PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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IL SEGRET CARBONR

Il Segreto Carbonaro

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La Carboneria adoperò ogni cura per mantenere i suoi segreti. Per le caratteristiche che assunse la Società in Italia, il segreto da “iniziatico” diventò ben presto “settario” (come dire: “politico”). Lo stesso modello organizzativo della Carboneria – gerarchico verticale senza comunicazione orizontale – doveva favorirne la sicurezza contro nemici esterni ed interni.
Il “segreto” non resse, e non poteva reggere dal momento che la Carboneria proponeva se stessa come organizzazione “di massa”, ambito di raccolta di correnti politiche e ceti sociali diversi.
Benché le cifre che si fecero dopo i moti del ’21 fossero del tutto esagerate (si parlò di oltre 600.000 affiliati nel solo Regno delle Due Sicilie) la diffusione delle Vendite sul territorio fu assai più ramificata di quanto non sia mai stata quella delle Logge.
E benché gli Statuti auspicassero Vendite scarsamente numerose (da 5 a 20 iscritti al massimo), alla Carboneria si aderiva a famiglie intere. Non erano pochi quelli che portavano fieramente sui vestiti i tre nastri con la scheggia… e la repressione ebbe buon gioco ad abbattersi su di loro.
A proposito di segreto… Carboneria.org NON è una associazione, ma un sito web personale il cui curatore raccoglie e coordina il lavoro suo e di altri, senza che questo implichi alcun legame formale fra loro. Il nome (e l’indirizzo, e il numero di telefono…) del curatore sono facilissimamente individuabili per chi abbia un minimo di curiosità – e in effetti, sono pubblicamente registrati…- Non è dunque per un’esigenza di “segretezza” che non sono spiattellati in cima alla home page, ma piuttosto per un costume di riserbo che dopo due o tre lustri di lavoro in Loggia per il Cugin Delfaggio è diventato una esigenza.

All’avvantaggio!
Salute e Fratellanza!

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PRIMA TAVOLA DEL M .’.  V .’. SUL TEMA DEL VIAGGIO

 

PRIMA TAVOLA DEL M T  V T

SUL TEMA DEL VIAGGIO

 

Il viaggio circolare e il viaggio rettilineo

 

di A.R.; lavoro presentato in Loggia il 19 Novembre 2001

«Impariamo a pensare come Leonardo: usare l’immaginazione, stravolgere le regole»
David Perkins

«Siamo tutti cercatori d’oro, smarriti in un deserto dove le vie che conducono al successo sono poche e sepolte nella sabbia, bloccate da condizionamenti mentali che ci impediscono di cogliere un suggerimento anche quando l’abbiamo sotto gli occhi, attratti iresistibilmente da oasi che ci accontentano a metà ma sembrano tanto meglio del vuoto che le circonda. In questa situazione la virtù migliore è il coraggio, con tutti i suoi rischi; la strada di quanti hanno scoperto le pepite è cosparsa di scheletri, quella che ci ha portato al volo dei fratelli Wright o alla relatività di Einstein è costellata di brutte figure e tragici incidenti»

Ermanno Bencivegna

 

Perché Claudio Magris ha scelto “Itaca e oltre”, che ci parla dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, metaforica odissea dello spirito umano, come titolo fra i tanti possibili?
Magris stesso ha risposto a questa domanda: «Perché il tema centrale è questo: se il viaggio della vita, e quindi anche della letteratura e della poesia, possa essere inteso nel senso classico del restare fedeli a se stessi. Oppure se questo viaggio dimostra l’impossibilità della sosta, il continuo mutare, la perdità dell’identità, il diventare un altro. Il viaggio circolare contrapposto al viaggio rettilineo.» È l’ulissiaco viaggio circolare inteso come metafora della vita, come odissea con il ritorno, come fedeltà alla propria identità e al proprio senso del divenire contrapposto al viaggio rettilineo nel quale il soggetto non torna a casa e a se stesso ma disperde e dissolve la propria identità in un musiliano “delirio di molti”.

L’odissea del nostro tempo è un’odissea senza Itaca, una nuova odissea senza ritorno.
Itaca si configura in questo viaggio dell’essere, non come luogo reale e concreto, ma come nòstos – ritorno, come ritrovamento di sé da parte dell’individuo dopo la sua odissea in cui è divenuto più intensamente se stesso, maturato ed arricchito, attraverso la molteplicità delle esperienze che ha vissuto e di tutto ciò che ha incontrato e reso consustanziale. Itaca non è che un miraggio, una sorta di Fata Morgana, una illusione dell’immaginazione, è un sentimento luminoso, è un luogo dell’anima, è una mera idealità in quanto si definisce nella forma di puro oggetto intenzionale dela coscienz, è una consapevolezza della propria unità e identità di soggetto cosciente.

L’oltre Itaca che cosa significa? Indubbiamente vi è un’allusione al riaffacciarsi dell’avventura, all’odissea che inizia di nuovo senza una rotta definita, senza una direzione precisa. L’aldilà di Itaca sembra essere una cifra da decrittare nelle sue implicazioni problematiche. Dobbiamo intendere l’oltre Itaca come un’ulteriore ricerca, o – fuori allegoria – come un impegno etico da perseguire, o come una tensione unitaria che dia ala e senso alla vita, o come conquista della totalità intesa come ricerca di assoluto?
Il punto nodale della questione – come sostiene Magris – è se fondersi oppure no su qualcosa di assoluto, anche là dove l’assoluto è sentito come opera dell’uomo. Tutto questo è strettamente connesso al modo con cui si concepisce l’individuo: se cioè egli debba essere un’unità anche in mezzo a infinite spinte centrifughe, oppure se l’io debba sentirsi potenziato dal rifiuto dell’unità, e quindi del fondamento che costituisce quell’unità.

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RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

 

RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

Di recente un Fratello mi ha fatto questa affermazione:

 

<<C’è una logica nelle cose o siamo noi a dare una logica alle cose?. La prima è mal posta infatti anche se così fosse essendo noi stesse cose “relative” non potremmo “assolutamente” affermarlo; la seconda si offre gradita allo scopo che si persegue nel contatto duale azione-informazione.>>

 

Il mio contributo è stato il seguente:

 

 

<<Io credo nel G.’.A.’.D.’.U.’., questo dovrebbe di per sé già darti la risposta a tutto, e’ l’Ente Supremo che informa della sua sottile energia inconoscibile, il tutto. Nel corso dell’ininterrotta catena del tempo l’uomo ha poi inventato o descritto, se preferisci, una serie di sub categorie delle energie attraverso delle sub categorie linguistiche. Sono fermamente ed intimamente convinto che si debbano utilizzare gli strumenti della conoscenza intuitiva, che per sua stessa natura è “individuo specifica” e pertanto incomunicabile al 100%.>>

 

Questo ha, pare, soddisfatto il carissimo Fratello, ma dall’altro lato mi ha spinto a riflettere di più sul senso delle cose che di logica parlano. Il tutto ovviamente alla luce della incomunicabilità insita nei limiti della linguistica quando tali argomenti tratta.

 

La mia affermazione istintiva copiava il merito delle prime parole del vangelo di San Giovanni “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui”.

 

In greco antico la parola “verbo” è l o g o s (logos); è facile capire che la nostra parola “logica” trova la sua radice in logos, pertanto se ammettiamo che un Ente Supremo sia il creatore / demiurgo di tutte le cose, è automatico che in tutte le cose troveremo una parte del logos, e quindi che tutte le cose sono dotate di logica.

 

 

Il ricercatore, in ogni campo, nella ricerca dei sottili fili che uniscono gli eventi, che formano il divenire, ottiene risultati solo quando è in grado di intravedere e seguire quel logos (o logica) che discende dall’Ente Supremo, sarà pertanto in grado da qualunque punto di partenza, ricerca biomedica, matematica, fisica, filosofica, di raggiungere la Verità finale.

 

Non credo che tale percorso sia semplice, qualcuno lo ha definito la via dolorosa, ma credo che tantissimi siano quelli che, una volta intrapreso, ce la fanno ad arrivare sino in fondo; quello che si trova in fondo a tale percorso “logico” è per sua stessa natura incomunicabile, in quanto facente parte della costituzione del ricercatore stesso e della strada che individualmente ha intrapreso e seguito.

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ENEA PRESENTA IL RAMO D’ORO, ENEIDE, CODEX VATICANUS,

 

ENEA PRESENTA IL RAMO D’ORO,

ENEIDE, CODEX VATICANUS,

 

Renderò il deserto un lago d’acqua

e la terra arida una fontana.

Nel deserto pianterò il cedro, l’acacia,

il mirto e  l’olivo selvatico…

Isaia, 41, 18-19

 

Pochi archetipi hanno esercitato nel tempo un fascino così profondo e fecondo come quello dell’ Albero, il cui simbolismo è diffuso virtualmente in ogni cultura umana. Pur se la trattazione esaustiva del suo significato esoterico e dei suoi innumerevoli miti va ben oltre le possibilità di questa tavola, merita di essere ricordato che l’albero, come l’uomo stesso, è dotato di una duplice natura, terrena e celeste, e simboleggia quell’ asse del mondo ponte fra il mondo della materia e quello dello spirito, cui sono riconosciuti significati e poteri immensi di conoscenza e di vita. Come “arbor vitae” o “arbor philosophica” spesso viene rappresentato capovolto, con le fronde in basso e le radici in alto, a significare il processo della creazione che – a partire dallo spirito – si manifesta nei multiformi aspetti del mondo sensibile. Uno dei più antichi esempi di albero rovesciato è quello descritto nelle Upanishad: “Questo universo è un albero che esiste eternamente, con le radici in alto e i rami che si estendono in basso. La pura radice dell’albero è Brahman, l’immortale, in cui i tre mondi (cioè il cielo, la terra e gli inferi) hanno il loro essere, che nessuno può trascendere, che è veramente il sé”. Metafisicamente l’Albero rappresenta la forza universale, che si dispiega nella manifestazione come l’energia della pianta dalle radici invisibili si dispiega nel tronco, nei rami, nel fogliame e nei frutti. All’ Albero, con alto grado di uniformità, si associano idee di immortalità e di conoscenza sovrannaturale da una parte, di tentazione e di forze mortali e distruttrici (serpi, demoni o draghi) dall’altra. In questa sede ci occuperemo soltanto del carattere “immortalante” dell’albero, carattere che come vedremo passa per analogia a sue singole componenti (rami, frutti…), che diventano quasi simbolo del simbolo.

Già le Tradizioni più antiche testimoniano di una “bevanda di immortalità” che stilla dall’albero come “soma” o “amrta” nel mondo vedico, come “haoma” nelle antiche culture iraniche e soprattutto nella Qabbalah, ove al grande e possente “Albero di Vita” è connessa una “rugiada” per virtù della quale si produce la resurrezione dei morti. Altre volte sono i frutti dell’albero a promettere l’immortalità, come nel caso delle mele del Giardino delle Esperidi o dell’Albero della Vita biblico. Infine, ancora più spesso, sono i rami che appaiono come pegno di resurrezione ed immortalità: il mirto dei misteri eleusini, il “ramo d’oro” di Enea, l’ulivo e le palme della tradizione cristiana e più in generale i rami di alberi sempre verdi o che producono fiori gialli od olii usati nelle lampade, segno evidente della loro natura ignea e solare…

Lo studio di questi antichissimi simboli rivela importanti e ricorrenti analogie. Consideriamo ad esempio il vischio: questa pianta parassita che sottrae acqua e sostanze minerali alle altre piante era ritenuta dagli Antichi una pianta del regno intermedio (né albero né cespuglio) e secondo la leggenda nasceva dove il fulmine aveva colpito un albero. Per la sua natura sempreverde il vischio era considerato una panacea, nonché simbolo di immortalità. Particolarmente apprezzati nell’antica Roma e presso i druidi celtici, erano i ramoscelli di vischio che crescevano sulle querce. Secondo Ranke-Graves, essi erano considerati gli organi sessuali della quercia, così che quando i druidi li tagliavano con un falcetto d’oro a scopi rituali, attuavano una vera e propria castrazione simbolica. Il denso succo delle loro bacche rappresentava così lo sperma (che in greco significa “seme”) della quercia ed era considerato un liquido con grandi doti ringiovanenti. Plinio afferma che i druidi tagliavano i rami di vischio con falcetti d’oro, li raccoglievano in un panno bianco e li offrivano poi agli Dei insieme al sacrificio di due tori bianchi. Le tradizioni di tutto il mondo antico raccomandavano infatti l’uso delle mani nude o di strumenti d’oro nella raccolta delle erbe medicinali particolarmente preziose, allo scopo di preservarne la forza. Ecco ad esempio come la Sibilla descrive ad Enea, desideroso di ritrovare nell’Averno il padre Anchise, proprietà e modalità di raccolta del ramo d’oro:

 

…Poiché se tanto amore e così grande desiderio si trova nel tuo animo di solcare due volte la palude Stigia e vedere due volte il nero Tartaro e ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale, è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro…

 

e ancora:

 

…Pascendosi le colombe volando avanzano fin dove con lo sguardo potessero giungere gli occhi di chi le seguiva. Quindi, quando giunsero all’ingresso del maleodorante Averno, veloci si levano in volo e discese per l’aria limpida, si posano nel luogo desiderato sull’albero dalla doppia natura (NdT: sia vegetale che aurea) da cui rifulse pei rami lo scintillio dell’oro. Come il vischio, che si riproduce su un albero, suole nel freddo invernale verdeggiare di fronda novella nei boschi, e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l’aspetto dell’oro frondoso sull’elce ombroso, così la sottile foglia d’oro tintinnava al vento leggero…

 

E’ proprio grazie al ramo d’oro, simbolo dell’albero della vita e analogo dell’aurea verga di Hermes, Enea può attraversare – da vivo – il regno dei morti nelle viscere della terra (“interiora terrae”), compiendo così il suo viaggio iniziatico di rigenerazione. Verde ed oro, simboli di vita e luce…

E veniamo dunque all’acacia, di cui si conoscono 1.200 specie. La botanica classifica l’acacia fra le leguminose della famiglia delle mimosacee, piante arboree o arbustive originarie dell’Australia o dell’Africa centrale. Le acacie in genere presentano foglie bipennate, spesso modificate per adattarsi alle temperature elevate e all’aridità delle regioni australi in cui crescono. Alcune specie recano brevi rami appiattiti simili a spine, detti fillodi, che contribuiscono a svolgere la funzione fotosintetica delle foglie. I semi commestibili, il legname pregiato e le gomme ricavabili da alcune varietà conferiscono al genere un grande valore commerciale. Sul piano esoterico, la natura sempreverde, la presenza di fiori gialli e sopratutto il legno duro e resistente fanno dell’acacia un simbolo del superamento della morte presso numerose culture antiche.

Secondo gli Egizi, gli Dei erano nati sotto l’acacia della dea Saosis, a nord di Heliopolis e lo stesso Horus era emerso da un albero di acacia. Leggende posteriori collegarono l’acacia non solo alla nascita, ma anche alla morte ed alla vita ultraterrena. Nel Libro dei Morti, alcuni bimbi divini accompagnavano il defunto al sacro albero di Acacia, parti del quale venivano battute e schiacciate dal morto: queste parti erano ritenute dotate di un magico potere curativo. Gli Arabi consideravano l’incorruttibile acacia una manifestazione di el-Huzza, Dea il cui nome significava “forte, possente” il di cui santuario si trovava nella valle di Nakhla ed era costituito da tre alberi di acacia arabica, in uno dei quali si manifestava la Dea.

Anche gli Ebrei attribuivano all’acacia un altissimo significato simbolico, tanto da farla entrare nella costituzione dell’Arca dell’Alleanza. Era questo il recipiente nel quale Israele aveva riposto le Tavole della Torah, dopo averle ricevute sul monte del Sinai; su di esse erano incisi i Dieci Comandamenti. L’Arca (si noti come questa parola di origine indoeuropea che indica il “custodire” è alla radice di “arcano”, cioè “esoterico, segreto”), fu trasportata per tutti i 40 anni di viaggio nel deserto, e accompagnò Israele durante i lunghi anni di conquista della Terra Promessa, fino a venire posta nel Tempio costruito dal Re Salomone. Si trattava di una cassa lunga due cubiti e mezzo (Esodo, 25, 10 sgg.; ogni cubito è circa mezzo metro), larga un cubito e mezzo, e alta un cubito e mezzo; veniva trasportata inserendo due lunghi pali negli appositi anelli, come illustrato dalla figura. Quando Israele si accampava, al centro dell’accampamento veniva eretto il Tabernacolo, e nel Santo dei Santi era riposta l’Arca. Questa era composta di due pezzi principali: un parallelepipedo inferiore e un coperchio che lo chiudeva, un chiaro riferimento alla terra e al cielo.

 

Il parallelepipedo inferiore era formato da tre distinte scatole. Le due esterne erano entrambe d’oro, mentre quella mediana era di legno d’acacia. Senza approfondire i numerosi significati di questa scelta, ci limiteremo a ricordare che lo strato di acacia separava le lamine d’oro come un isolante elettrico, onde permettere a ciascuna delle due di costituire uno schermo separato. Una doppia schermatura, insomma, in grado di isolare completamente la Torah dai campi energetici negativi, e di captare solo quelli positivi. I tre strati del recipiente inferiore alludono anche alle tre dimensioni spaziali cui si aggiunge la dimensione temporale (il coperchio costituito da un’unica lamina d’oro sovrastata dai Cherubini) e la “quintessenza”, rappresentata dalle Tavole della Torah.

E veniamo infine al mito di Hiram, cuore pulsante della simbolica massonica ed in particolare del 3° grado: per non aver voluto svelare la parola sacra ai tre cattivi compagni (simboleggianti l’ignoranza, il fanatismo e l’avidità), il saggio Architetto viene ucciso e sepolto sotto un ramo d’acacia. Lì viene trovato da uno dei nove Maestri inviati alla sua ricerca ed infine disseppellito da tre persone, il Maestro Venerabile e i due Sorveglianti; ogni tentativo di riportare in vita il cadavere fallisce finché il Maestro Venerabile invita i Sorveglianti, sconvolti perché ad Hiram si stacca la carne dalle ossa, ad unire i loro sforzi in una catena vivente e – grazie alle risorse dell’Arte – desta a nuova vita il Maestro assassinato. Non possono sfuggire le analogie fra questo mito ed i molti altri basati sul ciclo vita-morte-resurrezione. Fra tutti ricorderò nuovamente quello di Osiride, dio egizio della vegetazione, ucciso con l’inganno dal fratello Seth. L’illustrazione in alto, tratta dal testo ermetico Atalanta fugiens di Michael Maier (1618) narra il dramma in tre tempi. In alto a sinistra Seth, coperto dall’arco, imbraccia ancora la spada sanguinante mentre ai suoi piedi giace Osiride smembrato. Accanto accorre Iside che rappresenta il secondo tempo del dramma: ritrova il fratello-marito e presumibilmente s’appresta a vendicarlo. Infine, in primo piano, la riesumazione di Osiride operata da tre personaggi, due soldati romani – evidentemente stupiti – ed un ineffabile sapiente orientale raffigurante, secondo il costume dell’epoca, Ermete Trismegisto. Superfluo sottolineare le analogie fra i soldati e il sapiente dell’illustrazione ed il Maestro Venerabile e i Sorveglianti del mito massonico. In effetti, secondo una ipotesi ben documentata, proprio questa illustrazione ermetica del mito d’Osiride sarebbe alle origini della leggenda di Hiram e dei tratti essenziali del rituale d’iniziazione al terzo grado.

Acacia, in greco acacia, significa esente da colpa, innocente, non nocente. Massonicamente si dirà che il Maestro “conosce l’Acacia” ed anche che si diviene Maestri passando da Squadra a Compasso attraverso l’Acacia, cioè che si diviene incorruttibili ed immortali “procedendo dalla rettitudine (Squadra) all’iniziativa “Compasso” passando per l’Acacia (innocenza)” 8. Simbolo fra i più importanti nell’Istituzione muratoria, l’acacia rappresenta l’iniziato che esce dalla bara di Osiride per trasformarsi in Horus; dell’Agnello di Dio (Cristo) che resuscita; dello stato di rigenerazione che ogni uomo dovrebbe raggiungere superando se stesso. Poiché l’ucciso sopravvive simbolicamente in ogni Maestro, il ramo di Acacia allude agli ideali massonici che sopravvivono alla morte. Gli annunci mortuari massonici vengono ornati con questo simbolo e ramoscelli di Acacia vengono deposti sulla tomba del Fratello defunto…

Secondo Osvald Wirth l’Acacia è emblema della sicurezza e della certezza, poiché la morte simbolica di Hiram, come quella di Osiride e di Cristo, non rappresenta il disfacimento dell’essere, ma una trasformazione che conduce alla Luce, che il colore giallo dei suoi fiori sembra preannunciare. Infine, Mackey nella sua enciclopedia riafferma che l’Acacia massonica con «…la sua natura sempre verde ci rammenta l’immortalità dell’anima libera da macchie». Indicazione che nel termine ‘libera’ cela una consonanza col trentaquattresimo verso aureo di Pitagora: «Allora, lasciato il corpo, salirai al libero etere. Sarai un dio immortale, incorruttibile, invulnerabile».

Compreso il suo significato, siamo dunque sempre degni dell’Acacia? Certamente no e non c’è nulla di umiliante nell’ammettere le nostre debolezze umane. Osvald Wirth confessava: “Ammesso nove lustri fa in Camera di Mezzo, non posso ancora vantarmi di conoscere l’Acacia. Come voi, in realtà sono rimasto Compagno. I miei viaggi non sono finiti ed io lavoro senza posa a conquistare la Maestria, che sono ben distante dal possedere”

L’essenziale, cari Fratelli, sta tutto in quel lavorare “senza posa” la nostra pietra, sforzandoci di trasformare questo simbolo sublime – il ramo d’oro – in realtà vivente

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IL  FUTURO  E’ NEL GOVERNO  DELLE CIVILTA’

IL  FUTURO  E’ NEL GOVERNO  DELLE CIVILTA’

 

 

Il 20° Secolo si è caratterizzato con trasformazioni di modernizzazione basate sulla fisica e sulla chimica, queste hanno modificato il sistema economico, quello sociale e di conseguenza anche quello umano, proponendo all’uomo la necessità di individuare nuove forme di governo delle proprie comunità. Oggi assistiamo all’arrivo di nuove scienze: la Biotecnologia e la Dromologia.  Immaginare una società sotto l’influsso di queste due enormi entità ci sembra, ad oggi, quasi impossibile da decifrare per l’enorme portata delle modificazioni in atto e per l’intensità con cui si manifesteranno. Queste scienze, secondo la descrizione di alcuni studiosi, esigeranno sistemi di governo sicuramente molto complessi, molto diversi da quelli attuali, con esigenze di altissima preparazione, e quindi con la necessità di scuole di altissima capacità formativa, intellettiva e culturale.

 

Le biotecnologie saranno “l’oro verde” del 21° Secolo. Le forze economiche e politiche che controlleranno le risorse genetiche del pianeta eserciteranno un potere enorme sull’economia mondiale del futuro, proprio come, per l’era industriale, lo fu l’accesso ai combustibili ed ai metalli preziosi ed il loro conseguente controllo, il quale determinò un dominio su mercati e popoli.

 

Possiamo tranquillamente affermare che il nuovo e più importante sistema di potere del 21° Secolo è già individuato e riuscirà sicuramente ad attecchire, sta alla società moderna fare in modo che ciò non avvenga con caratteristiche di forte prepotenza, anche se a tutt’oggi nessuna organizzazione mondiale è in grado di possedere strumenti di tutela.

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INTUIZIONE E RAGIONE

Social network sphere – vector illustration.

INTUIZIONE E RAGIONE

 

Maurizio Lanzoni

 

Quando si parla di ragione e razionalità, si assume come esempio la matematica. E’ idea comune, originatasi generalmente durante gli anni della scuola, che la matematica sarebbe una scienza vera e indiscutibile. C’è quindi una fiducia nella razionalità della matematica e dunque nei risultati che essa ha raggiunto.

In realtà la matematica non è quella scienza indiscutibile che molti credono, unicamente tesa a calcoli o teoremi fini a se stessi.

Già Pitagora e la sua scuola avevano assunto i numeri come il principio di tutte le cose e sostenuto che la spiegazione dei fenomeni naturali può essere tratta dall’aritmetica, concependo così una scienza dei numeri con valenza gnoseologica, caratteristica che le è restata anche dopo il fallimento del programma pitagorico.

Lo stesso Platone mostra una fiducia illimitata nella razionalità dell’universo, sintetizzata nell’affermazione “Dio geometrizza eternamente”. Nel pensiero platonico aritmetica (la scienza del calcolo) e geometria assumono un ruolo estremamente importante.

La geometria si propone di acquistare la conoscenza di ciò che sempre è, non di ciò che ora nasce e ora perisce.

…………………………..

Essa è dunque, o egregio amico, argano che tira l’anima verso la verità, atta a produrre lo spirito filosofico ed a rivolgere verso l’alto lo sguardo, invece di volgerlo malamente verso il basso.

Nel corso dei secoli lo sviluppo del pensiero matematico ha ritenuto ora più ora meno che l’indagine matematica avrebbe portato ad un aumento di conoscenza del mondo. Si pensava per esempio che la geometria, così come Euclide nel V secolo a. C. l’aveva codificata, non potesse non descrivere le proprietà del mondo, così che a fine Settecento le teorie geometriche, nella sistemazione iniziata appunto da Pitagora e culminante con Euclide, erano più che mai l’esempio di verità apodittiche, tanto che ad esse in primo luogo s’era appellato Kant per trovare qualcosa da preservare, sia pure sotto la nuova veste di “giudizi sintetici a priori”, dello sfacelo del dogmatismo colpito dalle limpide argomentazioni di Hume.

Questa concezione fu messa in crisi nell’Ottocento con le geometrie non euclidee, cioè quelle nelle quali non sono valide le proprietà della usuale geometria.

La matematica dapprima offrì al mondo la prova che l’uomo può raggiungere la verità, e poi la distrusse; furono le geometrie non euclidee e i quaternioni, entrambi veri trionfi della ragione, ad aprire la strada a questo disastro intellettuale .

Il riferimento è a Nicolaj Ivanovic Lobacevskij, creatore della geometria non euclidea ora chiamata iperbolica, e a William Hamilton, padre dei quaternioni, elementi base di una nuova algebra, diversa dalla classica, nella quale non valgono proprietà ritenute universalmente valide, quali la legge commutativa della moltiplicazione.

Osserva Kline : L’“orgoglio della ragione” umana è crollato e ha trascinato con sé nella caduta anche la casa della verità. Ecco la lezione della storia: non dobbiamo mai sostenere dogmaticamente le nostre convinzioni più ferme; in realtà esse dovrebbero suscitare i maggiori sospetti, poiché‚ segnano i nostri limiti e i nostri confini, non le nostre conquiste.

La situazione nell’Ottocento era per certi versi paradossale.

Durante il Settecento, sulla scia di Newton e Leibniz, la matematica ha conosciuto enormi sviluppi. Le tecniche del calcolo infinitesimale hanno permesso di descrivere innumerevoli fenomeni nel campo della fisica e dell’astronomia. Soprattutto era possibile “prevedere” fenomeni fisici (per esempio: conosco velocità e posizione di un pianeta; allora posso sapere con certezza dove si troverà dopo un certo intervallo di tempo). Erano invece piuttosto vaghi i fondamenti logici della matematica: restavano cioè ambigui proprio i concetti basilari che permettevano di ottenere quei brillanti risultati, per cui nulla assicurava della correttezza della matematica.

Ancora nella prima metà del secolo XIX per esempio molti matematici continuarono nelle critiche ai numeri negativi e ai numeri immaginari (radici quadrate di numeri negativi) che già Leibniz aveva chiamato analyseos miraculum, idealis mundi monstrum, pene inter Ens et non Ens anphibyum, e sui quali Musil fa pensare il giovane Törless :

Ma pure non resta un che di curioso in tutta la faccenda? Come posso spiegarmi? Prova a pensarla così: in un calcolo del genere, tu all’inizio hai dei numeri solidissimi, in grado di quantificare metri, pesi o qualsiasi altro oggetto concreto, comunque numeri reali. Alla fine del calcolo, lo stesso. Ma l’inizio e la fine sono tenuti insieme da qualcosa che non c’è. Non è un po’ come un ponte che consti soltanto dei piloni iniziali e finali, e sul quale tuttavia si cammina sicuri come se fosse intero? Un calcolo del genere mi dà il capogiro; come se un pezzo del cammino andasse Dio sa dove. Ma la cosa davvero inquietante per me è la forza insita in questi calcoli, una forza capace di sorreggerti fino a farti arrivare felicemente dall’altra parte.

L’imbarazzata risposta dell’insegnante a Törless descrive l’atteggiamento dei matematici dell’Ottocento: essi non capivano per quali motivi avrebbero dovuto affrontare notevoli difficoltà cercando di dimostrare cose di cui non si dubita mai. Anzi, molti matematici si comportavano come se ciò che sfuggiva ai tentativi di dimostrazione non avesse affatto bisogno di essere dimostrato.

Le convinzioni religiose, rafforzate dall’evidenza scientifica, sopperivano alla debole o addirittura inesistente forza logica. I matematici erano così ansiosi di assicurarsi la verità divina che continuavano a costruire senza fondamenta sicure. Essi si misero la coscienza in pace con il successo; in verità il successo era stato tanto inebriante da far quasi sempre dimenticare la teoria e il rigore.

Il problema della sistemazione logica dei fondamenti della matematica fu affrontato alla fine del secolo scorso e nei primi decenni del Novecento. La sistemazione fu trovata ricalcando Euclide. Euclide mette alla base della geometria ventitré‚ definizioni e cinque postulati, cioè proposizioni primitive che si riferiscono agli enti geometrici prima definiti. Tali enti per Euclide (e fino all’Ottocento) sono quelli della nostra intuizione, e son concepiti come realmente esistenti al di fuori di noi.

La soluzione moderna, intendendo la matematica come una scienza ipotetico-deduttiva, parte da alcuni enti primitivi e da alcuni postulati che risultano la base per la deduzione di definizioni e teoremi conseguenti.

Per rimanere nell’ambito della geometria, vengono assunti come enti primitivi il punto, la retta e il piano e vengono posti quindi alcuni postulati (proprietà non dimostrabili che si assumono come valide) che ne “descrivono” le proprietà fondamentali; per esempio: esiste ed è unica la retta passante per due punti assegnati; dati due punti su una retta esiste almeno un punto della retta compreso tra i due; da un punto si può condurre una ed una sola parallela a una retta data; ecc.

Il punto, la retta e il piano non vengono definiti, perché‚ ciò significherebbe utilizzare altre grandezze definite in precedenza, (per esempio un quadrato è definito come il parallelogramma con i lati e gli angoli uguali. Se è noto il significato dei termini “parallelogramma”, “lato”, “angolo”, “uguale”, allora è noto anche il significato di “quadrato”) le quali dunque andrebbero definite mediante altre grandezze ancora, e così via in una “regressione all’indietro”. Nel tentativo di definire il qualcosa a monte non si proseguirebbe più nella costruzione della geometria.

Ecco dunque la necessità di partire da alcuni enti primitivi, intuibili da tutti (o almeno dalla maggioranza). I postulati sono quelle proposizioni che spiegano le proprietà degli enti primitivi; sono anch’essi indimostrabili, per gli stessi motivi, a differenza dei teoremi, proposizioni la validità delle quali è dimostrata sulla base dei postulati.

Si potrebbe quasi affermare che la funzione dei postulati è – in un certo senso – analoga a quella dei dogmi del cattolicesimo, solo che quelli non sono verità assolute, ai quali i fedeli debbono prestar fede, ma semplici punti di partenza: possono tranquillamente essere cambiati (ma allora si costruirà una teoria non “più o meno vera” della precedente, ma semplicemente diversa).

Il sistema assiomatico quindi accentua la separazione della matematica dal mondo reale e anche dall’intuizione: non è infatti indispensabile farsi immagini mentali degli enti in questione. I postulati dovrebbero essere posti in modo da fissare le proprietà dei termini per farle coincidere con quelle che si vuole che valgano.

Però è controverso che i postulati descrivano effettivamente ed esaurientemente ciò che intendiamo quando usiamo quelle nozioni.

Il problema è molto complesso, ma può essere chiarito con un esempio.

L’aritmetica (cioè i comuni numeri usati nella pratica quotidiana muniti delle usuali operazioni) è stata assiomatizzata ormai da molti anni, e si basa quindi su un certo numero di postulati. Non è però certo se tutte le assiomatizzazioni proposte riescono a descrivere completamente i concetti fondamentale dell’aritmetica, oppure se nell’interpretazione degli assiomi assume un ruolo non secondario anche l’intuizione, che invece secondo la scuola assiomatica esula (deve esulare) dalla base dei postulati.

Se infatti si prova a rispondere a domande quali “che cosa è un numero?”, “che cosa è il numero 2?”, sorgono difficoltà notevoli.

Eppure sono state avanzate definizioni rigorose e logicamente ineccepibili del numero 2 (secondo una di queste sarebbe l’insieme di tutte le coppie). Dubito che, pensando al numero 2, si pensi effettivamente all’insieme di tutte le coppie (a me, almeno, non succede). Eppure il numero 2 è usato continuamente nella pratica quotidiana e in qualunque teoria di qualunque disciplina senza la minima difficoltà.

Ogni parola assume, da persona a persona, un significato leggermente diverso nel contesto della medesima tradizione culturale Anche il concetto filosofico o matematico più accuratamente definito, che sicuramente, a nostro parere, non contiene nulla di più di quello che gli abbiamo attribuito, è pur sempre qualcosa di più di quello che noi pensiamo. Esso è un evento psichico, e come tale parzialmente inconoscibile. Anche gli stessi numeri che usiamo per contare sono qualcosa di più di quello che si è soliti credere. Essi sono contemporaneamente elementi mitologici (per i Pitagorici erano anche divini): però quando adoperiamo i numeri per scopi pratici noi ne siamo del tutto inconsapevoli.

Le difficoltà infatti sorgono solo quando si cerca di definire tali concetti, cioè quando tentiamo una razionalizzazione di idee chiare nel nostro intuito.

Tutti i sistemi di postulati proposti (per l’aritmetica e per le altre parti della matematica), pur logicamente ineccepibili, lasciano un margine più o meno ampio all’intuizione, spesso proprio contro il parere di chi li ha costruiti. Inoltre (situazione a mio avviso estremamente significativo) più essi diventano rigorosi e ineccepibili, più si allontanano dall’evidenza e dall’intuizione.

E’ il procedimento della cosiddetta astrazione, fondamentale nella matematica. Può essere spiegato come “liberare gli elementi da ogni loro contenuto”, cioè operare con enti privi di significato, che verrà loro attribuito in seguito dagli usi particolari.

Mi pare un serio limite, in quanto gli enti primitivi sono appunto intuiti (nel senso, come si diceva: non so definirli o spiegarli, ma li comprendo, almeno per quel tanto che mi è sufficiente nell’uso).

Sulla linea dell’assiomatizzazione si mossero Giuseppe Peano, i cui assiomi (1889), sono posti a base dell’aritmetica e il tedesco  Gottlob Frege che nel 1884 costruisce il primo tentativo di fondare l’aritmetica su premesse della cosiddetta logica matematica (calcolo delle proposizioni, proprietà, ecc.).

La costruzione di Frege ricevette un duro colpo dalla scoperta delle antinomie: non appena l’edificio fu completato – scrisse Frege – le fondamenta crollarono.

Cosa sono le antinomie, e perché‚ la loro comparsa risulta così drammatica?

L’antinomia o paradosso è la contraddizione che si verifica tra una proposizione e la sua negazione, entrambe dimostrabili all’interno della teoria. Nella misura in cui si suppone la teoria assiomatica completamente distaccata dal mondo reale e dall’intuizione, e solamente fondata sulla ragione, la comparsa di una antinomia risulta disastrosa.

Ma vediamo qualche paradosso.

Paradosso del mentitore. Un uomo dice: Io sto mentendo. Se sta mentendo allora ciò che dice è falso e quindi non mente. Se invece non sta mentendo allora ciò che dice è vero e quindi mente.

Paradosso di Berry. Nella lingua italiana esistono nomi composti solamente da un numero finito di sillabe. Consideriamo i nomi dei numeri e contiamo le sillabe di ciascun numero. Per esempio “uno” è composto di due sillabe, “venticinque” di quattro sillabe, ecc. Il numero delle sillabe dei nomi dei numeri cresce man mano che i numeri aumentano in quanto con un dato numero finito di sillabe si può comporre solo un numero finito di nomi. E quindi i nomi di alcuni numeri interi consisteranno, per esempio, di due sillabe “u-no”, “cin-que”, “ven-ti”, ecc.), altre di tre (“un-di-ci”, “cen-to-tre”, ecc.), quattro sillabe, eccetera. Consideriamo i nomi composti di almeno ventotto sillabe; tra questi ce ne dovrà essere uno che sia il più piccolo. Allora “il più piccolo numero intero non nominabile in meno di ventotto sillabe” deve denotare un ben determinato numero intero; e infatti denota il numero 42.242.242. Ma la frase “il più piccolo numero intero non nominabile in meno di ventotto sillabe” è essa stessa una denominazione consistente di ventisette sillabe. Segue che il più piccolo numero intero non nominabile in meno di ventotto sillabe può essere denominato in ventisette sillabe, il che è una contraddizione.

Paradosso di Russell. Se il barbiere del villaggio è quella persona che rade chi non si rade da solo, chi fa la barba al barbiere? Se si rade da solo allora lui, barbiere, non può radersi. Se non si rade da solo allora deve farsi radere dal barbiere, cioè si deve radere da solo.

Quest’ultimo paradosso è particolarmente insidioso perché‚ a differenza della versione qui proposta fu avanzato in termini matematici, nel linguaggio della teoria degli insiemi, per cui si presenta drammaticamente all’interno di una teoria matematica, anzi di quella teoria che da molti veniva proposta come fondamento della matematica. Se la matematica deve contenere solo proposizioni vere allora deve essere esente da ogni contraddizione.

Sono state avanzata nei primi decenni del secolo diversi tentativi di eliminare le contraddizioni.

Da una parte la scuola logicista di Bertrand Russell propone di fondare la matematica su leggi non solo derivabili da principi logici, ma anche vere nel mondo fisico. Per evitare le antinomie si affida a una teoria ritenuta da molti artificiosa e generalmente non accettata, come non accettati sono alcuni postulati che è obbligata a porre per non perdere ampie parti della matematica. Se a tutto ciò si aggiunge che gli stessi autori qualificatisi logicisti tendono via via ad allontanarsene, si può affermare che la scuola logicista raggiunge ben presto un punto morto.

Una risposta radicale al problema dei fondamenti viene dalla scuola intuizionista.

L’unica fondazione possibile per la matematica va cercata in questa processo costruttivo, la cui libertà è limitata dall’obbligo di stabilire (…) quali tesi siano accettabili dall’intuizione e vengano colte dalla mente come autoevidenti, e quali non lo siano.

Per gli intuizionisti la matematica ha un contenuto suo proprio che le proviene direttamente dall’intuizione ed è come tale indipendente tanto dall’esperienza sensoriale quanto dalla strutturazione logica.

Le idee matematiche sono immerse molto più profondamente nella mente umana che nel linguaggio. Gli intuizionisti non solo ammettono il ricorso a facoltà extra-logiche (appunto l’intuizione), ma considerano illusori tutti i tentativi di escluderne gli interventi. Kronecker (1823-91), che presenta caratteristiche proprie dell’intuizionismo propriamente detto, pur avendolo storicamente preceduto, scrisse: Dio ha creato i numeri interi, il resto è opera dell’uomo .

Per Hilbert invece, caposcuola del formalismo, logica e matematica sono entrambe discipline autonome.

Per il formalista la matematica è un insieme di sistemi formali, ognuno dei quali costituisce un mondo a sé stante, fondato su propri enti primitivi, propri assiomi, proprie regole di inferenza per dedurre teoremi. I simboli però vanno lasciati non interpretati: i formalisti, per così dire, cercarono di “comprare” la certezza pagando però un “prezzo”: avere a che fare con simboli privi di significato.

Il programma formalista suscitò critiche. Russell obiettò (1937) che gli assiomi per l’aritmetica utilizzati dai formalisti non determinano univocamente il significato dei simboli numerici 0, 1, 2, 3, …, ma solo il significato di successione di numeri: nulla vieta di intendere 0 come 100, 1 come 101, 2 come 102, eccetera: gli assiomi continuano a valere.

Gli intuizionisti, per parte loro, accusarono la formalizzazione hilbertiana di spogliare la matematica del suo significato, “trasformandola così da principio di sistema composto di risultati intuitivi a gioco di formule che si svolge secondo regole prefissate”. Infatti, la matematica che importanza e che interesse cognitivo può avere, una volta ammesso che le sue formule non possiedono un significato fondamentale che consenta loro di esprimere delle verità intuitive?

La scuola insiemistica invece propone l’eliminazione dei paradossi introducendo opportuni assiomi che limitino il concetto di insieme, troppo vago senza l’intervento di opportune specificazioni. Un gruppo di matematici francesi contemporanei, sotto il nome collettivo di Nicolas Bourbaki, si è posto l’obiettivo di ricostruire tutta la matematica partendo dagli assiomi della teoria degli insiemi e da pochi altri principi logici.

Rimangono tuttavia irrisolti i problemi della completezza e della coerenza della matematica.

Completezza: una proprietà è dimostrabile sulla base degli assiomi della teoria. Per esempio, in geometria euclidea è dimostrabile che le tre altezze di un triangolo si incontrano in uno stesso punto. Ma nella teoria dei numeri non è dimostrabile (né confutabile) che ogni numero pari è la somma di due numeri primi, anche se non è mai stato trovato un numero pari che non lo sia. Questo non è un teorema (congettura di Goldbach).Altro esempio. Esistono numeri ben definiti, dei quali è possibile calcolare il valore con qualunque approssimazione prefissata, ma di due dei quali non è possibile dimostrare né che sono uguali, né che sono diversi.

Il problema della coerenza è più insidioso. Nella costruzione di un sistema matematico è necessario garantirsi che i postulati messi alla base siano coerenti e non portino a contraddizioni, cioè alla possibilità di dimostrare contemporaneamente all’interno di quel sistema la verità di una certa affermazione e dell’affermazione contraria.

Che valore infatti potrebbe avere una teoria contraddittoria? Si pensi, ad esempio, alla geometria euclidea (continuamente applicata alla pratica quotidiana) se nel suo ambito si potesse dimostrare contemporaneamente un certo teorema e la sua negazione. Sarebbe perlomeno uno strumento inutile, come un tavolo senza gambe o un’automobile della quale non è mai possibile sapere se sta per muoversi in avanti o all’indietro.

Come risolvono il problema della coerenza le varie scuole?

Gli intuizionisti sostengono che le intuizioni della mente umana sono di per se stesse coerenti: l’intuizione umana è abbastanza potente per decidere la verità o falsità di ogni proposizione significativa, anche se qualcuna di esse è indecidibile. La matematica dunque possiede un effettivo valore contenutistico e non solo formale.

I formalisti tentano la via della dimostrazione della coerenza. Nel 1931 Kurt Gödel (uno dei maggiori logici del Novecento) dimostra, servendosi di principi logici accettati dalla scuola logicista, formalista e insiemistica, che non è possibile dimostrare la coerenza di un sistema matematico sufficientemente potente da esprimere almeno l’aritmetica dei numeri interi.

Gli insiemistici sono sicuri che nel loro sistema non sorgono contraddizioni, ma non ne posseggono la dimostrazione.

Hermann Weyl ha commentato: Dio esiste, perché‚ senza dubbio la matematica è coerente, ma esiste anche il diavolo, perché‚ non possiamo dimostrarlo.

Un altro risultato significativo di Gödel è il teorema di incompletezza: se una teoria formale sufficientemente potente da esprimere la teoria dei numeri interi è coerente, allora la teoria è incompleta.

Cioè: esiste almeno una proprietà della teoria dei numeri non dimostrabile (e non confutabile).

Eppure esistono enunciati che risultano veri impiegando regole di ragionamento che vanno oltre la logica dei sistemi formali.

E’ possibile evitare enunciati indecidibili e dimostrare la coerenza dell’aritmetica solamente servendosi di principi di ragionamento che non possono essere rappresentati all’interno dell’aritmetica. Dunque: esistono limiti all’assiomatizzazione.  Ciò che è intuitivamente certo si estende oltre la dimostrazione matematica.

Nessuna impostazione della matematica è in grado di dimostrare la propria non contraddittorietà servendosi di principi logici sicuri. La matematica del Novecento rispetto alla matematica del passato ha raggiunto la certezza di non poter più rivendicare la certezza e la validità assoluta dei propri risultati.

Il teorema di Löwenheim-Skolem dice: un sistema di assiomi ammette, oltre all’interpretazione desiderata, molte altre interpretazioni radicalmente diverse da quella. Quindi gli assiomi non limitano le interpretazioni ammissibili e i sistemi assiomatici non riescono a caratterizzare la matematica senza ambiguità.

Molte scuole hanno tentato di rinchiudere la matematica nei confini della logica umana, ma l’intuizione non si lascia ingabbiare. Il matematico (alcuni matematici) non si affida in genere alla dimostrazione rigorosa: le sue creazioni hanno per lui un significato che precede qualsiasi formalizzazione ed è in grado di conferire loro un’esistenza e una realtà “ipso facto”. La ricerca è frutto della intuizione e dell’immaginazione, la logica viene in un secondo tempo nella dimostrazione. Anzi spesso per il matematico una dimostrazione rigorosa non ha valore se il risultato non possiede un senso intuitivo.

Pascal aveva parlato di esprit de géom‚trie, la forza e la rettitudine della mente, e di esprit de finesse, l’apertura della mente, la capacità di comprendere in modo più profondo e completo.

Vi sono dunque due sorte di spiriti: uno adatto a penetrare vivamente e profondamente le conseguenze dei principi, ed è questo uno spirito intuitivo; l’altro adatto a comprendere un gran numero di principi senza confonderli, ed è questo lo spirito ragionatore. Uno è forza e dirittura di spirito, l’altro è ampiezza di spirito.

L’esprit de finesse è un livello di pensiero che va oltre la logica: anche ciò che è incomprensibile per la ragione può nondimeno essere vero. La logica però ha un suo ruolo; se l’intuizione è il padrone e la logica il servo, anche il servo ha un certo potere sul padrone. Essa limita l’intuizione sfrenata, che può condurre ad asserzioni troppo generali imponendo opportune condizioni limitative. L’intuizione può volare alto, ma la logica impone il senso della misura. L’intuizione può anche ingannare, però è la facoltà che stabilisce l’obiettivo che successivamente la logica raggiunge con la dimostrazione.

La logica è l’igiene che pratica il matematico per mantenere sane e forti le sue idee.

Idee che comunque debbono avere alla base un substrato intuitivo. Infatti la mente umana non riesce a formalizzare tutta la matematica.

Lo stesso contrasto si ripropone per esempio all’interno della cosiddetta Intelligenza Artificiale (il tentativo di duplicare su macchina quelle attività che, se compiute dall’uomo, richiederebbero intelligenza) tra i fautori della IA forte e quelli della IA debole, dove i primi ritengono possibile trasferire alla macchina tutti i comportamenti intelligenti dell’uomo mentre i secondi solo alcuni, per esempio, in linea di principio, le procedure algoritmiche (ma solo quelle).

A mio parere i motivi della limitazione vanno ricercati nella natura stessa della ragione umana.

Per Kant la ragione umana ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché‚ posti dalla sua stessa natura, ma dei quali non può trovare la soluzione, in quanto oltrepassano ogni potere della ragione umana.

Altri, con Russell, hanno dovuto sconsolatamente ammettere  che l’adozione del metodo scientifico in filosofia, se non sbaglio, ci costringe ad abbandonare la speranza di risolvere molti dei problemi più ambiziosi e, dal punto di vista umano, più interessanti della filosofia tradizionale. Alcuni di questi problemi vengono affidati, sia pure con scarse prospettive di soluzione positiva, alle scienze specifiche, altri si sono rivelati di tale natura che le nostre capacità, nella loro essenza, non sono in grado di risolvere.

Ma Pascal aveva affermato che il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano. Oggi, la ragione non solo è stata costretta a riconoscere i limiti, ma ne ha dimostrato l’esistenza.

Ironicamente gli intellettuali dell’Età della Ragione, indicando la matematica come prova dei poteri razionali e della sua capacità di ottenere verità assolute, avevano fiduciosamente affermato che la ragione avrebbe risolto tutti i problemi umani.

Gli intellettuali del nostro secolo, per quanto alcuni possano mantenere fiducia nel potere assoluto della ragione, non possono indicare nella matematica lo standard e il paradiso da seguire. Da un certo punto di vista questa svolta degli eventi non si allontana molto da un disastro intellettuale. Da un altro la matematica risulta il tentativo umano più vasto e profondo di sviluppare un pensiero preciso ed efficace, e i risultati di questa scienza misurano la capacità dell’intelletto umano: la matematica rappresenta il limite superiore dei risultati che possiamo sperare di conseguire in qualsiasi dominio razionale.

La ragione umana ha raggiunto i propri confini. Hermann Weyl ha sconsolatamente commentato: Abbiamo cercato di dare l’assalto al cielo e siamo riusciti solo ad erigere la Torre di Babele.

Ma forse la conclusione è un’altra: non è possibile costruire la Torre di Babele perché non è questa la scala per raggiungere il cielo, dove ci sono più cose che non ne immaginino i sogni della filosofia.

 

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NOËL CORBU: IL NASTRO MAGNETICO CHE HA CREATO IL “MITO”

NOËL CORBU: IL NASTRO MAGNETICO CHE HA CREATO IL “MITO”

 

di Pietro Marino

 

Rennes-le-Château

 

 

 

 

 

Dopo la morte di Bérengere Saunière, Noël Corbu (1912-1968) acquistò i suoi possedimenti per trasformarli in un ristorante. Le bizzarrie del parroco francese furono un ottimo spunto per ricamare su Rennes-le-Château le più incredibili ipotesi misteriose. Per attirare clienti nella piccola città francese, egli incise un nastro magnetico che faceva ascoltare agli avventori del ristorante. Fra questi vi erano alcuni giornalisti, che divulgarono in breve tempo il “mito” di Rennes, facendogli acquistare una risonanza internazionale.

 

In questa pagina è pubblicato il testo completo tratto dal nastro magnetico di Noël Corbu dedicato ai misteri di Rennes-le-Château.

 

 

Testo del nastro magnetico di Noël Corbu

 

“La storia di Rennes-Le-Château risale nella notte di tempi.

 

Si può affermare senza dubbio che questo altipiano sia stato abitato da sempre. Alcuni storici hanno scritto e fissato la fondazione di Rennes-Le-Château ad opera dei Visigoti all’inizio del V secolo. Questo è assolutamente negato dalla quantità di vestigie molto più antiche, che sono state trovate sulla superficie del suolo, preistoriche, paleolitiche o neolitiche, iberiche, galliche, romane, Gallo-romane. La loro abbondanza e la loro diversità provano, senza la possibilità di provare diversamente, che Rennes-Le-Château era, prima dei Visigoti, una grande città.

 

Altri storici pensano che Rennes Le-Château era la capitale dei Soclatesi, tribù gallica e molto forte che tenne in scacco Cesare per lungo tempo. Quest’ ultimo, nei suoi commentari, riferendo la caduta della loro capitale, parla del paesaggio circostante e la sua descrizione corrisponde esattamente al panorama che si vede da Rennes-Le-Château: picco di Bugarach a sud-est, picco di Cardou ad est, terra di Becq e altipiano di Fanghes a sud, l’Aude e i suoi meandri ad ovest e la sua valle in direzione di Alet e Carcassonne. Nulla manca e si può ragionevolmente immaginare che Rennes-Le-Château, prima di essere potente capitale dei Visigoti, era stata capitale gallica, poi grande città Gallo-romana, e certamente prima di questa epoca, grande habitat preistorico.

 

Perché questa importanza di Rennes-Le-Château durante queste epoche?

 

1) per la sua posizione geografica che domina tutte le valli: quella della Sals che va da Rennes-Le-Château a Narbonne, quella dell’Aude verso Carcassonne e verso Sijean, quella che va a finire a Puivert e Chalabre, e quella che da Rennes-Le-Château permetteva di andare in Spagna prima che fosse costruita la strada passante per le gole di Pierre-Lily. La strada Rennes-Le-Château/Spagna è stata certamente una via romana, perché se ne trovano ancora dei tronconi perfettamente lastricati, e nella località detta “La Rode” è stata trovata una ruota in bronzo ed un timone di carro romano, attualmente al museo di Tolosa;

 

2) per il numero delle sorgenti che danno acqua in abbondanza e che non sono mai state seccate;

 

3) per il suo clima molto moderato, molto meno freddo ed esente di nebbia e foschia in inverno, molto meno caldo in estate di tutta la valle.

 

Questi tre punti fanno di Rennes-Le-Château un luogo assolutamente privilegiato, una sorte di oasi nel bacino che essa domina.

 

Fin dal V secolo, Rennes-Le-Château che si chiamava RHAEDE, è una grande città. Capitale dei Visigoti del Razés, conta più di 30.000 abitanti. La sua importanza è tale che i Vescovi incaricati da Carlomagno per evangelizzare la Septimania- i visigoti che hanno abbracciato il catarismo, l’eresia cristiana dell’arianesimo – non menzionano nel rapporto all’imperatore che due importanti città: Rhaede e Narbonne. La cittadella di Rhaede aveva una superficie di almeno tre volte più grande di quella del villaggio attuale.

 

La città si estende a Sud fino ad un altro picco dove era costruita un’altra fortezza che si chiama il Castello. Un’altra cinta di fortezze difendeva Rhaede: sono i castelli di Coustaussa, Blanchefort, Arc, Bézut, Caderonne e Couiza.

 

La decadenza di Rennes-Le-Château comincia con le lotte albigesi. In parte distrutta, fu, per ordine di San Luigi ricostruita. Filippo l’Audace spinse l’ opera del padre, e si può dire che nel XIII secolo, se la città non ha l’importanza che aveva prima, la cittadella è sempre in piedi ed anche potente. Ma un affare di vendita assai confuso del territorio di Rhaede al re di Castiglia fa che gli spagnoli, per recuperare il loro acquisto invadono la Septimania e distruggono un prima volta Rhaede. Ricostruita solamente in parte, subisce una seconda distruzione nel 1370. Fu la fine. Mai più Rhaede si rialzò dalle sue rovine: a poco a poco gli abitanti discesero verso valle e Rhaede, divenuta Rennes-Le-Château, era solamente un piccolo Villaggio invece della città orgogliosa di 30.000 abitanti.

 

Rennes-Le-Château certamente sarebbe caduta nell’oblio totale se un prete originale di Montazels, da Couiza non venne ad assumere la guida della canonica il 1 giugno 1885. Durante 7 anni, l’abate Bérenger Saunière condusse la vita di un povero curato di campagna, e nei suoi archivi, sul suo libro dei conti, si può leggere, alla data del 1° febbraio 1892; ” Io devo a Léontine, 0 frs. 40; Io devo ad Alphonsine 1 fr, 65 “, ed i suoi risparmi che egli chiama ” fondi segreti ” ammontavano in quel tempo a 80 frs 65.

 

In questo stesso mese di febbraio 1892, cadendo in rovina l’altare principale della chiesa attuale, aveva chiesto un aiuto al Consiglio municipale che l’aveva accordato a lui per restaurarlo. Gli operai che lo smontavano trovarono in uno di pilastri dei rotoli di legno che contenevano delle pergamene. L’abate immediatamente avvertito se ne impadronì e qualche cosa dovette attirare la sua attenzione, perché fece immediatamente bloccare i lavori. Il giorno seguente, partì per Parigi, dicono, ma noi non ne abbiamo alcuna conferma.

 

Al suo ritorno, fece riprendere i lavori, ma non fece più fare solo l’altare principale, ma tutta la chiesa, poi iniziò al cimitero dove spesso lavorava da solo.

 

Demolì la tomba della contessa di Hautpoul-Blanchefort e cancellò le iscrizioni che vi erano sulla lapide.

 

Il Consiglio municipale si turbò della cosa e gli impedì di lavorare nel cimitero, ma il male era fatto, perché questa tomba doveva avere un’indicazione. Fece costruire muri attorno al giardino, di fronte la chiesa, utilizzò uno splendido pilastro di stile visigoto dell’altare, che danneggiò facendovi incidere ” Missione 1891 “, per sostenere N.D. di Lourdes, in un altro piccolo giardino. Fa interamente restaurare il presbiterio; poi, nel 1897, ordinò la costruzione della casa, della Torre, del cammino di ronda, del giardino d’inverno, e il tutto costò un milione nel 1900, quello che rappresenta 250 milioni della nostra valuta. Egli arredò la casa e la torre in modo fastoso. Il suo stile di vita era regale. L’abate Saunière riceveva chiunque venisse a trovarlo ed ogni giorno vi erano feste. Il consumo di rum che egli faceva venire direttamente dalla Giamaica e dalla Martinica giunse a 70 litri al mese. Senza contare i liquori di tutti i tipi, i vini di ottima qualità; le anatre erano ingrassate con biscotti così che divenissero più saporite. Era un vera sibarite.

 

Ricevette un anno Monsignor Billard che, secondo persone del paese, ripartì molto felice. Monsignor Billard era stupito della vita del prete, ma non diceva nulla. Il suo successore Monsignor Beauséjour, immediatamente richiese i conti all’abate Saunière e lo convocò, per spiegarsi, a Carcassonne, Ma non volendo niente dire, trovò come pretesto che era ammalato e che non poteva affrontare il viaggio sino a Carcassonne. E, come sostegno del suo dire, inviò dei certificati del medico Dr Rocher di Couiza, certificati falsi, in quanto noi abbiamo una lettera del suddetto Dr Rocher che in sostanza dicono ” Mio caro amico, io vi spedisco il certificato che mi avete chiesto ed è un piacere per me darvi soddisfazione “. L’abate Saunière non potette andare a Carcassonne, ma lui andò comunque all’estero: Spagna, Svizzera ed il Belgio. Viaggi assolutamente segreti e, per imbrogliare, lasciò alla sua domestica e donna di fiducia, Marie Dénarnaud delle lettere preparate concepite così: ” Caro Sig.ra ” o ” Sig. ” o ” Signorina “, ” io ho ricevuta la vostra lettera: Io mi scuso di non poter rispondere più lungamente, ma io devo andare al capezzale di un collega ammalato, A molto presto.” firmato “Saunière ” . Marie Dénarnaud apriva la posta e se una lettera richiedeva una risposta, metteva una di queste lettere in una busta e la spediva – Per tutti l’abate non aveva lasciato Rennes.

 

Tuttavia al vescovato le cose peggioravano. Nel 1911, Monsignor Beauséjour, esasperato per non essere capace di avere alcun chiarimento dal suo prete, lo incolpò di traffico di Messe e lo sospese. Fu condannato in contumacia. Il traffico di Messe non stava in piedi, perché loro costarono 0,50 frs; quale era la quantità di Messe che sarebbe stato necessario che l’abate Saunière dicesse per coprire le sue spese? Ma questo era l’unico motivo che aveva Monsignor di Beauséjour ” per immobilizzare ” il suo prete.

 

L’abate Saunière non si inchinò di fronte alla sentenza ed immediatamente fece appello alla corte di Roma. Assunse come difensore un avvocato ecclesiastico, il canonico Huguet il quale, a spese del curato, andò a Roma. Il processo durò due anni e finì con un non luogo a procedere, il capo di accusa non era provato. Ma informata dal vescovo delle magnificenze e dello stile di vita dell’abate, Roma a sua volta chiese chiarimenti che l’abate Saunière rifiutò di nuovo di dare. E sotto l’accusa di rivolta ed oltraggio verso i superiori venne di nuovo sospeso, questa volta definitivamente, l’11 aprile 1915. Comunque, si faceva capire all’abate Saunière che se avesse fatto onorevole ammenda, si sarebbe potuto considerare una mitigazione della pena.

 

Ma l’abate esacerbato, non volle assolutamente sentire alcuna cosa, né della diocesi, né della chiesa. Sbalordito, per opporsi al suo vescovo, affittò il presbiterio per 99 anni. Nella piccola cappella, che egli aveva fatto costruire, celebrava la Messa ed una gran parte della popolazione di Rennes-Le-Château andava ad ascoltarla, mentre il prete regolare, nominato dal vescovo, obbligato a vivere a Couiza a quattro chilometri, perché nessuno lo voleva, diceva messa in una chiesa vuota.

 

Durante tutta la lunghezza del suo processo con la chiesa, l’abate Saunière non fece più una costruzione. Ma qando fu tutto finito, rifece dei progetti: costruzione della strada da Couiza a Rennes-Le-Château a sue spese, perché aveva l’intenzione di comprare una macchina; conduzione dell’acqua presso tutti gli abitanti, costruzione di una cappella nel cimitero; costruzione di un bastione attorno a Rennes; costruzione di una torre di cinquanta metri di altezza in modo di vedere chi si avvicinava, con una scala circolare all’interno, una biblioteca alla fine della scala; alzata di un piano della torre attuale così come del giardino di inverno. Questi vari preventivi e lavori ammontavano ad otto milioni, cioè più di due miliardi di nostri franchi. Ed il 5 gennaio 1917 accettò i preventivi e firmò l’ordine di tutti questi lavori.

 

Ma il 22 gennaio, cioè 17 giorni dopo, prese freddo sul terrazzo, ebbe un attacco cardiaco che, complicato da una cirrosi epatica, non lo perdonò.

 

In breve, morì lo stesso giorno. Messo su una poltrona del salotto, rimase esposto un giorno, coperto con una coperta con dei fiocchi rossi. Per riverenza, quelli che andavano, staccavano un fiocco e lo portavano via. Fu seppellito nella tomba che stava facendo costruire nel cimitero.

 

La famiglia di Saunière si preoccupò, poi, avere l’eredità; ma, stupore, l’abate Saunière aveva comprato tutto, ordinato sotto il nome della sua domestica, Marie Dénarnaud, e lei era la proprietaria legittima, così che gli eredi presunti andarono via del tutto mortificati.

 

Marie Dénarnaud, molto addolorata alla morte del vicario, divenne un esempio di austerità. Si ritirò nel presbiterio, vivendo assolutamente sola e non spostandosi più. Non si recò più a Couiza. Durante gli anni, si rifiutò di vendere la proprietà, ma invecchiando, non era più capace né di sorvegliarla, né di fare la manutenzione, e gradualmente fu la distruzione e la depredazione. Libri rari, francobolli, opere d’arte furono rubati. Quando finalmente, nel 1947, si decise, vendette al Sig. ed alla Sig.ra Corbu che trasformeranno la vecchia residenza del vicario in un albergo “La Torre “.

 

Quanto all’origine del tesoro che il vicario certamente ha trovato e di cui una gran parte deve ancora esistere, gli archivi di Carcassonne ce ne danno un chiarimento: Bianca Castiglia, madre di San Luigi, reggente del regno della Francia durante le crociate del figlio, giudicò Parigi poco sicura per conservare il tesoro reale, perché i baroni e le piccole persone si ribellavano contro il potere regale. Si trattava della famosa rivolta dei pastorelli. Fece dunque trasportare il tesoro da Parigi a Rennes, che le apparteneva, vi riuscì e morì dopo poco. San Luigi ritornò dalla crociata, ma andò via di nuovo e morì a Tunis. Suo figlio, Philippe l’Audace, doveva conoscere il nascondiglio del tesoro, perché si interessò molto di Rhaede, dove fece fare molte opere di difesa. Ma dopo lui, vi è un buco e Filippo il Bello è obbligato a fare della moneta falsa, perché il tesoro della Francia era scomparso. Noi dobbiamo supporre che egli non conosceva il nascondiglio.

 

Il tesoro fu trovato due volte: nel 1645, un pastore chiamato Ignace Paris, mentre pascolava le pecore, cadde in un buco e portò nella sua capanna un basco pieno di pezzi di oro. Raccontò che aveva visto una stanza piena di pezzi di oro, ma divenne folle per difendere i pezzi di oro che aveva portato. Il signore e le sue guardie ricercarono invano il luogo dove era caduto il pastore, poi ci fu l’abate Saunière e le pergamene.

 

Sempre secondo gli archivi che danno una lista del tesoro, questo era composto da 18 milioni e mezzo di pezzi di oro, cioè in peso approssimativamente a 180 tonnellate, più numerosi gioielli ed oggetti religiosi. Il suo valore intrinseco, secondo questa lista, è più di cinquanta miliardi. D’altra parte se si considera il suo valore storico (un pezzo di oro di questa epoca vale 472.000 franchi) si arriva al’incirca a 4.000 miliardi.

 

Così, in questo villaggio modesto, dal panorama e dal prestigioso passato, dorme uno dei tesori più favolosi che ci sia al mondo.

 

Texte de la bande magnétique de Noël Corbu

 

L’histoire de Rennes-le-Château se perd dans la nuit des temps.

 

On peut affirmer sans crainte que ce plateau a toujours été habité. Certains historiens ont écrit et fixé la fondation de Rennes-le-Château par les Wisigoths aux environs du Vème siècle. Ceci est absolument démenti par la quantité de vestiges beaucoup plus anciens que l’on trouve à fleur de sol, qu’ils soient préhistoriques, paléolithiques ou néolithiques, ibères, gaulois, romain, gallo-romains, Leur abondance et leur diversité prouvent, sans contestation possible que Rennes-le-Château était, bien avant les Wisigoths, une grande cité.

 

D’autres historiens pensent que Rennes-le-Château était la capitale des Soclates, très forte peuplade gauloise qui tint en échec César pendant longtemps. Ce dernier, dans ses commentaires, relatant la chute de leur capitale, parle du pays environnant et sa description correspond exactement au panorama que l’on voit de Rennes-le-Château : pic de Bugarach au Sud-Est, pic de Cardou à l’Est, terre de Becq et plateau des Fanges au Sud, l’Aude et ses méandres à l’Ouest et sa vallée en direction d’Alet et Carcassonne. Rien n’y manque et l’on peut raisonnablement supposer que Rennes-le-Château, avant d’être puissante capitale Wisigothe, a été capitale gauloise, puis grande cité gallo-romaine, et certainement avant cette époque, grand habitat préhistorique.

 

Pourquoi cette importance de Rennes-le-Château pendant ces temps ?

 

I- Par sa situation géographique qui domine et commande toutes les vallées : celle de la Sals venant de Rennes-le-Château et Narbonne, celle de l’Aude vers Carcassonne et vers Sijean, celle aboutissant à Puivert et Chalabre, et celle qui de Rennes-le-Château permettait d’aller en Espagne avant que la route passant par les gorges de la Pierre-Lys soit percée. La route Rennes-le-Château/Espagne a été certainement une voie romaine, car on retrouve encore des tronçons parfaitement dallés, et au lieu-dit “La Rode” on a trouvé une roue en bronze et un timon de char romain, actuellement au musée de Toulouse.

 

2- Par le nombre de sources qui, sur ce piton donnent de l’eau en abondance et qui n’ont jamais été taries.

 

3- Par son climat très tempéré, beaucoup moins froid et exempt de brouillard et de brume en hiver, beaucoup moins chaud en été que la vallée.

 

Ces trois points font de Rennes-le-Château un endroit absolument privilégié, une sorte d’oasis dans la cuvette qu’elle domine.

 

Dès le Vème siècle, Rennes-le-Château qui s’appelait RHAEDE, est grande cité. Capitale Wisigothe du Razés, elle compte plus de 30.000 habitants. La rue des bouchers en comprenait18.000. Son importance est telle que les Evêques chargés par Charlemagne d’évangéliser la Septimanie – les wisigoths ayant embrassé bien avant le catharisme, l’hérésie chrétienne de l’arianisme – ne mentionnent dans le rapport à l’Empereur que deux villes importantes : Rhaede et Narbonne. La citadelle de Rhaede avait une superficie d’au moins trois fois plus grande que le village actuel. On dénombrait 7 lices.

 

La ville s’étendait au Sud jusqu’à un autre piton où était bâtie une autre forteresse que l’on appelle le Castella. Une autre ceinture de forteresses défendait Rhaede : ce sont les châteaux de Coustaussa, de Blanchefort, d’Arc, du Bézut, de Caderonne et de Couiza.

 

La décadence de Rennes-le-Château commence avec les luttes albigeoises. En partie détruite, elle est, sur l’ordre de Saint-Louis rebâtie. Philippe le Hardi poussa l’oeuvre de son père, et l’on peut dire que sous le XIIIème siècle, si la ville n’a plus l’importance qu’elle avait avant, la citadelle, elle, est toujours debout et aussi puissante. Mais une affaire assez confuse de vente du territoire de Rhaede au roi de Castille fait que les espagnols, pour récupérer leur achat, envahissent la Septimanie et détruisent une première fois Rhaede. Rebâtie en partie seulement, elle subit une seconde destruction en 1370. Ce fut la fin. Jamais plus Rhaede ne se releva de ses ruines : petit à petit les habitants descendirent vers les vallées et Rhaede étant devenu Rennes-le-Château ne fut plus qu’un petit Village au lieu de l’orgueilleuse ville de 30.000 habitants.

 

Rennes-le-Château serait certainement tombé dans l’oubli total si un prêtre originaire de Montazels, près de Couiza ne vint prendre la cure le 1er juin 1885. Pendant 7 ans, l’abbé Bérenger Saunière mena la vie de tout pauvre curé de campagne, et dans ses archives, sur son livre de comptes, on peut lire, à la date du 1er février 1892 ; “Je dois à Léontine, 0 fr. 40; je dois à Alphonsine 1 fr, 65”, et ses économies qu’il nomme ses “fonds secrets” se montent à cette époque à 80 frs 65.

 

En ce même mois de février 1892, le maître autel de l’église actuelle tombant en ruines, il avait demandé une aide au Conseil municipal qui la lui avait accordée pour le remettre en état. Les ouvriers le démontant trouvèrent dans un des piliers des rouleaux de bois contenant des parchemins. L’abbé immédiatement alerté s’en empara et quelque chose dut retenir son attention, car il fit arrêter immédiatement les travaux. Le lendemain, il partait en voyage pour Paris, dit-on, mais nous n’en avons aucune confirmation,

 

A son retour, il fit reprendre les travaux, mais là, il ne fit plus faire que le maître autel, mais toute l’église, puis, il s’attaqua au cimetière où il travaillait souvent seul.

 

Il démolit même la tombe de la comtesse d’Hautpoul.Bianchefort et rasa, lui-même, les inscriptions qui étaient sur cette dalle,

 

Le Conseil municipal s’émut de la chose et lui interdit de travailler au cimetière, mais le mal était fait, car cette tombe devait avoir une indication, Il fait construire les murs autour du jardin, devant l’église, utilise un splendide pilier de style wisigoth de l’autel, qu’il mutile en y faisant graver “Mission 1891″ pour supporter N.D de Lourdes, dans un autre petit jardin. Il fait entièrement restaurer le presbytère; puis en 1897, commande la construction de la maison, de la Tour, du chemin de ronde, du jardin d’hiver, le tout lui coûte un million en 1900, ce qui représente 250 millions de notre monnaie. Il meuble la maison et la tour fastueusement. Son train de vie est royal. L’abbé Saunière reçoit quiconque vient et tous les jours ce sont des fêtes. La consommation de rhum, qu’il fait venir directement de la Jamaïque et de la Martinique atteint 70 litres par mois. Sans compter les liqueurs de toutes sortes, les vins fins; les canards sont engraissés avec des biscuits à la cuiller pour qu’ils soient plus fins, C’est un véritable sybarite.

 

Il reçoit une année Monseigneur Billard, qui, d’après les gens du pays, repart.., assez content. Mgr Billard a été étonné de la vie de son prêtre, mais il ne dit rien, Mais son successeur Mgr de Beauséjour, demande immédiatement des comptes à l’abbé Saunière et le convoque pour s’expliquer à Carcassonne, Mais ce dernier ne voulant rien dire, prétexte qu’il est malade, qu’il ne peut faire le voyage de Carcassonne, Et, à l’appui de ses dires, montre des certificats du Dr Rocher, médecin à Couiza, certificats faux, puisque nous avons une lettre du Dr Rocher disant en substance ceci ” Mon cher ami, je vous envoie le certificat que vous me demandez et je me ferai un plaisir de vous donner satisfaction”. L’abbé Saunière ne peut se rendre à Carcassonne, mais il peut cependant aller à l’étranger : Espagne, Suisse et Belgique. Voyages absolument secrets, et pour donner le change, il laisse à sa bonne et femme de confiance, Marie Dénarnaud des lettres toutes prêtes ainsi conçues : “Chère Madame” ou “Monsieur” ou “Mademoiselle”, “J’ai bien reçu votre lettre: Je m’excuse de ne pouvoir répondre plus longuement, mais je suis obligé d’aller au chevet d’un confrère malade, A très bientôt. ” signé “Saunière”. Marie Dénarnaud ouvrait le courrier et si une lettre nécessitait une réponse, mettait une de ces courtes missives dans une enveloppe et l’envoyait- Pour tout. le monde l’abbé n’avait pas quitté Rennes.

 

Cependant à l’évêché, les choses empiraient. En 1911, Mgr de Beauséjour, excédé de ne pouvoir obtenir aucune explication de son prêtre, l’inculpe de trafic de messes et l’interdit. Condamnation par contumace. Le trafic de messes ne tient pas debout, car elles coûtaient 0,50 fr, c’est dire la quantité de messes qu’il aurait fallu que l’abbé Saunière reçoive pour couvrir ses dépenses. Mais c’était le seul moyen qu’avait Mgr de Beauséjour “pour coincer” son prêtre.

 

L’abbé Saunière ne s’incline pas devant la sentence et aussitôt fait appel en cours de Rome. Il prend pour se défendre un avocat ecclésiastique, le chanoine Huguet, qui, aux frais du curé, va à Rome. Le procès dure deux ans et se termine par un non-lieu, le chef d’accusation n’étant pas prouvé. Mais instruit par l’évêque des magnificences et du train de vie de l’abbé, Rome à son tour demande des explications que l’abbé Saunière se refuse à nouveau de donner. Et c’est sous l’inculpation de révolte et outrage envers ses supérieurs qu’il est de nouveau interdit, et cela définitivement, le 11 avril 1915. Cependant, on faisait comprendre à l’abbé Saunière que s’il faisait amende honorable, on pourrait envisager un adoucissement. On verrait.

 

Mais l’abbé ulcéré, ne veut absolument plus rien entendre, ni de l’évêché, ni de l’Eglise. Inderdit, pour contrer son évêque, il a loué le presbytère pour 99 ans. Dans la petite chapelle, qu’il s’est fait construire, il dit la messe et une grosse partie de la population de Rennes-le-Château vient l’écouter, tandis que le prêtre régulier, nommé par l’évêque, obligé d’habiter Couiza à quatre kilomètres delà, car personne ne le veut, dit sa messe dans une église pour ainsi dire vide.

 

Pendant toute la durée de son procès avec l’Eglise, l’abbé Saunière n’a plus fait de construction. Mais tout étant consommé, il refait des projets : construction de la route de Couiza à Rennes-le-Château à ses frais, car il a l’intention d’acheter une automobile; adduction d’eau chez tous les habitants, construction d’une chapelle dans le cimetière; construction d’un rempart tout autour de Rennes; construction d’une tour de cinquante mètres de haut de façon à voir qui entre, avec un escalier circulaire à l’intérieur, une bibliothèque suivant l’escalier; haussement d’un étage de la tour actuelle ainsi que du jardin d’hiver. Ces divers devis et travaux se montent à huit millions or, soit plus de deux milliards de nos francs. Et le 5 janvier 1917, il accepte les devis et signe la commande de tous ces travaux.

 

Mais le 22 janvier, soit 17 jours après, il prend froid sur la terrasse, a une crise cardiaque, qui, compliqué d’une cirrhose du foie, ne lui pardonne pas.

 

Bref, il meurt dans la journée. Mis dans un fauteuil du salon, il y reste exposé tout un jour, couvert d’une couverture avec des pompons rouges. En vénération, ceux qui venaient, coupaient un pompon et l’emportaient. Il fut enterré dans le tombeau qu’il était en train de se faire construire au cimetière.

 

La famille Saunière se préoccupa, alors, pour avoir l’héritage; mais, stupeur, l’abbé Saunière avait tout acheté, tout commandé sous le nom de sa bonne, Marie Dénarnaud, et celle-ci était et demeurait sa légitime propriétaire de sorte que les héritiers présomptifs s’en allèrent tout penauds.

 

Marie Dénarnaud, très coquette à la mort du curé, devint un exemple d’austérité. Elle se retira au presbytère, vivant absolument seule et ne bougea plus. Elle ne descendit plus une seule fois à Couiza. Pendant des années, elle se refuse à vendre son domaine, mais l’âge venant, elle ne pouvait plus ni surveiller, ni faire entretenir, et petit à petit ce fut la destruction et le pillage. Livres rares, timbres, oeuvres d’art, tout fut volé. Quand finalement, en 1947, elle se décida et vendit son bien à Monsieur et Madame Corbu qui transformèrent l’ancienne résidence du curé en hôtel ” La Tour”.

 

Quant à l’origine du trésor que le curé a certainement trouvé et dont une grande partie doit encore subsister, les archives de Carcassonne nous en donnent l’explication : Blanche de Castille, mère de Saint Louis, régente du royaume de France pendant les croisades de son fils, jugea Paris peu sûr pour garder le trésor royal, car les barons et petites gens se révoltaient contre le pouvoir royal. Ce fut la fameuse révolte des pastoureaux. Elle fit donc transporter le trésor de Paris à Rennes, qui lui appartenait, puis entreprit de mâter la révolte, elle y réussit et mourut peu après. Saint Louis revint de la croisade, puis repartit de nouveau et mourut à Tunis. Son fils, Philippe le Hardi, devait connaître l’emplacement du trésor, car il s’intéressa beaucoup à Rhaede, et fit faire de nombreux travaux de défense. Aussi retrouve-t-on encore à certaines fondations de tours des éperons qui sont une caractéristique de son époque. Mais après lui, il y a un trou et Philippe le Bel est obligé de faire de la fausse monnaie, car le trésor de France a disparu. Nous devons supposer qu’il ne connaissait pas la cachette.

 

Le trésor fut trouvé deux fois : en 1645, un berger nommé Ignace Paris, en gardant ses moutons, tombe dans un trou et ramène dans sa cahute un béret plein de pièces d’or. Il raconte qu’il a vu une salle pleine de pièces d’or et devint fou pour défendre les pièces qu’il a apportées. Le châtelain et ses gardes recherchent vainement l’endroit où est tombé le berger, puis ce fut l’abbé Saunière et les parchemins.

 

Toujours d’après les archives qui donnent une liste du trésor, celui-ci se composait de 18 millions et demi de pièces d’or en nombre, soit en poids environ 180 tonnes, plus de nombreux joyaux et objets religieux. Sa valeur intrinsèque, d’après cette liste, est de Plus de cinquante milliards. Par contre, si l’on prend sa valeur historique, la pièce d’or de cette époque valant 472.000 Francs, on arrive environ à 4.000 milliards.

 

Ainsi, dans ce modeste village, au panorama et au passé prestigieux, dort un des plus fabuleux trésors qui soit au monde.

 

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{23-10-2001}

 

 

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RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

Di recente un Fratello mi ha fatto questa affermazione:

 

<<C’è una logica nelle cose o siamo noi a dare una logica alle cose?. La prima è mal posta infatti anche se così fosse essendo noi stesse cose “relative” non potremmo “assolutamente” affermarlo; la seconda si offre gradita allo scopo che si persegue nel contatto duale azione-informazione.>>

 

Il mio contributo è stato il seguente:

 

 

<<Io credo nel G.’.A.’.D.’.U.’., questo dovrebbe di per sé già darti la risposta a tutto, e’ l’Ente Supremo che informa della sua sottile energia inconoscibile, il tutto. Nel corso dell’ininterrotta catena del tempo l’uomo ha poi inventato o descritto, se preferisci, una serie di sub categorie delle energie attraverso delle sub categorie linguistiche. Sono fermamente ed intimamente convinto che si debbano utilizzare gli strumenti della conoscenza intuitiva, che per sua stessa natura è “individuo specifica” e pertanto incomunicabile al 100%.>>

 

Questo ha, pare, soddisfatto il carissimo Fratello, ma dall’altro lato mi ha spinto a riflettere di più sul senso delle cose che di logica parlano. Il tutto ovviamente alla luce della incomunicabilità insita nei limiti della linguistica quando tali argomenti tratta.

 

La mia affermazione istintiva copiava il merito delle prime parole del vangelo di San Giovanni “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui”.

 

In greco antico la parola “verbo” è l o g o s (logos); è facile capire che la nostra parola “logica” trova la sua radice in logos, pertanto se ammettiamo che un Ente Supremo sia il creatore / demiurgo di tutte le cose, è automatico che in tutte le cose troveremo una parte del logos, e quindi che tutte le cose sono dotate di logica.

 

 

Il ricercatore, in ogni campo, nella ricerca dei sottili fili che uniscono gli eventi, che formano il divenire, ottiene risultati solo quando è in grado di intravedere e seguire quel logos (o logica) che discende dall’Ente Supremo, sarà pertanto in grado da qualunque punto di partenza, ricerca biomedica, matematica, fisica, filosofica, di raggiungere la Verità finale.

 

Non credo che tale percorso sia semplice, qualcuno lo ha definito la via dolorosa, ma credo che tantissimi siano quelli che, una volta intrapreso, ce la fanno ad arrivare sino in fondo; quello che si trova in fondo a tale percorso “logico” è per sua stessa natura incomunicabile, in quanto facente parte della costituzione del ricercatore stesso e della strada che individualmente ha intrapreso e seguito

 

 

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SOGNO e ANGOSCIA

 

di

Saverio Di Landro

Sul campo di battaglia stavano per aprirsi le ostilità. Gli eserciti si fronteggiavano in una guerra fratricida.

Nel primo schieramento spiccava la figura di Arjuna.

Egli pensò:

  • “Stavolta dovrò combattere contro i miei cugini, e non so neanche il perché”. All’improvviso, mentre fervevano i preparativi, Arjuna fu assalito dai dubbi e scoprì che non c’era odio nel suo cuore.

Fu allora che una violenta angoscia si impadronì di lui:

  • “E’ finita! L’ora della battaglia sta per scoccare, e io confrontarmi coi fratelli. Ne riconosco i volti, anche in lontananza. Mi sono familiari da quand’ ero bambino, e ora dovrei deturparli !” L’ eroe rifletté sull ‘ esito della battaglia.
  • “Se anche scampassi alla morte – pensò – il rimorso non mi darebbe tregua. I miei giorni sarebbero segnati, e non potrei dimenticare l’ assassinio dei consanguinei. D’ altra parte, non posso sottrarmi ai miei doveri di guerriero”.

Dilaniato dai conflitti, Arjuna era molto confuso. All’improvviso, tra il polverone e le uniformi, gli parve di scorgere una luce… e in quell’istante, come per incanto, cominciò a sognare.

“Non sono desto, mi sembra. E forse non mi trovo più sul campo di battaglia. Qualcuno mi viene incontro: ne intravedo a malapena le fattezze”

Un auriga si avvicina all’ eroe. A un certo punto fu perfettamente riconoscibile: era il dio Krishna, musicista e seduttore di vergini, nelle notti estive. In quell’istante, prodotto dall’immaginazione del guerriero, Krishna andava ad ammonirlo, penetrando nei suoi sogni.

  • “Tu…esisti veramente?”, domando Arjuna.
  • “Nobile soldato, hai compiuto imprese valorose, ma la tua comprensione è scarsa. Vedo che non riesci a distinguere la realtà dall’ illusione”, gli rispose il dio.

Il guerriero, dominato dall’ angoscia, non riuscì ad afferrare il senso del discorso.

  • “Ma allora dimmi perché sei venuto a visitarmi, abbandonando la terra dei tuoi pari?”
  • “Mi sono accorto che eri in difficoltà: stavi per cedere le armi”
  • “E’ vero. Secondo te, non dovrei farlo?”
  • “No di certo. O meglio, è una questione più complessa”
  • “Dovrei forse combattere i fratelli, sparsi in questa regione?”
  • “Coloro che tu chiami fratelli sono ombre. Ne più né meno come me, che ti parlo come a un figlio” – “Cosa vuol dire? Spiegati meglio”, gridò Arjuna, sentendo crescere l’angoscia nel suo cuore.
  • “Intendo dire che il mondo è un grande sogno, una bolla di sapone prodotta dal gioco di un fanciullo. Osserva meglio queste truppe, eroe: sono illusioni. Fratelli o cugini – 0 come tu vuoi chiamarli – non hanno consistenza.

Arjuna non riusciva a capire e pensava che Krishna volesse tendergli una trappola.

  • “Non mi incanti. Non sono una di quelle giovinette che seduci col tuo flauto. La tua musica non fa breccia nel mio spirito!”
  • “11 tuo spirito! Se tu conoscessi la profondità, penseresti diversamente” – “E come?”

25

  • “Concedimi la tua fiducia! Solo così potrai imparare”

Arjuna, rifletté sul suggerimento di Krishna, ma non per paura di combattere. Non voleva sottrarsi alla lotta, lui. Il suo problema era un altro, e si accorse che il Dio lo aveva messo a fuoco. Ma allora perché non fidarsene, nonostante certa fama?

  • “E va bene! Mostrami dunque una nuova prospettiva, creatura del sogno e del delirio”
  • “Ora ci siamo! Non sei più il bimbo capriccioso, che ha paura di cambiare! Così mi piaci, ora possiamo dialogare”

Ma Arjuna era ancora triste:

“Per quanto mi sforzi di ascoltarti, come faccio a fidarmi, se mi esorti a combattere? Se i miei avversari sono fantasmi esangui, dovrei scagliarmi contro di loro con tutte le mie forze! Questo si evince dalle tue parole. E con queste premesse non potrai avere udienza dal mio cuore!” La replica del Dio non si fece attendere.

  • “Sei un guerriero, adatto alla lotta. Per coltivare il fisico trascurasti lo spirito. Ma ora ci sono io a mostrarti nuove vie. Non voglio spingerti alla lotta, ma neppure alla fuga. Voglio soltanto dirti che I ‘ azione può essere compiuta in vari modi. Puoi donare la morte o la vita ai tuoi cugini, non importa! A me preme soltanto come consideri il tuo fare”
  • “Voglio insegnarti il non attaccamento al frutto delle azioni: ricorrendo ad un esempio, poiché ti ostini a non capire!”

Col volto contratto in una smorfia, tra lo stupore e la perplessità, Arjuna ascoltava attentamente.

  • “Creature di ogni tipo vengono a trovarti in sogno: uomini, donne, mostri e animali. E ti girano intorno, talvolta con sguardi minacciosi. Ma tu non te ne curi, e seguiti a dormire. Permetti loro di rincorrerti, salvo sopprimerne qualcuno per antipatia. In fondo tu sai che sono ombre, perciò non ti prendi la briga di combatterli. Ti curi forse di abbracciare una vergine nei sogni ? Voglio dire che la desideri o provi repulsione, solo finché non sai che è un ‘illusione. Ma quando ti svegli non resti insoddisfatto, se ti ha negato dei baci! Altrimenti saresti uno sciocco. Perché allora non agire così anche nel sogno della vita, e su i campi di battaglia?”

Le parole di Krishna erano convincenti e dettate da una grande saggezza. Nel cuore di Arjuna prese corpo un dubbio atroce: il Dio era frutto della sua fantasia o esisteva realmente? E chi parlava in quel modo edificante: la sua coscienza o una creatura autonoma, in forza di se stessa? Ma dopo tutto I ‘interrogativo era superfluo: meglio continuare ad ascoltare Krishna, mentre il Dio illustrava lo scopo della vita.  “Nobile condottiero, agisci pure come meglio credi: il mondo è un gran sogno, creato dalle nubi del pensiero. Ma evita di attaccarti alle tue azioni, e reputale un gioco da bambini. Come dei dadi si procede a caso: a volte si ha un risultato, a volte un altro. E l’esistenza difetta del suo senso”

Arjuna chissà perché, sentiva diminuire la sua angoscia. Come le parole di Krishna avessero il potere di calmarlo. Mentre la sua fiducia verso il Dio cresceva, l’eroe prese ad interrogarlo:  “Se ho ben capito, vuoi liberarmi dal male, oltre che dal bene?” Krishna si affrettò a rispondere:

“Proprio così, illustre guerriero. Entrambi sono perniciosi ed infettano la mente. L’osservazione non vale soltanto per il bene o il male, ma per qualsiasi altra contrapposizione. Non tenere in conto le seguenti coppie: vita/morte, bellezza/bruttezza, giovinezza/vecchiaia, salute/malattia. E scorgerai una realtà diversa!”

Dal tuo sguardo vedo che mi capisci. Le mie parole ti entrano nel cuore. Meglio così: arriverò al nucleo dottrinale. Ma intanto, nell’ attesa, preparati alla spontaneità: Come un bambino che non sappia cosa fare; come uno sciocco che ignori dove andare. In questo modo vedrai con altri occhi l’ Universo!

Esistono tre strade, illustre condottiero. Ma non devi percorrerle tutte: di fatto, si addicono a persone differenti. Esse furono istituite per permettere a chiunque di sotto il velo reale. E all ‘illusione di mostrare le sue spoglie! Cominciamo dalla via dell ‘ azione. Forse quello che più ti interessa, sebbene finora tu l’abbia fraintesa. Come percorrerla? Accantona le ricchezze mondane, perché non è con queste che la troveresti. Piuttosto considera il tuo corpo come un membro del divino e affidagli il controllo. Agisci senza attaccamento, spontaneamente, per scoprire l’universo. In un modo qualsiasi: mangiando, bevendo, respirando, camminando o riposando. In ogni caso, non curandoti degli esiti, con

le tue azioni, tu resti sulla via. Sappilo: solo l’atto responsabile si compie con naturalezza. Privo di desideri, e di passioni, bandirai dalla vita il tumulto e la rivolta. Sarai appagato dalla tua persona, senza mai frugare altrove. E solo allora, pur soddisfatto, mancherai di dilatare il tuo egoismo.

La seconda è la via della conoscenza. Devi imparare, eroe, che il mondo ha un’ altra faccia. Come nel caso della luna, la puoi vedere solo con la sapienza. Non intendo la pura erudizione, frutto di uno studio libresco. Le scritture sono un prodotto umano, che distoglie dal mondo dello spirito. Non potrai mai capire, finché ti attacchi alle parole altrui ! Nel tuo cuore, però, risiede una grande conoscenza, e solo tu puoi accedervi, in forza della volontà. “Sono pronto?” ti chiedi, e solo tu sai la risposta. Scrutando nei meandri del tuo animo vi scopri la saggezza per comprendere perfettamente il mio discorso. E sei in grado di affrontare ogni difficoltà, ben saldo nella tua posizione. Perché ti accorgi di aver creato tu gli ostacoli, nonché i mezzi per rimuoverli. La via della conoscenza esige fiducia in se stessi per scorgere il divino che sonnecchia nello spirito.

. Tu sei un guerriero e la via dell’ azione ti è familiare, a patto di adottare certe precauzioni. Ma anche sulla via del conoscere incederai tranquillo facendo leva sul tuo cuore. Non cercare l’esterno, dunque, e abbandona altri modi di pensare. Istruisci te stesso, coltivando i messaggi dello spirito. E rallegrati dei fallimenti, quanto dei successi. Nessun dualismo ti contaminerà, mentre attingi al tuo pozzo del sapere. L’autocontrollo sarà la tua misura, in una mente sgombra. E ti renderai conto di sapere già tutto. Senza lacune, riapprenderai la perfezione. Infine, quando avrai percorso il sentiero completo, scoprirai che gli opposti non esistono. Non distinguerai la conoscenza dall ‘ azione e neppure – ascolta! – l’ignoranza della conoscenza.”

Il guerriero aveva ascoltato attentamente, In particolare, era stato colpito dalla conclusione del discorso.

“Così le due vie alludono a una stessa meta?” – domandò.

  • “Ma certo” – rispose il Dio – “esse sono diverse solo in apparenza.”
  • “Sono curioso di apprendere la via della rinuncia, altrettanto interessante, suppongo. Avrei anche qui qualche prerogativa?”
  • “Sicuramente. Sebbene essa possa sembrarti la più distante. La rinuncia indica, ancora una volta, lo stesso traguardo. Vale a dire l’ esito di un percorso, in fondo, non si abbandona mai il punto di partenza. Rifletti, bene, illustre condottiero: per capire hai bisogno di cambiare la tua mentalità. Diversamente, impegolarti in queste vie, non ti servirà a nulla. Lasciami celebrare la terza di esse, dunque, che come le altre attende l’uomo adatto.

Il fruitore della terza via dell’azione è il guerriero accorto: di quella della conoscenza, lo studioso consapevole. Permettimi ora di accennare al religioso eretico, ovvero all’immorale che gronda di morallta.

Vedendo che Arjuna rimaneva perplesso, Krishna modificò il tono del discorso prefiggendosi una maggiore semplicità.

  • “Rinunciare non si significa starsene a meditare in una grotta! Rinunciare significa agire con naturalezza, ignorando il bene e il male. E’ difficile intendere certi presupposti e infatti gli asceti flagellano se stessi. Rinuncia la chiamano, nella loro ignoranza! Il martirio non porta da nessuna parte. Serve solo a distruggere il corpo. E il corpo, nobile guerriero, ci guida alla liberazione. Perciò, non disprezzarlo, ma limitati a rinunciare al godimento. E sappi che non ti vieto il piacere, bensì l’ attaccamento.

Sin dall’inizio accennai a questa via. Ecco perché dovrebbe esserti chiara. Non si tratta di non far, niente, aspettando a braccia conserte, che la morte ci strappi dall ‘involucro terreno! Altrimenti questa sarebbe la pista più agevole, del tutto adatta ai pigri. Assumi dunque le movenze del loto, il quale, pur sguazzando nel fango serba la sua purezza. E da tutti ammirato, per livida bellezza che si eleva sulla sporcizia di ogni tipo!

Arjuna coltivava un dubbio basilare e domandò al suo interlocutore:

  • “Mi stai dicendo che non esistono il peccato e il merito, buone e cattive azioni? Ma allora, come potrei osservare il mondo in questa prospettiva?”

Krishna avvertì la sincerità della domanda, e disse:

  • “E proprio questo che ti si chiede, nobile guerriero: di guardare con gli stessi occhi il brahmano erudito e la bestia più immonda. Infatti, finché ti curi di distinguerli, non cogli l’unità delle cose. Né squarci il

velo delle molteplici apparenze. Sospendi dunque ogni discriminazione, per amore della rinuncia! In fondo rinuncia e azione sono parole equivalenti che alludono ad una stessa realtà, suggellata dal divino!

Ora Arjuna sapeva quali percorsi seguire per travalicare le apparenze. Tuttavia non riusciva a capacitarsene: sognava o era sveglio. Chiese a Krishna un segno tangibile della sua presenza.

“Non capisci ancora chi sono? E’ strano. Chi meglio di te potrebbe saperlo? Del resto, poiché insisti, accennerò alle mie qualità.

Dal mio corpo nasce l’universo, con la luna e suoi soli. Ogni volta che ti affacci al mondo e il mio volto che osservi. Io produco le creature e al tempo stesso le accompagno alla morte. In un ciclo eterno, imperituro, ne dirigo gli intenti. Esse sono vuote e vacue, come città di geni. celesti, miraggi e allucinazioni. Tu mi interroghi sulla mia identità, ma prima dovresti specchiarti, nelle acque dei ruscelli per contemplare le tue sembianze, cioè le mie, nelle immagini riflesse. E anche nelle parole, mi troveresti: nel suono om, principio e fine di ogni cosa.

Invece sei confuso: dubiti di me, benché io ti sia apparso. E in questo modo ti perdi nelle creature, irretito dalla bellezza. Solo perché il tuo cuore si rivolge ad altre deità. Allora sappilo, con le tue invocazioni, e sempre a me che rendi omaggio. Puoi appellarti a Visnù o a Shiva: troverai soltanto me, in ogni angolo dell’universo. Mettiti all’opera, nobile guerriero: squarcia il velo reale, per scorgere I ‘ unità del multiforme. E destati dal sonno.

Arjuna rifletté a lungo su queste parole, e a un certo punto, di colpo, cominciò a capire. Fu un’esperienza straordinaria.

“Avverto nuove vibrazioni nel mio corpo, e riesco a percepire l’unità del cosmo. Sono io a produrre Krishna, il dio flautato: condividiamo tutti un’ unica matrice! Grazie all ‘ angoscia ho attinto alla realtà. E nella debolezza ritrovai I ‘oggetto del mio amore. Benché in fondo non l’ avessi mai lasciato.

In quell’istante Arjuna amò Krishna con tutto il cuore. E offri la sua devozione alla creature, tralci di una stessa vite! L’eroe si preparava ad abbeverarsi ad una fonte inestinguibile. L’esaltazione del momento, sul campo di battaglia, lo aveva inebriato. Così si armò di tutto punto, per saggiare la propria forza nei conflitti interiori e scopri un nuovo campo di battaglia, mentre fuori imperversava una lotta che non lo riguardava più.

Fu allora che, schivando le lance dei nemici, impegnati in una causa inconsistente, Arjuna si destò al mondo. •

 

 

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DARWINISMO E EVOLUZIONE

DARWINISMO E EVOLUZIONE

di

Silvio Nascimben

“L’evoluzionismo è solo un’ ipotesi e la fede non è contraria. Non deve essere letta, però, in chiave materialista”. Con questo messaggio di Karol Wojtyla, alla Pontificia Accademia delle Scienze, viene ufficializzato il “darwinismo” e con esso tutte le teorie evoluzionistiche che fino ad oggi erano bandite dalla Chiesa.

In verità, già nell ‘enciclica “Humani generis”, fu Pio XII ad affermare che il concetto di evoluzionismo era una “ipotesi seria” e non in contrasto con la fede cristiana, se non adottata come dottrina. Alla luce delle dichiarazioni di Giovanni Paolo II “che se ad originare il corpo umano è la materia vivente, e solo Dio può conferire all ‘ essere l’ anima spirituale”, di notevole interesse sono state le dichiarazioni di filosofi, scienziati, teologi e storici, concordi tutti, in buona sostanza, nel riconoscere lo storico ritardo con cui la Chiesa arriva, ancor oggi, ad ufficializzare le conquiste della scienza, nonostante l’eclatante scalpore che fece la riabilitazione di Galileo.

Ma cosa si intende per “darwinismo”?

Per darwinismo non deve intendersi il solo concetto di evoluzione della specie, concetto già enunciato nel Settecento e successivamente condiviso da J.B. Lamarck, nell’Ottocento, ma la spiegazione meccanicistica delle mutazioni spontanee, proposta da Darwin, e della loro ereditarietà. Sebbene l’interpretazione darwinista sia stata molto contrastata, all’epoca della sua enunciazione, è oggi riconosciuta dalla scienza ufficiale.

Nel gioco dell ‘evoluzione, la teoria darwinista nega l’ intervento di qualsiasi fattore “interno” ridu cendo l’immenso complesso delle mutazioni avvenute, nel corso dei millenni, ad un processo automatico di mutazioni, piuttosto complesso, che dà origine ad esseri viventi, in possesso di più adatti requisiti all’esistenza.

La teoria della adattabilità della sopravvivenza, secondo il principio evoluzionistico di Darwin, deve sostenere, però, l’impatto con strutture complicate che hanno creato non poche perplessità nei biologi. A causa della loro persistenza in varie specie viventi, essi sono stati costretti a considerare la presenza, nel processo evolutivo, di un principio “interno”. Un’altra considerazione, che ha messo in crisi la teoria “darwinistica”, è la “non adattabilità” all ‘ ambiente che spesso non è in stretto rapporto con la “mutazione” più favorevole alla sopravvivenza. E’ il caso, ad esempio, di alcune mutazioni avvenute in alcuni rettili: gli arti anteriori divenuti “ali”. Pur nell ‘ adempimento di un miglior adattamento ambientale, la loro mutazione non è certo avvenuta dall’oggi al domani, bensì nel corso di millenni e con trasformazioni frazionate, dirette nella stessa direzione, che si sono successivamente addizionate presentando un arto che da zampa era diventato ala. La teoria darwinistica, a questo punto, va a farsi benedire perché nell’ affermazione del principio della “più favorevole adattabilità all ‘ ambiente”, non riesce a spiegare lo “status quo” di un essere vivente, il rettile, durante i millenni necessari alla completa trasformazione.

Non disponendo di arti, ormai lontani dalla originaria identità e prossime “potenziali ali”, quindi imperfette e inservibili, come ha potuto, il mutante, superare le non poche difficoltà di sopravvivenza e di  ridotta adattabilità all’ ambiente, per le sopravvenute mutazioni? Il verificarsi di questo particolare stato di inadattabilità, nell’uomo non avrebbe creato, come del resto è già avvenuto, situazioni al limite dell ‘estinzione per la sua innata predisposizione alla suddivisione dell’umanità, fin dalle origini, in classi sociali, selezionando gli intelligenti, i forti, coloro che erano più validi, e schiavizzando i più deboli, coloro che, non più utili, andavano eliminati per non intralciare il processo selettivo della specie.

Stessa considerazione, in contrasto col concetto di Darwin, è che per effetto delle mutazioni evolutive spesso il figlio non è più intelligente del padre, ovvero più forte e, quindi, più valido.

L’accettazione di questi principi, nonché la dimostrazione della impossibilità del passaggio della cellula vivente all ‘uomo, per sole mutazioni casuali, sia pure dopo milioni di anni, dimostrata dai matematici con il calcolo delle probabilità, comporterebbe una radicale rivoluzione della concezione della vita e della impossibilità della sua ricostruzione scientifica, mediante il processo meccanicista.

La unica e grande verità è che l’essere vivente vuole vivere ed è pronto, per la sopravvivenza, a sfruttare ogni occasione propizia pur di vivere al meglio, nel suo ambiente.

La verità, che nessuno potrà giammai confutare, è l’ansia che scaturisce dall’attaccamento alla sopravvivenza, propria degli esseri viventi e, oserei dire, dei non viventi a causa della natura originaria, come la forza di gravità. Molto significativa fu la risposta di Edison, a chi gli chiese cosa fosse l’ elettricità: “Non lo so, ma funziona”. Potremmo, a questo punto, concludere che scienza non è che “la scienza di utilizzare le cose, di cui si ignora la natura originaria, e farle funzionare”. L’Uomo, stanco ormai di favole e di quelle leggende, che ebbero origine in un periodo molto confuso dell’umano genere, allora immerso in un mare infinito di ignoranza e superstizione, sebbene siano servite a frenare la violenza e i ben noti istinti umani di sopraffazione e di egoismo, si ritrova alle soglie del 3° millennio con un bagaglio di irrisoluti interrogativi. Pur plaudendo alla ennesima tardiva “conciliante assoluzione” della Chiesa, nei confronti di coloro che in nome della “scienza” hanno sfidato i suoi dogmi, l’Uomo del nostro secolo, volgendo lo sguardo al cielo, continua a chiedersi: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”•

Tutta la saggezza del mondo… si riduce alla fine a questo, insegnarci a non temere la morte… Chi insegnasse agli uomini a morire insegnerebbe loro anche a vivere.

Montaigne

Da “Pensieri che vibrano

 

 

 

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