PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI
NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo. Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere». Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
Il documento che presentiamo qui di
seguito ci è pervenuto da un Fratello colombiano di Bogotà che non conoscevamo
precedentemente.
Non avendo la nostra Istituzione
rapporti ufficiali con la gran Loggia di Colombia non abbiamo potuto controllarne
l’appartenenza.
Sappiamo inoltre che la Colombia è
tuttora funestata da una guerriglia sanguinosa di cui non conosciamo le ragioni.
D’altra parte, pur essendone addolorati, per principio non è nostro compito
entrare nelle
contingenze politiche (o religiose) né
del Paese in cui viviamo nè tanto meno in quelle di altri nostri Fratelli, sparsi
sulla superficie della Terra.
D’altra parte questo Sito Regionale
VITRIOL (organo non ufficiale dell’Istituzione ma da essa riconosciuto), sul
quale viene pubblicata corrispondenza sia di Fratelli toscani, come di altri,
viene letto, come qualsiasi sull’importanza di “globalizzare” una volta
tanto il nostro dialogare, in particolare quando si tratta di etica e morale.
Sì, proprio di dialoghi di etica e
morale come strada maestra che è nostro dovere indicare ai fini della più alta
globalizzazione desiderabile: quella di una uguale giustizia per tutti gli
esseri umani.
Il riconoscere questa comune fede nel
pensiero di chi ci ha scritto ci ha portato immediatamente nel Tempio della
comune Fratellanza: ma ciò che soprattutto ci ha convinto, nonostante tutto e
sopra di tutto,
a pubblicare, è stata la chiarissima e
forte presa di posizione di un uomo politico, impegnato magistralmente sino al
suo sacrificio personale, nella relazione troppe volte difficile e
contraddittoria tra ‘essere massone e
l’agire politico. Relazione che non può essere altro che analogica e tale deve
sempre rimanere.
Che l’abbia detto il Fr.’. S.Allende, o non l’abbia detto
effettivamente, non importa, perché comunque andrebbe detto; anche qui nel
nostro Paese, dove l’essere massoni significa subire ancora un’intollerabile discriminazione
nell’esercizio delle libertà e delle necessità civili, politiche e religiose proprie
di ogni cittadino.
Per noi S. Allende, marxista o non
marxista, eroe politico o no, lo prendiamo a simbolo di una forza interiore del
massone che, nell’esigenza di affermare la propria fede, deve comunque battersi
contro l’intolleranza, da qualsiasi parte essa venga.
Per far risaltare questo senso
interpretativo, abbiamo omesso di pubblicare quelle parti del suo discorso nelle
quali viene fatto cenno alle situazioni prettamente politiche (anche se
idealizzate come farebbe
qualsiasi massone) relative al suo Paese
di appartenenza, dove, nel ’71, le lotte politiche si andavano macchiando
sempre più di sangue.
La parolaccia ‘ebreo’: dalle accezioni antisemite al tabù politicamente corretto
di Sara Natale*
1. «Dov’è l’ebreo?!»
All’inizio
degli anni Novanta, in una scuola elementare milanese, una bidella (che
già allora, peraltro, era meglio chiamare ‘commessa’ e che ora si
chiama ‘collaboratrice scolastica’) usava spalancare la porta della
classe, con in mano un pranzo al sacco kasher, e chiedere a gran voce: «Dov’è l’ebreo?!».
Sul
potere di quell’articolo torneremo alla fine, ma intanto questo
aneddoto ci serve a capire che l’attuale moda di sostituire la parola
‘ebreo’ con il sintagma ‘di origini ebraiche’ (o con espressioni simili)
non è liquidabile come un fenomeno di negazione, cioè, in ultima
analisi, di antisemitismo, perché la parola ‘ebreo’ è una parola
delicata, che il contesto può rendere inopportuna, discriminatoria. Se,
per esempio, leggessimo su un quotidiano che «un ebreo ha ucciso la
moglie» non potremmo che inorridire (confortati solo dal guaio che di
sicuro passerebbe il giornalista).
2. Dov’è l’‘ebreo’?
È
esperienza ormai comune imbattersi in articoli di giornale che
trasformano ‘ebrei’ famosi in celebrità ‘di origini ebraiche’. Che io
sappia, la frequente (e indebita) eliminazione verbale di ebrei sta
lasciando indifferenti i linguisti, mentre non smette di suscitare
fastidio negli ebrei italiani, tra cui il giurista Emanuele Calò, che
per primo ha stigmatizzato questa moda linguistica (cliccare qui).
Partendo
proprio dal caso che ha suscitato l’indignazione di Calò, si può
innanzitutto osservare che nelle didascalie degli articoli apparsi sul
«Corriere della Sera» lo scorso 24 maggio (a p. 39) si parla della
nascita di Philip Roth in una famiglia «di origine ebraica» e «di
religione ebraica», evitando, dunque, accuratamente la parola ‘ebreo’ e
attribuendo alla ‘famiglia’ una ‘religione’ non necessariamente
praticata e un’‘origine’ che mantiene troppo vago il nesso con
l’ebraismo per dare un’informazione corretta e non ambigua.
Viene,
quindi, da chiedersi se sul «Corriere» di oggi sarebbe ancora possibile
leggere la parola ‘ebreo’ che campeggiava in prima pagina il 12 aprile
1987, nell’occhiello che annunciava «la scomparsa a Torino
dello scrittore ebreo» Primo Levi, e che abbondava negli articoli
pubblicati nei giorni successivi su altre testate, come «la Repubblica».
Le
stesse identiche strategie sostitutive si ritrovano, per fare solo un
esempio dei molti possibili, in un articolo pubblicato sul supplemento
domenicale del «Sole 24 ore», lo scorso 7 ottobre, in cui della
traduttrice ebrea Laura Dallapiccola, che nell’occhiello viene definita
«intellettuale di origini ebraiche», si dice solo che i genitori erano
«entrambi di religione ebraica» (p. 33).
3. Le cause dell’omissione: tabuizzazione politicamente corretta e ignoranza
Le
cause dell’omissione della parola ‘ebreo’ sono almeno quattro, le prime
tre riconducibili a una tabuizzazione politicamente corretta per varie
ragioni sconsigliabile.
3.1 L’insulto
La
principale mi pare l’imbarazzo, per un periodo avvertito anche nel
mondo ebraico, di usare un termine così compromesso dagli usi impropri
da essere diventato addirittura un insulto in sé, anche in assenza di
aggettivi ingiuriosi (cliccare qui).
I ‘giudei’ dei testi italiani antichi (interrogabili grazie alla banca dati TLIO (cliccare qui)
sono innanzitutto i deicidi e i loro degni successori medievali. Il
campionario degli epiteti offensivi è vasto (‘cani’, ‘maledetti’,
‘malvagi’, ‘meschini’, ‘perfidi’, ‘pessimi’ etc.) e ampia la gamma delle
sfumature della loro crudeltà, tra cui prevalgono le tonalità
dell’ostinazione (nella negazione della Verità), della spietatezza,
dell’invidia, della falsità e del tradimento (sulla scorta del rapporto
pseudoetimologico con Giuda Iscariota). Essendo i ‘giudei’ i cattivi per
antonomasia, nella lirica amorosa due-trecentesca il termine viene
abbondantemente usato come sinonimo di ‘crudele’, generalmente per donne
dure di cuore, ostili all’amante. Minoritaria, invece, l’accusa di
avarizia e di avidità, che nei denari guadagnati dal suddetto Giuda con
il tradimento di Gesù trova solo un debole appiglio e che sarà, invece,
destinata ad affermarsi sulle altre nei secoli successivi, corroborata
dall’espansione dell’attività creditizia (come si sa praticata anche dai
cristiani, ma pretesto di ingiuria solo per gli ebrei).
Inutile
dire che nella lingua attuale il sostantivo ‘giudeo’ è comprensibilmente
proscritto, appesantito com’è da questa lunga tradizione di accezioni
offensive, che viceversa ispirava la raccomandazione che il 27 agosto
1938 il Ministero della Cultura popolare faceva agli organi di stampa:
«D’ora innanzi anziché parlare di ebraismo e di anti-ebraismo, usare
l’espressione giudaismo e antigiudaismo» (p. 102).
Se nella
lingua antica la rara parola ‘ebreo’, al pari dell’ancor più raro
sinonimo ‘israelita’, è per lo più priva di significati peggiorativi,
dal momento che di solito si riferisce ai contemporanei dei venerabili
patriarchi e profeti, nell’italiano moderno e nei suoi dialetti
condivide la sorte di ‘giudeo’ e presso i parlanti antisemiti diventa
sinonimo di ‘spilorcio’ e di ‘esoso’.
3.2 Il marchio
A
rendere inquietante l’uso del termine ‘ebreo’ non c’è solo la secolare
incrostazione di accezioni spregiative, ma anche un fenomeno di
‘segnalazione’ degli ebrei che trova nell’imposizione coatta del signum e della stella di David le forme più note e negli elenchi di cognomi ebraici periodicamente pubblicati sul web
le più recenti, e che basta a evocare lo spettro della marchiatura,
anche in assenza di elementi disambiguanti. Emotivamente me ne sono resa
conto qualche anno fa, consultando un libro della Biblioteca Nazionale
di Firenze, pubblicato nel 1928, in cui ho trovato etichettato come
«ebreo!» (sul frontespizio e a p. 7), da una mano ignota (di un
correligionario orgoglioso? di un appassionato di onomastica ebraica? di
uno schedatore di ebrei?), il medico ebreo mantovano Annibale Gallico,
autore della prefazione.
3.3 L’etichetta
Tra
le ragioni del tabù va annoverato, infine, il timore di apporre
un’etichetta che potrebbe riuscire sgradita al destinatario, di cui
l’interessato potrebbe rivendicare il rifiuto, per esempio in polemica
con le autorità rabbiniche.
Non sembra, insomma, un caso che nei
quotidiani usciti a ridosso della morte di Philip Roth gli ‘ebrei’ siano
quasi solo i personaggi dei suoi romanzi, evidentemente etichettabili a
piacimento, a differenza del loro autore, che, pur senza rinnegarla
mai, ha preso nettamente le distanze dalla sua identità ebraica,
arrivando a dichiararsi innanzitutto americano e solo secondariamente
ebreo e a rifiutare il rito funebre ebraico: più o meno ovunque ho letto
che il protagonista del Lamento di Portnoy è un «trentenne ebreo» e che l’alterego
Nathan Zuckerman è uno «scrittore ebreo», ma molto raramente ho trovato
questa parola riferita direttamente a Roth, senza scomodare familiari e
antenati e senza formulare ipotesi poco verificabili sulla loro
religiosità.
3.4 La confusione
Nel corso dei secoli gli ebrei hanno costituito un bersaglio proteiforme (popolo deicida, razza inferiore, lobby
finanziaria, ‘cancro’ sionista etc.), a cui sono state attribuite colpe
variamente espiabili (il deicidio, redimibile solo con una improbabile
conversione sincera; la contaminazione razziale, eliminabile solo con lo
sterminio; l’estraneità ideologica, risolvibile solo con l’estirpazione
dal corpo sociale o con la negazione del diritto all’autodeterminazione
etc.).
Anche al di fuori dell’universo antisemita sulla nozione
di ebreo regna una confusione che da sola basta a spiegare
l’inappropriata sostituzione della parola ‘ebreo’ con espressioni niente
affatto equivalenti e che è forse incrementata dalla vaghezza (ai
limiti dell’inesattezza) dei principali dizionari italiani, che non
menzionano nemmeno la posizione più interna e autorevole sulla
questione, quella dei rabbini, per cui è ebreo il figlio di una donna
ebrea o, in alternativa (eccezionale), un convertito all’ebraismo.
4. Le conseguenze paradossali della sostituzione
Che
l’uso del sintagma ‘di origini ebraiche’ (coniato sul tipo ‘italiano di
origini marocchine’) come sinonimo di ‘ebreo’ si spieghi con l’esigenza
politicamente corretta di evitare una parola potenzialmente portatrice
di fraintendimenti e malumori oppure con l’ignoranza del suo significato
proprio, la conseguenza rimane paradossale: l’erronea assimilazione
della parola ‘ebreo’ agli aggettivi di nazionalità accredita
quell’assurda antitesi tra l’essere italiani e l’essere ebrei che spesso
risuona negli stadi italiani («Non siete italiani, siete ebrei» pare
che cantino gli ultras antisemiti della mia squadra del cuore rivolti ai
tifosi della Fiorentina).
5. Un tabù già ebraico: l’avvento di ‘israelita’ e il ritorno di ‘ebreo’
Il fatto che il tabù abbia un precedente ebraico basta a fugare l’ipotesi a priori antisemita.
Nell’età dell’emancipazione i significati spregiativi assunti dalle continuazioni di iudaeu(m) e, in minor misura e più recentemente, di hebraeu(m) hanno indotto gli ebrei europei a definirsi con gli esiti di israelita(m).
Tuttavia,
il cambiamento terminologico è stato solo temporaneo e già da tempo il
mondo ebraico si è variamente riconciliato con le parole abbandonate a
ridosso dell’acquisizione dei diritti civili e politici.
In Italia, mentre ‘giudeo’ è rimasto tabù (a differenza del francese juif, dello spagnolo judío, dell’inglese Jew
etc.), la famiglia lessicale di ‘israelita’ è caduta in disuso, come
nel resto d’Europa (con la parziale eccezione dell’onomastica di alcune
istituzioni, come l’Alliance Israélite Universelle o i molti
enti assistenziali e educativi ‘israelitici’), a vantaggio di quella di
‘ebreo’, come dimostra il cambiamento di nome dell’Unione delle Comunità
israelitiche italiane, sancito dal comma 1 dell’articolo 19 delle Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane, emanate l’8 marzo 1989 sulla base dell’intesa stipulata il 27 febbraio 1987 (cliccare qui).
6. L’ebreo
Peraltro,
come si diceva, la parola ‘ebreo’ va usata con cautela, tenendo
presente che, come tutte le parole ‘identitarie’, può suonare
discriminatoria.
Per esempio, a dir poco inquietante è l’articolo
apparso sulla «Repubblica» il giorno dopo la morte di Primo Levi, a
firma di Italo Chiusano. Anche tralasciando la perla nera «ogni ebreo
che si rispetti è un profeta», il pezzo è un’accozzaglia di stereotipi
positivi su una presunta «ebraicità classica» di cui «l’ebreo» Levi
avrebbe «qualche carattere distintivo». Il Primo Levi dell’articolo
assomma varie identità: è uno scrittore, è un antifascista, è un
chimico, ma non si limita a essere ‘un ebreo’ (cosa del tutto normale in
anni in cui la parola non era più e non era ancora tabù), è spesso
‘l’ebreo’. E che Chiusano specifichi che il «vantaggio» ricavato da
Auschwitz è stato «spirituale, psichico, etico, intellettuale, storico»
non toglie che il sintagma «intelligenza israelitica» sia il prodotto
più o meno consapevole di un immaginario antisemita popolato di ebrei
furbi, scaltri, di cui l’ebreo deportato, in grado di trarre profitto
perfino da Auschwitz, è solo l’ultimo rappresentante, il solo candido,
ma di un candore ottenuto senza merito, solo grazie alla provvidenziale
‘immolazione’ come olocausto (proprio per il rifiuto di questa
prospettiva oggi parliamo o dovremmo parlare di Shoah e non di ‘Olocausto’).
7. Cui prodest il parlare meno di ebrei?
Se
l’uso della parola ‘ebreo’ non è privo di controindicazioni, non va
dimenticato che i primi a giovarsi del benintenzionato repulisti attuale
sono ovviamente loro, quelli che perfino il Giorno della Memoria si
lamentano del troppo parlare di ebrei e troppo poco degli altri, dove
‘gli altri’ sono un puro pretesto per dare una parvenza di liceità alla
richiesta (per fortuna inascoltata) di parlare meno di ebrei, secondo i
gusti dei nuovi, inconsapevoli antisemiti, che hanno tabuizzato
l’antisemitismo senza liberarsi del pregiudizio antiebraico.
Questo articolo – il cui titolo parafrasa quello del libro di Rosetta Loy, La parola ebreo
(Einaudi, 2002) – costituisce una sintesi dell’intervento che ho tenuto
lo scorso 23 novembre all’Università per Stranieri di Siena, al
convegno Parola. Una nozione unica per una ricerca multidisciplinare
(agli atti del quale rinvio per la versione integrale, completa di
un’appendice lessicografica sui termini ‘ebreo’, ‘giudeo’, ‘israelita’),
e un primo abbozzo del saggio che pubblicherò tra qualche tempo.
Q. Principe, Memorie di una traduttrice, «Il Sole 24 ore», 7 ottobre 2018, p. 33.
Stampa dell’era fascista. Le note di servizio, a cura di F. Flora, segue L’«Appello al Re», Roma 1945.
TLIO = Tesoro della lingua italiana delle origini,
Centro del C.N.R. Opera del Vocabolario Italiano presso l’Accademia
della Crusca [banca dati con 2324 testi, aggiornata il 18 gennaio 2019].
*Sara
Natale (Milano, 1983), filologa, attualmente assegnista di ricerca
presso l’Istituto del CNR Opera del Vocabolario Italiano, ha studiato i
dialetti e i volgari degli ebrei d’Italia, i volgarizzamenti biblici e
agiografici italiani e la poesia italiana delle Origini. Tra i
principali lavori si ricordano le edizioni critiche delle poesie
giudeo-mantovane di Annibale Gallico (Accademia Nazionale dei Lincei,
2014), dei volgarizzamenti italiani dell’Ecclesiaste (Edizioni del Galluzzo, 2017) e dell’elegia giudeo-italiana (Pacini, 2018); tra i progetti in corso l’edizione critica dei Fioretti di san Francesco, avviata nel 2012 con il sostegno della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, e il Censimento
dei testimoni manoscritti dei testi italiani in caratteri ebraici
(verso una nuova banca dati per l’OVI: “il corpus ICE”), oggetto di
un programma di ricerca (“Short Term Mobility”) finanziato dal CNR e
svolto a Gerusalemme, alla Biblioteca Nazionale di Israele, dal 15
ottobre al 4 novembre 2018.
Immagine: Portnoy’s Complaint (1972), regia di Ernest Lehman
IL PROBLEMA FONDAMENTALE DELL’UOMO E’ CONOSCRE L’UOMO di LUIGI FERRARIS
PREMESSA
La Massoneria Universale, come finalità statutaria,
“intende” all’elevazione spirituale, materiale e morale dei suoi adepti e
l’Art. 1 della Costituzione lo sancisce in modo ben preciso ed inequivocabile.
Leggendo gli articolo che compaiono sulla “Rivista Massonica”, si ha
l’impressione che il raggiungimento dell’ambitissima mèta sopra indicata sia
possibile percorrendo una “via” ed una soltanto, alla quale si accede con
l’adozione di un unico “strumento” valido ed a cui si deve fare costantemente
riferimento: la Tradizione, congiunta all’accantonamento della ragione.
Sono rispettosissimo della Tradizione, ma anche della ragione, e sono
persuaso che, per assolvere la nostra missione nei confronti dell’Uomo e
dell’Umana Famiglia, non si può fare a meno di essere antesignani, anticipatori
dei tempi, se possibile, per cercare di ipotizzare e preparare il futuro.
Questo lo si può ottenere solo con la ragione, integrando in un’unica
visione lo scibile umano acquisito fino ad oggi, compresa la Tradizione, e non
attingendo solamente ed unicamente al remoto passato.
Da questa mia ferma convinzione discende che sono un massone il quale
conosce ed apprezza la Tradizione, ma “crede” nella “scienza dell’uomo”.
Il mio discorso, quindi, prenderà l’avvio da queste motivazioni: desidero
cercare di diffondere la conoscenza di altre “chiavi” che mi sembrano utili,
per giungere all’interpretazione di ciò che si può chiamare il “mistero-uomo”.
Ritengo che sia stimolante far sentire, in questa “Rivista Massonica”,
anche altre voci, oltre le solite, con “puntualizzazioni” basate su
“presupposti” differenti da quelli normalmente adottati, perché la fecondità,
come ben si sa, nasce sempre dall’incontro di “fattori” in opposizione; ed
infine, ho sentito il bisogno di “parlare” al di fuori della “strettoie” dello
“spirito”, perché sono convinto che a molti Fratelli sia gradita, più di quanto
non si creda, una problematica in chiave scientifica, se non altro, come
“contrappunto” alle argomentazioni basate su visioni del mondo obsolete.
Spero proprio che questo mio tentativo sia utile, in qualche modo ed a
qualcuno, per una più approfondita conoscenza del “sistema-uomo”, al fine
anche, di rendere più proficuo, sicuro e costruttivo il Lavoro muratorio.
Bisogna essere cauti ed attenti nel nostro “operare” e non dimenticare
che è molto facile fare del male agli uomini, pur nella convinzione di far loro
del bene, se non si “conosce” l’uomo; come pure è molto facile “legare”, pur
con l’intento di liberare, se non si sa bene cosa si può intendere per
“libertà”.
IL CERVELLO DELL’UOMO
Nella nostra società, l’ignoranza e l’inerzia
mentale sono le caratteristiche peculiari, a qualsiasi livello della
stratificazione culturale. Ognuno “pigramente” vive nella convinzione,
presuntuosa, di tutto sapere e tutto capire.
Il narcisismo ha sostituito, in gran parte forse, l’orientamento
sado-masochista prevalente nei nati del secolo scorso. Oggi, è indispensabile
cercare di risolverlo questo “problema uomo” e forse abbiamo già le cognizioni
scientifiche sufficienti per affrontarlo. Però, come per studiare la matematica
superiore e necessario conoscere l’aritmetica, così per riuscire a comprendere
e “sciogliere” i problemi esistenziali dell’umanità, è indispensabile
“conoscere” l’uomo, anche perché, poi, diventa molto più facile “amarlo”.
Non sono più sufficienti le “astrazioni metafisiche” per aiutare l’uomo a
comprendere se stesso. Quest’uomo bisogna prenderlo, “scomporlo” per cercare di
capire come funziona, per desumere, poi, delle “ipotesi aperte”, semplici,
comprensibili ed accettabili.
Prima, però, una raccomandazione indispensabile: il risultato di quanto
sopra detto, sarà, in questo scritto, una semplice schematizzazione, con tutti
i limiti di riferimento e le imprecisioni di dettaglio inevitabili. Il
risultato, quindi, dovrà essere utilizzato solo come “strumento” conoscitivo
(come il “dito che indica” buddista) e mai scambiato per la “realtà”.
L’uomo, al fine di risolvere meglio e per semplificare il problema della
conoscenza, ha bisogno di ridurre al minimo le operazioni mentali, perciò
ricorre a “schemi” o “modelli”, più o meno complessi, cui poter fare
riferimento.
Ebbene, per incominciare, quelli che vi prospetterò, molto succintamente,
sono alcuni “modelli” con i quali tenterò di portare a più facile
comprensibilità quello che può essere considerato il “funzionamento”
dell’organo principale del “sistema uomo”: il cervello.
L’uomo, di fatto, è un
insieme di organi, completamente differenziati i quali, in collaborazione tra
loro, hanno per scopo biologico la sopravvivenza dell’individuo e della specie.
Il “sistema uomo” “conosce” il mondo a lui
circostante per mezzo dei sensi, una ventina circa, che hanno la possibilità di
captare e “tradurre” solo una piccola parte dei numerosissimi segnali, di varia
natura ed intensità, che lo “colpiscono” e che provengono dall’ambiente in cui
vive.
I sensi, anche per facilitare il mantenimento di un
certo equilibrio al “sistema” cui appartengono, hanno una capacità di
percezione assai limitata, sia quantitativamente che qualitativamente; in
realtà non sono altro che dei misuratori di energia. La somma e la sintesi dei
segnali che passano oltre il filtro dei sensi, danno all’uomo una “visione”
della realtà la quale, come si può facilmente comprendere, è parziale e
discontinua, proprio a causa dell’approssimativa e limitata ricettività degli
“strumenti in dotazione.
Per di più, questi nostri “strumenti”, oltre che
darci una “visione” ridotta dell’ambiente in cui siamo immersi, ce la danno
anche molto soggettiva perché, in ogni individuo, non sono tutti ugualmente
efficienti, cioè tali da segnalare sempre e per ognuno, risultati perfettamente
uguali.
Già questo è molto importante e da tener presente
per quando ci capiterà di dissertare sulla “realtà” ed il suo ipotetico
contrario, cioè il “mondo dello spirito”
Il cervello umano è uno strumento raffinatissimo, da
un punto di vista “organizzazione”, che raccoglie ed utilizza tutti gli stimoli
“filtrati” dai sensi.
Esso è costituito da circa dieci miliardi di cellule
nervose chiamate “neuroni”; da questi si dipartono ramificazioni che
s’intersecano fittamente con quelle di altri “neuroni” formando una complessa
“rete”, lungi i “fili” della quale corrono, in entrata gli stimoli che
provengono dai sensi, cioè dalle cellule nervose periferiche, ed in uscita i
comandi che sono trasmessi per attuare l’azione scelta, ritenuta più opportuna.
Durante il suo sviluppo, cioè fin dalla nascita, il
cervello immagazzina tutto ciò che, suscitando un livello emotivo
sufficientemente alto, “impressiona” le memorie, codificando ogni tipo di
esperienza con un sistema binario di classificazione del tipo:
piacevole/spiacevole sviluppo del cervello, praticamente, consiste quindi
nell’arricchimento della memoria con le “registrazioni” dei dati forniti
dall’ambiente e delle esperienze ad essi connesse; l’attività mentale in senso
globale, invece, è il processo di confronto e di scelta del materiale a
disposizione nella memoria, integrato con i dati istintivi i quali sono
ereditari e che, pertanto, sono i soli ad essere già presenti al momento del
concepimento.
Il pensiero, quindi, non è altro che la
“rielaborazione” di quanto è stato “registrato” nel passato, messo in relazione
con ciò che è “percepito” nel presente; ogni nostro pensiero che riteniamo
“nuovo” ed originale, in effetti, è l’accostamento e la costruzione, in
“sequenze” diversamente disposte, di nozioni già apprese in precedenza.
Come il linguaggio nasce dal “montaggio” dei fonemi,
così, pure il pensiero trae origine dalla composizione del “materiale”
contenuto nella memoria; ma, di tutto ciò che è immagazzinato, può essere
utilizzato solo ciò che riusciamo a ricordare, cioè solo che affiora
automaticamente alla “coscienza”.
Il cervello al concepimento, come si è detto,
contiene già tutto il bagaglio concernente gli istinti, ma si mette subito a
funzionare come un perfetto registratore: non tralascia mai niente, di ogni
esperienza registra “tutto”: immagini, suoni, sapori, sensazioni fisiche, ecc.
Queste “registrazioni” sono catalogate e messe
insieme, in gruppi di classificazione del tipo “gratificazione/punizione” e
rimangono tutte collegate le une alle altre per mezzo delle singole parti
primarie componenti la “registrazione”. Per esempio, un suono, oppure un odore,
sentiti ora, possono far “ripescare” nella memoria, tutta od in parte
l’esperienza in cui per la prima volta sono stati presenti in passato, o
possono rievocare tutta una serie di esperienze o loro parti connesse, più o
meno direttamente, con quel suono o quell’odore. (Libera associazione di idee).
Il meccanismo è, certamente, molto complesso; l’ho semplificato al massimo, ma
quello che m’interessa di mettere in evidenza ora, è la totale automaticità del
funzionamento.
Questo “ingegnoso” sistema consente, ad ogni
individuo, di giudicare e di prendere le “opportune” decisioni, nel presente,
facendo “tesoro” dell’esperienza passata. Al fine di rendere più facile e più
rapida quest’operazione del giudicare, dello scegliere e dell’agire, ognuno
sintetizza tutte le sue esperienze esistenziali e culturali in una specie di
“quadro schematico” al quale, poi, fare sempre riferimento ogni qual volta
dovrà prendere una decisione.
Questo quadro che, per intenderci, può essere
chiamato la “visione del mondo” personale, è come un paradigma nel quale tutto
ciò che è noto all’individuo è stato adeguatamente “etichettato”:
“buono”/”cattivo”. L’uomo vi si attiene, nelle sue scelte, per similitudine, in
modo scrupoloso ed automatico. Sotto quest’aspetto, non v’è alcun dubbio che il
comportamento umano risulta, più di quanto si creda, assai determinato.
L’automatismo ora indicato, in genere, non è avvertito
per molte ragioni: sia per il numero notevolmente alto dei fattori che
intervengono sull’ “effettore”, sia per i complessi “meccanismi” di interazione
che s’instaurano, specialmente nell’adulto, fra raziocinio ed istinto e la
conseguente “razionalizzazione” anche degli atti “automatici”. Ma
principalmente perché questa nozione dell’automatismo mentale, l’uomo
occidentale, in genere, si rifiuta di accettarla, dato che nella nostra cultura
è considerato un fatto estremamente mortificante per la personalità e
l’autodeterminazione dell’individuo.
Pensate al “peso” ed al senso che viene dato alla
frase:”è condizionato”. Come se non fosse ormai un fatto acquisito che
l’”insegnamento”, per esempio, altro non è che condizionamento.
Questa “visione del mondo” la quale può essere
definita meglio, proprio per esprimere la sua funzione ed i suoi contenuti:
“schema di riferimento e finalità ideale”, consente all’individuo di avere a
disposizione quelle soluzioni che, dopo essere state accettate, perché da lui stesso
sperimentate oppure a lui “proposte” da altri, ed integrate con gli istinti di
conservazione, gli consentono di risolvere, in qualche modo, le dicotomie
esistenziali.
Queste dicotomie nascono, nella nostra mente, ogni
qualvolta dobbiamo prendere delle decisioni, proprio per l’incapacità umana di
afferrare globalmente l’ “ambiente” e per l’impostazione fisica del cervello
che si serve, come si è visto, di un sistema selettivo binario.
Queste dicotomie esistenziali costituiscono il
dilemma immanente della vita umana; da taluno, questo stato di fatto è
definito: l’ “assurdo” della condizione umana. Le soluzioni che si danno alle
dicotomie sono in realtà le “scelte” in base alle quali vengono effettuate le
azioni.
La “vita” di un uomo, nel suo insieme, è la somma
delle sue azioni fisiche e mentali che, prima di essere tradotte in “atti”,
sono precedute da scelte, soggettivamente “precise”, “sicure” e “volontarie”,
ma che in realtà sono il risultato dell’elaborazione dei dati a disposizione e
“giudicati” automaticamente attraverso lo “schema di riferimento e finalità
ideale”. Pertanto, è lo “schema di riferimento e finalità ideale” in effetti,
che prescrive il modo di agire, determina le scelte, condiziona la qualità
della vita di un individuo.
Operando in tal modo questo “schema” dovrebbe
assolvere la sua funzione principale, cioè tendere al mantenimento di un certo
equilibrio autonomo, selettivamente sensibile al variare dei fattori esterni e,
per questa ragione, lo “schema di riferimento e di finalità ideale” si può
identificare con la “finalità” del “sistema uomo”. Naturalmente, proprio come
conseguenza della sua genesi, questa finalità non può che risultare diversa da
individuo a d individuo.
È interessante conoscere, a conforto di quanto detto
fino ad ora, le conclusioni cui è pervenuto il noto scrittore francese di
cibernetica Pierre de Latil. Egli, in una sua classificazione degli
“effettori”, che passano da un grado a quello superiore acquisendo una libertà
in più, pone l’uomo al sesto grado dell’automatismo. A questo grado l’
“effettore uomo” si distingue dai gradi, per complessità, a lui inferiori,
perché aggiunge a quelle che già caratterizzano gli altri “effettori”, la
libertà rispetto alla finalità del sistema.
Questa ora esposta è una delle “chiavi” più
importanti ed indispensabile per incominciare a “comprendere” di quanti
preconcetti ed illusioni è sempre stato arricchito il nostro “condizionamento”
L’uomo, in realtà, non ha una sua “finalità”
prestabilita.
Nell’ambito delle possibilità umane, gli può essere
dato un qualsiasi scopo esistenziale, incominciando dalla nascita,
compatibilmente con le eventuali limitazioni ereditarie.
Lo “schema di riferimento e finalità ideale” il
quale come abbiamo precisato dà la “finalità” all’ “effettore uomo”, e che è
l’estratto essenziale di quanto desunto da tutte le esperienze variamente
codificate e dal condizionamento socio-culturale (famiglia, ambiente e scuola),
non è innato nell’uomo. Questa “situazione” che, ricordiamolo, nasce
dall’acquisizione da parte del “sistema” di una libertà in più, costituisce,
anche, la qualità di cui è sommamente dotato l’uomo: l’adattabilità.
Avendo alla nascita solo un bagaglio istintuale o
poco più, derivante dall’esperienza maturata durante la gestazione, per
esempio, il così detto selvaggio si adatta all’ambiente che trova, ugualmente
bene dell’uomo, così detto civile, il quale dovrà affrontare problemi
esistenziali completamente diversi. Ambedue, in età adulta, rispecchieranno, in
modo difficilmente reversibile, l’ambiente in cui sono vissuti, dal quale
saranno stati “modellati” ed al quale si saranno adeguati. Avranno acquisito
capacità diverse ma, certo, ugualmente utili per quanto riguarda la
sopravvivenza loro e della specie.
La finalità che viene immessa nel “sistema uomo”,
come si può comprendere anche dalla sua “formazione”, è soggetta a continue
possibili “correzioni”, principalmente per effetto delle giornaliere esperienze
esistenziali le quali, però, in genere se non hanno carattere di eccezionalità
e di forte e insistente contrapposizione persuasiva a quelle già “registrate”,
si limitano a “rafforzare” i “tracciati neuronici preferenziali”, cioè quei
tracciati che la reiterazione rende percorribili con più celerità e con maggior
efficacia di reazione.
Ma, ad uno stadio di consapevolezza sufficientemente
elevato, oppure a livelli di emancipazione più modesti usando però coercizioni
di vario tipo, lo “schema di riferimento e di finalità ideale” può essere
modificato anche profondamente. Questa modificazione, di non facile
realizzazione, ma sicuramente possibile, è la facoltà più preziosa e più
pericolosa di cui dispone l’uomo e di cui, in genere, conosciamo, anche dalla
storia, una grande quantità di aspetti negativi.
Il comportamento del “sistema uomo”, dunque, è
sempre il risultato di un condizionamento che “determina”, quasi del tutto
automaticamente, le sue reazioni ma, poiché l’uomo è dotato di adattabilità, il
condizionamento è suscettibile di modificazioni e, quindi, influenzabile o
sostituibile con altri tipi di condizionamento. In altre parole, ed è
meraviglioso poterlo dire ed affermare: il “sistema uomo” ha un “funzionamento”
condizionabile, ma anche “liberabile”.
E come si può operare questa “liberazione”? Proviamo
a trovare una risposta a questa domanda nodale.
L’uomo, per vivere, deve poter dare una risposta
alle dicotomie, cioè agli interrogativi esistenziali che continuamente gli si
pongono. La soluzione di questi dilemmi la trova nel suo “schema di riferimento
e di finalità ideale”. Agli effetti pratici, per l’individuo non ha molta
importanza se la risposta che è fornita dal suo “schema” è la migliore o la
peggiore possibile, infatti ciò che conta è che gli consenta di “agire”
concretamente, perché vivere è agire, anche sbagliando.
Il fatto che la risposta sia “buona” o “cattiva”
assume valore dopo, cioè quando l’individuo si trova di fronte alle conseguenze
dell’azione compiuta.
Ebbene, in questo stato di conflittualità, con
queste scelte che vengono fatte nel tentativo di risolvere le dicotomie dell’
“essere”, tentativo non risolvibile perché ogni soluzione produce altre
dicotomie, l’uomo ha, in realtà, a disposizione due sole possibilità: regredire
o progredire che, detto in altre parole, può essere espresso con le seguenti
contrapposizioni: legare o liberare; distruggere o produrre; odiare o amare;
amare la morte o amare la vita. L’uomo, dunque, è “liberabile” operando sul suo
“schema di riferimento e di finalità ideale”, apportandovi mutamenti,
orientandolo e rafforzandolo nel senso del “progredire”.
Esclusa una zona intermedia, riguardante la maggior
parte dell’umanità, nella quale l’individuo fa le sue scelte tra il
“progredire” ed il “regredire”, in modo contraddittorio, motivato solo da
fattori contingenti, nei casi in cui lo “schema di riferimento e di finalità
ideale”, invece, è nettamente orientato verso il “regredire” oppure verso il
“progredire”, si instaura una reiterazione nelle scelte neuroniche
preferenziali tale che, inevitabilmente, si arriva ad un punto in cui diventa
sempre più difficile avere la possibilità di fare scelte diverse
dall’orientamento predominante, ed allora l’individuo procede verso
un’inarrestabile “sindrome di decadimento” oppure verso una “sindrome di
crescita” della personalità.
A questi due punti estremi ora accennati, troviamo
da una parte l’uomo “liberato” cioè pienamente “sviluppato” che non ha più la
capacità di scegliere il “male”, e dall’altra abbiamo l’uomo avvinto da legami
simbiotici, dal narcisismo, dalla necrofilia il quale non può che desiderare,
concepire ed attuare la sottomissione o la sopraffazione, la violenza e la
distruttività. Da questi presupposti discende la “paradossale” definizione
proposta da Erich Fromm: l’uomo veramente libero non è libero di scegliere il
“male”.
Questo dato di fatto fornisce l’occasione, anche,
per chiarire cosa si può veramente chiamare “male “ e cosa, invece, si può
definire il “bene”.
Dunque, ricapitolando, perché una “schema di
riferimento e di finalità ideale” possa essere considerato “liberante” cioè che
aiuti veramente l’individuo ad avviarsi verso una “sindrome di crescita” e
quindi verso il “bene”, è necessario che risponda, il più possibile, a questi
requisiti:
– Lo
“schema di riferimento” deve essere ricco di conoscenze culturali con spiccate
caratteristiche di universalità, in modo da poter disporre di una base gnosica
che integra validamente il presente con il passato, onde poter esaminare le
“situazioni” contingenti da vari e diversificati punti di vista e con una
spontanea facilità di rapportare le cause agli effetti al fine di sviluppare la
necessaria capacità previsionale.
– Lo
“schema di finalità ideale” deve essere “aperto”, basato cieè su concetti
universali che siano chiaramente ”dalla parte dell’uomo” e della sua
emancipazione, trasformato, però, in consapevolezza, cioè in “valori
esistenziali” accettati, assimilati e quindi “automaticamente usati nella
“realtà” in sostituzione o arricchimento degli istinti. Questi “valori
esistenziali”, tutti tendenti al soddisfacimento globale dei bisogni di libertà
del “sistema”, in concreto, ne favoriranno lo sviluppo verso un’emancipazione
“sana” conseguita, come si è accennato, con la liberazione da vincoli
narcisistici, simbiotici o necrofili.
In altre parole, mentre lo “schema di riferimento”
contiene la sintesi del “materiale” a disposizione per la rielaborazione dei
dati conoscitivi, lo “schema di finalità ideale” è il filtro, cioè la scala dei
valori, in base alla quale sono “determinati” il giudizio e l’azione.
La componente risultante, in uscita dallo “schema di
riferimento e di finalità ideale” è la decisione che l’individuo prende ed alla
quale adegua il suo comportamento.
È facile poter constatare come interagiscono le due
parti componenti lo “schema”, basta guardarsi intorno per notare che in alcuni
individui un buon “schema di finalità ideale” sufficientemente “aperto” può
sopperire in fatto di “equilibrio” e di “comprensione della vita” ad uno
“schema di riferimento” abbastanza “povero”; e di contro, in altri individui,
uno “schema di riferimento” anche se “ricchissimo”, può essere vanificato o
reso inutile, come validità esistenziale, da uno “schema di finalità ideale”
molto “chiuso” e dogmatico, a generale scapito di un ragionevole equilibrio di
tutto il “sistema”.
A questo punto si può anche tentare di proporre un’enunciazione.
Quanto più lo “schema di riferimento e di finalità
ideale”, nel suo complesso, è “limitante” e pone, quindi, le “soluzioni” al di
fuori e lontane dall’uomo, tanto più difficile sarà, per l’individuo che lo
adotta, vivere in una “realtà” accettabile e mantenere un soddisfacente
equilibrio emotivo.
Quanto più lo “schema di riferimento e di finalità
ideale” è “liberante” dai “legami” interni ed esterni, tanto più il “sistema”
sarà selettivamente indipendente dalla variabilità dei fattori contingenti e
tanto più l’ uomo sarà capace di “amare”, di essere “produttivo” e “mentalmente
sano”.
La validità di quanto ora asserito può trovare
riscontro, per esempio, anche in alcune terapie psichiatriche ed in alcuni
trattamenti pscicanalitici i quali ottengono risultati positivi ogniqualvolta
riescono a modificare lo “schema di riferimento e di finalità ideale” del
paziente, orientandolo verso contenuti “liberanti”.
Per concludere, quindi, ed è ciò che interessa
precipuamente: l’uomo ha la possibilità, entro certi limiti, di modificare, in
senso evolutivo, la propria personalità, però è bene anche precisare che, per
avviare questo processo di sviluppo, è indispensabile che il cambiamento sia
fortemente “sentito” dal soggetto come un desiderio-necessità il quale non può
che nascere da un maturato esame e dalla comprensione del problema in sé. Solo
allora potrà essere ulteriormente aiutato, oppure potrà aiutare se stesso,
nell’intento di liberarsi “da” per “nascere” alla libertà “di”, favorendo la
formazione ed il rafforzamento di uno “schema di riferimento e di finalità
ideale” decisamente “liberante”.
Comprendo come un quadro siffatto dell’uomo, non
possa essere accettato da che, invece, considera l’essere umano dotato di un
illimitato “libero arbitrio”, oppure di un innato concetto del “bene” e del
“male”.
Ma perché poi “disturba” così profondamente una tale
concezione dell’uomo? Forse perché si ha l’impressione che la personalità umana
ne esca distrutta e che l’uomo sia ridotto a nient’altro che una automa od un
semplice “animale superiore”?
A questo punto, allora, sarà bene fare attenzione ed
approfondire ulteriormente la situazione.
Nel quadro ora tracciato, la figura dell’uomo è per
niente sminuita come importanza e come libera responsabilità, emerge, però, il
concetto che l’importanza e la “libertà” se le deve “guadagnare” e se le deve
porre come “finalità”. Diventa, perciò, una condizione connessa con la sua
“crescita” e, quando avrà raggiunto la consapevolezza del problema, acquisirà
anche la facoltà di essere il potenziale “creatore” di se stesso e quindi anche
il responsabile fautore del proprio destino sia a livello individuale che a
livello collettivo.
Con l’invenzione del linguaggio, infatti, l’uomo ha
provocato la rivoluzione più sconvolgente che si sia mai verificata sulla
Terra; ha creato un abisso incolmabile fra l’uomo e gli altri esseri viventi,
ed ha determinato la nascita di una forza evolutiva nuova: la cultura.
Dapprima quasi timidamente, poi sempre più
profondamente, essa ha influenzato ed influenza l’evoluzione biologica. Oggi ci
sono molti presupposti dai quali si può desumere che l’evoluzione culturale è
la forza principale che “guida” ciò che prima si poteva chiamare l’evoluzione
naturale dell’uomo.
Mentre fino alla comparsa dell’ “homo sapiens”
l’evoluzione biologica era determinata dall’adattamento degli esseri viventi
all’ambiente, per mezzo della selezione naturale, oggi l’uomo, adattando
l’ambiente alle sue necessità, limitando con la medicina l’azione della
selezione naturale, è diventato, nel bene e nel male, il potenziale padrone del
proprio futuro.
Purtroppo molti sono i sintomi dai quali si può
diagnosticare che l’uomo, forse, non è ancora abbastanza “maturo” per poter
saggiamente “amministrare “ possibilità così potenti, ma è certo che se
riuscirà a fare le “scelte” giuste, il futuro potrà, concretamente, essere
dell’uomo per l’uomo.
Se continuerà, invece, a prevalere ed a governare l’
“ignoranza” sconsiderata a presuntuosa, ci resterà solamente lo sconsolante
“rovescio della medaglia”: l’autodistruzione.
Ecco, dunque, da cosa scaturisce l’esigenza di
trattare e diffondere questi argomenti che taluno può definire di scarso valore
pratico e talaltro, invece, inutilmente utopistici
Ma è proprio per questa ragione che si impone la
necessità di conoscere bene l’uomo, perché solo con l’uso di questa conoscenza
si può tentare di liberarlo da “illusioni” e “preconcetti”, per fargli capire
quali sono le sue possibilità ed i suoi limiti reali, in questo momento di
crisi così determinante per il suo destino.
Bisogna decisamente incominciare ad individuare e
controbattere tutto ciò che è chiaramente “limitante” per lo sviluppo e
l’emancipazione dell’uomo. Forse, ad un certo punto, potrà anche essere
necessaria una pacifica “crociata” mondiale a favore dell’uomo., poiché tutto
bisognerà tentare, tutto sarà indispensabile impegnare per salvarci da un
possibile avvenire infausto.
Questo mio discorso non vuole essere né offensivo né
ironico nei riguardi di chi definisce, per esempio: “la conoscenza metafisica
(…) la quale si avvale unicamente dell’ intuizione pura, come l’unica
degna di questo nome e la sola che possa essere scritta con la “c” maiuscola”.
Pensando a chi concepisce queste cose, mi sento
assalito da un grande sconforto e mi prende lo scoraggiamento: quanti uomini,
potenzialmente validi, si trovano ed essere inutili ed anche dannosi,
nell’attuale frangente, così cruciale per l’umanità tutta.
Questi, purtroppo, sono i risultati che sbocciano da
“schemi di finalità ideale” “chiusi” e “limitanti”.
Ma vediamo un po’ che tipo di discorso può essere
impostato per comprendere ed accettare ragionevolmente il “mondo dello
spirito”, di cui ancora tanto sembra aver bisogno l’uomo, e dall’accettazione
del quale nascono tante ambiguità ed anche tanta sofferenza.
È sufficiente un superficiale esame della storia
dell’uomo, per notare la complementarietà iniziale, l’interazione successiva ed
infine l’antagonismo sempre più marcato che si sono instaurati fra la “scienza”
ed il “mondo dello spirito”. Da un certo momento in poi, da quando, cioè, la
“scienza” ha incominciato ad acquisire una propria autonomia, si può affermare
che la “certezze” metafisiche sono diventate sempre più proporzionali all’
“ignoranza” della scienza. Di questa povera scienza bistrattata che, conscia
delle sue lacune e dei suoi limiti, lentamente, nonostante tutto, ci porta
avanti sulla difficile via della “conoscenza”.
A prescindere dal tentativo di ricercare la spiegazione
di come nasce la “necessità” per l’uomo, del “mondo dello spirito”, che ci
porterebbe ad approfondire un non facile discorso sulle debolezze umane e
sull’immaturità, ora vorrei provare ad affrontare l’argomento, rivolgendo
l’attenzione esclusivamente a quelle manifestazioni che taluno definisce
“paranormali” e altro “de divino”, per formulare delle ipotesi “aperte” che
possano, cioè, avere un valore positivo “per l’uomo” senza implicazioni che se
sviluppate, poi, impongono “pesanti” limitazioni.
Da sempre, ed in ogno cultura, si ha la “debolezza” di
considerare l’uomo contemporaneo ormai all’apice del suo sviluppo evolutivo
fisico e mentale oppure, all’opposto, di ritenerlo in progressiva decadenza,
dopo un ‘ “epoca d’oro” nella quale ha “conosciuto” la perfezione.
Invece l’uomo, questo evento unico, nato da una serie di
casi estremamente improbabili e da una massa ingente di fallimenti
riproduttivi, è un “esperimento biologico” tuttora in corso di svolgimento.
Questo dato di fatto, bisogna farcelo bene in mente.
È ancora lunga la strada dell’evoluzione che l’uomo deve
e può percorrere.
La biologia, pur essendo una scienza giovane, ha già
fissato alcuni punti importanti dai quali, tra l’altro, si può dedurre che
l’uomo odierno si trova in un’ “età”, rispetto all’arco evolutivo della specie,
paragonabile all’infanzia od alla primissima giovinezza.
Accettando questo presupposto, che non mi sembra poi
tanto sconcertante, si possono fare ipotesi ben più esaltanti e più “aperte” di
quelle che sono, in genere, avanzate da chi fa riferimento, per ogni singolo individuo,
ad un “divino” passato e/o ad un “divino” avvenire. Per esempio, si può
ipotizzare che il cervello umano sia un organo “emergente” il quale non ha
ancora raggiunto il suo pieno sviluppo e quindi la sua massima potenzialità,
con tutte le conseguenze connesse con una possibile e futura capacità mentale,
oggi incredibile.
Oppure, si può realisticamente pensare che l’evoluzione,
anche in conseguenza dei massicci mutamenti da noi per perpetrati
nell’ambiente, possa modificare i sensi dell’uomo, per esempio, variando i
limiti percettivi esistenti, con lo scopo di aumentare la capacità di
sopravvivenza, ma cambiando, in tal modo, completamente la nostra
interpretazione della “realtà”, oppure ancora, fornisca l’uomo di nuovi organi
sensori impensabili adatti per condizioni di vita impensabili.
Nell’ambito dell’evoluzione, tutto ciò è semplicemente
possibile e non presenta alcun aspetto di alta improbabilità, perché cose del
genere sono già accadute durante l’evoluzione biologica naturale.
Ebbene, vi prego di pensarci, perché queste ipotetiche
modifiche dell’organismo umano potrebbero aumentare talmente le capacità
intellettive , od anche modificare così profondamente lo “spettro” di
percezione della “realtà”, da trasformare ciò che oggi è indicata, con molto
“rumore” semantico, “intuizione pura”, in una percezione conoscitiva “naturale”
ed alla portata di tutti gli esseri umani.
È facilmente verificabile, d’altra parte, che
nell’infanzia e nella prima giovinezza di ogni individuo, si possono avvertire
vaghe sensazioni di capacità fisiche le quali saranno acquisite, completamente,
solo nell’età in cui gli organi preposti avranno raggiunto lo sviluppo
completo.
Perché non pensare che, similmente, raggiunta la
“maturità” della specie, ogni uomo possa essere dotato di quelle capacità che
oggi caratterizzano solo un numero limitato di individui?
Ritenete questa ipotesi troppo fantastica?
Credo che lo possa essere, però, non più fantasiosa di
quella proposta da chi ipotizza, come scopo e fine ultimo dell’uomo, “il trascendimento
della ragione, onde ottenere l’identificazione della mente individuale con
l’Intelletto universale, dell’anima con lo Spirito”.
Non si può negare l’esistenza di una indescrivibile e,
forse, estesa “realtà” che sfugge attualmente, alla nostra limitata possibilità
di percezione, e si è accennato già alla causa di tutto ciò.
È innegabile, anche, l’esistenza di eventi i quali sono
definiti, approssimativamente e cumulativamente “paranormali”, cui non
possiamo, per ora, dare spiegazioni razionali.
Questi, però, se depurati da tutti quelli che possono
essere già attualmente, “casi normali” giustificabili, cioè nel vastissimo
ambito delle suggestioni e delle autosuggestioni, si riducono a ben pochi fatti
abnormi. Per questi pochi che rimangono, perché si deve ritenere insopportabile
e degradante dire, apertamente ed umilmente, che a causa della nostra ignoranza
e limitatezza siamo incapaci, momentaneamente, di trovare una definizione
accettabile e verificabile?
Se proprio vogliamo cercare di proporre delle
spiegazioni, ritengo allora che sia più giusto prospettare, come già detto,
delle ipotesi “aperte”, per esempio, come quelle da me poc’anzi avanzate le
quali permetterebbero di affrontare ben diversamente questi “eventi”;
permetterebbero, cioè, di accertare, considerare ed esaminare queste
manifestazioni come l’indicazione di possibilità semplicemente umane, che si
evidenziano, per esempio, in taluni “mutanti”, portatori di un “gene” o più
“geni” mutati, che possono rimanere latenti sotto un “gene” dominante anche per
parecchie generazioni, ed ogni tanto “emergere” in un individuo il quale
acquisisce, in tal modo, capacità non comuni.
Estendendo l’ipotesi nel futuro, ne conseguirebbe che
queste “emergenze” si potrebbero anche “affermare”, senza tornare più ad essere
latenti, ed allora le capacità “non comuni” si diffonderebbero geneticamente,
fino a divenire una dotazione ereditaria in tutti gli individui della specie
umana.
È molto pericoloso ed ingiustificato, invece, che per
dare forzatamente una spiegazione a questi avvenimenti straordinari si debba
immettere nei nostri “schemi di riferimento e di finalità ideale”, dei
contenuti “limitanti” che spostano le soluzioni dell’uomo al di fuori
dell’uomo, ponendo i presupposti di inferenze molto spesso disastrose. Bisogna
sentirsi uomini responsabili e fare sempre molta attenzione alle implicazioni
che possono scaturire da certe “professioni”, prima di darle per “accettate”.
Questo è un salutare esercizio di razionalità, raccomandabile a tutti.
Ma coma sarà mai possibile far comprendere, a chi è così
irragionevole da rifiutare la “ragione”, che le spiegazioni derivanti dalla
così detta “conoscenza” possono dare, nel migliore dei casi, solamente un aiuto
fittizio, mentre invece, certamente legano sempre più questo “povero uomo”,
avviandolo verso evasioni dalla realtà, verso situazioni regressive di
infantilismo esistenziale ed emotivo?
A questo proposito, si può dire che molto più
saggiamente e concretamente hanno impostato il problema ora accennato, alcune
delle religioni orientali.
Anch’esse, partendo dal presupposto che l’uomo non ha la
possibilità di conoscere completamente la realtà, preso atto che il nostro
cervello consente di schematizzare gli eventi solamente in forme
contraddittorie (dicotomie), hanno offerto ed offrono, a che chiede, “il dito
che indica la strada” per il raggiungimento della “giusta azione”, e per
spiegare il “mondo dello spirito”, danno delle ipotesi giustificative piuttosto
“liberanti”, per niente dogmatiche le quali tendono, chiaramente, a porre i
problemi dell’uomo e la loro soluzione nell’uomo.
Ma anche i concetti di “ragione”, “intelletto”,
“raziocinio”, che troviamo nello stesso pensiero religioso orientale,
testimonia questa spinta “liberante”, come presupposto ad una più aperta e possibile
conoscenza.
Erroneamente, secondo me, è stato interpretato e citato,
da alcuni scrittori occidentali, ad esempio, l’atteggiamento anti-intelletto
che sembra insito nelle pratiche del Buddismo Zen.
In esse, è vero che il “koan” deve servire a mortificare
la “ragione”, cioè a mettere in evidenza l’incapacità dell’intelletto di
afferrare e risolvere il problema preso in esame ma, tutto questo, non ha come
scopo l’uccisione dell’intelletto: è semplicemente un “allenamento”, una
tecnica per domarlo, perché il risultato da raggiungere è solamente quello di
liberare l’uomo dalla schiavitù dell’intelletto.
L’uomo deve riuscire a dominarlo ed usarlo
consapevolmente (conscio della sua automaticità in relazione ai contenuti dello
“schema di riferimento e di finalità ideale”), per sfuggire ad una situazione
di dipendenza nella quale si trova passivamente soggiogato.
Molto chiaro, mi sembra, ciò che Alan W. Watts scrive a
Pag. 75 del suo interessante libro intitolato: LO ZEN.
“La mente, cioè l’intelletto – dice Watt – è un buon
servo ma anche un cattivo padrone e mentre di regola gli uomini diventano
schiavi dei loro moduli di pensiero intellettuale, lo Zen mira a controllare e
sorpassare l’intelletto”. “Il Koan è semplicemente un mezzo per passare
attraverso la barriera, è un mattone che serve per battere alla porta; quando
la porta è stata aperta, il mattone si può buttar via: e questa porta è la
rigida barriera che l’uomo innalza fra se stesso e la libertà del suo spirito”.
Sono concetti sui quali si può essere perfettamente e razionalmente d’accordo,
in fatti in una prima chiave interpretativa, si potrebbe dire: bisogna aprire
la porta che si interpone fra l’individuo e la sua libertà, cioè bisogna
modificare, in modo “liberante”, lo “schema di riferimento e di finalità
ideale” perché quando è “limitante” esso si identifica con la porta chiusa,
cioè con la “rigida barriera che l’uomo innalza” fra se stesso e la libertà. È
necessario fare in modo che l’intelletto, da padrone, diventi un buon servo,
cioè che da sostenitore di dogmi, preconcetti ed illusioni, diventi un valido
aiuto nella soluzione diuturna delle dicotomie esistenziali, verso una
“positiva” “sindrome di crescita” della personalità nella quale l’intuizione
svolga la sua innegabilmente valida funzione complementare.
Non è possibile fraintendere le finalità Zen, leggendo
ciò che a Pag. 84, dello stesso libro, scrive ancora Watts: “La mente ha il
proprio luogo, e da sola può fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo.
Dunque la mente è la chiave per comprendere la vita, perché quando è illusa
crea confusione, e quando si fa chiara, rivela la Natura=Budda”. Perciò, per lo
Zen, come per quasi tutte le religioni orientali, è essenziale acquisire il
dominio della mente. “Questo si consegue – scrive Watts – in primo luogo con
l’esercizio del Koan”. Ma ci sono anche altri modi per ottenere lo stesso
risultato.
Per maggiore chiarezza, e perché questo brano l’ho
trovato sempre molto “illuminante”, dalla stessa opera, riporto una “famosa
parabola Zen” che si trova a Pag. 83, e che ho già citato in altre occasioni.
“Per coloro i quali non sanno nulla di Zen – dice la
parabola – le montagne sono solo montagne, gli alberi soltanto alberi e gli
uomini soltanto uomini. Dopo aver studiato lo Zen per qualche tempo, uno giunge
a percepire la vanità e la fugacità di tutte le forme, ed allora le montagne
non sono più montagne, gli alberi non sono più alberi e gli uomini non sono più
uomini, giacché, mentre l’ignorante crede nella realtà oggettiva delle cose,
chi è parzialmente illuminato vede già che esse sono soltanto apparenze che non
hanno nessuna durevole realtà, e trascorrono via come nuvole in fuga. Ma – conclude
la parabola – per colui che ha compreso pienamente lo Zen, le montagne sono di
nuovo montagne, gli alberi sono alberi e gli uomini sono uomini”.
È vero, quindi, che l’ “intelletto” deve essere
mortificato per poter essere usato come un buon “strumento mentale”, è vero
pure che l’uomo deve rendersi conto di come la “realtà oggettiva” è “apparenza”
la cui percezione risulta limitata dall’incapacità dei sensi di afferrarla
nella sua “totalità”, ma è anche e soprattutto vero che quando l’uomo ha preso
coscienza di tutto ciò, vivendo e raggiungendo il suo “equilibrio”,
selettivamente stabile al variare dei “fattori” contingenti, ed è “aperto” alla
conoscenza, per lui “le montagne sono di nuovo montagne, gli alberi sono alberi
e gli uomini sono uomini”.
Questi , forse anche troppo
sommariamente, sono alcuni “semi” che ci sono offerti dalla “scienza
dell’uomo”. Già da questi pochi, si sono potuti desumere interessanti ed
“aperti” concetti, fondamentali come presupposti di ulteriori “liberazioni”.
Sta a noi seminarli e coltivarli nella nostra mente. Solo da “semi” di questo
tipo potrà sbocciare il futuro “per l’uomo”, tutto il resto è purtroppo
soltanto velleitarismo che può portare ad una involuzione senza avvenire,
oppure ad una lentissima ed interminabile ed indeterminata evoluzione
“naturale” nella quale ritorna ad essere operante solo e ciecamente il “caso”,
venendo a mancare la possibile azione responsabile e consapevole di un “self
making man” fautore e creatore del proprio destino.
Ormai da più parti si sono fatti squillare segnali
d’allarme: Già oggi, e gli individui più attenti lo sanno benissimo, ci
troviamo a dover effettuare delle scelte che saranno determinanti per il nostro
futuro, ma è chiaro che, in questo momento drammatico per l’umanità, non sono
più sufficienti solo le “vecchie intuizioni” per afferrare la conoscenza con la
“c” maiuscola.
Bisogna renderci conto, in tutta umiltà, che per quanto
frammentario, insufficiente e modesto possa essere il “sapere scientifico”, è
pur sempre l’unico strumento di cui disponiamo e di cui dobbiamo disporre, per
avvicinarci alla “conoscenza”, sulla via dell’Evoluzione umana, mentre oggi
siamo quasi alla mercè, unicamente, della troppo giovane e forse non abbastanza
previdente Evoluzione Culturale. Solo promuovendo decisamente l’emancipazione
globale dell’uomo, possiamo sperare che l’esperimento biologico che ci sta tanto
a cuore possa continuare.
IL COMPITO DELLA MASSONERIA
Ed ora riprendiamo dall’inizio questo che, ormai, è
diventato un lungo discorso, e proviamo a concludere.
Se si è convinti che fra i compiti della Massoneria ci
sia anche quello di preparare, nei suoi adepti, il futuro dell’uomo, e penso
che su questo non vi possano essere dubbi, ebbene è assolutamente
indispensabile essere perfettamente aggiornati su quelle che sono le già citate
“scienze dell’uomo”, per attingervi gli elementi utili e necessari sui quali
progettare il concepimento e l’attuazione della nostra missione.
Ripetiamolo ancora una volta, al fine di ricordarlo:
PER AIUTARE L’UOMO BISOGNA “CONOSCERE” L’UOMO.
Dobbiamo metterci bene in mente, dunque, e cercare di comprendere,
che il futuro non è già stato scoperto secoli fa; non bisogna stare
costantemente voltati indietro per cercare di vedere il futuro, perché il
futuro sta davanti a noi ed è tutto da inventare.
Non dubito minimamente che sia intenzione comune raggiungere
la stessa mèta, che consiste nell’aiutare la nascita dell’ “uomo libero”.
Purtroppo, però, non siamo d’accordo sulla via da seguire e, forse, anche su
cosa si deve intendere concretamente per “uomo liberato e libero”.
Oppure ci troviamo di fronte a delle elementari
discordanza semantiche?
In certi casi, si notano delle espressioni sulle quali
non ci può essere consenso quando vengano interpretate alla lettera, ma che,
invece, diventano concetti accettabilissimi se letti simbolicamente.
A questo proposito, desidero citare due esempi tratti
dalla “Rivista Massonica” n.9 del novembre 1974.
Alla conclusione del “veemente” articolo del Fratelli
Giorgio Rocchi, che in effetti è stato lo stimolo provocatore di questo mio
scritto, a Pag. 538, si può leggere quanto segue.
“Il sole simboleggia la coscienza degli esseri che,
infranti i ceppi della ragione e realizzata l’intuizione intellettuale, hanno
potuto liberarsi dalla condizione individuale e conseguire gli strati
superiori.”
Ebbene, si può anche essere d’accordo, in questo caso,
traducendo i simboli dei simboli dei simboli, con altri simboli, cioè parole,
aventi significato un poco diverso: Il sole simboleggia la coscienza degli
essere umani che, infranti i ceppi dei legami regressivi e realizzata l’emancipazione,
hanno potuto liberare le potenzialità umane e conseguire la libertà “di”.
L’altro brano che indico, è quello posto a conclusione
dello stesso articolo, sempre a Pag.538: è una citazione di Guenon, in essa si
dice.
“Il passaggio dall’esteriore all’interiore
è anche il passaggio dalla molteplicità all’unità, dalla circonferenza al
centro, al punto unico dal quale è possibile, per l’essere umano reintegrato
nelle prerogative dello stato primordiale, elevarsi agli strati superiori e,
mediante la completa realizzazione dalla vera essenza, essere infine
affettivamente ed allo sto di atto, ciò che egli è potenzialmente
dall’eternità”.
Oggi,
purtroppo, riesce difficile poter affermare che la Libera Muratoria Italiana di
Palazzo Giustiniani stia godendo di ottima salute. Questo disagio, senza
dubbio, può essere attribuito, in parte, alla generale crisi di valori nel
mondo occidentale. Forse, anche altre motivazioni si potrebbero rintracciare
nella storia, più o meno recente, della Massoneria italiana. Certo è che, oggi,
attraversiamo un grigio periodo di stagnazione, nonostante la buona volontà del
Gran Maestro Gustavo Raffi e della Giunta, che provano, nel tentativo di
scuoterci dal torpore odierno, a proporre qualche cosa di nuovo, nella
concretezza. Lodevole intenzione, senza dubbio, ma, secondo un’attenta analisi,
condotta da anni sull’attività dell’Istituzione, inefficace nell’immediato, per
quanto si può riferire al raggiungimento di risultati positivi, e coerenti con
le nostre dichiarate ed ineludibili finalità iniziatiche.
È mio
motivato convincimento, che il male oscuro del Grande Oriente d’Italia derivi
dall’azione concomitante di due fattori che, con la perdita di una loro
corretta funzionalità, mettono in pericolo l’esistenza stessa dell’Istituzione.
Faccio preciso riferimento al proselitismo ed all’attività strettamente iniziatica
nelle Officine.
I due
argomenti, più di quanto non si pensi, sono, fra di loro connessi in modo
rigoroso e dinamico.
La
Massoneria persegue il dichiarato compito di intendere al perfezionamento
dell’Uomo e dell’Umana Famiglia ma, questo perfezionamento, conseguibile per
mezzo di un’attività iniziatica mirata e concreta, deve, per essere
efficacemente accettata, soddisfare, anche, le aspettative culturali e le
necessità più elevate, tendenti all’emancipazione dell’uomo contemporaneo che
bussa alla Porta del Tempio.
D’altra
parte, il postulante, oltre le qualità di apprendimento necessarie per seguire
il processo iniziatico, deve, già prima di essere ammesso, inderogabilmente
“sentire”, e le dovrà sentire per tutta la vita, l’importanza, la gravità, la
serietà, l’esclusività, la bellezza, l’eccezionalità della scelta che ha fatto
“liberamente e spontaneamente, con disinteresse e spirito di sacrificio”. La
Libera Muratoria ed il postulante, per il funzionamento ottimale di tutta
l’operazione, debbono soddisfare il doppio legame di reciprocità ora indicato.
Con
l’intento di renderci conto della validità di quanto esposto, e di come le
finalità, le aspettative ed i rapporti si evolvano nel tempo, proviamo ad
esaminare in quali contesti socioculturali ha operato la Massoneria, in tempi
storici passati, quale tipo era e quali speranze nutriva, per sé, l’uomo
contemporaneo, sul quale si doveva produrre il miglioramento promesso dagli
Statuti e dai Rituali.
Se
prendiamo in esame il periodo protomassonico, il XVII secolo, notiamo che la
visione del mondo accettata era quella tolemaica. L’uomo figurava al centro del
creato, ma nella società contava ben poco. L’autorità eclesiastica dominava su
tutto, anche nella vita individuale. Gli uomini avevano scarse possibilità di
aggregarsi e di aiutarsi. Oltre le organizzazioni religiose e militari, solo le
corporazioni dei mestieri erano un embrione di libera associazione costituita.
Il
potere terreno dei Re, degli Imperatori e della nobiltà era legittimo solo in
quanto gestito “per volontà di Dio”. La protomassoneria e poi meglio la
“Massoneria moderna”, agli inizi del 1700, diventa, come si autodefinisce negli
“Antichi doveri”, un “centro di unione ed il mezzo per conciliare sincera
amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti”. La
Massoneria, ai suoi nuovi adepti, offre, tramite la costante, responsabile ed
esemplare guida di un Maestro, il rigoroso insegnamento del mestiere e delle
principali regole della buona convivenza, dentro e fuori dalla comunità, in
ogni momento della giornata, sia lavorativa che festiva.
Certo
il miglioramento esistenziale dell’adepto e la sua valorizzazione nell’ambito
dell’associazione, in quel contesto storico, sono notevoli ed evidenti.
L’appartenenza, il fervore sul lavoro, il timor di Dio e l’obbedienza ai
Superiori danno, senza dubbio, all’uomo di quel periodo storico, forse, anche
più di quanto ci fosse nelle sue modeste aspirazioni di elevazione.
Con la
prosecuzione e la fine del 1700, lo scenario della visione del mondo accettata,
cambia completamente: la teoria copernicana ha il sopravvento e si afferma,
sempre più, il meccanicismo universale di Newton e di Galileo; si diffonde
l’Illuminismo, il posto dell’uomo, nel Sistema solare, è relegato su uno dei
vari pianeti che orbitano intorno al Sole, ma l’uomo, in sé, incomincia a
contare un po’ di più, se non come singolo, come insieme di uomini. La libertà
non significa più, solamente, non schiavitù o libertà dal bisogno. I popoli, i
cittadini, vogliono più libertà da chi li governa; incominciano ad organizzarsi
per combattere la prepotenza e le sopraffazioni di chi gestisce pesantemente il
potere.
Durante
il XIX secolo, si lotta, in quasi tutto il mondo, per l’emancipazione dei
soggiogati dalle tirannie temporali e religiose.
In
questo frangente storico, la Massoneria continua a svolgere una precisa
funzione che, poi, la caratterizzerà sempre di più, e cioè quella di sopperire,
in qualche modo, alle carenze funzionali presenti nella società di
appartenenza, preparando i propri affiliati a soluzioni esistenziali, di
solito, marcatamente innovative.
Nel
periodo precedentemente esaminato, la Libera Muratoria aveva soddisfatto le
aspirazioni dei propri adepti, insegnando loro le regole fondamentali di una
buona convivenza, seminando le basi di quel tipo di organizzazione sociale che
poi, trasferita nel mondo profano e nei parlamenti, sarà chiamata democrazia.
Nel
1800, chiedendo agli associati lealtà, disciplina e coraggio, alimentando un
sano e motivato sentimento di libertà per loro e per gli altri, la Massoneria
prepara e migliora, prevalentemente con la potenzialità educativa dell’esempio,
uomini la cui aspirazione massima è prepararsi e lottare contro tirannie di
ogni tipo.
Forse,
è con uomini di varia estrazione, così formati che, poi, nel mondo profano si
compongono i primi partiti politici.
La
clandestinità e la segretezza, naturalmente allora, erano necessità di
sopravvivenza, ma erano anche validissime forme di selezione, che certamente
lasciavano fuori dalle Colonne chi non aveva forza d’animo, convincimento e
dedizione sufficienti a vivere un doveroso e solidale impegno nei riguardi
dell’Umanità sottomessa. Non c’èra posto, fra le Colonne, per uomini qualunque,
per uomini mancanti di “vocazione”.
La
storia, ma forse è meglio dire l’evoluzione dell’uomo, continua, ed altri
cambiamenti si stanno imponendo. La visione del mondo accettata è nuovamente
stavolta. Il sistema solare non è più il centro dell’Universo. Il Sole è
diventato una stella qualunque, nemmeno tanto grande, situata in una zona
periferica di un’ammasso di miliardi di altre stelle chiamato Galassia che,
allora, sembrava tutto l’Universo; poi, solo in tempi più recenti, si scoprirà,
addirittura, che la nostra galassia, insieme a miliardi di galassie, anche più
grandi della nostra, costituiscono l’Universo conosciuto.
Siamo
agli inizi del 1900, timidamente, la teoria della relatività di Albert Einstein
si affaccia su di un mondo governato, con sicurezza e logica precisione, dal
meccanicismo universale di Newton e Galileo.
Arriviamo
ai nostri giorni. La relatività di Einstein, ora pervade ogni branca del
sapere, demolisce il baluardo dell’oggettività, fino a far tremare le stesse
basi delle leggi sulle quali sono basate le teorie scientifiche. L’uomo
contemporaneo, di fronte all’Universo, sparisce come entità, ma come individuo
singolo, cioè come fenomeno unico ed irripetibile, è causa, effetto, obiettivo,
e speriamo soluzione, della profonda crisi epocale in atto. La situazione,
forse, è percepita correttamente, solo in certi ambiti avanzati della ricerca
scientifico-culturale. Comunque, il disgregamento palese di molte istituzioni
classiche, è il sintomo chiarissimo di un travaglio da cambiamento, in corso.
Mentre
nel XIX secolo, le aspettative di miglioramento si riferivano alle masse ed
alle comunità umane, ai popoli, nel terzo millennio appena incominciato, il
problema fondamentale, l’aspirazione più cogente è la “crescita”
dell’individuo. Anche il “potere”, sia pure con scarso entusiasmo, sta incominciando
a comprendere che è molto meglio e più efficiente “governare” un gruppo di
uomini “adulti”,autonomi e ragionevoli, che un “gregge” di “immaturi” e
sbandati insipienti. Però, fino a poco tempo fa non era così, e nemmeno oggi,
questo modo di valutare è molto esteso. Il potere, nella nostra società, ha
profuso tutti i suoi sforzi migliori, in uno sviluppo tecnologico strepitoso
che, però per sopravvivere, ha bisogno di “greggi umani”
produttori/consumatori, possibilmente acritici, i quali hanno il compito di
tenere, con un consumo crescente, più alta possibile la produzione, in
generale.
La
società occidentale, oggi, rischia di essere letteralmente travolta, da un
micidiale feed-back positivo, da un vorticoso ed incontenibile crescendo
esponenziale, fra produzione e consumo.
Al
potere, sembra proprio che siano sfuggite di mano queste forze titaniche. Le
mentalità ormai superate, di un mondo che sta per finire, non riescono a
trovare valide soluzioni, e quelle che propongono, anche perché la produzione
necessita sempre meno di “mano d’opera” ed il numero degli insoddisfatti
aumenta, peggiorano sempre più la situazione.
Chi,
in questi frangenti, si trova, veramente, ai limiti della sopportazione, è
l’essere umano che, per l’incredibile rapidità con cui si susseguono i
cambiamenti, non riesce più a fronteggiarli con la sua meravigliosa
adattabilità la quale, purtroppo procede ancora, nella maggior parte degli
esseri umani, o con il passo dell’evoluzione biologica, oppure si adegua solo a
livello di versatilità fisica mettendo, però, in seria difficoltà l’ambito
psichico, già logorato oltre ogni limite di tollerabilità .
Tradotto
in un concetto molto più semplice: l’uomo sta perdendo la capacità di vivere. È
sufficiente guardarsi intorno per vedere un’umanità presa dalla frenesia di
raggiungere mète e di possedere cose materiali che, poi, gli procurano solo
delusioni e/o insoddisfazioni, L’uomo nostro contemporaneo, ha smarrito la
capacità di regolare i propri desideri ed è preda di frustranti passioni compensatorie.
Non riesce più, nemmeno un poco, ad essere padrone di se stesso. Ha perfino
atrofizzato la sua positiva capacità critica, indispensabile per difendersi
dalle martellanti pressioni esterne, incontrollate ed incontrollabili. L’uomo
contemporaneo non riesce più a
“crescere”.
A
qualsiasi livello sociale si trovi, avverte una devastante sensazione di
impotenza, di fronte a tante sollecitazioni che stanno, progressivamente,
limitando le sue libertà interiori. Ed in questa drammatica situazione, ora
appena tratteggiata, nessuno insegna all’essere umano cosa deve fare, almeno
per proteggersi un poco, per alleviare, quello che è diventato il peso del
vivere. Nessuno aiuta veramente questo povero uomo contemporaneo, a capire se
stesso ed a comprendere il mondo nel quale è costretto a vivere; nessuno lo
aiuta concretamente a tutelarsi. Nessuno, nemmeno quelli che, sia politici che
religiosi, si propongono, invece, come gli “unici salvatori”, i soli che hanno
il “mandato” e la “ricetta” per sanare le “malattie” con le quali “gli altri”,
i cattivi, i diversi, i miscredenti contagiano l’Umanità.
Purtroppo,
questi sprovveduti “benefattori dell’Umanità”, nella realtà dei fatti, per
quanto facciano, non riescono ad ottenere risultati soddisfacenti. Ma che fosse
così, si sapeva e si poteva capire già da prima.
Questi
sedicenti “salvatori”, sia politici che religiosi, hanno la sfortuna di saper
proporre, solamente o quasi, sanatorie che sono al di fuori dell’uomo:
soluzioni economiche da parte dei politici, soprannaturali da parte dei
religiosi. Mentre, ormai è noto, ma non a molti, oppure solo a parole, che le
vere soluzioni per l’uomo sono dentro l’uomo.
Oggi,
si fa sempre più evidente, come si è già accennato, che le proposte
esistenziali collettive, hanno fatto il loro tempo. È l’individuo unico ed
irripetibile che deve essere preso in considerazione e che può essere aiutato a
crescere, anche subito, a condizione che capisca e senta l’impellente necessità
di emanciparsi dai legami interiori che gli impediscono di essere padrone di se
stesso e del suo futuro.
Ecco,
dove la Libera Muratoria può, oggi, svolgere la sua funzione maieutica
d’avanguardia; ecco dove la Massoneria può sopperire, come ha sempre fatto,
alle carenze formative della società; ecco dove la nostra Istituzione può
assolvere, a pieno titolo, e con tutte le capacità necessarie, quanto si
propone chiaramente con l’Art.1 della Costituzione e cioè di intendere al
perfezionamento, al pieno sviluppo dell’Uomo e dell’Umana Famiglia.
E ci
può essere, pure in questa operazione, una giusta coerenza tradizionale: come
quando nacque la “Massoneria Moderna”, nel 1717, si insegnarono agli adepti,
primariamente, le regole della buona convivenza con il mondo profano, oggi si
può insegnare, fra le Colonne, agli Apprendisti, a conoscere se stessi, come
premessa del completamento umano che si realizzerà, nei Gradi successivi, con
l’apprendere ad essere, consapevolmente, in relazione con i propri simili e con
la natura, .
Ma si
può dire molto di più: per ottenere questi risultati, che sembrano così
innovativi, certamente capaci di soddisfare le aspirazioni esistenziali
dell’uomo contemporaneo, non è necessario studiare o predisporre cambiamenti
profondi nella struttura organizzativa e dottrinaria dell’Istituzione. Non c’è
da produrre alcun stravolgimento nelle finalità della Tradizione iniziatica
della Libera Muratoria.
I
Rituali, così come sono, indicano una Via iniziatica coerente con le finalità
da conseguire. È tutto già programmato nei minimi particolari. I tre Gradi
dell’Ordine, vissuti con responsabile e volonteroso impegno, sono quanto di
meglio ci possa essere per trasformare il profano contemporaneo, da pedina nel
gioco le cui regole sono chiamate realtà, a giocatore maturo e consapevole
della propria vita, nella quale diventa possibile accettare, oppure anche
darsi, le regole principali.
Ma,
poi, ritengo che la Massoneria, per promessa fatta, sia proprio obbligata ad
intraprendere questa esaltante ed indifferibile impresa.
Si
pensi, un momento, a quanto dice il Maestro Venerabile durante la cerimonia
d’iniziazione, al profano che ha bussato alla Porta del Tempio.
“La
benda che copre i vostri occhi è il simbolo delle tenebre nelle quali si trova
l’uomo, dominato dalle passioni ed immerso nell’ignoranza e nella superstizione.
La Libera Muratoria potrà aiutarti a sciogliere codesta benda”.
Ebbene,
carissimi Fratelli, questa è un’affermazione molto impegnativa, e sono convinto
che non sarebbe male s’incominciasse ad onorarla, non solo a parole, ma anche
facendo qualche cosa di concreto per fornire, agli adepti, gli strumenti idonei
con i quali aiutarsi ad operare la liberazione promessa.
Ma,
riprendendo il filo del discorso: se la Costituzione è coerente con questa
necessaria realizzazione, se i Rituali, i quali sappiamo espressamente che
rispettano la Tradizione, sono perfetti così, senza cambiare una virgola, se
l’iter iniziatico è idoneo per il raggiungimento degli scopi desiderati, cosa è
che manca?
Da
parte dell’Istituzione quasi niente. Cioè, deve solo essere riattivato il
Lavoro iniziatico, come una vera e propria scuola, nella quale apprendere la
scienza della vita, come è detto espressamente nei Rituali: incominciando dal
Grado di Apprendista, a sviluppare negli adepti le loro capacità di conoscenza
di se stessi e, proseguendo negli altri Gradi, con il conseguimento dei
rispettivi livelli di consapevolezza. Le modalità del “come” realizzare
concretamente i vari gradi di conoscenza sarà oggetto di una trattazione
successiva.
Ma
allora, cosa è che manca ancora o che è mancato alla Libera Muratoria Italiana
per la piena attuazione delle sue finalità iniziatiche?
Oltre
alla mancata esecuzione di un completo e graduale lavoro muratorio, ed al fatto
di Lavorare, ad ogni Tornata, quasi esclusivamente in Grado di Apprendista, con
un impegno iniziatico molto vago. Quella che scarseggia paurosamente, quella
che è, quasi del tutto, inesistente, si può semplicemente chiamare la
“vocazione muratoria”.
Ciò
che non si vede in giro, frequentando le Officine, e dispiace molto dirlo, è il
“fervore e la dedizione iniziatica” indispensabili per poter orientare
l’affiliato, verso il “miglioramento di se stesso e dell’Umana Famiglia”.
Manca, in genere fra le Colonne, l’entusiasta che sente, finalmente, di aver
trovato ciò che cercava invano nel mondo profano e che, ora, si può impegnare e
lavorare, con fiducia e lealtà, per soddisfare le aspettative di quando è
venuto da noi, cioè guarire dalle “malattie esistenziali” cui è stato
condizionato nel mondo profano.
Ci
troviamo, è vero, di fronte ad un caso di inadempienza reciproca. Noi non gli
forniamo attività iniziatica, l’adepto non porta l’entusiasmo necessario per
vivere in una scuola iniziatica.
Non
sono, certo, queste le condizioni necessarie per un’ottimale funzionalità
dell’Istituzione. Non credo, pure, che siano queste le condizioni generali ed i
risultati che possono ripagare, in modo soddisfacente, tutto l’impegno, la
buona volontà e la buona fede di chi ci governa.
Per
quanto riguarda l’impegno e l’attività iniziatica, l’abbiamo già detto e ne
parleremo ancora, è possibile provvedere sollecitamente. La soluzione dei
problemi relativi al postulante, cioè come fare a scegliere solo profani che,
dotati di entusiasmo e di buona volontà, seguano proficuamente e con dedizione
tutto l’iter iniziatico, mi sembra che non sia di impossibile soluzione.
Per
tentare di risolvere quello che oggi è il serio problema del proselitismo,
bisogna prima di tutto, che ci sia la profonda convinzione di tutti i Maestri
Liberi Muratori italiani che non è possibile, se ci preme la sopravvivenza del
Grande Oriente d’Italia, come scuola iniziatica, continuare ad accettare
l’ingresso fra le Colonne di profani, selezionati con la distratta
superficialità odierna.
Perché,
secondo me, sono proprio i Maestri Liberi Muratori italiani che hanno, forse la
responsabilità della situazione, ma certo anche la possibilità di dare una
soluzione positiva a questa annosa e molto preoccupante controversia. Quindi è
indispensabile che siano loro, in piena coscienza e convinzione, ad assumersi
l’onere, non facile, non leggero, ma esaltante, di salvare dalla totale
invasione della profanità nella Libera Muratoria italiana.
Il
coinvolgimento di tutti i Maestri italiani è necessario, perché ritengo che
solo loro abbiano la possibilità di rimodellare, con fermezza e sapienza, il
proselitismo, riesumando in alcuni rari casi o semplicemente ufficializzando
negli altri, la figura del MAESTRO PROPONENTE il quale dovrebbe assumere, verso
l’Istituzione, la totale responsabilità per quanto concerne le qualità
necessarie all’iniziazione, del profano che presenta. E proprio perché nel nome
stesso ci sia, chiaramente ed impegnativamente, espresso il suo compito, lo
chiamerei il MAESTRO RESPONSABILE.
Niente
di nuovo sotto il Sole: in alcune Comunioni questo incarico viene espletato
proficuamente da tempo.
Ufficializzandolo,
questo MAESTRO RESPONSABILE, diventerebbe il vero filtro selettivo, oggi quasi
inesistente, che dovrebbe vagliare il postulante, rispondere a tutte le sue
domane e constatare spassionatamente se dimostra di possedere la genuina
predisposizione necessaria per entrare a far parte, attivamente, di una scuola
iniziatica.
Il
RESPONSABILE dovrebbe, più che sollecitare, assecondare il profano nel
soddisfare le sue richieste di sapere. Gli potrebbe proporre testi adeguati da
leggere per commentarli insieme, potrà avere con lui conversazioni nelle quali
saranno esposti, ed anche approfonditi, concetti, doveri, finalità. Questo
periodo potrà essere più o meno lungo a seconda dei casi e della frequenza
degli incontri. Comunque, non meno di cinque o sei mesi. Concluderà, quindi, la
fase di conoscenza e valutazione ora indicata, o la firma della domanda di
ammissione, secondo il muratorio principio del consenso libero ed informato,
accompagnata dalla relazione dettagliata del RESPONSABILE. Oppure sarà premura
del Maestro trovare le giuste argomentazioni, per i profani ritenuti inadatti,
con le quali far capire, con la sensibilità del caso, che il non firmare la
domanda è la soluzione migliore per tutte e due le parti.
Questo
approccio, quindi, non deve assolutamente avere una conclusione positiva
prestabilita. Inutile, mi sembra, spiegare ora perché non tutti possono essere
accettati in Massoneria e perché non deve costituire discredito il fatto di non
essere ammessi.
Il
compito del RESPONSABILE sarà, in seguito, quello di seguire il nuovo adepto,
durante tutto l’iter iniziatico, fino a quando avrà raggiunto do Gradi di
Maestro Libero Muratore.
Con
queste precauzioni, dovrebbe essere molto più probabile di quanto non lo sia
oggi, che il postulante, prima di decidersi a firmare la domanda di ammissione,
abbia maturato la consapevolezza che, con quel semplice gesto, dà la sua piena
disponibilità a conseguire il miglioramento di se stesso, qualunque sacrificio
possa costare. Ma questo miglioramento, e lui ne deve prendere coscienza prima
di entrare, non è fine a se stesso perché dovrà essere utilizzato, come punto
di partenza, per soddisfare pienamente quella che, quando poi eventualmente
sarà Maestro Libero Muratore, diventerà, inevitabilmente ma spontaneamente, la
sua VERA VOCAZIONE, e cioè, non solo a parole: l’elevazione ai vari livelli di
coscienza e la difesa da ogni tirannia dell’Uomo e dell’Umana Famiglia. In
altre parole: IL BENE DELL’UMANITA’,
Tutto
questo, vi può sembrare esagerato, e lo è certamente rispetto a quanto accade
oggi. Ma, carissimi Fratelli, credetemi, se non c’è nel postulante, fin da
prima dell’Iniziazione, il fervore, l’entusiasmo, lo slancio, la lealtà, il
coraggio e la curiosità prometeica necessaria, sarà molto improbabile che nasca
un buon Maestro Libero Muratore. Ed è proprio la mancanza di queste qualità che
costituisce, oggi per noi, il problema del proselitismo.
Questa
mia proposta, non è altro che il tentativo di sostituire al quasi totale
disinteresse odierno, per quanto riguarda i contatti del profano con la
Massoneria prima dell’ammissione, con la possibilità di avere dal postulante,
anche per la sicurezza di una coerente continuità iniziatica, un consenso
libero ed informato, adeguatamente vagliato da un Maestro Responsabile.
Tutto
questo non è altro che il tentativo di ampliare l’efficacia e l’assimilazione
delle semplici e precise parole, che vengono pronunciate dal Maestro
Venerabile, rivolte al profano, prima dell’Iniziazione.
Le
frasi principali, che ora citerò di seguito, potranno essere usate dal Maestro
Responsabile nei colloqui di preparazione e conoscenza, ma non sarebbe male che
pure l’Oratore ne facesse larga utilizzazione, come richiamo e conferma, nel suo
discorso di benvenuto al nuovo Apprendista Libero Muratore finita la cerimonia
di iniziazione.
“Dichiarate
sul vostro onore – dice il Maestro Venerabile al profano – che venite a
chiedere la Luce liberamente e spontaneamente, con disinteresse e spirito di
sacrificio, per il vostro ed il nostro perfezionamento ?” (…)
“I
princìpi della Libera Muratoria, comuni a tutti i Fratelli sparsi per il mondo
e fondati sulla ragione, rendono quest’Ordine Iniziatico inconfondibile e
universale. Tali princìpi sono immutabili, ma sono anche così perfetti da
consentire a ciascuno la piena libertà nella ricerca del Vero. La Tolleranza,
uno di questi princìpi, che noi consideriamo la prima virtù del Libero
Muratore, permette ad uomini di carattere e condizioni diverse di sedere
fraternamente in questo Tempio e di lavorare, per gli stessi scopi, nel più
assoluto, affettuoso, reciproco rispetto.”…
“Profano,
prima di ammettervi alle prove iniziatiche, abbiamo il dovere di dirvi quale
concetto noi abbiamo su alcuni princìpi etici: che cos’è la Libertà, che cos’è
la Morale, che cos’è la Virtù.”
“Per
noi la Libertà è il potere di compiere o di non compiere certi atti, secondo la
determinazione della nostra volontà. È il diritto di fare tutto ciò che non è
contrario alla legge morale ed alla libertà altrui.”
“La
Morale è, per noi, la legge naturale, universale ed eterna che guida ogni uomo
intelligente e libero. Essa ci fa apprendere i nostri doveri e l’uso ragionato
dei nostri diritti e si rivolge ai più puri sentimenti del cuore, per
assicurare il trionfo della Ragione e della Virtù.”
“La
Virtù (…) è la capacità di adempiere, in ogni occasione, i doveri del nostro
stato, nei confronti della Società e della Famiglia. Essa si esercita con
disinteresse e non si arresta né davanti ai sacrifici né davanti alla morte”
“Al
contrario, il vizio è concessione fatta all’interesse ed alla passione,
a
spese del Dovere. Il vizio, quindi, è il pericolo contro il quale bisogna
armarsi con tutte le forze della Ragione e con tutta l’energia del carattere.”
“È per
mettere un freno alle nostre passioni, per elevarci al di sopra dei vili
interessi, per imparare a calmare l’ardore dei nostri desideri antisociali e
antimorali, che noi ci riuniamo nei nostri Templi.”
“Noi
lavoriamo senza sosta al nostro miglioramento perché è solo regolando le nostre
inclinazioni e i nostri costumi che perverremo a dare a noi stessi quel giusto
equilibrio che costituisce la Saggezza, cioè la scienza della vita.”
“Ma
tale lavoro è penoso e impone molti sacrifici ai quali dovrete sottomettervi,
se sarete ammesso fra noi. Occorre che, consapevole dei vostri difetti, siate
disposto a lavorare senza tregua al vostro perfezionamento, se persistete nel
desiderio di essere accolto. Siete ancora disposto ?”
“Profano,
questa Istituzione ha le sue leggi che impongono doveri reciproci da osservare.
Siccome nessuno vuole imporvi obblighi che non conoscete, la saggezza di questa
Assemblea ha deliberato di dirvi quali saranno i vostri doveri, se sarete
ammesso fra noi. Il primo è quello di percorrere incessantemente la Via
iniziatica tradizionale per il vostro perfezionamento interiore.”
“Il
secondo è di praticare la Virtù, di soccorrere i vostri Fratelli, di alleviare
le loro disgrazie e di assisterli, con i vostri consigli e col vostro affetto.
Queste virtù, che nel mondo profano sono considerate qualità rare, sono per
noi, soltanto il compimento di un dovere gradito.”
“Il
terzo dovere sarà quello di conformarvi alle Leggi dell’Ordine dei Liberi
Muratori ed ai Regolamenti di questa Loggia. Posso tuttavia assicurarvi che
tali Leggi e tali Regolamenti non contengono alcunché di contrario ai Princìpi
dell’Ordinamento costituzionale ed alle Leggi dello Stato o che possa essere in
contrasto con la vostra coscienza di uomo libero e giusto.”
“Profano,
ora che vi abbiamo indicato i doveri di un Libero Muratore, persistete ancora
nel desiderio di essere accolto fra noi ?”
Bellissime
parole che preparano meravigliosamente bene il successivo Lavoro iniziatico
che, diversamente da quanto accade oggi nella maggior parte dei casi, deve
essere sidtematicamente svolto fra le Colonne, in tutti e tre i Gradi
dell’Ordine.
Carissimi
Fratelli, nell’ambito della sovranità della Loggia, e per il bene della
Massoneria, in via transitoria, ritengo si possa sperimentare subito questo
procedimento che riguarda il proselitismo ed il premuroso sostegno, dei Maestri
Responsabili, allo sviluppo iniziatico dei Fratelli Apprendisti e Compagni.
È
nelle facoltà del Maestro Venerabile, sollecitare i Maestri presentatori a
svolgere questa loro non proprio nuova funzione, e nel caso di indisponibilità,
a proporre dei Maestri idonei.
Carissimi
Fratelli, non è per puro desiderio di cambiamento che vi ho fatto queste
proposte, ma è la convinzione, e spero che voi ne siate persuasi quanto me, che
la Libera Muratoria, come istituzione, non ha bisogno di rinnovarsi, non ha
bisogno di rifondazioni o di rivoluzioni, aspetta semplicemente di essere
utilizzata per quello che è stata creata e cioè di funzionare secondo cicli
iniziatici di lavoro già definiti, utilizzando materiale umano vagliato ed
idoneo alla sgrossatura ed alla squadratura.
Carissimi
Fratelli, proviamo, con tutto l’ardore muratorio che ancora brucia dentro di
noi, a mettere in moto questa meravigliosa Macchina, che in altri tempi ha
stupito il mondo, ma che può, ancora, dare moltissimo per il progresso
dell’Umanità.
I VANGELI GIUDEO-CRISTIANI
Brano tratto dal libro NUOVE IPOTESI SU GESU’ di David Donnini,
Macro Edizioni, Cesena (seconda edizione, 1998)
In parallelo con la
predicazione di Paolo, tendente a scindere il cristianesimo dalla sua matrice
giudaica, esistevano seguaci dell’insegnamento di Gesù che non avevano alcuna
intenzione di abbandonare la legge mosaica.
Esisteva cioè un cristianesimo giudaico, una concezione coerente con gli
insegnamenti del Messia ebreo, il quale non aveva mai cercato di istituire una Chiesa
extragiudaica; al contrario, si era presentato come l’Unto di Yahweh, venuto a
ricostruire l’antico regno di Davide e a purificare la società ebraica dalla
corruzione e dalla connivenza col paganesimo.
I giudeo-cristiani, prima del 70 d.C., erano probabilmente i messianisti
esseno-zeloti e, dopo il 70 d.C., erano i discendenti degli esseni e degli
zeloti, e non potevano assolutamente riconoscersi nell’insegnamento propagato
da Paolo di Tarso in ambienti non palestinesi.
I giudeo-cristiani non potevano accettare le libere argomentazioni di un ex
fariseo che aveva mescolato concetti del messianismo ebraico con idee mutuate
da varie religioni del contesto greco-latino, costruendo una nuova teologia che
dichiarava decaduta la legge di Mosè.
I giudeo cristiani avevano i loro Vangeli e, con tutta probabilità i più
primitivi fra i Vangeli. Scrive, a questo proposito, lo studioso Marcello
Craveri:
“…l’aperto
rifiuto ad accettare contaminazioni con le credenze ellenistiche introdotte da
Paolo dimostrano proprio, a mio avviso, che questi nuclei giudeo-cristiani sono
molto più vicini al pensiero della primitiva comunità cristiana palestinese che
non i gruppi greco-romani dal cui ambiente si sono espressi i vangeli canonici.
E in molto casi c’è da domandarsi se gli ipsissima verba di Gesù non
siano proprio quelli tramandati dai vangeli di codesti nuclei” (I
Vangeli Apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi)
Come si è comportata la
corrente facente capo a Paolo nei confronti degli scritti giudeo-cristiani?
Ha ricavato da essi molti elementi ed informazioni riguardanti l’opera e
l’insegnamento di Cristo, ha costruito liberamente una sua cristologia e una
sua teologia, infine ha dichiarato eretici i Vangeli giudeo-cristiani e li ha
tolti di mezzo, poiché in essi c’erano scritte cose che non si potevano più
ammettere.
Che cosa è rimasto a noi di questi scritti?
Soltanto brevi citazioni che i Padri della Chiesa, nei secoli II, III, IV, V,
hanno riportato nelle loro opere. Ma (si faccia grende attenzione) i Padri
della Chiesa, continuatori della linea teologica iniziata da San Paolo, citano
tali Vangeli sempre e soltanto per criticarli e per confutarli, pertanto le
loro testimonianze sono sempre tendenziose.
Questo non ha impedito loro di trasmetterci alcune utili informazioni. Possiamo
leggere:
“…nel
Vangelo che essi (gli Ebioniti) usano, detto “secondo Matteo”,
ma non interamente completo, bensì alterato e mutilato, e che chiamano
“ebraico”… hanno tolto la genealogia di Matteo…”.
(Epifanio, Haer., XXX, 13, 6).
“…(gli
Ebioniti) seguono unicamente il Vangelo che è secondo Matteo e rifiutano
l’apostolo Paolo, chiamandolo apostata della legge…”. (Ireneo,
Adv. Haer., I, 26).
“…Gli
Ebioniti, pertanto, seguendo unicamente il Vangelo che è secondo Matteo, si
affidano solo ad esso e non hanno una conoscenza esatta del Signore…”.
(Ireneo, Adv. Haer., III, 11).
“…costoro
pensavano che fossero da rifiutare tutte le lettere dell’apostolo(Paolo), chiamandolo apostata della legge, e servendosi del solo Vangelo
detto secondo gli ebrei, tenevano in poco conto tutti gli altri… in
conseguenza di un simile atteggiamento hanno ricevuto il nome di ebioniti che
indica la povertà della loro intelligenza: il termine, infatti, presso gli
ebrei significa povero…”. (Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl., III,
27).
Si noti la tendenziosità di
queste ultime parole: secondo Eusebio di Ceasrea (262 ca. – 338 ca.), autore di
una apologetica Storia della Chiesa, gli ebioniti furono chiamati così
per “la povertà della loro intelligenza“. La realtà, che
Eusebio non conosce, o che vuole nascondere, è un’altra: le prime comunità
giudeo-cristiane erano organizzate secondo il principio esseno della
condivisione dei beni e dello stile estremamente frugale di vita; l’abbiamo
letto chiaramente negli scritti di Filone che gli Esseni “…ritengono
che la frugalità con la gioia sia, come in realtà è, un sovrabbondante
benessere…”. L’interpretazione che Eusebio fornisce per spiegare il
nome degli Ebioniti non è l’unica che è stata escogitata dai Padri della
Chiesa. Scrive Marcello Craveri:
“…l’esistenza
di un eretico di nome Ebion fondatore di una setta è un’invenzione di Epifanio
(Haer. XXX, 3, 7) o della fonte a cui attinge, mentre il nome di questi
proto-cristiani deriva dall’ebraico ebionim, che significa “gli
umili”, “i poveri”, con riferimento evidente non solo alla
semplicità di vita monastica che essi conducevano (pare anche che fossero
vegetariani), ma soprattutto allo spirito che animava la loro predicazione: una
protesta contro le ingiustizie sociali e contro i ricchi. Del messaggio
cristiano essi pongono l’accento soprattutto sul fermento rivoluzionario
contenuto nel discorso della montagna e i loro proseliti, probabilmente,
provenivano dagli ame-ha-erets, la plebaglia, gli esseri impuri con cui Gesù
non aveva disdegnato porsi a mensa a Cafarnao…”. (I Vangeli
Apocrifi, Einaudi, Torino).
Appare evidente l’intenzione
della Chiesa Cristiana dei primi secoli, ormai chiaramente distinta
dall’ebraismo, di rifiutare le concezioni giudeo-cristiane, sebbene esse siano
state le fonti a cui risale la tradizione primitiva su Gesù.
Afferma lo studioso Luigi Moraldi:
“…gli
ebioniti non ammettevano la nascita verginale di Gesù. Gesù Cristo è figlio di
Dio non per divina generazione, ma per la sua unione con lo Spirito Santo
realizzatasi nel battesimo che, a quanto ci è dato capire, è l’unione di una
natura celeste con l’uomo Gesù (ben più di una semplice adozione o
ispirazione); compito di Gesù è l’eliminazione dei sacrifici cruenti; gli
apostoli furono mandati a Israele; gli ebioniti erano vegetariani, amavano e
praticavano la povertà…”. (Apocrifi del Nuovo Testamento, UTET,
Torino, 1975, p. 359).
Come abbiamo detto, esistevano
anche il Vangeli dei Nazorei (o Nazarei, o Nazareni) e il Vangelo degli Ebrei,
che alcuni autori considerano come due opere distinte, altri come le diverse
denominazioni di una sola opera.
“…(I
Nazarei) posseggono il Vangelo secondo Matteo, assolutamente integrale, in
ebraico, poiché esso è ancora evidentemente conservato da loro come fu
originariamente composto, in scrittura ebraica. Ma non so se abbiano soppresso
le genealogie da Abramo fino a Gesù…”. (Epifanio, Haer. XXIX, 9,4).
“…(I
Nazarei) accettano unicamente il Vangelo secondo gli Ebrei e chiamano
apostata l’apostolo (Paolo)…”. (Teodoreto, Haer. Fabul. Comp.
II, 1).
“…(I
Nazarei) hanno usato soltanto il Vangelo secondo Matteo…”.
(Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 2).
“…Essi
sono Giudei che onorano Cristo come uomo giusto e usano il Vangelo chiamato
secondo Pietro…”. (idem).
L’esistenza di una setta detta
“dei Nazorei”, e di un Vangelo che porta questo nome richiama una
questione cui abbiamo già accennato.
Infatti è molto poco credibile che Nazorei significhi “abitanti
della città di Nazareth”, c’è piuttosto da credere che il termine, con
cui è definito spesso lo stesso Gesù, indichi i seguaci di un particolare
ideale religioso, che può avere relazione, ma non necessariamente, con l’antico
nazireato ebraico.
il
tema che mi accingo a trattare è molto vasto e spazia in ambito religioso,
politico, storico, filosofico, ecc. Ritengo personalmente che sia abbastanza
noto e dibattuto l’aspetto riguardante
l’integrazione dei migranti, specie nel mondo occidentale, che si trova di
fronte a flussi migratori imponenti e non facilmente gestibili, e che sia
altrettanto conosciuto e discusso il fenomeno delle differenze di credo
spirituale, che sfociano spesso in lotte cruente e feroci, con rari tentativi
mal riusciti di giungere ad un vero e duraturo ecumenismo. Per questi motivi ho
ritenuto più opportuno affrontare l’argomento da un punto di vista sociale, con
la speranza di suscitare ulteriori riflessioni in merito.
Nelle scienze sociali il termine
integrazione indica l’insieme dei processi sociali e culturali che rendono
l’individuo membro di una società; il singolo diviene parte integrante della
comunità, tramite una reductio ad unum
che si articola in accettazione, cooperazione, solidarietà e socializzazione.
Tra questi strumenti il primo e più
importante è certamente quello della socializzazione
primaria, ovvero la trasmissione al neonato e successivamente al bambino,
da parte soprattutto della famiglia, di quel catalogo di competenze sociali,
valori e norme attraverso le quali la società riproduce se stessa, venendo
interiorizzata dall’individuo.
Successivamente, egli andrà incontro ad
altri tipi di socializzazione praticati da agenti diversi (la scuola, il
lavoro, le cerchie amicali, le associazioni) accumulando e specializzando le
sue competenze di definizione del mondo e le interazioni con esso.
Nelle società complesse e molto
strutturate, l’integrazione è ottenuta tramite l’adesione formale dei suoi
membri ai principi sanciti da ambiti culturali quali la morale e l’etica,
codificati in sistemi normativi di tipo legislativo.
Nelle società di carattere comunitario,
invece, l’integrazione attiene più profondamente al vissuto individuale,
essendo tali società basate su una fusione spontanea delle volontà dei singoli
e non sull’adesione generalizzata a norme rigide di carattere impersonale.
Questo secondo tipo di società viene
definito a solidarietà meccanica: qui
l’integrazione – e quindi il mantenimento e la riproduzione dell’ordine
materiale e simbolico in cui sono immersi gli individui – è garantita dalla
caratteristica delle singole “anime” individuali di sentirsi articolazioni di
un’anima “collettiva”, con la quale vi è un legame d’appartenenza forte e
totalizzante.
Nelle società complesse vige, al contrario, un tipo di solidarietà organico, basato cioè sulla consapevolezza della necessità d’interdipendenza tra i vari “organi” del corpo sociale, i quali curando ognuno la riproduzione di un singolo aspetto della vita collettiva (la produzione, l’organizzazione, la trasmissione dei valori) si necessitano reciprocamente per la conservazione dell’organismo rappresentato dalla società. A livello individuale, questa consapevolezza si esplica nel riconoscimento della necessità di una regolazione della vita sociale dal punto di vista economico, legislativo, culturale, ecc. ovvero di una disciplina generalmente accettata riguardante i rapporti tra individui e tra gruppi in ciascuno di questi
Le situazioni di carenza o mancanza
d’integrazione sono definite da Emile Durkheim con il termine di “anomia”,
fenomeno consistente nel declino di rapporti che può sfociare nella scomparsa
di regole morali generalmente accettate, causata da un mutamento nelle
condizioni materiali di esistenza di determinati gruppi sociali cui non corrisponde,
o non corrisponde in modo esaustivo, un cambiamento normativo. Durkheim
include, tra le circostanze potenzialmente responsabili del verificarsi di
situazioni “anomiche”, i momenti di effervescenza
collettiva, in cui la produzione culturale di una società aumenta
d’intensità e di problematicità, con fenomeni quali l’emersione di nuove
tendenze religiose o di nuove “visioni del mondo”, che possono sfociare nella
formazione di ulteriori movimenti sociali e politici. Questi processi, latori
nel breve periodo di situazioni di “anomia” e di conseguente instabilità
sociale, possono essere istituzionalizzati attraverso un percorso di
generalizzazione, codificazione ed accettazione delle loro proposte, che
vengono acquisite dal senso comune e rientrano nelle dinamiche di integrazione
sociale descritte in precedenza.
Nelle moderne democrazie i fenomeni
sociali mutano costantemente, anche se non sempre avvertiamo la consistenza e
lo spessore di tali mutamenti, con il rischio di perderne il controllo e di non
mettere in atto gli opportuni correttivi.
Robert Putman, uno dei più influenti
politologi americani, nel suo studio più famoso contenuto nel saggio “Bowling
Alone” edito negli Stati Uniti nel 2000, ha fatto aprire gli occhi a tutto il
mondo palesando la progressiva regressione dell’integrazione sociale.
Sfruttando la metafora del gioco del bowling, racconta l’abitudine americana di
incontrarsi nelle relative sale da gioco, organizzare tornei e riunirsi in
associazioni sportive, rendendo corposa la natura di una società vivace, in cui
i singoli individui dimostrano la loro propensione a stringere legami
interpersonali. Le associazioni sono, infatti, per gli americani lo strumento
per percepire, al di fuori di ogni singola esistenza, il mondo esterno come
proprio e vivere pienamente la realtà di cui si fa parte.
Putman osserva un’inversione di marcia
nelle ultime due decadi: le associazioni tradizionali stanno scomparendo, la
fitta rete di vincoli interpersonali si sta sfaldando, la società assume una
forma sempre più individualizzata. Ci s’incontra meno, non si stringono più
rapporti con il vicinato, non ci si riunisce in gruppi organizzati, diminuisce
l’impegno a mettere in comune le proprie esperienze con altre persone. E così
il tempo libero diventa una risorsa da consumare spesso da soli.
Da questa sintetica e certamente
incompleta analisi dell’integrazione sociale, ne deriva, a mio modo di vedere,
una riflessione sulla validità e attualità di una forma particolare e
importante di associazionismo qual è la Massoneria, la quale persegue la più
ampia armonia fra i popoli, al di sopra delle razze, delle religioni, delle
idee politiche e filosofiche, realizzando una vera e profonda integrazione fra
i propri adepti i quali, formati e modellati dai principi e dai valori
massonici, divengono lo strumento fondamentale per l’affermazione dell’amore
fraterno fra tutte le genti. Nel Tempio, durante i Lavori Rituali, si raggiunge
la totale uguaglianza tra i Fratelli, scomparendo ogni distinzione di rango, di
censo, di scolarità, di posizione sociale; le uniche distinzioni sono date dal
Grado e dalle gerarchie della Loggia, liberamente e democraticamente elette
ogni anno. Nel nostro Ordine possono operare serenamente uomini diversi per
etnia, per sensibilità spirituale, per livello culturale, per esperienze di
vita; sono queste diversità, armonicamente unite, che danno alla Massoneria
forza e vigore e che ci spingono a “lavorare per il bene e il progresso
dell’Umanità”. E’ un obiettivo ambizioso, raggiungibile solo a piccoli passi,
con faticosa costanza, ma è un’utopia per la quale, credo, valga la pena di
lottare e di impegnarsi; anche se il risultato finale non sarà mai raggiunto
totalmente, sono convinto fermamente che il solo provarci può dare un senso compiuto
e sublime alla nostra esistenza.
“E canterò di quel secondo regno / dove l’umano spirito si
purga, / e di salire al ciel diventa degno” (Purgatorio I, 4-6) Dante
Alighieri, inserendo al centro della Divina Commedia la cantica del Purgatorio,
ha creato una nuova iconografia, offrendo spunti inediti all’immaginario
collettivo e artistico. Il poeta dà forma all’idea di un regno intermedio,
provvisorio, che si interpone tra i due luoghi tradizionalmente antagonisti,
l’Inferno e il Paradiso, per consentire la purificazione delle anime. Il terzo
luogo dell’aldilà è il risultato di una lenta e progressiva mutazione delle
credenze medievali, che giunge a compimento intorno alla seconda metà del XII
secolo. È però Dante il primo a concepire il Purgatorio come una montagna che
emerge dal mare, costituita da cornici concentriche presidiate da angeli. Le
anime dei penitenti la percorrono dal basso verso l’alto, partendo dalla breve
spiaggia dove approdano con una navicella, in costante umile ascesa fino a
giungere all’Eden, posto in cima. La novità introdotta dalla Divina Commedia è
proprio quella di considerare il Purgatorio come un luogo autonomo,
geograficamente collocato agli antipodi di Gerusalemme, nato in conseguenza
della precipitosa caduta di Lucifero fino alla profondità della Terra. La Divina
Commedia è stata una fonte inesauribile di suggestioni per gli artisti, e ha
lasciato una traccia indelebile nell’iconografia del trascendente. La
produzione di splendide illustrazioni in miniatura, iniziata fin dalle prime
copie manoscritte realizzate subito dopo la morte di Dante e proseguita nel
corso del Trecento e del Quattrocento, dimostra la grande diffusione e lo
straordinario successo del poema, il cui corredo figurativo costituisce non
solo un prezioso ornamento, ma una vera e propria spiegazione visiva. Iniziali
figurate, elementi decorativi disposti a fregio, vignette inserite nello
scritto, miniature a piena pagina offrono una gamma molto varia di scelte
illustrative per le tre cantiche. Il Purgatorio non godeva di precedenti
figurativi; sono proprio i miniatori a creare nuove iconografie destinate a
essere riecheggiate dalle xilografie delle versioni a stampa e dalle opere di
numerosi artisti dei secoli seguenti. Dopo la diffusione del testo dantesco,
tra XIV e XV secolo, il regno intermedio della speranza -immerso nello scorrere
del tempo, destinato a scomparire con il Giudizio Universale- diviene nelle
raffigurazioni artistiche visivamente indipendente dall’Inferno. Non più un
luogo sotterraneo in cui gli angeli cercano di sottrarre alle fiamme alcuni
uomini giusti, come appariva nelle prime illustrazioni di manoscritti liturgici
e di testi devozionali, o una sequenza di buie caverne popolate di anime
penitenti e oscuri demoni, come affrescato nel coro dei monaci del convento di
San Francesco a Todi (1346) e da Bartolomeo di Tommaso nella Cappella Paradisi
della chiesa di San Francesco a Terni (1450 c.), bensì una faticosa salita
-gradone dopo gradone- verso il Paradiso Terrestre, forse memore delle scale
dipinte nei libri medievali dei vizi e delle virtù.
Maestro del Purgatorio di Todi, Il Purgatorio di San
Patrizio, 1346, affresco, Todi, Monastero di San Francesco (Foto Castrichini,
iluoghidelsilenzio.it)
Il terzo regno
inizia a essere rappresentato nei codici miniati come un grande monte scosceso,
suddiviso in gironi: la progressione verticale riflette scenograficamente la
graduale purificazione spirituale dei penitenti. Le anime accettano con gioia
punizioni durissime perché sono spinte dalla speranza e dal desiderio di
giungere alla meta finale, il Paradiso. La presenza degli angeli, altro
elemento fortemente innovativo del Purgatorio dantesco, aiuta gli spiriti
purganti a liberarsi dai peccati, per presentarsi totalmente puri davanti a
Dio. Nel quattrocentesco codice Palatino 39 della Biblioteca Nazionale di
Firenze, il miniatore ha istoriato la lettera D del IX canto con la
rappresentazione di Dante e Virgilio che giungono alla porta del Purgatorio,
presidiata dall’angelo guardiano, vestito di bianco, con la spada in mano. Dopo
aver percorso tre gradini di marmo bianco, di pietra nera e di porfido rosso, i
due poeti inginocchiati chiedono di poter entrare nell’aspra montagna,
brulicante di anime. Anche nella miniatura a piena pagina di un altro
manoscritto coevo, custodito nella stessa biblioteca (Ms. BR 215), l’altura
rosata sorvegliata dall’angelo è percorsa da un cammino spiraliforme ed è
conclusa in cima dal Paradiso terrestre; un monte simile è delineato sul fondo
del disegno realizzato da Botticelli dopo il 1480 per illustrare il primo canto
del Purgatorio. L’immagine del Purgatorio è inserita anche in opere
rinascimentali di dimensioni maggiori: nella celebre effige di Dante realizzata
da Domenico di Michelino per Santa Maria del Fiore (1465), alle spalle del
poeta, circondato dai tre regni dell’oltretomba, appare l’alta rupe percorsa
dalle anime purganti, mentre nella lunetta dipinta da Agnolo Bronzino per
Bartolomeo Bettini nel 1532-33, Dante, di profilo, è seduto su una roccia e
volge malinconicamente lo sguardo verso l’ isola-monte Purgatorio, che si erge
dal mare in tutta la sua asprezza.
Domenico di Michelino, Dante e la Divina Commedia, 1465.
Tempera su tela (?), 232×290 cm, Firenze, Chiesa di Santa Maria del Fiore
(Wikimedia Commons)
Agnolo Bronzino, Dante osserva il Purgatorio, 1532-1533.
Olio su tela, 130×136 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi.
Fin dal XIV secolo
la forza visiva e immaginativa del testo dantesco e le infinite possibilità
espressive della sua parola avevano offerto agli illustratori dei numerosi
codici manoscritti della Commedia spunti creativi per altre straordinarie
invenzioni. Ad esempio nell’incipit del Purgatorio il poeta, per indicare il
proprio ingegno impegnato nella stesura del poema, si affida a un’immagine
nautica che il miniatore del codice Egerton 943 della British Library di Londra
illustra con un inedito accostamento di due motivi: il poeta allo scrittoio e
la navicella dell’ingegno. Intento nella scrittura, Dante è seduto sul cassero
di poppa di un realistico veliero, simbolo dell’altezza d’ingegno del poeta che
“alza le vele” verso le “migliori acque” del Purgatorio. Tuttavia è soprattutto
il trittico dedicato ai superbi (Purgatorio canti IX-X-XI) -con le celebri
descrizioni dei bassorilievi marmorei intagliati sulla parete e sulle lastre
del pavimento della cornice- che, oltre a rivelare i debiti contratti da Dante
con la tradizione figurativa medievale, lancia una sfida tra parola e immagine
sulla capacità di rappresentare la realtà. Con la descrizione dei rilievi
raffiguranti esempi di umiltà o superbia su cui le anime devono meditare, Dante
recupera la tradizione antica dell’ecfrasi, ossia la descrizione letteraria
dell’opera d’arte. Queste effigi, definite da Dante stesso “visibil parlare”,
sono presentate come paradigmi di bellezza e realismo, superiori a ogni altra
realizzazione dell’arte e della natura e si offrono inevitabilmente come
termine di confronto per gli artisti e gli illustratori da Lorenzo di Pietro e
Guglielmo Giraldi a Luca Signorelli, fino a Federico Zuccari. Tre miniature del
codice urbinate di Guglielmo Girardi e Franco de Russi sono dedicate alla
dettagliata raffigurazione dei bassorilievi scolpiti. Giradi gioca con
l’ecfrasi e, in una sorta di rispecchiamento tra testo letterario e testo
figurativo, rappresenta con accuratezza il fregio marmoreo contemplato da Dante
e Virgilio mentre la schiera dei penitenti avanza faticosamente, accovacciata
sotto pesanti massi. Se Luca Signorelli si ispira a una pagina miniata,
riservando all’illustrazione dei canti del Purgatorio dantesco lo spazio dei
monocromi affrescati tra una fitta decorazione a grottesche sullo zoccolo della
cappella di San Brizio ad Orvieto, Federico Zuccari, autore del complesso
progetto editoriale del “Dante Historiato”, giunge a esiti senza precedenti
nella storia dell’illustrazione del poema dantesco. Nel raffinato disegno a
penna e bistro del Canto XI raffigura l’incontro di Dante e Virgilio con tre
noti personaggi: Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Salvani, identificati da
eleganti iscrizioni che riportano alcune terzine del canto. Questi uomini, un tempo altezzosi e fieri,
dai corpi nudi e vigorosi, oppressi da gigantesche pietre, camminano in uno
spazio libero, cadenzato ritmicamente dalle geometriche specchiature della
parete e calpestano le scene sul pavimento, istoriato con esempi di superbia
punita. Il coltissimo artista manierista si inserisce nel dibattito culturale
tardo-cinquecentesco dell’ut pictura poesis rovesciando il tradizionale
rapporto tra testo e immagini del libro figurato: del testo ritiene sufficiente
trascrivere solo alcuni estratti, mentre la raffigurazione dell’episodio occupa
ormai l’intero foglio.
La madre dei massonofobi è sempre incinta… a cura di Stefano Cappelletti
Si
potrebbe dire che «ogni ulteriore commento è superfluo» per questa fiera
dell’ipotesi, dell’ardita interpolazione e del condizionale. Ma quello che
lascia maggiormente sconcertati è che questa ricostruzione (a metà tra il
“Pendolo di Foucault” e il Taxil) sia uscita dalla penna di un (pur
se ex) Magistrato della Repubblica Italiana. E se queste sono le basi di
partenza con le quali viene considerata dalla Magistratura la Massoneria in
Italia molte cose, allora, si potrebbero spiegare…
NOTE
BIOGRAFICHE di Carlo Palermo
Carlo Palermo ha condotto come magistrato alcune delle inchieste più
importanti e scottanti degli anni ’80, dal traffico d’armi e droga a quelle
di mafia e corruzione.
Lasciata nel 1990 la Magistratura, svolge – come avvocato – unicamente il
ruolo di difensore delle parti civili in alcuni processi di mafia. Deputato
nella XI Legislatura, attualmente è Consigliere regionale e provinciale a
Trento, ove di recente ha fondato un nuovo movimento per la giustizia. Ha
pubblicato Riflessioni di un giudice (1987), L’attentato (1992), Il
quarto livello (1997), Il Papa nel mirino (1998).
Tratto dal libro dell’ex magistrato Carlo Palermo:IL QUARTO LIVELLOIntegralismo islamico, massoneria e mafia.
Dalla rete nera del crimine agli attentati al Papa nel nome di Fatima.
(Editori Riuniti, nuova edizione 2001)
Capitolo 5 – Gli attentati al Papa nel nome di Fatima.
pag. 125)
Ipotesi di presenze e convergenze massoniche
Se nel quadro degli attentati al Papa in america latina,
quelle che sono state appena indicate possono apparire mere farneticazioni di
esaltati, resta comunque da rilevare il ricorrente riferimento alle profezie
di Fatima.
Il dato più inquietante è quello dei due tentativi reali di uccidere il Papa
(nel 1981 e 1982) da parte di soggetti di estrazione diversa (mussulmana e
cattolica) entrambi accomunati – anche al di là di ogni ipotesi di complotto
– dalla identica esaltazione mistica contro il Pontefice polacco e dalla
scelta del giorno.
Questa ricorrenza – quanto meno strana – impone dunque un ulteriore esame
sulle circostanze relative ai due attentati (quelli del 13 maggio 1981 e del
13 maggio 1982), episodi con punti di contatto e momenti di convergenza
inequivocabili e quasi incredibili.
Il primo e il più evidente è ovviamente quello relativo alla scelta del
giorno: la commemorazione delle apparizioni di Fatima, un evento
eccezionalmente significativo in relazione alla situazione del tempo
(contrapposizione politica Usa-Urss, contrapposizione Khomeyni-Washington) e al
ruolo ecumenico assunto dal Papa polacco all’inizio del suo pontificato con
le sue continue peregrinazioni.
Il secondo, altrettanto evidente, è la matrice «integralista».
Nell’attentato eseguito da Ali Agka emerge la componente integralista
islamica e in particolare quella musulmano-sciita presente nelle forme più
violente del Jihad islamico.
Nell’attentato di Juan Fernàndez Krohn affiora in tutta evidenza la
componente integralista cattolica, in particolare quella legata a
un’interpretazione storica che misconosceva l’autorità del Papa.
In sostanza il progetto di assassinare il Papa avrebbe coinciso con
l’emergere di varie eresie sufi in vari settori della stessa chiesa
cattolica. Tra queste l’influenza dell’armata blu di Fatima o la teologia
della liberazione dei gesuiti sono solo degli esempi. L’obiettivo di queste
eresie parrebbe quello di dividere la Chiesa cattolica attraverso degli
scismi; iniziativa decisamente contrastata dal Papato. Per questi motivi
l’assassinio violento e pubblico del Papa avrebbe avuto un’importanza
decisiva per gli obiettivi della società Thule e per gli interessi ad essa
collegati.
Il terzo punto, e forse il più inquietante, è quello relativo agli aspetti
oscuri legati alle simbologie rappresentate da Fatima in cui si sovrappongono
elementi occulti di difficile definizione.
Una quarta componente, almeno relativamente al primo attentato (e cioè quello
che si tradusse in un effettivo ferimento del Papa), rivela infine
l’inserimento di manipolazioni ai fini della destabilizzazione Ovest-Est,
influenzate dagli ambienti americani della Cia.
Da ciò si potrebbe dedurre un’unica componente comune ai vari episodi: la
componente massonica trasversale e occulta, legata da una parte a simbologie
ben precise con significati e messaggi comunque riconoscibili; dall’altra
presente, dall’Ovest all’Est, al Sud, nella sua valenza sopranazionale e in
contrapposizione al Papa e al comunismo, in una ideologia di sostegno teorico
e pratico alla destra e al terrorismo internazionale.
Va ricordato che nelle indagini svolte dalla magistratura di Trento nel 1983
vennero indicate le banche sulle quali doveva avvenire il pagamento di tre
milioni di marchi promessi al Ali Agka per l’attentato al Papa.
Sulla base di collegamenti oggettivi si pervenne già allora ad inquietanti
ipotesi, che oggi vale la pena di riesaminare in relazione agli aspetti
oscuri ed occulti che circondano quegli attentati. Non va infatti dimenticato
che maturarono in un contesto storico preciso, tra conflitti di potere e
misteri (italiani, internazionali, politici, economici e bancari) che ancora
non sono stati chiariti (dal reale ruolo di Sindona e Calvi, a quello di
Marcinkus e dello Ior).
Come nemmeno sono mai stati del tutto chiariti i collegamenti e le coperture
che allora si verificarono tra mafia, massoneria e integralismo.
In questo diverso e più ampio quadro di lettura, sarà bene ricordare quanto
risultava in alcuni atti di quel processo, in cui attraverso un’analisi sugli
istituti di credito emersi per commissionamento dell’attentato ad Ali Agka,
si evidenziava che questi conducevano alla figura di uno dei più potenti
oligarchi tedeschi, e precisamente al principe Johannes von Thurn und Taxis,
ostile al Papa e alto esponente della massoneria di rito scozzese [……].
I riferimenti che nell’attentato al Papa del 1981 riconducono alla famiglia
del massone De Taxis, si ritrovano quasi incredibilmente anche in ordine al
secondo attentato, avvenuto lo stesso giorno dell’anno seguente, il 13 maggio
1982.
Quel giorno il Papa si era recato a Fatima per consacrare il mondo alla
Madonna e invocare la cessazione del conflitto fra Inghilterra e Argentina,
per le isole Falkland, e a questo conflitto si richiamano i collegamenti e i
contrasti finali tra le più elevate oligarchie inglesi e Calvi.
Proprio il 13 maggio 1982, dinnanzi alla folla incredula dei fedeli il prete
ultrà spagnolo Juan Fernàndez Krohn, tradizionalista, ex seguace del vescovo
ribelle Lefebvre, venne bloccato davanti all’altare di Fatima: indossava un
abito talare e impugnava una baionetta lunga 37 centimetri. L’uomo, tentando
di aggredire il Papa, gridò: «la Chiesa è in crisi per colpa di Wojtyla»
[……]. Nel novembre del ’92 il cardinale polacco Andrey Maria Deskur in
un’intervista al settimanale Il Sabato manifestò solo
certezze metafisiche sull’episodio del 1981: «Chi ordì il complotto per
uccidere il Papa?» disse «Il diavolo naturalmente» […]. «Lei vuole sapere se
il diavolo si è servito del Kgb o non piuttosto della Cia? Dovrà attendere il
giorno del giudizio […]» [……]. In effetti, nella inchiesta di Trento si
evidenziò – come mai altrove fu notato – che tutti e due gli attentati al
Papa del 1981 e 1982, erano avvenuti, e non casualmente, il 13 di maggio ed
emerse che la Madonna di Fatima rappresentava, per un gruppo fondamentalista
l’essenziale punto di riferimento cultista. Si badi bene – si specificava in
un rapporto giudiziario – «cultista, non religioso» [……]. Questo ci induce a
spingerci oltre in quelle ricerche che hanno consentito l’individuazione di
un collegamento tra questo primo attentato e l’alto esponente della
massoneria di rito scozzese Johannes von Thurn und Taxis (appartenente anche
all’ordine di Malta).
Procedendo su questa pista, con riferimento però al secondo attentato, si può
rilevare che la famiglia dell’ex casa reale portoghese, i Braganza, era
imparentata proprio con quelle dei Thurn und Taxis di Regensburg e che il
secondo attentatore – il prete Juan Fernàndez Krohn (appartenente al
raggruppamento integralista del Culto di Fatima) – avrebbe trascorso un periodo
di tempo nel monastero di Regensburg, controllato e gestito allora
dall’ottuagenario Padre Emmeran, membro della famiglia Thurn und Taxis [……].
Il castello di famiglia Thurn und Taxis, a Regensburg, era stato usato
durante la seconda guerra mondiale come base operativa delle Allemagne Waffen
SS, e alla fine della guerra in poi dai servizi di controspionaggio americano
ed inglese per interrogare prigionieri e individui provenienti dall’Est.
Allo stesso modo il castello di Duino, vicino a Trieste, appartenente alla
famiglia del ramo italiano dei Thurn und Taxis – i principi di Torre e Tasso
– era servito all’esercito e al controspionaggio inglese nel dopoguerra [……].
Tra incredibili coincidenze riemergono gli scenari internazionali di quel
particolare momento storico, in cui nel contrasto tra centri di poteri
occulti occidentali – di destra – e comunismo e tra ideologie islamiche
integraliste e Occidente si crearono trasversalmente le strutture economiche
e materiali di sostegno e di copertura al terrorismo integralista di varie
matrici, con una caratteristica comune: l’ostilità al Papa polacco,
principale nemico da abbattere.
Fatima, patrimonio templare- massonico ?
Certamente quel che di è detto sulla eventuale presenza di
messaggi «massonici» nei due attentati al Papa può destare scetticismo e
incredulità. Sentimenti che ha avvertito anche chi scrive, pur se frammisti
alla consapevolezza di trovarsi di fronte a fatti ed eventi che, per scelta
di modi e tempi, riconducono necessariamente ad aspetti occulti.
Una particolare «curiosità» deriva da quello strano connubio riscontrato
nella loggia «C» di Trapani, in cui come si è visto esistevano tracce ben
precise di legami tra templari, massoneria, arabi e mafia e strani
collegamenti che riconducevano ad ambienti americani.
Fu anche accertato che vi era stata tenuta, proprio qualche giorno prima
dell’attentato compiuto da Ali Agka, la seduta di un «sacro concistoro»,
vennero sequestrati fax di dubbia interpretazione, in un possibile quadro di
doppiogiochismo, tra gli associati della loggia e esponenti governativi
bulgari a Roma. Inoltre è accertato che sei mesi prima dell’attentato Agka si
recò a Palermo e fu misteriosamente «prelevato» da qualcuno, così parrebbe
abbia recentemente dichiarato un collaboratore di giustizia giudicato
attendibile. E non possiamo dimenticare che quel che accadeva nella vicina
Trapani è ancor oggi un mistero, ma era certamente legato alla mafia turca,
ai traffici di stupefacenti provenienti dalla Turchia e, con connessioni
bulgare, alla massoneria, ai servizi segreti, ai movimenti estremisti di
destra.
Nel tentativo di comprendere significati (anche su episodi personali) di
difficile lettura e interpretazione, si è cercato di approfondire l’argomento
relativo agli aspetti «massonici» riscontrabili nell’analisi degli eventi di
Fatima. E, proseguendo in tale ricerca, non sono mancate ulteriori sorprese.
Intanto, partendo dall’episodio del lontano 1158 avvenuto in Portogallo (e
cioè sulla direttrice templare con Trapani), non è stato difficile
riscontrare l’ipotesi di una primaria paternità templare sull’episodio della
conversione di quella Fatima (figlia del musulmano Alcàcer do Sal),
convertita al cattolicesimo che dette nome alla località ove poi avvennero le
apparizioni miracolose del 1917.
L’epoca era quella delle crociate. Nei vari paesi europei e in particolare in
Portogallo, furono i prodi cavalieri templari a guidare la lotta agli
infedeli figli di Maometto in nome del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Nel ricordato episodio del 1158 un cavaliere cristiano, battendosi contro i
mori che ancora occupavano il territorio del sud portoghese, fece una
carneficina di arabi risparmiando, secondo le regole cavalleresche, la
principessa araba Fatima.
Ma, sempre su Fatima, è ancor più sorprendente quanto avvenne nel 1917, in
concomitanza con le apparizioni ai tre pastorelli. Questi eventi,
stranamente, non sono stati mai ricordati pubblicamente in relazione agli
attentati al Papa, anche se la loro menzione forse sarebbe stata d’obbligo e
indicativa di possibili responsabilità.
L’episodio si verificò in Portogallo nel periodo in cui (sin dall’ottobre del
1910) il nuovo regime governativo, sotto la presidenza di Theopilo Braga,
aveva posto in essere una politica accentuatamente anticattolica. I gesuiti
vennero espulsi, i conventi chiusi e confiscati i loro beni. Fu abolito
l’insegnamento della religione, fu approvata la separazione della Chiesa
cattolica dallo stato e il 21 agosto 1911 venne proclamata la nuova
costituzione con l’elezione del presidente Manuel de Arriaga, capo del
partito liberale con una guerra interna di religione combattuta dalle
autorità dall’alto di imperanti logge massoniche.
Come risulta da alcuni testi tedeschi, quando avvennero le apparizioni della
Madonna (dal maggio all’ottobre del 1917, e cioè poco dopo l’entrata in
guerra del Portogallo) immediatamente la gente iniziò ad accorrere sul posto,
confidando nelle grazie che la Regina del Rosario avrebbe potuto elargire.
Ma il crescendo dei pellegrini non fece che inasprire la guerra dei fratelli
massoni «contro il clero e la montante superstizione di Fatima». Costoro
quindi non si limitarono a deridere e calunniare i credenti cattolici
attraverso la stampa atea, ma si lasciarono andare anche a atti di violenza
con l’appoggio delle autorità civili allora completamente succubi delle logge
massoniche.
La violenza massonica determinò alcuni fatti gravissimi. Dapprima vi fu il
sequestro dei tre fanciulli. Poi il 19 agosto 1917 si scatenò la
manifestazione di protesta e di propaganda contro le «mene clericali» proprio
a Fatima.
Successivamente vi fu la profanazione e il saccheggio sacrilego degli oggetti
di devozione a Cova da Iria, durante la notte del 23 ottobre [……]. Poiché,
tuttavia i pellegrinaggi proseguivano, i fratelli massoni, in un crescendo di
aggressioni, nella notte del 2 marzo 1922 fecero saltare con la dinamite la
piccola cappella [……]. Le ostilità massoniche continuarono anche dopo il
riconoscimento, che avvenne nel 1930, da parte della chiesa delle apparizioni
come «miracolo».
Tutto ciò fa pensare a un rapporto tra templari e massoneria contro la chiesa
con riferimento ai due attentati al Papa.
Ricordiamo per inciso che subito dopo l’ultimo attentato, il 20 giugno 1982,
una delegazione templare si recò in Vaticano per affermare dinnanzi al Papa
il «proprio ritorno» [……]. In occasione della canonizzazione del beato
Crispino da Viterbo da parte del sommo Pontefice, presenti il sacro collegio
e il corpo diplomatico, i Cavalieri del Tempio di gloriosa memoria, ossia i
templari, avvolti in candidi mantelli con la croce rossa patriarcale sulla
spalla sinistra, tornano a san Pietro varcandone la sacra soglia. Piazzati in
tre punti intorno alla cappella Papale (i tre punti del triangolo massonico,
e più precisamente, a metà della navata centrale e nelle tribune di SS. Elena
e Veronica, nei bracci destro e sinistro del transetto, così da formare un
triangolo equilatero) «la loro presenza si fa sentire».
[……] Tutto quanto abbiamo raccontato non pretende ovviamente costituire una
ricostruzione di realtà di fatti e di responsabilità in ordine agli attentati
al Papa, è solo un’ ipotesi di studio, forse fantasiosa, su eventi
personaggi, collegamenti, (materiali ed ideologici) diretta a mettere in
luce, nell’episodio circostanze almeno strane [……].
La radicale e antica ostilità alla chiesa nell’interpretazione massonica di
Fatima; la storia e la tradizione culturale araba di Trapani (legata al
Portogallo dalle vie dei templari) e del porto di Marsala (porto di Ali,
marito di Fatima, figlia prediletta di Maometto, ascendenti dei musulmani
sciiti fatimidi); la successione cronologica della costituzione della loggia
«C» e la data del Sacro concistoro a Trapani; i legami della loggia con il
mondo arabo e in particolare con Gheddafi e la sua setta; i collegamenti
emersi tra la loggia trapanese ed esponenti bulgari; il fatto che lo stesso
attentatore turco sei mesi prima dell’attentato sia stato presente in quei
luoghi oscuri e con non ben definiti contatti (come dichiarato da un
collaboratore di giustizia proprio di quella zona); le rivendicazioni di un
«ritorno templare» successive al secondo attentato; sono tutte circostanze
rilevanti per un più approfondito esame della vicenda.
Perché San Paolo ha inventato il cristianesimo? Certamente non possiamo esonerarci dal considerare in modo attento questa domanda senza rischiare, altrimenti, di avere elaborato una interpretazione ricca di indizi a suo favore ma, ahimé, mancante dell’elemento più importante. Infatti dobbiamo individuare il motivo fondamentale per cui sarebbe stata operata la revisione del messianismo tradizionale degli ebrei e la sua trasformazione in una teologia destinata a staccarsi dalla matrice giudaica o, addirittura, a porsi in conflitto con essa per i secoli successivi.
Come abbiamo già detto, la
figura su cui ricade il massimo della responsabilità di questo processo è
quella che la tradizione cristiana riconosce nella persona di San Paolo.
Chi era San Paolo? E perché avrebbe inventato il cristianesimo?
E’ straordinario constatare il modo in cui la letteratura cristiana lascia
questo personaggio in una condizione di quasi anonimato, sfocandone al massimo
il profilo biografico e l’identità anagrafica. Non sappiamo quando sia nato,
chi fosse la sua famiglia, in che periodo sia venuto a Gerusalemme per compiere
gli studi e, quel ch’è più clamoroso, lo scritto del Nuovo Testamento che si
occupa di lui (Atti degli Apostoli) lo abbandona completamente a metà di un
percorso narrativo, senza dirci niente sul suo destino.
Le sue lettere, che oggi appartengono al corpus del canone
neotestamentario, hanno l’aria di essere dei documenti ricchi di
contraffazioni, se non, qualche volta, per niente autentici.
Alcuni autori giungono persino a mettere in dubbio il fatto che questo
personaggio fosse un autentico ebreo, come egli proclama negli scritti del
Nuovo Testamento che gli sono attribuiti. Personalmente non mi sento di
sostenere questa tesi estrema, ma posso associarmi ad alcune constatazioni che
sembrano dare un profilo elastico alla ebraicità di San Paolo.
A.N.Wilson, in “Paolo l’uomo che inventò il cristianesimo” (Rizzoli,
1997), sostiene, in modo abbastanza verosimile, che Paolo fosse un personaggio
molto legato e compromesso col mondo romano, soprattutto per il fatto che la
sua professione sarebbe stata quella di produrre tessuti per tendaggi usati
dalle legioni militari imperiali. E’ certo che i suoi famosi viaggi non sono
stati effettuati al fine primario di compiere un’opera missionaria ma che,
piuttosto, egli ha approfittato della circostanza professionale dei suoi
continui spostamenti commerciali per svolgere anche un proselitismo
politico-religioso (non ci si meravigli di questa associazione fra politica e
religione: nel mondo semitico degli ebrei la politica e la religione sono
legate indissolubilmente da una concezione di vita prettamente teocratica).
Ciò che caratterizza l’identità culturale di Paolo è una ebraicità molto
aperta, una estrema abitudine, per ragioni di ambiente di nascita e di
esperienze di vita, al contatto con le culture gentili, ovverosia
pagane. E non c’è alcuna possibilità di comprendere storicamente questo
individuo e la sua opera se non si parte proprio dall’idea che le sue
formulazioni teologiche, sfociate nella nascita di una nuova religione, abbiano
origine nel contrasto stridente fra…
…da
una parte, la ebraicità ottusa, fanatica, fondamentalista e xenofoba (la
concezione hassidica, sviluppatasi dal patriottismo politico religioso dei
maccabei del II secolo a.C.), che nel I sec. d.C. trovò la sua principale
espressione nel messianismo esseno-zelota, e la sua collocazione geografica
nell’ambiente palestinese,
…dall’altra
parte, la ebraicità aperta, maturata attraverso il contatto e la convivenza con
i popoli e le culture gentili, disponibile alla reinterpretazione delle
scritture in senso molto elastico (una concezione di cui furono tipici
rappresentanti uomini come Filone Alessandrino, Giuseppe Flavio, e il primo
Shaul, successivamente nominato Paolo), per niente interessata allo sviluppo di
una conflittualità estrema fra Israele e Roma, con una collocazione geografica
rivolta soprattutto agli ambienti della diaspora.
Sono le tensioni fra questi due
modi di essere ebrei, e le drammatiche vicende politiche e militari della
nazione ebraica sotto il dominio imperiale, sempre in altalena fra le azioni
dei patrioti Yahwisti e le repressioni romane, che fornirono i presupposti del
processo attraverso il quale si sviluppò per gradi…
1 –
…prima, una coscienza contraria al messianismo radicale degli esseno-zeloti,
2 –
…poi una corrente politica altrettanto radicale, ma in senso
anti-messianista, espressione delle classi dominanti di Israele (sadducei e
farisei di destra),
3 –
…quindi una tendenza a rileggere le profezie messianiche con significati
contrari a quelli esseno-zelotici, e aperta ai contributi teologici delle
spiritualità gentili,
4 –
…infine una corrente militante, di cui il San Paolo del dopo Damasco
fu il fondatore e il promotore indefesso, che, pur di contrastare il
messianismo hassidico e i suoi estremi pericoli per la sicurezza della nazione
ebraica, era disposta a crearne un altro, aperto alle teologie escatologiche
straniere (vedi il Soter greco, il Saoshyant persiano, il Krishna e il Buddha
indiani…), sopportando il rischio (o forse andandogli volutamente incontro)
che ciò innescasse una sorta di mitosi teologica il cui prodotto, alla
fine, fosse la nascita di una nuova religione e la sua scissione dal giudaismo.
In un primo tempo San Paolo
sarebbe stato senz’altro un esponente della corrente di cui al punto 2. E’
facile che egli, in quanto benestante, colto, professionista con molte
occasioni di viaggio e con molti contatti in ambienti sia ebraici che
greco-romani, sia stato coinvolto nella politica di repressione delle
“brigate messianiste” e che abbia collaborato come informatore o
anche in modo più consistente.
Non si dimentichi che i cristiani, al centro della attenzione
repressiva, in questa fase del processo di evoluzione del cristianesimo, non
erano ancora ciò che intendiamo oggi con quel termine, bensì erano i giudei
messianisti, ovverosia i membri delle sette che aspiravano alla rinascita del
regno di Yahwè e all’interno delle quali si individuavano le figure degli
aspiranti messia, capi religiosi con la spada in mano.
Siamo noi che commettiamo il gravissimo errore di interpretare il
movimento dei seguaci diretti di Cristo come se questi avessero già
incorporato la filosofia espressa nel Nuovo Testamento, che rende
spoliticizzato, degiudaizzato e pacifista il messaggio evangelico, prima
ancora che Paolo lo avesse formulato.
In realtà, gli stessi Atti
degli Apostoli, sebbene siano stati redatti col preciso scopo di far apparire
la concezione neomessianica di Paolo come se fosse appartenuta a Gesù
Cristo, proponendo in modo del tutto artificiale la continuità e la conformità
là dove invece sussistono discontinuità e contrapposizione, finiscono per
mostrare loro malgrado, con innegabile chiarezza, l’esistenza di un grave
conflitto fra una corrente giudaizzante (identificata nelle persone come Simone
e Giacomo, i fratelli di Gesù) e una corrente riformista con aperture
ellenistiche (identificata nelle persone come Paolo e i suoi seguaci).
In un secondo tempo San Paolo avrebbe maturato un atteggiamento diverso,
probabilmente rendendosi conto che la strada della semplice repressione
politica, consistente nell’arresto e nella eliminazione fisica degli esponenti
messianisti, non avrebbe funzionato molto, tanto più che le ideologie radicali
del tipo esseno-zelotico non si fermavano davanti al martirio (abbiamo visto il
comportamento dei cittadini di Gamla e degli assediati di Masada) ma, al
contrario, ne traevano nuovo orgoglio e nuova energia combattiva. In pratica Paolo
comprese che l’ideologia messianista tradizionale avrebbe potuto trovare un
antagonista valido solo in un’altra ideologia, e che l’argine per
ostacolare l’espansione del messianismo radicale nei diversi strati della
popolazione ebraica, e per allontanare i suoi gravi pericoli, avrebbe potuto
essere offerto solo da un altro messianismo, non così bellicoso, non così
ispirato al nazionalismo yahwista, non così frontalmente ostile ai romani, ma
comunque rispondente ad istanze che avessero una risonanza reale nella gente e
in larghi strati di popolo.
Insomma, invece di seguire la via degli arresti e delle esecuzioni, Paolo
preferì offrire un’alternativa all’idea della salvezza nazional-religiosa (questa
fu la sostanza reale della sua conversione) e si adoperò per creare
un messianismo più convincente di quello che, pur solleticando l’orgoglio
etnico, che è il tratto distintivo di ogni ebreo, metteva tutti quanti di
fronte al timore (poi confermato dalle vicende della guerra degli anni 66-70)
che i romani ricorressero alla soluzione definitiva e che Israele
precipitasse nella più sventurata delle catastrofi. E’ questa, e soltanto
questa, la corretta chiave interpretativa attraverso la quale noi possiamo
capire ciò che gli Atti degli Apostoli ci presentano, molto falsamente e
opportunisticamente, come una semplice divisione di competenze fra Paolo e gli
Apostoli giudaizzanti: evangelizzatore dei gentili l’uno, evangelizzatori degli
ebrei gli altri.
Altro che divisione di
competenze! La verità è che questi ultimi erano legati alla concezione
messianica di derivazione maccabea, ovvero al patriottismo nazional-religioso
degli esseno-zeloti, ostile per natura al mondo gentile; mentre Paolo
aveva già sparso i semi di una filosofia di apertura al pensiero extragiudaico,
al punto da rappresentare il suo Gesù Cristo con caratteristiche che
appartenevano assai più agli dei incarnati e risuscitanti delle teologie gentili
che non alla figura messianica delle profezie giudaiche.
Ora, noi abbiamo molti motivi per credere che Paolo, nella sua città di
origine, Tarso, in Cilicia, abbia avuto contatti molto ravvicinati con le
culture religiose ellenistiche ed orientali, anzi, proprio con i culti detti
misteriosofici, in cui si celebravano complicati riti iniziatici. Di questi
possiamo avere una bellissima descrizione divulgativa, accessibile anche ai non
addetti ai lavori, nell’opera di J.G.Frazer, “Il Ramo d’Oro” (Newton
Compton, 1992), dalla cui lettura possiamo arrivare a capire che certi elementi
teologici della figura di Gesù Cristo devono essere stati mutuati dai culti
extragiudaici come quelli di Attis, Adonis, Osiride, Dioniso, Mitra… mi
riferisco alla nascita verginale, alla resurrezione dopo tre giorni di discesa
agli inferi, all’innesto del concetto teofagico (cibarsi della carne e del
sangue del Dio) sui contenuti del rito eucaristico esseno (la fractio panis
di cui abbiamo visto nel manuale di disciplina di Qumran).
Ora, la quasi totalità dei
cristiani nega che il Cristo giustiziato da Ponzio Pilato, con l’accusa di
avere militato per diventare “re dei Giudei”, avesse l’intenzione di
diventare realmente “re dei Giudei” e abbia mai avuto a che fare col
messianismo nazional-religioso degli esseni e degli zeloti. E supportano
questa loro irremovibile convinzione sulla base della tradizionale immagine
evangelica di un Gesù che predica amore, pace, perdono, non violenza, che
contraddice alcune caratteristiche del pensiero ebraico messianista (Gesù siede
a tavola coi gentili, deroga alla regola del sabato…), e considerano la
vicenda del processo, della condanna e della esecuzione romana mediante
crocifissione (il tipico destino dei latrones e dei sicarii,
ovverosia degli zeloti) come un clamoroso equivoco giudiziario, da cui Pilato,
vittima dei raggiri dei sacerdoti del tempio, esce praticamente scagionato, e
con lui tutti i romani. Un equivoco generato dalle false accuse che i giudei
avrebbero prodotto nel presentare Gesù a Ponzio Pilato, al fine di indurre
proditoriamente i romani a giustiziarlo.
Ma il meccanismo non è questo! Il punto falso non risiede in quelle accuse di
militanza esseno-zelota, bensì nell’immagine del Cristo apolitico,
demessianizzato, addirittura quasi degiudaizzato, che propone nell’imminenza
della Pasqua ebraica, ad una assemblea di giudei, cerimoniali di sapore
nettamente gentile (l’eucarestia teofagica come rito sacrificale del dio
incarnato), una immagine costruita a posteriori dalla scuola di San Paolo. E
naturalmente non è legittimo dimostrare che il Cristo era un pacifista, che non
era il Messia, che era estraneo ai movimenti esseno-zelotici, utilizzando a
questo scopo i documenti che furono costruiti apposta per sostenere l’ideologia
antimessianista e per alterare la figura di Cristo.
Insomma, quando noi leggiamo i Vangeli (i Vangeli del canone ecclesiastico,
naturalmente, non la letteratura primitiva del giudeo-cristianesimo che, del
resto, è stata opportunamente tolta di mezzo), noi non abbiamo davanti agli
occhi l’immagine storica di Gesù Cristo, bensì l’immagine costruita
artificialmente dalla revisione paolina come base della catechesi neocristiana.
I Vangeli sono il manifesto antimessianista (e quindi anti-Cristo-della-storia)
che ci mostra, non le idee di Gesù, ma le idee di Paolo e dei suoi seguaci,
ovverosia di colui che è stato fra i nemici più accaniti di Cristo e che non
si è affatto convertito ma che, in un secondo tempo, ha convertito l’ideale di
Cristo, appartenente al pensiero giudaico più radicale, in una filosofia
extragiudaica. Una conversione che è stata ripetuta in modo assai simile,
tre secoli dopo, dallo stesso imperatore Costantino, che non si è mai
convertito al cristianesimo di Gesù nel modo in cui sostiene una certa
interpretazione storica, ma che ha trovato convenienti motivi per convertire
ulteriormente la teologia cristiana e renderla sempre più compatibile con le
religioni già in voga nell’impero romano (fu lui a volere energicamente il
concilio di Nicea e a dare inizio ad un’epoca plurisecolare di caccia
all’eresia).
In pratica, dopo queste molteplici e successive operazioni di ricostruzione
teologica realizzate nell’arco di tre secoli, le cose che leggiamo oggi nei
Vangeli servono a indicarci ciò che Gesù non era molto più di quanto non
possano servire ad indicarci ciò che Gesù era. Anche se questa è un’idea
inaccettabile da parte di coloro che sono innamorati dell’immagine
neo-cristiana del Gesù figlio di Dio e che non possono tollerare che tale
immagine sia ridotta dall’analisi storica ad un prodotto di pura creatività
teologica.
Non possiamo dimenticare le parole scritte dai Padri della Chiesa Ireneo,
Eusebio, Teodoreto:
“…(gli
Ebioniti) seguono unicamente il Vangelo che è secondo Matteo e rifiutano
l’apostolo Paolo, chiamandolo apostata della legge…”. (Ireneo,
Adv. Haer., I, 26).
“…Gli
Ebioniti, pertanto, seguendo unicamente il Vangelo che è secondo Matteo, si
affidano solo ad esso e non hanno una conoscenza esatta del Signore…”.
(Ireneo, Adv. Haer., III, 11).
“…costoro
pensavano che fossero da rifiutare tutte le lettere dell’apostolo(Paolo), chiamandolo apostata della legge, e servendosi del solo Vangelo
detto secondo gli ebrei, tenevano in poco conto tutti gli altri…”.
(Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl., III, 27).
“…(I
Nazareni) accettano unicamente il Vangelo secondo gli Ebrei e chiamano
apostata l’apostolo (Paolo)…”. (Teodoreto, Haer. Fabul. Comp.
II, 1).
“…Essi
sono Giudei che onorano Cristo come uomo giusto e usano il Vangelo chiamato
secondo Pietro…”. (Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 2).
Ma questi ebioniti, nazorei
(o nazareni) ed ebrei, altri non erano che gli esseno-zeloti o i
discendenti degli esseno-zeloti che si erano messi a tavola col Messia e
avevano spartito il vino e il pane con lui, poco prima del suo arresto sul
monte degli ulivi, e coi quali Paolo si era sempre trovato in conflitto al
punto da essere considerato “uomo di menzogna” sia nei
suddetti vangeli giudeo-cristiani, sia nei documenti qumraniani come il Commentario
di Abacuc [vedi R.Eisenman “James the brother of Jesus”]. Ed è contro
di loro che si è scatenata, per secoli, una severa censura storica ed
ideologica, finalizzata agli interessi del riformismo neo-cristiano e della
istituzione che di esso si era fatta rappresentante.
ell’interesse dei Fratelli (Una Loggia d’istruzione in tempo di guerra) Un racconto di Ruyard Kipling
Stavo
acquistando un canarino in un negozio di uccelli quando egli mi rivolse per
la prima volta la parola, suggerendomi di comprare un esemplare dal piumaggio
giallo meno brillante. “Il colore viene da quello che mangia”
disse. “E va via, se non si sa come nutrirli. I canarini sono uno dei
miei hobbies”.
Uscì dal negozio prima che potessi ringraziarlo. Era un uomo di mezza età,
grigio di capelli, con una corta barba nera, e un aspetto molto simile a
quello di un terrier Sealyham con occhiali d’argento. Per qualche motivo, il
suo volto e la sua voce mi rimasero impressi così distintamente che, alcuni
mesi dopo, quando lo urtai su un marciapiede di stazione gremito dai membri
di un Club di pescatori in escursione sul Tamigi, lo riconobbi, mi voltai e
lo salutai con un cenno del capo.
“Ho seguito il suo consiglio, per quel canarino” dissi.
“Davvero? Bene” mi rispose cordialmente da sopra la canna da pesca
inguainata e appoggiata sulla spalla, prima che la folla ci separasse.
Alcuni anni dopo entrai in un negozio di tabacchi, per farmi pulire una pipa,
che si era malamente otturata.
“Bene! Bene! E il canarino come va?” disse l’uomo dietro il banco.
Ci scambiammo una stretta di mano, e domandammo all’unisono: “Qual è il
suo nome?”.
Lui era Lewis Holroyd Burges, di Burges e Figlio, come avrei potuto vedere
sopra la porta, ma il figlio era stato ucciso in Egitto. Aveva i capelli che
si erano imbiancati, e gli occhi leggermente infossati. “Bene! Bene! E
pensare” disse “tra tutta questa moltitudine di gente, proprio lei
doveva riapparire così all’improvviso e in un modo tanto curioso, quando c’è
così tanta gente che sparisce per sempre, eh?”. (Fu allora che mi disse
della morte del figlio Lewis, e perché il ragazzo era stato battezzato con il
nome Lewis.)
“Sì. Adesso non è rimasto molto da fare per una persona di mezz’età.
Anche gli hobbies… avevamo l’abitudine di andare a pesca insieme. E lo
stesso era per i canarini! Li allevavamo per il colore: la nostra specialità
era una sfumatura di arancione vivace. Bene! Bene! E adesso dobbiamo
localizzare dov’è l’occlusione nella sua pipa”.
Si curvò sulla pipa fedifraga, e si mise all’opera con la stessa tranquilla
perizia di un chirurgo. Un soldato entrò, disse qualcosa a voce bassa,
ricevette risposta, e uscì.
“Oggi la maggior parte dei miei clienti sono soldati, e un certo numero
di loro appartiene alla Massoneria” disse il signor Burges “Mi si
spezza il cuore dare loro il tabacco che mi chiedono. D’altra parte, solo una
persona su cinquemila ha un palato educato al tabacco. Certo delle
preferenze, ma non un palato educato. Ecco qui di nuovo la sua pipa. Merita
un trattamento migliore di quello sinora ricevuto. Vi è una procedura, un
rituale in ogni cosa. Le assicuro che sarà il benvenuto, ogni volta che le
capiterà di passare qui davanti. Ho un paio di curiosità che forse possono
interessarla”.
Uscii dal negozio con in corpo il più raro dei sentimenti – la sensazione che
è il solo diritto della giovinezza – ovvero che probabilmente avevo
incontrato un amico. A poca distanza dall’ingresso fui accostato da un ferito
in convalescenza, che mi chiese del negozio di Burges. Pareva che il posto
godesse di una certa fama, nel circondario.
Feci modo di ritornarvi altre volte, e con una certa frequenza, ma fu solo
dopo la terza visita che scoprii come il signor Burges avesse degli interessi
nella ditta Ackerman e Pernit, grossi importatori di sigari, e che tali
interessi erano giunti a lui tramite uno zio i cui figli adesso vivevano
vicino a Cromwell Road, e mi disse che lo zio aveva frequentato la Borsa
valori.
“Sono un negoziante per istinto” disse il signor Burges. “Mi
piace il rituale con cui si servono i clienti. Il negozio mi ha fatto bene.
Mi piace fare altrettanto servendomi del negozio”.
L’attività era stata iniziata da suo nonno nel 1827, ma gli arredi e le
suppellettili dovevano risalire almeno a mezzo secolo prima. I vasi per il
tabacco da pipa e da fiuto, rossi e marroni, con corone, insegne dell’Ordine
della Giarrettiera e nomi di miscele dimenticate scritte con lettere dorate;
i barili levigati di tabacco Orinoco, sui quali sedevano i clienti favoriti,
il bancone di mogano, color ciliegia scura, gli scaffali dalle modanature
delicate, i contenitori di giunco intrecciato per i sigari, le bilance
tedesche montate su argento e il rullo olandese d’ottone e la taglierina per
i pani di tabacco, erano tutte cose da desiderare ardentemente.
“Non sono poi così male” ammise. “Quel grosso vaso di Bristol
non ha compagni, per quanto ne sappia. Quelle otto anfore per il tabacco da
fiuto, laggiù sul terzo scaffale, provengono dalla manifattura di Dollin, che
nel ’47 lavorava per Wimble; le guardi, sono dei pezzi assolutamente unici.
Esiste ancora qualcuno del mestiere in grado di dirci che cosa fosse
l’Hollande di Romano? Oppure la miscela di Scholten? Ecco una tabacchiera del
tempo di Giorgio I, ed ecco un Luigi XV; cosa sto dicendo? XIII, XIII,
naturalmente una grattugia per trinciare il tabacco da fiuto. Erano i ferri
del mestiere, ai tempi di mio nonno. E ora dove si possono trovare in giro,
al di fuori del Museo Britannico? Chi sa dirmelo?”.
Le sue pipe – vorrei che questo fosse un racconto per intenditori – la
stupefacente collezione di pipe che aveva in salotto, e per l’occasione ebbi
il privilegio di conoscere sua moglie. Una mattina, mentre contemplavo con
bramosia uno stipetto per cigarros (badate bene, non sigari), di legno di
jacaranda con le placche delle serrature d’argento e manigliette ai
cassettini di fattura spagnola, un canadese ferito entrò nel negozio,
disturbando il nostro piccolo e felice comitato in riunione.
“Senta un po’”, incominciò con voce fragorosa. “È lei la
persona a cui devo rivolgermi?”.
“Chi l’ha mandata?” domandò il signor Burges.
“Uno di stanza a Messines. Ma non è questo il punto! Non ho con me il
minimo certificato, o altro pezzo di carta; niente, se mi sono spiegato. Ho
lasciato la Loggia dovendo diciassette dollari di arretrati per le iscrizioni.
Però quel tipo che era con me a Messines mi ha detto che qui da voi la cosa
non avrebbe avuto la minima importanza”.
“E aveva ragione” disse il signor Burges. “Ci riuniamo
stasera, alle sette”.
La faccia dell’uomo si allungò di una spanna buona: “Diavolo!”
disse. “Ma io sono in ospedale, e non posso uscire di sera”.
“E ogni martedì e venerdì, alle tre pomeridiane” aggiunse
prontamente il signor Burges. “Naturalmente dovrà superare un colloquio
d’ammissione”.
“Penso che non ci saranno problemi, su questo” fu la risposta
allegra. “A martedì, allora” se ne andò via zoppicando, e tutto
raggiante.
“Chi sarebbe?” domandai.
“Ne so quanto voi, tranne che deve essere un Fratello. Adesso Londra è
piena di Massoni. Bene! Bene! Bisogna fare quello che si può, in giorni come
questi. Se oggi pomeriggio viene a prendere il tè da noi, dopo andremo
insieme alla Loggia. È una Loggia d’Istruzione”.
“Ne sono felice. Qual è la sua Loggia?” domandai, perché sino a
quel momento non ne era ancora stato menzionato il nome.
“Fede e Opere 5837, il terzo sabato di ogni mese. La nostra Loggia
d’Istruzione si riunisce nominalmente ogni giovedì, ma ora i nostri incontri
sono più frequenti, poiché in città ci sono molti Fratelli provenienti da
altre Logge”. A questo punto entrò un nuovo cliente e io me ne andai,
molto interessato dall’ampiezza degli hobbies del Fratello Burges.
All’ora del tè era vestito come se dovesse andare al Servizio Domenicale, e
al posto degli occhiali d’argento aveva un pince-nez d’oro. Ringraziai la mia
buona stella per aver pensato di cambiarmi, indossando panni decenti.
“Certo, dobbiamo aver questo riguardo per la Massoneria” disse
approvando. “Ogni rituale serve a rafforzare l’animo umano. Per l’uomo
il rituale è una necessita ovvia. Più la vita quotidiana è sconvolta, più la
gente ricorre al rituale. Comunque da parte mia aborrisco ogni forma di
applicazione piatta del rituale. A proposito, le dispiacerebbe darci una mano
nel colloquio, se stasera ci sono molti Fratelli provenienti da fuori? Ne
troverà alcuni alquanto arrugginiti, ma… è lo Spirito, non la lettera che
dà vita. La questione dei Fratelli esterni è molto importante. Vede, adesso
ce ne sono moltissimi a Londra, e sono così pochi i posti in cui possono
incontrarsi o riunirsi”.
“Sei proprio bravo!” disse la signora Burges, porgendogli la
custodia del grembiule, chiusa a chiave e con sopra segnate le iniziali.
“La nostra Loggia è appena dietro l’angolo” proseguì lui. “Non
deve essere troppo critico nei confronti della nostra sistemazione. Un tempo il
posto era un garage”.
Da quello che riuscii a capire nell’oscurità che tutto mortificava, vagammo
passando per una scuderia e un cortile. Il signor Burges mi pilotò,
scusandosi di ogni cosa in anticipo.
“Non deve aspettarsi..”, stava ancora dicendo, quando salimmo
incespicando i gradini di un portico ed entrammo in un’anticamera
accuratamente decorata, con appese alla parete delle stampe di soggetto
massonico. Notai ai posti d’onore Peter Gilkes e Barton Wilson, padri della
pratica dell’Emulation; il Christopher Wren di Kneller; Dunkerley, con sotto
il suo ex libris Fitz-George e la banda sinistra sulle armi reali; la
caricatura di Wilkes fatta da Hogarth, oltre alla sua Notte di pessima
reputazione, e una serie ben incorniciata di Grandi Maestri, da Anthony Sayer
in giù.
“Questo è un altro suo hobby?” domandai.
“No, le cornici no” disse il signor Burges sorridendo.
“Dobbiamo ringraziare il Fratello Lemming”. Mi presentò al socio
anziano di Lemming e Orton, il cui negozietto è difficile da trovare, ma il cui
giudizio e assegni in materia di stampe, godono, invece, di ampia
circolazione.
“Le cornici sono la cosa migliore” disse il Fratello Lemming, dopo
aver ricevuto i miei complimenti. “Ce ne sono altre nel salone della
Loggia. Venga a vederle. Lì abbiamo quel grande Desaguliers, che per poco non
se ne andava a finire nello Iowa”.
Non avevo mai visto il salone di una Loggia così bene arredato. Dal pavimento
rivestito di mosaici sino al soffitto appropriato, dai tendaggi ai pilastri,
dagli arredi alle sedie, dalle sedie alle luci, per finire alla piccola
cantoria finemente intagliata e situata in un angolo della stanza: ogni
singolo oggetto era perfetto, sia in sé, sia per quanto riguardava l’effetto
generale. Espressi la mia opinione su ognuno di essi, ripetendomi diverse
volte.
“Le avevo detto di essere un ritualista” disse il signor Burges.
“Guardi come sono intagliati quei covoni di grano, e quei grappoli,
sugli schienali di queste sedie in cui siedono i Guardiani. Come voleva la
vecchia tradizione, prima che fosse rovinata dai mobilieri che servono le
Logge massoniche. Ho pescato quella coppia a Stepney, dieci anni fa, proprio
nello stesso periodo in cui ho trovato il martelletto”. Era di avorio
antico e ingiallito, tagliato in un pezzo unico da una qualche poderosa
zanna. “Viene dalla Costa d’Oro” disse. “Laggiù apparteneva a
una Loggia Militare, nel 1794, come si può leggere dalla scritta incisa
sopra”.
“Se la domanda è legittima,” presi a dire “quanto..”.
“Ci costò” disse il Fratello Lemming, con i pollici infilati nei
taschini del panciotto “un’apprezzabile somma di denaro quando facemmo i
lavori nel 1906, anche tenendo conto che il Fratello Anstruther, che era il
nostro appaltatore, trovò il modo di tirarsi bellamente fuori dalle spese.
Per inciso, mi hanno detto che quel concio là è tutto di marmo di Carrara.
Non me ne intendo affatto di marmi. Penso che dalla fondazione ci abbiamo
messo dentro… oh, un’altra discreta somma di denaro. Bene, ora andiamo
nella sala del colloquio a sentire i Fratelli”.
Fui accompagnato in una stanza comoda, sulle cui pareti era posta una fila di
cubicoli che avevano tutta l’aria di essere confessionali (mi accertai in
seguito che lo erano stati un tempo, quando furono scovati dalle parti di
Oswestry, e pagati una somma ridicola). Pochi uomini in uniforme attendevano
all’altra estremità della sala. “È solo l’inizio della processione. Il
resto si trova in anticamera” disse un dignitario della Loggia.
Fratello Burges mi assegnò un discreto cubicolo, dicendo: “Non si
sorprenda. Vengono in tutte le condizioni”.
Condizioni era parola adatta per descrivere il mio primo penitente, che aveva
il capo completamente avvolto da bende: era fuggito da un ospedale per
ufficiali, come se fosse evaso da Pentonville. Mi domandò, con parlata scozzese
piena di termini profani, come potevo pensare che riuscisse a parlare un uomo
cui erano rimasti in bocca solo sei denti, oltre ad aver perso mezzo labbro
inferiore. Cosicché scendemmo a un compromesso: mi avrebbe risposto a gesti.
Il prossimo – un neozelandese proveniente da Taranaki – capovolse il
procedimento, perché aveva un braccio solo e al collo. Diffidai di un enorme
sergente maggiore dell’artiglieria pesante, che mi colpì per l’eccessiva e
disinvolta loquacità, tanto da mandarlo dal Fratello Lemming nel cubicolo
accanto al mio: lì saltò fuori che era stato dignitario supremo di un
Distretto. Il mio ultimo postulante mandò all’aria quel poco di serenità che
mi era rimasta.
Pareva che si fosse dimenticato tutto, proprio tutto.
“Non la biasimo” disse alla fine, inghiottendo la saliva. “Se
fossi al suo posto mi guarderei bene dall’accettare le mie risposte, ma le do
la mia parola che, nella misura in cui ho avuto una religione, la Massoneria
è stata tutta la religione che ho avuto. Per amor di Dio, Fratello, lascia
che mi sieda di nuovo in una Loggia!”.
Quando i colloqui ebbero termine, un Dignitario di Loggia fece il giro dei
presenti, con i grembiuli per ciascuno. Niente roba con orpelli vistosi o
argentature assortite, ma della seta a coste pesanti con delle nappe e –
quando una persona poteva dimostrare di avere il diritto di fregiarsene –
livelle di decorosa placcatura. Qualcuno davanti a me strinse una cintura
alla vita di una persona tutta rigida e silenziosa, in borghese e con il
nastrino dei congedati. “Perdinci! Questa sì che è vita” lo udii
pronunciare. Il compagno annuì con un cenno del capo. L’altro esplose
improvvisamente: “Ehi! Cosa stai facendo? Smettila! Avevi promesso di
non farlo più! Piantala!” e diede un buffetto agli occhi bagnati di
pianto del suo compagno. “Lascia che versi un po’ d’acqua” disse un
segnalatore australiano. “Non vedi che il povero diavolo è
felice?”. Risultò che il Fratello silenzioso era stato vittima dello
shock da granata, e che era stato accettato dal Fratello Lemming, avendo
l’amico come garante e – cosa che indusse maggiormente Lemming a farlo
passare – la minaccia che in caso di rifiuto sarebbe bastata la delusione a
provocargli un attacco convulsivo. Così il “traumatizzato” si
mescolò felicemente e in silenzio ai Fratelli, evidentemente abituati a scene
siffatte. Ci allineammo, secondo le tradizioni in fila per due, quasi
cinquanta di numero, ed entrammo nella Loggia accompagnati da quello che
credevo essere un armonium, ma che scoprii essere un organo di pregio. Ci
volle del tempo prima che tutti ci fossimo accomodati perché dieci o dodici
tra noi erano mutilati e dovevano essere aiutati a sedersi su poltrone o
chaises longues. Presi posto tra un caporale dei Servizi medici, con un piede
solo, e un capitano della Territoriale, che mi disse di aver fatto
“baruffa” con una bomba, che lo aveva piegato in due direzioni.
“L’esecuzione di Bach che l’organista ci sta dando è di prima
qualità” disse estasiato. “Mi piacerebbe conoscerlo. Ai miei tempi
premevo anch’io i tasti di un pianoforte”. “Glielo presento dopo la
riunione” disse uno dei Fratelli regolari, che sedeva dietro di noi: una
persona grassoccia e con una barba a punta, e appartenente alla professione
medica, come venne fuori in seguito. “Tutto sommato c’è ben poca gente
che suona Bach, non è vero?”. E i due s’immersero subito in una
conversazione musicale, che per i non appassionati è altrettanto affascinante
di un trattato di trigonometria.
Una Loggia d’istruzione è soprattutto una sede in cui sfoggiare il rituale.
Essa non può iniziare o conferire cariche, e si limita a organizzare
conferenze e a rinfrescare la memoria degli adepti. Il Venerabile Fratello
Burges, assiso fulgidamente nella Sedia di Salomone (scoprii in seguito dove
fosse stato reperito anche questo oggetto), disse con brevi parole ai
Fratelli di altre Logge come la loro presenza fosse gradita, e come sarebbero
stati egualmente bene accetti in incontri futuri, e chiese loro di votare la
cerimonia che avrebbe dovuto essere attuata per la loro istruzione.
Quando la decisione fu annunciata, volle sapere se vi erano dei Fratelli
esterni disposti ad assumersi le responsabilità rituali di un Dignitario di
Loggia. Protestarono, timidamente, di essere troppo arrugginiti. “È
proprio questo il motivo per cui..”, disse il Fratello Burges, mentre
l’organo suonava dolcemente Bach. Il mio capitano amante della musica si
agitava tutto nella sedia.
“Un attimo, Venerabile signore” il dottore grassottello si alzò.
“Abbiamo qui tra noi un musicista che ha bisogno di uno strumento e di
un’occasione opportuna. Solamente” proseguì con tono colloquiale
“gli scalini che portano alla cantoria sono un po’ troppo ripidi”.
“Quanto pesa il nostro Fratello?”, disse Fratello Burges con la
solennità di un’iniziazione.
“Poco più di cinquanta chili” disse il Fratello “mi sono
pesato questa mattina, Venerabile signore”.
Il penultimo Maestro in carica, che era anche un sergente maggiore di
Batteria, attraversò la sala con passo ondeggiante, prese tra le braccia quel
peso di piuma, portandolo sopra in cantoria, dove quello scricciolo d’uomo
suonava gioiosamente, come un’anima portata di sorpresa in paradiso, mentre
l’organista abituale manovrava il mantice. Quando gli esterni furono
convinti, dopo molte lusinghe, a fornire i dignitari necessari, si diede
l’avvio al ripasso di una cerimonia. Fratello Burges proibì che i membri
regolari suggerissero. Gli esterni dovevano farcela interamente da soli, e il
sergente maggiore di Batteria, sorpreso a dare una mano, fu allontanato
d’autorità, come suggeritore troppo esperto, essendo di rango elevato.
Procedettero con fatica, dopo che quell’aiuto fu ritirato.
Il caporale, quello dei Servizi medici e senza un piede, seduto alla mia
destra si lasciò sfuggire una risatina soddisfatta.
“Si trova a suo agio?” gli chiese il dottore.
“A mio agio? È come stare in Paradiso, potermi di nuovo sedere in una
Loggia. Mi sta ritornando tutto in mente, assistendo ai loro sbagli. Non è
che abbia molta religione, ma tutta quella che ho mi viene dalla
Loggia”. Riconoscendomi s’imporporò leggermente, come capita a chi si
ripeta parlando con la stessa persona. “Sì, ‘velata in allegoria e
illustrata con simboli’: la Paternità di Dio e la Fratellanza dell’Uomo; e
cosa diamine uno dovrebbe desiderare di più?… Li guardi!” s’interruppe
ridacchiando. “Ma vedi un po’! Hanno fatto un bel garbuglio della cosa.
Io avrei saputo fare meglio, figuriamoci. Certo, vorrei vedere che non
dovessero ripetere tutto!”.
Il nuovo organista mascherò il piccolo pasticcio, e la sua musica parve il
fruscio di tante ali angeliche. Quando i dilettanti ebbero finito, alquanto
rossi e imbarazzati, chiesero che i Fratelli regolari della Loggia
mostrassero per prova come andasse eseguita la cerimonia, da loro così
abborracciata. Allora compresi per la prima volta di quali significati possa
essere investito quel perfetto rituale di parola e gesto. Applaudimmo tutti,
in modo particolare il caporale con un piede solo.
“Siamo alquanto orgogliosi delle cose che facciamo, e vale la pena di
fare del proprio meglio di fronte a un pubblico simile” disse il
dottore.
Dopo il Maestro fece una breve conferenza sul significato di alcuni simboli e
diagrammi dipinti. Il tema era tutt’altro che inedito, ma la sua voce
profonda e oratoriale lo rivestì di nuovo interesse.
“Stupefacente come persistano queste vecchie intestazioni da quaderno di
scuola” disse il dottore. “D’accordo”, l’uomo mutilato d’un
piede parlava con cautela, facendo uscire le parole da un angolo della bocca,
come un ragazzino in classe, “ma sono proprio queste frasi edificanti
che ci vedremo intorno, quando saremo giù all’inferno nel nostro letto di
carboni ardenti E dovete credermi! Ne ho infrante abbastanza per sapere.
Adesso zitti!,” si piegò in avanti, bevendo ogni parola del discorso. Di
lì a poco Fratello Burges toccò un punto che aveva dato origine a qualche
divergenza nell’applicazione del rituale. Chiese informazioni.
“Ecco, in Giamaica, Venerabile signore”, prese a dire un membro
esterno, spiegando come dalle sue parti si era risolto quel particolare.
Intervennero un’altra persona e poi un’altra ancora, situate in diversi punti
della Loggia (e del mondo) e quando la discussione si fu sufficientemente
accalorata, il dottore si allontanò silenziosamente passando accanto alle
pareti, e dandoci delle sigarette, da dietro le spalle.
“Un’innovazione che può apparire troppo audace” disse, mentre
ritornava a sedersi nel posto, alla mia sinistra, lasciato libero dal
capitano musicista. “Ma gli uomini non possono parlare seriamente senza
tabacco, e poi siamo solo una Loggia d’Istruzione”.
“E io ho imparato più in una sera che in dieci anni”. L’uomo con un
piede solo si volse verso di noi, cessando per un attimo di interessarsi a un
Yeoman in speroni, scuro di complessione e dall’aria acida, che pontificava
sul rituale olandese. Il fumo azzurrognolo e le parole aumentavano, mentre
l’organo su in cantoria ci benediceva tutti.
“Ma è veramente delizioso” dissi al dottore. “Come è
incominciato?”.
“È stato Fratello Burges. Si era messo a discorrere con le persone che
capitavano nel suo negozio, all’inizio della guerra. Ha detto, a noi che ce
ne stavamo a sonnecchiare tutti placidi nella Loggia, che ciò di cui quelle
persone avevano più bisogno era una Loggia dove potessero semplicemente
starsene seduti, ed essere felici: come lo siamo noi adesso. Aveva
perfettamente ragione. Stiamo imparando molte cose, in questa guerra. Per un
uomo la Loggia è molto più importante di quanto la gente immagini
comunemente. Come ha appena detto l’amico alla nostra destra, la Massoneria è
l’unico credo concreto di cui ci hanno parlato sin da quando eravamo bambini.
Banale o non banale, coincide alla perfezione con come ci hanno insegnato che
dobbiamo comportarci”. Sospirò. “E se questa guerra non ha fatto
capire, a noi tutti, cosa sia la Fratellanza Umana, allora sono… un
unno!”.
“Come avete fatto ad attirare la gente?” domandai ancora. “Oh,
dissi (come mi aveva suggerito Burges) ad alcune persone ricoverate
nell’ospedale qui vicino che avevamo una Loggia d’istruzione, e che loro sarebbero
stati i benvenuti. E vennero. E lo dissero agli amici. E gli amici vennero!
Questo accadde due anni fa, e adesso funzioniamo come Loggia d’Istruzione per
due sere la settimana, con una matinée quasi ogni martedì e venerdì, per
quelle persone che non possono avere permessi serali. Certo, la situazione è
alquanto curiosa. Non avevo idea di cosa significasse la Massoneria, prima
che iniziasse questa guerra”.
“Neppure io, sino a questa sera” risposi.
“Eppure è abbastanza naturale, se uno ci pensa. C’è Londra – anzi tutta
l’Inghilterra – formicolante di Massoni provenienti da ogni parte del mondo,
e con nessun posto dove andare. Ebbene, la nostra percentuale settimanale,
negli ultimi quattro mesi, di persone visitanti è stata di poco inferiore
alle centoquaranta persone. Dividi per quattro, e diciamo che abbiamo
trentacinque Fratelli esterni per volta. Il nostro record è di settantuno
presenze, ma siamo giunti a far stare dentro ottantaquattro persone, nei
banchetti. Può vedere da solo in che razza di buco insignificante siamo
sistemati!”.
“Anche i banchetti!” esclamai. “Deve costarvi l’ira di Dio.
Possono i Fratelli non di questa Loggia..”.
Il dottore – faceva di nome Keede – rise. “No, un Fratello esterno non
può”.
“Ma una persona, dopo un pomeriggio come questo, vuole..”.
“Lo dicono tutti quanti. È la difficoltà che abbiamo. Si comportano
esattamente nel modo da lei indicato, e si offendono quando non accettiamo le
loro offerte”.
“Ah, non accettate?” domandai.
“Mio caro amico, a che ci servirebbe? Non tutti possono fermarsi al
banchetto. Diciamo che vi partecipano cinquanta persone la settimana,
quindici sterline, sessanta il mese, settecentoventi l’anno. Quanto pensa che
possano valere gente come Lemming e Orton? Ed Ellis e McKnight, quell’uomo
lungo e grosso laggiù, loro due che trattano generi alimentari? Per quale
somma crede Burges possa compilare un assegno, senza battere ciglio? Non è
che adesso lui abbia un motivo per mettere da parte soldi. Le assicuro che
non abbiamo scrupoli nel chiedere il contributo dei Fratelli esterni, quando
abbiamo bisogno di qualcosa. Altrimenti non potremmo fare quello che
facciamo. Ha notato come la Loggia è tenuta: ottoni, gioielli, arredamento, e
così via?”.
“Davvero, l’ho notato” dissi. “È linda ed elegante come una nave.
Uno potrebbe mangiare per terra”.
“Bene, venga qui uno di quei giorni in cui non c’è riunione, e troverà
facilmente una mezza dozzina di Fratelli, con non più di otto gambe tra
tutti, che lustrano e danno olio di gomito e spolverano ogni cosa alla loro
portata. Questa primavera ho curato uno, sotto shock da granata, dandogli da
lucidare i nostri gioielli. Li ha levigati a tal punto da far quasi
scomparire i numeri, ma… gli ha impedito di combattere gli unni mentre
dormiva. E quando abbiamo bisogno di Maestri che ci sostituiscano – due
matinées la settimana sono piuttosto gravose – possiamo scegliere i nostri
P.M. da qualsiasi parte del mondo. I Dominions badano al rituale molto di più
di una normale Loggia inglese. Inoltre… oh, la riunione sta per aggiornarsi.
Ascolti i saluti, ne vale veramente la pena”.
Il colpo secco ed improvviso del grande martelletto ci mise tutti in piedi,
dopo qualche ascesa e caduta tra i mutilati. Allora il sergente maggiore di
Batteria recitò, con voce acconciamente esercitata, le formule usuali, calde
e fraterne, di saluto rivolto a Fede e Opere dalla sua Loggia e Distretto
tropicali. Gli altri seguirono senza ordine, con tutte le tonalità possibili,
dal grugnito allo squittio. Udii Hauraki, Inyanga Umbezi, Aloha, Luci del Sud
(da qualche parte verso Punta Arenas), Loggia dei Rudi Conci (e l’aria ben
rude aveva quel Fratello navale proveniente da Terranova), due o tre Stelle
di questo o di quello, mezza dozzina di virtù cardinali, variamente disposte,
i cui saluti andavano dal Klondyke sino a Kalgoorlie, una Loggia Militare
proveniente da un fronte, gettata lì con un severo arrotamento scozzese dal
mio amico con il capo avvolto completamente in bende, e poi tutto il resto,
mischiato insieme come l’Impero stesso. Proprio alla fine vi fu una certa
agitazione. Il Fratello silenzioso aveva incominciato a emettere dei suoni, e
il suo compagno cercò di calmarlo.
“Lasci che parli! Lasci che parli!” esclamò professionalmente il
dottore. L’uomo sussultava tutto e storceva la bocca, e alla fine borbottò
qualcosa di non intelligibile anche per il suo stesso amico; infine un P.M.
di piccola statura e di carnagione scura si spinse avanti con aria
d’importanza.
“Tutto a posto” disse. “Vuol dire..” e sparò fuori
qualche nome gallese lungo una spanna, aggiungendo: “Significa Pembroke
Docks, Venerabile signore. Anche in Galles siamo buoni massoni”. L’uomo
silenzioso accennò con il capo in segno d’approvazione.
“Certo” disse il dottore, per nulla turbato. “A volte è questo
il modo in cui capita. Héspere panta feres, non è vero? La Stella li conduce
tutti a casa, non è vero? Devo prendere delle note su questo caso, dopo la
Loggia. Ho visto che a lei non interessa la musica” proseguì “ma
temo che dovrà sopportarne ancora. È una parafrasi da Michea. È un
arrangiamento del nostro organista. La cantiamo come antifona ogni volta che
concludiamo una riunione”.
Anch’io potei apprezzare quello che seguì. Si limitarono a cantare una mezza
dozzina di persone dalla voce esercitata, le quali seguirono una struttura
antifonale sino all’ultimo verso, quando intervenne la Loggia al completo. La
do come l’ho sentita:
Ti abbiamo mostrato, o Uomo,
Ciò che è bene.
Cosa esige il Signore da noi?
O la Coscienza da noi?
Ma in modo giusto comportarsi,
Ma praticare la misericordia,
E con il nostro Dio in umiltà procedere,
Come dovrebbe ogni Massone.
Uscimmo dalla stanza quando udimmo la musica e le parole cantate con la
strana aria dell’Apprendista appena ammesso. Notai che i Fratelli Regolari
della Loggia non incominciarono a togliersi di dosso le loro insegne prima
dei versi:
Grandi Re, Duchi e Signori
Le spade hanno deposto.
Si mossero verso l’anticamera, adesso approntata per il banchetto, ai versi:
Abbiamo al fianco nostro
L’orgoglio dell’Antichità,
Che rende gli uomini nel loro stato giusti.
Il Fratello (un uomo di chiesa dalla grande corporatura) che mi trovai
accanto a tavola mi disse come tale ritualità fosse “una cosa
esteriormente piacevole e inventata per motivi di vanità”, sulla forza
di qualche vecchia leggenda. Formulò l’opinione che la Massoneria dovesse
essere considerata alla stregua di “un’astrazione intellettuale”.
Un ufficiale del Genio espresse il suo disaccordo, e ci raccontò come in
Fiandra, un anno prima, circa dieci o dodici Fratelli avevano fatto una
Loggia in ciò che era rimasto di una Chiesa. All’infuori degli “emblemi
di mortalità” e di un’abbondanza di grezzi conci, non vi era alcun altro
arredo.
“Sono sicuro che non ne sentivate affatto la mancanza” disse il
religioso. “L’idea dovrebbe bastare da sola, senza troppi
fronzoli”.
“Ma non fu così”. disse l’altro. “Ci demmo un mucchio da fare,
e con del materiale mimetico su cui mettemmo le mani ricavammo le nostre
insegne, e con del vecchio metallo ci forgiammo i gioielli. Li conservo
ancora. Ci tenne felici per delle settimane”.
“La vostra posizione era assolutamente irregolare e non autorizzata. Chi
era il vostro Garante?” domandò il Fratello della Loggia Militare.
“La Loggia suprema dovrebbe prendere delle iniziative contro..”.
“Se la Loggia suprema avesse un minimo di buon senso” s’intromise
un soldato semplice tre posti più in su “darebbe il permesso per delle
Logge itineranti al fronte, e ci manderebbe anche dei conferenzieri di prima
qualità”.
“Allora lei conferirebbe le dignità promiscuamente?” disse
scandalizzato lo scozzese.
“Tutte le volte che una persona ne facesse richiesta, ovviamente. Mezzo
esercito ci entrerebbe dentro”.
La persona giocò con la sua idea per un certo tempo e dimostrò che, con una
somma d’iscrizione ridotta al minimo, la Loggia suprema avrebbe ricavato
rendite enormi.
“Ritengo” disse pensosamente l’ufficiale del Genio “di poter
disegnare un equipaggiamento completo per una Loggia itinerante, che pesi
meno di quaranta libbre”.
“Avete torto, e ve lo dimostrerò. Ci abbiamo provato anche noi”
disse quello proveniente dalla Loggia Militare; e i due ce la misero tutta,
discutendo seduti di fronte, ciascuno con il proprio taccuino in mano.
Il banchetto era l’essenza stessa della semplicità. Molti dei presenti
mangiavano in fretta, in modo da poter ritornare in orario alle loro caserme
e ai loro ospedali, però di tanto in tanto un Fratello veniva dall’oscurità
esterna, per riempire una sedia o vuotare un piatto. Si trattava di Fratelli
che erano venuti in precedenza, e non avevano bisogno di essere esaminati.
Un uomo entrò quasi barcollando, con elmetto, fango delle Fiandre,
equipaggiamento al completo e tutto il resto: fresco fresco dal treno che lo
aveva portato a Londra, in congedo.
“Devo aspettare due ore per la coincidenza” spiegò. “Allora mi
sono ricordato delle vostre serate. Dio mio, come si sta bene qui!”.
“Che treno deve prendere, e da quale stazione?” domandò
meticolosamente il religioso. “Molto bene. Cosa prende da
mangiare?”.
“Qualsiasi cosa, tutto. Ho vomitato nella Manica un mese intero di
razioni”.
Fece il pieno per dieci minuti, senza pronunciare neppure una parola. Poi,
sempre senza parlare, cadde con la faccia in avanti sul tavolo. Il religioso
lo prese per un braccio già fiacco e lo pilotò verso un divano, dove il soldato
si lasciò cadere, mettendosi subito a russare. Nessuno si prese la briga di
voltarsi.
“Anche questo è abituale?” domandai.
“Perché no?” disse il religioso. “Stasera tocca a me svegliare
quelli che devono prendere il treno. In queste occasioni non rispettano il
mio abito sacerdotale”. Mi voltò l’ampia schiena e continuò la
discussione intrapresa con un Fratello di Aberdeen, via Mitilene, dove, nel
tempo libero lasciatogli dal dragaggio mine, aveva elaborato una teoria
completa delle rivelazioni di San Giovanni l’Evangelista, quando era
nell’isola di Patmos.
Io caddi nelle mani di un sergente-istruttore dei mitraglieri, di professione
designer di moda femminile. Mi disse che le donne inglesi, considerate come
categoria generale, “perdono nei corsetti quello che guadagnano nei
vestiti”, e che “Satana in persona non può salvare una donna che
indossa dei corsetti da trenta scellini sotto un abito da trenta
ghinee”. A questo punto, e con mio grande rammarico, gli attaccò un
bottone uno zelante tenente della sua stessa specialità, e lui tornò di nuovo
a essere un sergente, in un battito di tacchi.
Gironzolai per la stanza, esaminando le stampe appese ai muri e la collezione
massonica nelle vetrinette, prestando nel frattempo orecchio ai discorsi, uno
più inconcepibile dell’altro, che si svolgevano attorno a me. La compagnia si
assottigliò a poco a poco, finché non rimase solo una dozzina o due di noi.
Ci raccogliemmo all’estremità di una tavola posta accanto al fuoco, con il
nostro volatile notturno proveniente dalle Fiandre che ronfava a pieni
polmoni nel cavo del suo elmetto, che qualcuno gli aveva messo capovolto
sulla faccia.
“E qual è stata la sua impressione?” disse il dottore.
“Come un mondo nuovo” risposi.
“Lo è, in realtà”. Fratello Burges rimise il pince-nez d’oro nella
custodia e inforcò nuovamente gli occhiali d’argento. “O meglio, ciò che
si potrebbe fare con un minimo d’impegno. Quando penso alle possibilità che
ha la Massoneria nella situazione attuale, mi domando…”. S’interruppe,
fissando il fuoco.
“Anch’io mi chiedo” disse lentamente il sergente maggiore
“Ma… nel complesso… sono incline a essere d’accordo con lei.
Potremmo fare molto, in quanto Massoni”.
“Come aiuto… come aiuto… non in sostituzione della religione”
proruppe irosamente l’uomo di chiesa.
“Oh Signore! Non possiamo lasciare in pace la religione per un
istante?” mormorò il dottore. “Non lo fa… chiedo scusa, non
volevo offendere nessuno”.
Il religioso aveva l’aria di essere andato in collera. “Kamerad!”
proseguì saggiamente il sergente maggiore, con tutte e due le mani alzate.
“Non certamente in sostituzione di una fede religiosa, ma come un
modello di vita applicabile alla maggior parte degli uomini. Ciò che ho visto
al fronte mi rende sicuro della cosa”.
Fratello Burges uscì dalla sua meditazione: “Credo che a Londra ci siano
una dozzina – venti -altre Logge che si riuniscono ogni sera, e che oltre a
istruire conferiscono anche le dignità. Perché i giovani non dovrebbero
parteciparvi? Essi praticano quello che noi predichiamo da sempre. Bene!
Bene! Tutti noi dobbiamo fare quello che possiamo. A che servono i vecchi
Massoni, se non possono dare un piccolo aiuto, nel loro proprio campo?”.
“Esatto” disse il sergente maggiore, rivolgendosi al dottore.
“E a che accidenti serve un Fratello, se non gli è permesso di aiutare
gli altri?”.
“Fate allora come volete” disse il dottore stizzosamente, Era
chiaro che non gli facevano questi discorsi per la prima volta. Prese
qualcosa che il sergente maggiore gli aveva sporto, e se lo mise in tasca,
accompagnando il gesto con un cenno del capo: “Sbagliavo” mi disse
“quando mi vantavo della nostra indipendenza. Qualche volta non
riusciamo a evitare i contributi. Con questo” e batté la mano sulla
tasca “daremo un banchetto, martedì. A proposito, prenda un altro
panino. I migliori sono quelli col prosciutto” mi porse un vassoio.
“Certo che lo sono” dissi. “Ne ho presi solo cinque o sei.
Sono andato alla loro caccia”.
“Sono contento che le piacciano” disse Fratello Lemming. “Gli
ho dato il pastone con le mie stesse mani, e l’ho salato io stesso, nel
posticino che ho nel Berkshire. Di nome faceva Carlomagno. Visto che siamo in
discorso, dottore, devo prepararne un altro per il mese prossimo?”.
“Naturalmente” disse il dottore con la bocca piena. “Un pochino
più grasso dell’ultimo, per favore. E non si dimentichi quanto aveva promesso
a proposito dei nasturzi in salamoia. Sono apprezzati”. Fratello Lemming
annuì con il capo, sopra la pipa che aveva accesa, mentre noi davamo inizio a
una seconda cena. Improvvisamente il religioso, dopo aver dato un’occhiata
all’orologio, arraffò una mezza dozzina di sandwiches da sotto il mio naso,
li mise in un sacchetto di carta oleata e si avvicinò con cautela al soldato
che dormiva sul divano.
“Qualche volta hanno il risveglio brusco” disse il dottore. “I
nervi, sapete”. Il religioso si portò in punta di piedi direttamente
dietro il suo capo, e batté, tenendosi distante per tutta la lunghezza del
braccio, nel centro dell’elmetto. L’uomo si svegliò rapido come il fulmine,
mentre il religioso faceva un passo indietro, e compì il gesto di afferrare
un fucile che non c’era.
“Ha appena mezz’ora di tempo per prendere il treno” il religioso
gli passò i sandwiches. “Mi segua”.
“È straordinariamente gentile, e le sono molto grato” disse l’uomo,
torcendosi per entrare nelle cinghie rigide. Seguì la sua guida
nell’oscurità, dopo aver salutato.
“Chi era?” disse Lemming .
“Non lo so esattamente” rispose il dottore con indifferenza “È
stato qui altre volte. Dev’essere una specie di P(ast) M(aster)”.
“Bene! Bene!” disse Fratello Burges, le cui palpebre si stavano
chiudendo dal sonno. “Noi tutti dobbiamo fare quello che possiamo. Non è
quasi tempo che chiudiamo?”
“Mi chiedo” dissi, mentre ci aiutavamo l’un l’altro a entrare nei
cappotti “cosa succederebbe se la Loggia suprema fosse informata di
ciò”.
“Ciò cosa?” Lemming si voltò con movimento rapido verso di me.
“Una Loggia d’Istruzione aperta tre sere e due pomeriggi la settimana; e
poi anche quella specie di pensione che avete messo in piedi. Come iniziativa
va bene, ma non mi sembra che la cosa sia molto regolare”.
“La questione non è ancora stata sollevata” disse Lemming. “Ci
penseremo dopo la guerra. Nel frattempo si continua nello stesso modo”.
“Dovrebbero essercene a dozzine, di Logge simili” ripeté Fratello
Burges, mentre uscivamo dalla porta. “Londra è piena di gente nostra, e
non c’è un posto dove si possano incontrare. Pensate alle possibilità della
situazione. Pensate cosa potrebbe fare la Massoneria attraverso la Massoneria
per tutto il mondo. Spero di non essere ipercritico, ma ci sono delle volte
in cui mi viene in mente che la Massoneria abbia gettato al vento la
possibilità che aveva d’intervenire nelle nuove condizioni create dalla
guerra, come del resto ha fatto la Chiesa da parte sua”.
“Sei fortunato che il padre stia accompagnando quel tizio a King’s
Cross” disse Fratello Lemming “altrimenti ti sarebbe già saltato
alla gola. Ciò che lo turba veramente è la nostra posizione legale
all’interno della Legge massonica. Penso che uno di questi giorni andrà a
riferire il nostro caso. Bene, buona notte a tutti”. Il dottore e
Lemming svoltarono insieme.
“Sì,” disse Fratello Burges, infilando il suo braccio nel mio
“quasi come ha fatto la Chiesa. Tuttavia, sono forse troppo ritualista”.
Non dissi niente. Stavo rimuginando quanto mi ci sarebbe voluto per battere
il religioso sul tempo e riferire io il caso di Fede e Opere 5837 E.C