore gratuito dell’uomo per il proprio simile. Si tratta di un Nuovo Umanesimo inteso come consapevole conquista di un nuovo senso dell’uomo e dei suoi problemi, che possa veramente preludere ad una “rigenerazione” della civiltà, ad una Renovatio, cioè alla Rinascita dello spirito dell’uomo, appunto. La Massoneria concorre responsabilmente e produttivamente alla ricostruzione/ricostituzione dell’uomo, affinché l’esito delle dinamiche presenti nell’attuale momento storico non conduca ad una mesta deriva per la cultura e per la civiltà. La ri-costruzione dell’uomo è resa possibile dall’abbandono dell’etica dell’emergenza e dalla contestuale adozione di un’etica della responsabilità: mettere l’uomo al centro della vita può e deve, allora, rappresentare l’imperativo etico e/o la consegna esistenziale per combattere la “caduta delle evidenze etiche”, la “disaffezione alla socialità” e la “quasi stanchezza della democrazia” (= astensionismo dal voto, dominio occulto delle forze economiche e finanziarie, la mancanza di rispetto ed i conflitti tra poteri e ordini istituzionali, solo per restare in Italia).

 

Questa prospettiva consentirebbe di non venir meno alla fedeltà all’essere dell’uomo. A questo punto ci si deve chiedere: per realizzare questi obiettivi, quali sono le strade che la Massoneria è possibilitata a percorrere? Quali sono i compiti che ad essa derivano dall’assunzione di questa responsabilità di fronte all’uomo? La risposta a questi interrogativi impone alcune altre brevi considerazioni preliminari. E’ stato già ricordato che la proliferazione dei settori del sapere e la frammentazione delle conoscenze che ne è conseguita e la complessità dei problemi che affliggono il «villaggio globale», che costringe sovente la persona ad occuparsi esclusivamente del quotidiano a discapito dell’espansione dell’area della progettualità, hanno affievolito nell’uomo contemporaneo la coscienza del significato dell’esistenza. In particolare, quest’ultimo rischia di smarrire la capacità di meravigliarsi, di contemplare e di immedesimarsi, per scivolare lungo la china dell’indifferenza e della riduzione dei rapporti sociali: il suo sempre più accentuato ripiegamento individualistico sembrerebbe condannarlo all’impersonalità delle relazioni. Vive, in buona sostanza, una crisi di orientamento valoriale. Infatti, il progresso cognitivo, il moltiplicarsi delle offerte del plaisir e gli apparenti spazi delle libertà personale non sono, di per sé, portatori di autenticità e felicità: il senso dell’esistenza esige impegno, autenticità nelle relazioni e deve necessariamente essere ancorato ad un mondo di significati e di valori. Al contrario si assiste all’inesorabile graduale perdita dei valori personali: si sta sacrificando sull’altare del successo e del potere l’autenticità stessa della vita. A quest’ultima, il mondo dei mass-media sostituisce e riverisce sua maestà l’immagine. La sopravvalutazione dell’individualità, del piacere ed anche del sapere, in quanto tali, genera, invece, sempre un disorientamento generale e favorisce la caduta di quel partecipe senso d’umanità che alimenta la capacità individuale del percepirsi accomunati a tutti gli altri esseri viventi. Nel recupero dell’interiorità, lontano dal frastuono dei rumori e dell’annichilimento dell’esaltazione, risiede la possibilità di scoprire che «l’esistenza umana è orientata sempre verso qualcosa o qualcuno che sta al di fuori di se stesso: un significato da realizzare o un’altra esistenza umana da incontrare» ( V. Franki, 1980). Ne deriva la necessità di una ridefinizione di un nuovo atteggiamento vitale, modulato sul riconoscimento dell’interdipendenza di tutto e della conseguente complementarietà di tutti. Ad ogni uomo spetta il compito di condividere umanità e cooperare soprattutto alla riscoperta di un senso ampio e forte per cui vivere, implicante tutti gli altri esseri viventi e la realtà terrestre nel suo insieme. Da qui scaturisce, allora, il compito della Massoneria in ordine alla via da percorrere per realizzare gli obiettivi contenuti nel suo progetto d’umanità. Prima preoccupazione e intenzione della Massoneria, quindi, diventa l’esigenza di contribuire al potenziamento dell’orizzonte culturale, per consentire all’uomo di ritrovare la via del senso, cioè il percorso esistenziale finalizzato a promuovere in ogni singolo uomo la capacità d’intercettare le esigenze vitali dell’umanità intera, nella consapevolezza di una ricerca comune di giustizia, pace, felicità e Verità. Per realizzare ciò risulta, allora, necessario, in primo luogo, guadagnare la capacità di riaprire un dialogo diretto con la natura, con le cose e con le persone; poi, imparare ad ascoltare empaticamente gli altri, per registrare i problemi connaturati alla stessa vita associata, senza mai sposare interpretazioni ideologiche riduttive; infine, giovarsi delle conoscenze per rintracciare le informazioni efficaci per comprendersi, condividere e partecipare. In altri termini: l’uomo deve recuperare lo stesso senso del vivere, deve riconquistare una relazione significativa con l’esistenza e, solo allora, la crescita culturale si tradurrà in autenticazione d’umanità e comprensione della realtà della vita in ogni sua forma: è questa la scommessa che la massoneria è pronta a giocare e a vincere nel terzo millennio. La via della comprensione esistenziale e del dialogo coniugata all’impegno personale può consentire la crescita etica necessaria per giungere alla ri-definizione dell’orizzonte di senso: questo anelito, che potrebbe essere definito etico, deve essere il compagno di viaggio dell’uomo se egli vuole attingere la vita significativa. La Massoneria configurandosi come ambiente formativo al di là delle diversità delle condizioni culturali, sociali ed economiche, rappresenta un ambito di esistenza e, nel contempo, lo sfondo di valore entro il quale accogliere l’istanza etica, corroborarla con i propri principi, elaborarla in forma di comunicazione significativa e affidarla al confronto culturale. La Massoneria nel terzo millennio, dunque, come sentinella etica (non dimentichiamo che pur sempre Essa può essere definita «sistema morale velato da simboli») contro trionfanti ideologie del non-pensiero, volta a costruire le condizioni spirituali del futuro; per compiere, “spedizioni verso le terre del non-ancora, utopia speranza”; non per conquistarle, per esserci, non per integrarvisi ma per essere altro anche nell’altrove”. (I. Mancini). La Massoneria non può dare garanzie sul traguardo, ma garantisce che mai vi sarà ritorno sulle posizioni precedenti. Si fa viatico per il futuro: per fornire una dimensione di senso contenuta in una visione filosofica che ha attraversato il passato ed attraversa il presente ma che è rivolta soprattutto al futuro e che si incentra sull’Uomo. Per questo futuro il Grande Oriente d’Italia intende “lavorare” per insegnare all’uomo ad apprendere e formarsi: intende continuare ad essere laboratorio di produzione di un pensiero pensante incessante, non prefabbricato, sempre in atto, infinito, ricerca critica, emancipativa. Ma questo significa educare alle libertà: essere costruttori di comprensione e di dialogo in un mondo troppe volte trafitto dalla violenza e dalle ingiustizie; ma soprattutto fa comprendere la vera grandezza dell’essenza del vivere.

 

Rimini, 13-15 Aprile 2007

 

 

 

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