PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI
NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo. Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere». Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
Sotto quella ciotola piena di stelle che
gli uomini chiamano cielo, l’universo è gravido di mistero. L’uomo si
fa querens e il querere si fa dovere, necessità, felicità. Dovere, in
quanto tributo che l’uomo deve pagare al suo essere razionale.
Necessità, quale unica forma di consolazione concessa al suo fragile
essere mutevole. Al postutto, fonte di autentica felicità per essere
l’uomo nato al fine di conseguire una conoscenza stabile e certa del
vero, non desumibile dalle tare delle res obscurae del sensibile regno
della mutevolezza. Il nostro pensiero interrogante oggi ha come oggetto
un tema fra i più complessi e delicati, seppure per certo fra i più
affascinanti. Si insegna che il compito e il fine dell’Arte regia sono
costituiti dal rendere l’uomo umano, sempre più umano, sempre più
pienamente umano. È la nota lezione di Fichte (che può leggersi in
Filosofia della Massoneria, nella seconda edizione italiana pubblicata
nel 2019 da Mursia editore. Su questo tema cfr. amplius il nostro
scritto Fichte. Filosofia della Massoneria comparso nel numero di
Officinae del mese di Novembre 2021). Il significato profondo di questo
assunto esige però preliminarmente di appurare in che cosa si risolva
l’umanità, che cosa la sostanzia, che cosa l’alimenta.
All’approfondimento di tutti questi temi saranno pertanto dedicate tutte
le successive considerazioni. A questo fine aiuta sicuramente un
approccio all’argomento dal profilo storico, sia pure circoscritto
all’essenziale. I primi che alla problematica hanno dedicato una
specifica attenzione sono stati sicuramente i Greci. Nella loro grande
epoca hanno infatti posto l’accento sulla necessità di dare un
significato e un senso alla parola umanità, che hanno poi inteso come il
punto di arrivo di una educazione necessaria per superare la naturale
animalitas dell’uomo. L’uomo, unità di corpo, anima e spirito, sebbene
essere razionale è infatti, e rimane pur sempre, un essere animale.
Animalità che può essere tuttavia corretta, e perfino completamente
eliminata, con la παιδεία, non essendo a questo fine sufficiente la
semplice attribuzione all’uomo di una anima immortale o della facoltà
della ragione. Troppo noti, per essere elencati singulatim, sono poi gli
strumenti dei quali si avvale la παιδεία per contrastare l’arbitrio
degli istinti e la barbara brutalità. Valga piuttosto ricordare che la
virtus romana altro non è che la incorporazione della παιδεία elaborata
dai Greci, pur restando vero che la humanitas viene per la prima volta
pensata ed esplicitata con questo nome solo al tempo della Repubblica
romana. La parola παιδεία viene infatti tradotta con la parola
humanitas. Nella sua essenza, il primo umanesimo resta quindi un
fenomeno specificatamente romano che scaturisce dall’incontro della
romanità con la cultura della tarda grecità. Il cristianesimo ravvisa
invece la humanitas dell’homo nella sua limitazione rispetto alla
deitas. L’uomo, in questa prospettiva, non è infatti di questo mondo,
inteso invece come un semplice luogo di passaggio transitorio verso l’al
di là. È noto che il Rinascimento – tra il XIV e il XVI secolo –
celebra la humanitas nella sua latitudine più vasta. L’aforisma del
drammaturgo latino Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto
(“Sono uomo, nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo”) era
infatti il più amato e il più citato dagli umanisti della renascentia
romanitatis, nonostante poi che, nel suo contenuto, si continui a
intravedere ancora la pratica del vizio come prova di una umanità non
ancora del tutto raggiunta. Salda comunque rimane ancora la convinzione
che il destino della persona umana sia non soltanto l’autotrascendenza,
ma addirittura la divinazione. In questa prospettiva, il modello diventa
allora il Salvatore, vero uomo e vero essere divino. Da ultimo, ma non
per ultimo, non è inutile ricordare che l’umanesimo rinascimentale ha
costituito il movimento culturale e educativo più influente in Europa in
tutto quel periodo. Nella funzione educativa si riconosce poi
un’importanza decisiva alla cultura, intesa come il modo in cui un
gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide
la vita. Alla cultura sottostanno infatti sistemi di valori, significati
e visioni del mondo che possono risultare determinanti fino al punto di
divenire fonte di divisione sociale. Come accade, ad esempio, nella
cultura contemporanea dominante in Occidente, che esclude ogni forma
religiosa dai valori riconosciuti perché degradata a mera superstizione
o, addirittura, a oscurantismo. Per concludere sul punto, la cultura è
come una lente che può chiarire o distorcere convinzioni in apparenza, e
non solo, innate. Proprio perché pervasiva – le sue idee riempiono le
nostre teste – può essere sana o tossica. Per questo – la ripetizione si
impone – costituisce un fattore educativo di portata determinante. (Per
un approfondimento di questo argomento ci permettiamo di rinviare al
nostro precedente scritto dal titolo Massoneria e cultura pubblicato sul
numero di questa Rivista uscito il 23 maggio 2021). Per esaurire questo
sommario excursus dell’Umanesimo storicamente considerato, corretto è
infine affermare che il fenomeno de quo, considerato nelle sue varie
forme, attinge in modo determinato alla antichità, spingendosi talvolta
fino a farne un calco integrale. Fatta eccezione per l’umanesimo di
Sartre che lo concepisce invece come esistenzialismo. Ciò doverosamente
seppur sinteticamente ricordato, al fine di delineare il nostro pensiero
sull’argomento va precisato innanzitutto che tutte le forme di
umanesimo che si sono via via affermate fino ad oggi presuppongono –
come è evidente – l’“essenza” universale dell’uomo. È dunque a questa
“essenza” che si deve far capo se s’intende dare, come ci si è proposti,
un sicuro fondamento e un preciso contenuto a quella umanità che si
vuole costituisca la cifra caratteristica e la peculiarità distintiva
dell’uomo UOMO. Secondo l’insegnamento tradizionale inaugurato da
Platone, l’essenza dell’uomo deve essere ravvisata nel suo essere una
possibilità. Quando si afferma che la humanitas è l’essenza dell’uomo si
vuole pertanto dire che l’uomo è arbitro delle sue scelte, potendo
diventare umano o in-umano. In-umano, in quanto figlio dell’arbitrio e
della sopraffazione, autentico inferno per il tormento di non amare
nessuno. Umano perché agli antipodi del negativo, che, in quanto rifiuto
della ragione, merita il marchio della riprovazione. Il che, se non
andiamo errati, autorizza legittimamente a sostenere che l’umano esiste
nell’uomo soltanto in nuce. Infatti, è solo quando da potenza si
trasforma in atto che l’umano si dispiega in tutta la sua latitudine per
divenire ciò che autenticamente è. Il che postula allora la domanda su
cosa consista il contenuto dell’umano, quale sia cioè la sua cifra,
ossia la peculiarità che lo caratterizza. A chi scrive queste note
l’umano, quale sintesi di valori inalienabili e inespropriabili, va
colto essenzialmente nella cura dell’altro come dono da offrire e
mettere in comunione con quello di cui ciascun altro è portatore. Una
cura aperta in termini universali, perché estesa a livello non solo
umano, ma pure sociale, planetario, cosmico. Anche se, in primis,
indirizzato all’uomo con la diffusione di semi di verità, di bontà, di
bellezza, ma pure di sostegno materiale nei confronti dei più bisognosi,
degli umili, dei diseredati, a questi ultimi uniti nel loro rispettivo
dolore. Il che – sia detto per incidens – è tanto più urgente in questa
attualità connotata dalla indifferenza. Si tratta poi di una cura, dove
la sottolineatura è perfino superflua, non nel senso astratto di un
impegno generico ma in un senso concreto, indirizzata nei confronti di
una persona specifica: impegno duraturo che non deve passare rapido come
il soffio di un vento di montagna. Il che postula una generosità
coltivata giorno per giorno, come avviene per una piantina a primavera, e
nel contempo la forza eterna del bene che si custodisce nel tempo, con
radicale esclusione di ciò che soffoca. Altrimenti il negativo
strangolerebbe e ucciderebbe lo slancio generoso. Prendersi cura
dell’uomo vuol dire, in sintesi, insegnare all’uomo germogli vivi di
tenerezza che, una volta coltivati dall’apprendista-uomo, gli
consentiranno di donare agli altri la propria autentica essenza, come
dire la ricchezza più preziosa del proprio essere, sostanza composita
perché in quel contenitore confluiscono logica, generosità, tradizione,
valori e, più in generale, lo stesso inconscio collettivo.
Da qui una responsabilità educativa di carattere generale che comporta
la messa in atto di una delicata e risoluta paideia secondo la regola
pedagogica della gradualità. In ogni caso, una educazione al difficile,
tanto per l’educando quanto per l’educatore, posto che un’azione
educativa coerente implica l’indicazione di sentieri di vita orientati
al bene: un richiamo energico a vivere la vita in pienezza e
responsabilità, trasformandola creativamente ogni giorno nell’arte del
dono. Fare di se stessi gli artefici del miracolo di trasformare l’altro
in una immagine di virtù è la realizzazione del sogno che nutre
l’uomo-uomo, l’uomo umano. La non umanità coincide allora con il porsi
fuori dell’essenza dell’uomo. Come a dire vittime del dominio
dell’istinto, dell’arbitrio, del sopruso, della sopraffazione, della
forza e della violenza (purtroppo così attuali mentre scrivo!). Stare
dalla parte dell’umano e servirlo con scrupolo e costanza significa
conclusivamente contrastare, con ferma determinazione, tutto ciò che
anche soltanto appanna la luce che scaturisce dalla ricchezza della cura
dell’altrui. Nella nostra società contemporanea significa, in
specifico, contrastare tutto ciò che c’è di insidiosamente distruttivo,
quali le pressioni competitive, la seduzione del consumismo, l’invadenza
della pubblicità e tutti gli altri influssi che modellano negativamente
l’attuale modo di vivere. Sul piano intellettuale l’opposizione e il
contrasto vanno poi indirizzati a quella corrente culturale, oggi
dominante nel mondo occidentale, chiamata postmodernismo, perché
filosofia essenzialmente scettica. Il suo principio basilare è infatti
questo: la verità è soltanto tutto ciò che è vero “per me”. Con la
conseguenza che l’assenza di una verità oggettiva finisce per impoverire
l’umano perché, a questa stregua, viene meno un punto di riferimento
sicuro nella vita di ciascuno di noi, gioia e guida che tengono lontano
dall’insensato vagare tra incertezze e rischi oltremodo pericolosi.
Dunque, se si vuole rendere l’abitante di questo mondo, tanto complesso e
difficile, sempre più uomo, sempre più umano, sempre più pienamente
umano, non solo nella sfera dell’esercizio individuale della
speculazione ma proprio nella concretezza del sensibile, occorre, a ben
vedere, compiere ogni sforzo nella divulgazione della paideia, posto che
quest’ultima fornisce tutti gli strumenti necessari per affinare l’uomo
fino a trasformarlo in un uomo autentico. Impresa da compiersi senza
posa, perché in questa costruzione lenta, faticosa, sempre
soggettivamente appagante, oltre che collettivamente arricchente, non
v’è in verità mai fine.
Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴ Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi
Il rapporto tra Mussolini e la Massoneria fu cruciale ed
andrebbe studiato nei dettagli, qui, ovviamente, non possiamo che accennarvi
sottolineando però alcuni passaggi emblematici. Mussolini, è bene chiarirlo
subito, non fu mai massone né chiese di esserlo. E’ una leggenda il fatto che
avesse chiesto di essere iniziato ma venne rifiutato per i suoi precedenti
penali o perché troppo irrequieto, non vi sono prove, e le dicerie restano
alquanto prive di fondamento. La sua avversione per la Massoneria, invece, fu
tanto palese, quanto evidente fu il fatto che se ne servì per raggiungere il
potere.
Le origini dello spirito antimassonico di Mussolini
risalgono al contrasto tra socialisti e repubblicani all’inizio del XX secolo,
i primi di tendenza anarchica e i secondi repubblicani perché massoni.
Mussolini si adoperò alacremente per fare espellere i massoni dal Partito
Socialista già dal 1914, nel Congresso di Ancona, prima di capire come, però
sarà bene ripercorre un po’ le tappe del rapporto tra massoni e socialisti fino
al 1914. La Massoneria aveva contribuito validamente alla nascita di un partito
socialista in Italia, le sue prime sezioni erano piene dei ritratti del primo
Gran Maestro della Massoneria italiana: Giuseppe Garibaldi.
Già alla vigilia della sua morte, nell’autunno del 1881 la
massoneria milanese organizzò un congresso fondamentale. Tra i sei temi in
discussione, due erano più propriamente “politici”. E il secondo aveva come
titolo il seguente: “Dell’atteggiamento della Massoneria di fronte alla questione
sociale”. I massoni milanesi erano convinti allora che fosse necessario un
forte impegno sociale per affrontare seriamente i problemi del cosiddetto
quarto stato, sottraendo alla borghesia il cerchio ristretto dell’influenza
massonica, si diceva a chiare lettere: “Il mondo cammina, il quarto stato
chiede alla sua volta di entrare. Che la massoneria italiana si ponga quindi
all’opera e presto. Bisogna dare al popolo, ai lavoratori delle città e delle
campagne, con la scienza, la coscienza di sé stessi. Bisogna educare il
legittimo successore al quale i fati destinano la sovranità della terra”.
Come è evidente, questo è un linguaggio che va ben oltre il
concetto di democrazia, allora ancora più ristretto da un limitato suffragio,
ma che si identifica con la nascente ideologia socialista, teorizzando la
nascita di una serie di logge “operaie e campagnole”, che dipendessero dalle
logge madri. Non vi era nemmeno discriminazione culturale in tale intento,
poiché il fatto che i fratelli fossero analfabeti, non ne inficiava
l’appartenenza, anzi la loggia stessa si incaricava di dare loro gli strumenti
di emancipazione culturale necessari: “precipuo fine di queste logge massoniche
sarebbe quello d’istituire una scuola per insegnare a leggere, a scrivere e far
conto non solo ai fratelli ma alle loro famiglie, ai loro amici ed attinenti”.
Nessuna tassa o capitazione sarebbe stata prevista per queste logge, avendo
esse soltanto “intendimenti progressivi ed umanitari” dell’istituzione
massonica.
L’obiettivo era quello di sottrarre, mediante l’istruzione,
alla influenza clericale un certo numero di persone che sarebbero state
protagoniste a loro volta di una propaganda laica. I rapporti tra Massoneria e
Socialismo, dall’inizio del XX secolo, sono improntati a rispetto e
collaborazione anche se restano su piani distinti, dato che la prima lavora per
il perfezionamento individuale ed il secondo per quello collettivo, non poche
però sono le occasioni di convergenza.
Quando la corrente riformista riesce a prevalere, dal 1900
al 1911, il rapporto di reciproca convivenza si rafforza, in particolare con
l’emanazione delle Costituzioni massoniche nel 1906, le quali riaffermano che
“la Comunione italiana, non discostandosi nei principi e nel fine da quanto
l’Ordine mondiale professa e si propone, propugna il principio democratico
nell’ordine politico e sociale”. Tale assunto favorisce notevolmente il
connubio tra partiti laici e socialisti che hanno modo di affermarsi dal 1907
nei blocchi popolari delle grandi città e nelle loro amministrazioni,
contendendo validamente l’egemonia al blocco moderato. Uno degli esempi più
eclatanti di questi intenti è il Comune di Roma, amministrato con grande
impegno civico e perizia amministrativa dal sindaco Ernesto Nathan, che era
stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, il quale allargò notevolmente
con la sua iniziativa laica la base del consenso.
Tra il 1904 e il 1907 però all’interno dello stesso
schieramento socialista le divergenze sulla compatibilità con il percorso
massonico si fanno più forti e sono sempre più consustanziali a quelle tra i
massimalisti e rivoluzionari che considerano la Massoneria come un retaggio
borghese, e i riformisti che, invece, rilevano sempre maggiori compatibilità di
intenti con essa nel processo di emancipazione umanitaria.
Nel 1905 la Massoneria venne tacciata di essere, sulle
colonne dell’ ”Avanti!” dal sindacalista-rivoluzionario Guido Marangoni, una
“quinta colonna” del riformismo piccolo-borghese, e di essere piuttosto
accondiscendente verso moderati e clericali. Ci fu una forte reazione del
compagno massone Alfredo Poggi e di un Fratello X che replicò testualmente:
“Perché dunque combatterla? O non è combattere una forza viva, un ausilio
valevole all’opera continua di svolgimento della legge indefinita del progresso
umano? I socialisti, più che combattere la Massoneria, dovrebbero conquistarla
e trasformarla, e sarebbe una nuova e grande forza al servizio della moderna
civiltà”, previa epurazione delle Logge dai massoni filo-clericali e moderati,
“trescatori illeciti, profanatori del tempio”.
La Massoneria, d’altro canto, ripudiava i metodi di lotta
socialisti basati sulla violenza, ribadendo di essere favorevole ad “un’azione
inoltre diretta ad infrenare possibilmente gli eccessi e le violenze, in cui
talora quel partito, od almeno una notevole parte di esso, si è abbandonato ed
ai quali ci si proclama pure disposti come a metodo di lotta”. Nell’ottobre del
1905 fu lo stesso Turati a prendere posizione, con una intervista rilasciata al
Corriere, ribadendo che lui ed il suo partito restavano estranei alla
Massoneria; ci furono forti reazioni e prese di posizione e fu deciso pertanto
di convocare un referendum tra gli iscritti per stabilire una eventuale
compatibilità tra l’essere massoni e l’appartenere al Partito Socialista.
La partecipazione fu scarsa ma significativa, solo il 25%
del totale delle sezioni, per una percentuale di iscritti di circa il 30% . Ciò
nonostante, la maggioranza che risultò in quelle condizioni per
l’incompatibilità fu netta ed arrivò all’85% di quanti si erano espressi. E la
proposta di espulsione dei massoni dal partito raccolse il 78% dei consensi. La
rappresentatività di tale referendum però risultava troppo scarsa per
legittimare un qualsiasi provvedimento.
Il GOI replicò, come nella tradizione massonica, con estrema
apertura e tolleranza rimarcando il fatto che si dovevano considerare
dimissionari dalle Logge Massoniche solo coloro che avevano già detto che
avrebbero accettato l’esito referendario, adeguandosi ad esso. Furono così
ritenuti “definitivamente dimissionari dall’Ordine quei Fratelli, i quali,
interpellati dai loro Venerabili, risposero che se l’esito del referendum
avesse stabilito la incompatibilità tra le qualità di massone e di socialista,
si sarebbero ritirati dalla Massoneria; dato che per tutti gli altri non crede
doversi prendere qualsiasi risoluzione, lasciando loro giudici e liberi di
rimanere o di andarsene, perché la Massoneria che deve accogliere ed accoglie
uomini onesti di qualunque fede, scuola o partito, purché sinceramente devoti
alla libertà, alla civiltà ed alla patria, non può, senza rinnegare le sue
dottrine fondamentali, formulare ostracismi, né assumere atteggiamento
d’intolleranza”. Non era una sorpresa, la Massoneria infatti non ha mai imposto
alcuna incompatibilità con nessun ambito politico o religioso, dato che per sua
tradizione secolare di Loggia, in ogni tornata, non si parla né di politica e
né di religione.
Nel febbraio del 1906 l’assemblea costituente massonica
ribadì di volere mantenere buoni rapporti con i socialisti. Fu solo
stigmatizzato il fatto che “la Santa Inquisizione socialista seguì il suo
procedimento, e 9 mila proletari su 37 mila iscritti deliberarono l’indegnità
dei socialisti-massoni” Ma, in conseguenza di ciò, pochissimi furono quelli che
lasciarono il Partito o la Massoneria, per la maggioranza il referendum non
ebbe alcun effetto. Nel 1910 una convergenza sembrava tornare possibile,
soprattutto sul piano della laicità dello Stato e delle riforme sociali, ma le
diffidenze restavano e ci si limitò «a voler tenere presente che l’opera loro
di educazione e disciplinamento e soprattutto quella di opposizione a gretti
criteri corporativistici» poteva «essere seriamente compromessa per i dubbi e
le diffidenze facilmente suscitabili nei lavoratori dal sospetto che,
appartenendo essi ad una associazione segreta, di cui sconosciute sono le
regole vincolatrici, la loro azione, anziché dal vero ed unico interesse dei
lavoratori, potesse essere ispirata e determinata da quei vincoli segreti ».
Come già detto, l’antagonismo era in gran parte datato e
riferito a quello preesistente tra repubblicani e socialisti, soprattutto sul
terreno della lotta di classe, non adottata dai primi ed invece ritenuta
indispensabile per i secondi. Lo ribadì lo stesso Turati, invitando i
socialisti “ogni qualvolta siano chiamati a decidere di tattica elettorale
locale, a ricordarsi dell’opera reazionaria e crumira dei repubblicani di
Romagna sul terreno economico, non sconfessata né dalla direzione né da una
sola Sezione del Partito Repubblicano Italiano, e a regolarsi di conseguenza”.
Si tornò a parlare di referendum e di voto di condanna per appello nominale ma
le posizioni furono varie e divergenti, tra le altre, ricordiamo quella di
Merloni che fu molto applaudita “l’opera singola dei socialisti massoni non ha
mai dato occasione a rilievi di sorta in tutto il partito … Donde la proposta
della scheda bianca: che non significa disinteresse dal problema massonico, il
quale può sempre utilmente discutersi, ma disinteresse dal fatto che ci siano
dei socialisti i quali credano utile e benefico di associare anche le loro
singole energie a quelle di un’istituzione che si propone di dissodare e di
preparare nel campo della cultura, della educazione e delle rivendicazioni
laiche, il terreno alle conquiste democratiche e socialiste” Qualcuno chiese se
gli esempi personali di Merloni o di singoli altri bastassero a giustificare la
penetrazione della Massoneria nel Partito, ma, obiettivamente, almeno sul piano
del buon senso e della razionalità, esse apparivano ineccepibili.
Ancora una volta il referendum riscontrò una minoranza di
partecipanti. Ancora nessun effetto, anzi uscì anche un opuscolo a firma “Il
Socialista massone” in cui si affermava che “la Massoneria, lasciando, come
sempre, totalmente liberi i suoi iscritti di propugnare quella tattica che essi
credano migliore, si astiene dall’intervenire nelle lotte elettorali. Insomma,
individualmente, i socialisti massoni non contraggono alcun impegno, che possa
in qualsiasi modo o misura contrastare coi loro doveri di partito. L’unico
impegno che essi assumono, in quanto massoni, è di dare opera attiva
all’apostolato anticlericale e laico” La guerra di Libia aprì in seguito
contraddizioni e lacerazioni nell’ambito del mondo massonico italiano, scosso
tra le rivendicazioni nazionalistiche, sia pure considerate nell’ambito di una
missione civilizzatrice e di progresso dell’Italia contro un impero turco
autoritario, arretrato e liberticida, e l’impegno per la pace e il disarmo
universale, unito al principio dell’autodeterminazione dei popoli.
Tra il 1911 e il 1914 la questione dell’appartenenza alla
Massoneria nel Partito Socialista divenne una sorta di terreno di lotta sempre
più accesa tra componenti massimaliste e altre riformiste, si andò così
delineando una tendenza sempre più antimassonica. non per convinzione
particolare ma per convenienza, per esigenza di allineamento con le componenti
massimaliste sempre più maggioritarie. Questa sintesi dei rapporti tra socialisti
e massoni, grazie anche all’analisi che ne fa Giovanni Artero, consente di
capire meglio e a ragione veduta, il Congresso di Ancona nel 1914, quando
Mussolini chiese l’espulsione dei massoni dal Partito Socialista, e di
inquadrare il suo rapporto particolare con i massoni anche nel suo stesso
movimento, dall’inizio alla fine. Mussolini infatti, sarà bene ribadirlo a
chiare lettere, fu messo in condizioni di prendere il potere grazie anche alla
Massoneria e fu liquidato alla fine, il 25 luglio del 1943, da un gruppo di
massoni largamente presenti nel suo stesso Gran Consiglio del Fascismo.
Quando si aprì il Congresso di Ancona dell’aprile del 1914
non aveva la questione della compatibilità tra l’essere massoni ed essere
socialisti ai primi punti all’ordine del giorno, ma quella che sembrava dovesse
restare una questione marginale ben presto risultò avere un notevole spessore.
Fu Bordiga a volerla mettere in primo piano, adducendo la seguente motivazione:
“perché non si deve continuare a sospettare che il Partito socialista italiano
sia più inquinato di massoneria, o meglio ancora di massonismo, di quello che
effettivamente lo sia”.
Si confrontarono così posizioni favorevoli e contrarie a
tale compatibilità, Zibordi pose la questione della incompatibilità su vari
piani: la Massoneria non era tanto deprecabile per i suoi principi filosofici,
quanto piuttosto per la sua azione corruttrice del proletariato che veniva
messo sullo stesso piano della classe che lo opprimeva, inoltre i socialisti
non potevano sottostare a principi religiosi come quello che imponeva la fede
in un Grande Architetto dell’Universo. In conclusione, quindi, i socialisti
iscritti alla Massoneria avrebbero dovuto uscire dal Partito e
l’incompatibilità avrebbe dovuto essere netta. Seguì l’intervento di Poggi che
sottolineò invece come la questione non fosse di particolare rilevanza e che
dovesse pertanto essere trascurata dal Congresso, rilevando in particolare che
“Nessun vero massone può essere antisocialista perché tende a quella
liberazione spirituale che solo sarà possibile col trionfo del socialismo!
Nessun vero socialista può essere antimassone perché contraddirebbe ad ideali
che sono anche suoi!” Se dunque, aggiunse, vi erano debolezze, esse
riguardavano la fede e la tenuta morale di ciascuno, non certo l’appartenenza
alla Massoneria, ma erano strettamente inerenti ad una mancata piena coscienza
socialista, e quindi se qualcuno doveva essere espulso, ciò si sarebbe reso
necessario non in quanto massone, ma piuttosto perché rivelatosi cattivo
socialista.
Si decise pertanto di impostare la discussione e i
successivi interventi partendo da queste due mozioni, quella di Zibordi e
quella di Poggi. Esordì l’onorevole Raimondo che non esitò a definirsi massone
di lunga data, per lo meno dai moti di Milano soffocati nel sangue nel 1898,
quando tutte le organizzazioni politiche erano state sciolte e ai socialisti
non restava che essere massoni per avere scampo, inoltre riaffermò il ruolo
internazionalista della Massoneria indispensabile “alla creazione di
un’atmosfera pacifica utile alla conciliazione dei contrasti tra i popoli”.
Concluse sottolineando come questa doppia appartenenza andava avanti da più di
quindici anni e che molto socialisti-massoni avevano nel frattempo acquisito
cariche di rilievo e responsabilità istituzionali, chiedendo se a quel punto
anche quelle stesse fossero destinate a risultare incompatibili con la linea
del Partito.
Seguì l’intervento di Mussolini che fu il più deciso e
veemente contro la doppia appartenenza, invitando le sezioni ad espellere
immediatamente coloro che non si fossero adeguati alla incompatibilità tra
essere socialisti ed essere massoni. A chi replicava che, in tal modo, si
sarebbero perse non poche teste pensanti, egli disse con una certa
sfacciataggine: «Si è detto che se il Partito provoca un altro esodo dalle sue
file, forse rimarrà senza teste pensanti. Questa è una preoccupazione che non
deve menomamente turbarci, perché anche la morte a poco a poco ci toglie le
teste pensanti». Come a dire che considerava morta e sepolta una intera storia
e con essa gli stessi massoni che ne erano stati protagonisti, forse compreso
un personaggio che egli disse sempre di ammirare molto: Giuseppe Garibaldi, il
cui ritratto riempiva le prime sezioni del Partito Socialista con il suo Sol
dell’Avvenire.
Mussolini pose la questione della incompatibilità proprio
sul terreno della lotta di classe, specificando che l’umanitarismo massonico
era in pieno contrasto con essa, proprio lui che diverrà uno dei più accesi
nemici del concetto di lotta di classe, una volta generata la sua “creatura
fascista”. La sua conclusione fu quindi che non si dovesse solo considerare
l’incompatibilità, ma passare direttamente all’espulsione, per chi ammettesse
di essere massone. Matteotti aderì alla tesi di Zibordi ma rifiutò di sostenere
la tesi di Mussolini rilevando che ci si dovesse limitare ad una dichiarazione
generica di incompatibilità, senza passare però a misure repressive di
espulsione come esigeva Mussolini. Disse testualmente che era indegno che fosse
chiesto “alle sezioni di prendere per la schiena i massoni e cacciarli
fuori…Noi ritorneremo in questo modo alle liste di proscrizione”, e
rivolgendosi a Mussolini non esitò a ricordargli che: “Dovunque tu andrai
porterai rovina”.
Seguirono poi la dichiarazione di Bedeschi che riaffermava
di essere massone e di volere agire secondo coscienza e quella di De Angelis,
contrario a Zibordi, non tanto perché massone, ma perché convinto che il
Partito Socialista dovesse riconoscere ai suoi iscritti la libertà di
appartenere a qualsiasi associazione. Ci furono infine le votazioni e anche
questa volta la maggioranza andò a coloro che avrebbero voluto disinteressarsi
della questione, uscì seconda la posizione di Zibordi, aggravata da Mussolini
che stabiliva l’incompatibilità e l’espulsione, di poco avanti a quella di
Matteotti che ribadiva l’incompatibilità senza espulsione e infine quella di
Poggi che ribadiva la compatibilità ma che risultò minoritaria.
Tutto questa storia è interessante soprattutto per capire
come a tale ribaltamento di posizioni, corrispondesse quello politico, mentre
infatti a prevalere, fino ad allora, nel Partito Socialista era stata la
corrente riformista filomassonica, da allora in poi, seguita anche dal
sindacato, fu la componente massimalista ad essere maggioritaria, proprio in
nome non solo del ripudio della Massoneria, ma anche della piena accoglienza
delle tesi sulla necessità della lotta di classe. La CGL allora molto contigua
al Partito Socialista, nel suo Congresso celebrato a stretto giro rispetto a
quello socialista, anche se adottò formalmente una tesi più morbida, nella
buona sostanza ribadì i principi che erano già stati già espressi nell’assise
socialista, mettendo in guardia gli operai che «non dall’opera di società
segrete più o meno filosofiche e filantropiche [poteva]venirne vantaggio
all’opera loro di emancipazione, ma solo dalla più forte e cosciente
organizzazione loro di classe»
Come reagì a quel punto il Grande Oriente? Subito dopo il
Congresso socialista venne diramata una circolare che specificava testualmente:
“Dopo il voto del congresso di Ancona non vi può essere dubbio sulla condotta
che debbono tenere i massoni iscritti al Partito socialista ufficiale. Se vi è
qualcuno fra essi disposto a piegarsi al novissimo dogma del partito, esca
senz’altro dalle nostre file. Dove noi vogliamo uomini di fede sicura,
coscienze salde e dignitose, volontà libere e forti. Attendo da voi, non oltre
i quindici giorni da oggi, l’assicurazione che il pensiero del governo
dell’ordine è stato da tutti sentito.” In buona sostanza, si confermava il
fatto che non poteva restare in Massoneria solo chi aveva votato la mozione
rivolta all’espulsione dei massoni da quel partito, il minimo indispensabile
per un po’ di credibilità e coerenza.
Giovanni Lerda che si era dimesso dal partito e Orazio
Raimondo che era stato espulso, i quali avevano entrambi difeso a spada tratta
la compatibilità e la doppia appartenenza vennero largamente applauditi
nell’assemblea generale del GOI che si tenne nel 1914, anche se la situazione
non portò per la maggior parte dei massoni socialisti ad esodi di massa dalle
logge. Molti socialisti, anzi, protestarono in maniera ferma e decisa contro la
posizione antimassonica del Congresso di Ancona, ci furono infatti lettere di
protesta di massoni socialisti al segretario del PSI Lazzari, e persino una
conferenza che si svolse nella Loggia Italia di Parigi il 15 giugno, da parte
del socialista Pietro Mazzini, di ferma condanna di quell’operato liberticida.
Pochi mesi dopo, alla vigilia della guerra, nel luglio 1914,
lo stesso Mussolini scriveva come direttore dell’Avanti che “Se non vuole
cadere in rovina, l’Italia può adottare solamente un atteggiamento di assoluta
neutralità”, dopo soli cinque giorni dall’inizio delle ostilità, Mussolini
dichiarava in un manifesto che la guerra era utile soltanto ad aumentare il
potere dell’esercito, dello Stato e delle dinastie al potere: tutte istituzioni
da combattere. Arrivò addirittura a teorizzare una insurrezione contro la
guerra, avvisando i suoi lettori che “Se l’Italia dovesse rompere la neutralità
appoggiando gli imperi centrali, tutti i proletari italiani avrebbero il dovere
di sollevarsi in rivolta”. Fu persino messo in galera insieme al suo compagno
Pietro Nenni perché trovato a sabotare le rotaie dei treni destinati al fronte.
Se Mussolini cambiò nel giro di poco tempo repentinamente
idea fu grazie ad un massone: Pietro Naldi, direttore del quotidiano Il Resto
del Carlino di Bologna; c’è una testimonianza particolarmente eloquente proprio
di un redattore dell’Avanti di allora, Eugenio Guarino che dice: “Pippo Naldi
si presentò alla redazione milanese dell’Avanti e chiese di parlare in privato
con Mussolini. Poco dopo Mussolini abbandonò il suo classico abbigliamento da
persona di sinistra con cappello floscio nero, cravatta lisa e abito logoro, e
cominciò a presentarsi con abiti di lusso all’ultima moda” La Massoneria era
notoriamente interventista e, come è noto, lo divenne immediatamente anche
Mussolini, che si dichiarò ben presto favorevole ad un accordo con l’Intesa e
per un intervento dell’Italia in guerra.
Nuovi abiti, nuovo atteggiamento verso la Massoneria, nuovo
giornale, perché egli fu evidentemente espulso dalla direzione dell’Avanti e
dal Partito Socialista e fondò Il Popolo d’Italia. Mussolini diventava così il
terminale di fiducia in Italia della Massoneria internazionale, quella che
arrivava a Naldi tramite un altro grande massone come Antonio di San Giuliano e
mediante la Massoneria francese la quale, anche passando per la Svizzera,
cominciò a finanziarlo a getto continuo, insieme ad industriali italiani,
fabbricanti di armi ed equipaggiamenti militari. Il più feroce avversario della
Massoneria in Italia ne era diventato, in pochi mesi, il più fedele fiduciario.
La Massoneria che, in ogni caso sostenne ampiamente anche
l’impresa fiumana e anche D’Annunzio, pure lui massone, puntavano alla
realizzazione di una “democrazia del lavoro” che fosse al contempo
anticattolica ed antibolscevica. Lo disse a chiare lettere il Gran maestro
Torrigiani nel suo discorso di insediamento nel 1919 : “..noi dobbiamo
promuovere in Italia il concetto di una Democrazia del lavoro. Integrare il
riconoscimento dei diritti del lavoro con la devozione alla Patria, che è per
noi gradino all’Umanità; tale sia il nostro dovere”. Questa divenne la base con
cui Mussolini cercò poi anche con la CGL, negli anni successivi e durante la
sua affermazione iniziale, una prospettiva di “laburismo” nazionale.
Quando finì la guerra Mussolini stava per emigrare in
America, ma il 23 marzo del 1919 con un gruppo di Arditi, compagnia per altro
fondata da un generale massone di palazzo Giustiniani, di nome Luigi Capello,
in una sala convegni di piazza S. Sepolcro, messa a loro disposizione da un
massone ebreo di nome Cesare Goldmann, con una assemblea formata al 70% da
massoni, fondò i Fasci di Combattimento. Il programma rivoluzionario di tale
movimento era palesemente in linea con le istanze che trovarono risalto a Fiume
e di tendenza repubblicana; se lo leggiamo, nei suoi vari punti, poi variamente
rinnegati una volta che Mussolini realizzò il suo regime con il sostegno della
Monarchia e del Vaticano, esso si può assimilare pienamente alle dichiarazioni
che lo stesso Torregiani fece poi nel suo discorso già menzionato nel giugno
del 1919 e che proseguivano in tal modo: “Ma la borghesia italiana non deve e
non dovrà porsi come nemica di contro al Popolo lavoratore: ella deve fondersi
a lui e illuminare generosamente e saggiamente la impreparazione di lui alla
gestione della cosa pubblica in una collaborazione che deve essere sincera e
piena a qualunque costo. Deve essa avviare tutto il popolo lavoratore alla
conquista dello Stato, che a lui spetta e che da lui sarebbe spezzato e
travolto se s’intendesse di arrestare o frodare il corso della evoluzione
sociale. Soltanto così si difende lo Stato e con lo Stato si difendono i più preziosi
beni. Si difende lo Stato liberandolo dal predominio di quei ceti i quali hanno
cercato di ridurlo ad uno strumento di protezione dei loro interessi
particolari; si difende aprendolo al popolo lavoratore; si difende
contrastandone la conquista ad ogni dittatura di classe, più fieramente ed in
ogni modo a quella delle classi più impreparate (palese allusione alla
dittatura bolscevica n.d.r.), come si difende affermandone nel pensiero e
nell’azione il concetto ed i diritti contro l’antica pretesa sopraffattrice
della Chiesa, che non disarma”
Allora la Massoneria era divisa in due grandi istituzioni,
quella di Piazza del Gesù, più filocattolica e di rito scozzese, e quella di
Palazzo Giustiniani, liberale e anticlericale, legata alla Massoneria rivoluzionaria
francese ed americana. Mussolini non si fece scrupolo di utilizzarle entrambe
per raggiungere il potere.
Si può dire che tra le due la Massoneria Giustinianea aveva
adottato seriamente prospettive rivoluzionarie che animarono l’impresa fiumana,
la quale non si saldò con il movimento operaio di occupazione delle fabbriche
in un esito insurrezionale solo perché il Consiglio nazionale della CGL bocciò
nettamente la soluzione rivoluzionaria. Ma che la Massoneria considerasse la
nascita dei Fasci di Combattimento come un serio programma per attuare una
rivoluzione repubblicana in Italia è fatto acclarato. In special modo dalle
dichiarazioni del generale Capello, in un suo articolo pubblicato sulla
“Patria” di Roma dove l’alto dignitario massonico, rivolgendosi ai Fasci
scrive: “I Fasci di Combattimento non ebbero affatto in origine carattere
conservatore e meno ancora reazionario. Furono fondati nel marzo del 1919 per
raccogliere le forze superstiti che fecero il movimento interventista
rivoluzionario del maggio 1915, allo scopo di opporre un argine alla tracotanza
del neutralismo socialista, imbaldanzito dalla timidezza del governo e dalla
passività della borghesia che credeva di conservare più agevolmente i profitti
realizzati durante la guerra concedendo largamente sugli allora larghissimi
margini di lucro delle industrie; ed allo scopo pure di offrire al popolo
lavoratore un programma di oneste rivendicazioni economiche, sulla base
nazionale, valorizzando la vittoria, invece di demolirla. Il programma politico-sociale
dei Fasci fu inizialmente audace: affermava la necessità della Repubblica e
prospettava profonde trasformazioni nel campo della proprietà, giungendo
perfino a riconoscere la necessità della espropriazione parziale.”
Questa è una ulteriore prova che il movimento fascista
nacque e fu ispirato da istanze massoniche, le quali non avevano alcuna
velleità reazionaria, ma teorizzavano altresì uno sbocco rivoluzionario di tipo
sindacalista e nazionale. Lo conferma lo stesso Capello, dicendo che “Con tutto
questo sarebbe un grosso sbaglio interpretare il movimento fascista, pur qual è
oggi, come un movimento di “reazione bianca”, fatta nell’interesse del
capitalismo. […] Intimamente il Fascismo è una forza rivoluzionaria, forse la
sola forza veramente ed attivamente rivoluzionaria che vi sia in Italia –
appunto perché combatte la forma “utopistica” della rivoluzione rappresentata
dal così detto bolscevismo, per far strada alla forma realistica della
rivoluzione che si va concentrando in una sorta di sindacalismo nazionale, non
ancora esattamente precisato nei suoi lineamenti, ma già animato da un poderoso
soffio di vita”
Fu quindi la Massoneria a far risaltare Mussolini e a
spingerlo verso una prospettiva rivoluzionaria, dando ispirazione ed impulso ai
suoi Fasci di Combattimento, in una dinamica che va inquadrata nel netto
dissidio tra repubblicani contrapposti ai socialisti, sia a quelli che avevano
adottato i programmi bolscevichi definiti “utopistici” sia a quelli di
orientamento “riformista” ritenuti “neutralisti e passivi”. Era una dialettica
che aveva antiche origini, in particolare nella stessa terra di Mussolini: la
Romagna. L’obiettivo della Massoneria, come già rilevato, era quello di
servirsi di Mussolini per realizzare un programma di attuazione di una
“democrazia del lavoro” che avrebbe dovuto tagliare fuori da ogni combinazione
di potere gli estremi antimassonici del bolscevismo e dell’Associazione
Nazionalistica.
Ma Mussolini era un giocatore d’azzardo abituato a giocare e
a puntare su più tavoli, per ottenerne il massimo del vantaggio personale. Da
una parte si mostrava pronto a realizzare il programma massonico, dall’altra
cercava la “pacificazione” con gli ex compagni socialisti, e infine da un’altra
ancora sondava il terreno con il Vaticano per usare anche la Chiesa come
strumento di propaganda per i suoi fini.
Egli restò di conseguenza il fiduciario della Massoneria
soprattutto durante il biennio rosso, come migliore argine al dilagare del
bolscevismo, fino ad essere aiutato da massoni, durante Marcia su Roma, ad
avere le porte spalancate dal Re. Fu un grande errore massonico, perché
Mussolini non esiterà, dopo essersi impadronito del potere, a fare la sua
ennesima giravolta preferendo alla Massoneria gli accordi con il Vaticano e
finendo per liquidarla del tutto, mettendola fuori legge, devastando le sue
Logge e perseguitando i suoi membri. Contro la Massoneria, dal suo punto di
vista, giocarono due fattori essenziali: il primo rappresentato dal fatto che
Mussolini era “geloso” di quella che egli considerava una sua creatura
politica, di cui intendeva essere il capo assoluto e il secondo un certo
disgusto per un anticlericalismo di stampo risorgimentale, da lui ritenuto
troppo grossolano e logoro, e in definitiva controproducente per l’obiettivo
della conquista e del mantenimento del potere in un paese con masse ancora
largamente cattoliche.
Ad onor del vero, se il Gran Maestro Torrigiani si illuse
sulla possibilità che Mussolini non andasse verso la dittatura e fu quindi
disposto ad aiutarlo e ad incontrarlo, in una misura che potremmo definire
“attendista”, non pochi furono i “fratelli” che contestarono questa scelta, il
Gran Maestro aggiunto di palazzo Giustiniani, Guido Francocci scrisse in un suo
libro “La Massoneria”: “Tale atteggiamento verso il fascismo staccò non pochi
spiritualmente dal Gran Maestro. Pareva allora impossibile che egli non
comprendesse come una situazione politica, di cui era centro e fulcro un solo
uomo – e l’uomo che già aveva dichiarato guerra aperta all’Ordine Massonico
quando aveva fatto proclamare l’incompatibilità ideologica e pratica tra
Socialismo e Massoneria – rappresentava un pericolo imminente e immanente
contro le democratiche libertà. Purtroppo i massoni intransigenti furono
facilissimi profeti, e il Gran Maestro dovette subito accorgersi quanto le sue
previsioni fossero state fallaci. Un colloquio segreto tenutosi a Roma tra lui
e Mussolini, a brevissima distanza dalla “Marcia su Roma”, non poteva che
profondamente deluderlo: accettare il fascismo equivaleva a consentire
l’esperimento dittatoriale, asservire cioè l’Italia al tiranno, sopprimere le
libertà, rinnegare il Risorgimento italiano, far ludibrio dei principi
fondamentali, unica ragion d’essere della Libera Muratoria…”
I massoni che puntarono su di lui, in effetti, avrebbero
dovuto ricordare bene le sue posizioni nel Congresso socialista di Ancona del
1914.
Certo la “notizia” non mette sottosopra l’universo, però è
significativa e merita spazio. Il 1° maggio 1925 Antonio De Curtis, in arte
Totò (Napoli, 15 febbraio 1898-Roma, 15 aprile 1967), solennizzò a modo suo la
festa del lavoro: cinse il grembiule di muratore, anzi di libero muratore, e
venne registrato massone nella loggia “Nazionale” di Roma, all’obbedienza
diretta di Raoul Vittorio Palermi (1864-1948), sovrano e stratega della Gran
Loggia d’Italia. Si sapeva da anni del suo ingresso nella “Fulgor” di Napoli
nel 1945. La novità sulla sua iniziazione di vent’anni prima è emersa
nell’affollato convegno su “L’impresa di Fiume, 1919 1920. Tra leggenda e
realtà”, organizzato dalla Delegazione Magistrale friulana della Gran Loggia
d’Italia al castello di Villalta (Udine), con la partecipazione del sovrano e
gran maestro Antonio Binni e degli storici Enrico Folisi, Lijubinka Toseva
Karpowicz e Valerio Perna, presenti “fratelli” di diverse Comunità e molti
“profani”. Durante il “Ventennio” Totò conservò sotto la bombetta quel segreto
che aiuta a comprenderne meglio la tetragona libertà di pensiero e la distanza
siderale dal “regime”. Ma, poiché si parla di un Ordine iniziatico, andiamo per
ordine…
Primavera di bellezza?
Roma, primavera 1925. Il 3 gennaio da Capo del governo,
Benito Mussolini, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del
Re”), con un infuocato discorso alla Camera respinge l’accusa di complicità nel
“delitto Matteotti” e sfida il Parlamento a denunciarlo e a tradurlo in
giudizio dinnanzi al Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia in forza
dell’art. 36 della Carta Albertina “per giudicare dei crimini di alto
tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato, i ministri accusati dalla
Camera dei Deputati”. Nessuno fiata. La maggior parte dei deputati
d’opposizione (socialisti, repubblicani, seguaci di Giovanni Amendola e ala
sinistra del cattolico partito popolare italiano) dall’estate precedente non
partecipano alle sedute, arroccati in un immaginario “Aventino”. Re
rigorosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III (1869-1947, sul trono dal
1900) a chi gli chiede di revocare Mussolini risponde che i due rami del
Parlamento sono i suoi occhi e le sue orecchie. Chi ne vuole la caduta deve farlo
alla Camera, ove i deputati iscritti al Partito nazionale fascista sono ancora
una minoranza (227 su 545).
Ma tra diserzioni e accelerazioni, il Paese sta rapidamente
precipitando dalla democrazia parlamentare, fondata sui collegi uninominali a
doppio turno, al governo di partito unico. La svolta ha una premessa
strategica: dal 1914-1915 due forze si contendono la primogenitura del
Risorgimento e della completa unificazione con la vittoria nella Grande Guerra.
Da una parte i nazionalisti (nati intorno al 1908, nel clima rovente
dell’annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Vienna), irrobustiti dalla
confluenza nel Partito Nazionale Fascista (febbraio 1923), gonfio di voti ma
ancor privo di un progetto politico univoco. Dall’altra la massoneria che non a
torto vanta un secolo di lotte per unità, indipendenza e libertà, dalle
cospirazioni nel 1820-1848 sino ai governi che in Italia avevano introdotto
elettività delle cariche, istruzione obbligatoria e codici d’avanguardia.
Tira vento di tempesta. Il 12 gennaio Mussolini deposita
alla Camera la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni.
Il 14 “L’Idea Nazionale”, organo dei nazionalisti, pubblica un estratto della
relazione della “Commissione dei Quindici” distillata dai deputati Gioacchino
Volpe e Francesco Ercole. L’obiettivo è esplicito: “Qualsiasi specie di società
occulta, anche se per ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente
lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la
sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alla legge”.
Di lì a poco lo slogan sarà: tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato.
Poi diverrà: tutto nel partito, niente al di fuori né contro il partito, cioè
l’unico consentito: il Partito nazionale fascista. Il Partito imporrà il colore
della camicia, l’ingresso nel lavoro (tramite i sindacati fascistizzati) e
intrupperà milioni di italiani nel Dopolavoro per controllare corpo e anime dei
cittadini. Una nuova “chiesa”, non meno opprimente dell’altra, con la quale
l’11 febbraio 1929 il regime “concorderà”, salvo poi scontrarsi come fatalmente
accade tra dogmatismi.
In quel maggio 1925 le due principali Comunità massoniche
italiane (Grande Oriente d’Italia, con sede a Palazzo Giustiniani, oggi popolato
di uffici del Senato; e Gran Loggia, a Piazza del Gesù 47, nel sontuoso Palazzo
Artieri) ormai navigano a vista. Il dibattito sulla legge viene calendarizzato
alla Camera dal 16 maggio. Si chiuderà il 19 con approvazione pressoché unanime
e alcune significative assenze non giustificate, a cominciare da Italo Balbo,
“quadrumviro” della mai avvenuta “marcia su Roma” ma antico “oratore” della
loggia Girolamo Savonarola della sua Ferrara e già astenutosi nella
dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo che il 23 febbraio 1923 aveva
dichiarato l’incompatibilità tra fasci e logge.
L’iniziazione massonica di un “uomo di mondo”
Malgrado tutto, mentre la massoneria è sotto assedio e le
libertà individuali stanno per essere soffocate, qualcuno nuota impavido controcorrente.
È il caso di Totò. È un uomo sofferente. Mentre il Tempio sta per crollare
decide di passare tra le sue colonne e di sedere in silenzio fra gli
apprendisti, proprio lui, parlatore forbito, mago della parola, principe dello
scilinguagnolo. È tempo di guardare all’Oriente prima che la Luce venga spenta
a Occidente. Il marchese De Curtis non è affatto uno sprovveduto. Sa benissimo
di compiere un passo rischioso. Conta sulla riservatezza della Fratellanza.
Offre la sua “testimonianza” a quel che resta dell’Italia nella quale si
riconosce: quella degli uomini liberi. L’attore vive una tra le stagioni più
angustiate della sua travagliata esistenza terrena. Ha ventisette anni. La
madre, Anna Clemente, lo voleva prete. Lo aveva avuto dal marchese Giuseppe De
Curtis, frutto di una relazione extraconiugale, e lo aveva fatto registrare
all’anagrafe come Antonio Clemente “di N.N.”. Chierichetto di passo come tanti
coetanei, più malinconico che giocoso, lasciata alle spalle infanzia e
adolescenza tristissime, Totò fece i conti col servizio militare tra Pisa,
Pescia, Alessandria e Livorno. A Cuneo non mise mai piede, ma coniò il celebre
motto “Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo”… cioè “in
capo al mondo”, in un angolo sperduto, “ai confini dell’Impero”. Si compiacque
anche di dire che vi era stato seminarista. Cuneo era un “tòpos”. Anche se
aveva dato e continuava a dare i natali a politici, scienziati, storici,
scrittori e militari di primaria grandezza (bastino i nomi di Vittorio Bersezio,
Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Vittorio Cian, Ettore Pais, Balbino
Giuliano, Pietro Gazzera…) era dipinta come “Beozia d’Italia”. Proprio perché
non lo è e sa sorridere di sé e delle leggende che la circondano, su impulso di
Gianni Vercellotti, avvocato e profeta del turismo in plaghe povere di vere
autostrade, ferrovie, strade, aree attrezzate ma ricche di umanità, la
“Provincia Granda” è stata al gioco e da molti anni ha costituito
l’Associazione “Uomini di Mondo a Cuneo”, brevius “UdM di Cuneo”. Ora
presieduta dall’esilarante vignettista Danilo Paparelli, con tanto di Totò
quale emblema, viatico e “angelo protettore”, l’UdM ha appena celebrato
l’ennesima edizione dedicata a D’Artagnan, il più celebre dei Quattro
Moschettieri di Alexandre Dumas, che si ispirò al conte Charles di
Batz-Castelmore, fuggevolmente ma effettivamente militare a Cuneo. “Uomo di
mondo”, dunque. Già. Ma come era il mondo conosciuto e vissuto da Totò, uomo e
non “caporale”, sino al fatidico 1° maggio 1925? Una sequenza di umiliazioni e
di speranze, di sogni e di delusioni. Navigazione tra i flutti della vita con
la barra a dritta ma con l’occhio alla sua Stella Polare: la libertà di
pensiero (e anche un po’ di costumi). Sin da ragazzo voleva divertirsi e far
divertire, procurarsi piacere e dispensarne. Intraprese la carriera di attore
nella sua città, che presto però gli divenne stretta. Tardivamente riconosciuto
dal padre e passato a Roma in cerca di miglior fortuna, si esibì in una
“compagnia” di second’ordine, senza fisso compenso. Spiantato, spesso alla
“fame nera” (come egli stesso narrò), fu licenziato in tronco quando osò
chiedere all’impresario, Umberto Capece, almeno gli spiccioli per il tram da
casa al teatro. Gli si spalancò dinnanzi l’abisso dell’isolamento. Optò per il
varietà, di gran lunga più congeniale con le due anime che convivevano nella
sua persona, il sorriso scherzoso (ma quanta malinconia nei suoi occhi) e lo
sconforto più cupo. Totò divenne “la Maschera”. Incarnò gli italiani che
uscivano feriti dalla Grande Guerra e si inabissavano in un regime liberticida
che li avrebbe precipitati in un secondo irreparabile disastro.
La Gran Loggia dal tramonto…
Il suo nome fu iscritto nel repertorio degli “apprendisti”
della Gran Loggia, annotati con la grafia tipica degli scritturali del tempo:
uno svolazzante corsivo pulito pulito con cognome, nome, data e loggia di
appartenenza. Gli iniziati/affiliati della Gran Loggia avevano superato
largamente quota 28.000. Altri ne vennero segnati lo stesso 1° maggio. Il 19 accanto
a un numero matricolare in uno spazio bianco compare la formula arcana:
“Segreto”. Era il giorno dell’approvazione della nefasta legge “contro la
massoneria”. Gli ingressi continuarono sino al 17 novembre 1925, cioè alla
vigilia del forzato autoscioglimento decretato da Raoul Palermi mentre era in
viaggio negli Stati Uniti d’America per ottenere la solidarietà dei Supremi
Consigli di rito scozzese antico e accettato di cui la Gran Loggia faceva parte
dal Convento mondiale di Washington (dal 1912): riconoscimento solennemente
confermato a Losanna nel 1922. In Italia le logge erano perseguitate, invase,
incendiate. I loro arredi e archivi venivano dispersi (anche per iniziativa di
transfughi decisi a cancellare le tracce della loro affiliazione), ma all’estero
l’Acacia continuava a fiorire. Il regime stesso non poté fare a meno di
confrontarsi con massoni di spessore culturale e patriottismo indiscutibile: da
Vittorio Valletta, Ugo Cavallero, futuro maresciallo d’Italia, Luigi Mascherpa,
ammiraglio, Edmondo Rossoni (capo dei sindacati fascisti), Curzio Malaparte
(tutti della Gran Loggia), Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Alberto
Beneduce (del Grande Oriente).
… alla Palingenesi e al Fulgore
Chi sapeva sapeva. Il massonismo non andava sbandierato ma vissuto.
Fu quanto fece Totò. Alternò la rivendicazione del titolo nobiliare (Sua
Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito, Duca Comneno di Bisanzio, principe di
Cilicia, di Macedonia, Dardania, Tessaglia, Ponto, Moldava, Illiria,
Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro..: d’altronde anche il Re d’Italia si
rivendicava Re di Cipro e Gerusalemme, al pari di tanti altri sovrani in
Europa) alle tournées dai successi crescenti e all’esercizio della beneficenza,
praticata con discrezione e senza mai chieder conto del frutto della sua
proverbiale generosità, proprio perché aveva conosciuto la miseria, la fame, il
freddo, l’amore senza speranza, il dolore (anche negli affetti più cari), la
prepotenza esosa degli impresari, l’arroganza dei “potenti” antichi e nuovi.
Di quest’ultima ebbe un saggio nel gennaio 1945 durante una
tournée in Toscana in cui presentava “Imputati, alziamoci”, un sorridente
invito a un “esame di coscienza” da parte di quanti stavano rapidamente
cambiando il colore della camicia, dal nero al rosso fiammante. Come in “Totò
massone. Il principe Antonio De Curtis e la massoneria del suo tempo” (ed,
Atanor) narra Ruggiero di Castiglione (autore di dottissimi saggi e repertori)
gli si presentò nel camerino un energumeno che gli domandò a bruciapelo: “Veramente
per lei camerata e compagno è la stessa cosa?” e alla risposta “Mah, non so”
gli sferrò in faccia un pugno partigiano che gli spaccò le labbra”.
“Spaventatissimo” per il clima di odio dilagante Totò riparò a Roma e poi a
Capri.
“Resurrexit… sino al grado 33°”
Il 9 aprile seguente il “Marchese De Curtis Gagliardi
Antonio” sottoscrisse il Testamento massonico nel “gabinetto di riflessione”
della loggia “Fulgor” di Napoli (Gran loggia d’Italia) per l’accettazione tra i
Fratelli. Alla domanda: “Che cosa dovete a voi stesso” rispose “Niente
all’infuori del miglioramento spirituale”. Chi ritiene che il “re della risata”
si esaurisse nell’esibizione nei teatri di tutta Italia, in un centinaio di
films, spesso a costi irrilevanti, e in un profluvio di presenze televisive,
non ne coglie la profondità umana, fatta di riservatezza, riflessione, tormenti
appena leniti dalla compagna, Franca Faldini e dalla figlia, Liliana, che gli
furono a fianco negli anni difficili dell’incipiente vecchiezza e delal cecità.
Proprio alla compagna una volta accennò quasi distrattamente ai segni di
riconoscimento in uso tra massoni.
Secondo Giordano Gamberini, gran maestro del GOI e
collettore di memorie e confidenze di massoni di antica data e di varie
Obbedienze (come Dunstano Cancellieri), nel 1944 Totò fu iniziato (o più
correttamente si ridestò dal forzato “sonno”) nella loggia “Palingenesi” di
Napoli per transitare poi nella citata “Fulgor”, che aveva sede in via Monte di
Dio, sulla quale si affaccia Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, presieduto da Gerardo Marotta e ora da suo
figlio, Massimiliano. Lì Totò presenziò all’iniziazione di Mario Castellani e
Vittorio Caprioli. Come documentano le carte che da Piazza del Gesù migrarono al
Grande Oriente con Francesco Bellantonio quando gran maestro era Lino Salvini,
Totò fondò poi una loggia in Roma, la “Fulgor Artis” mentre poche e vaghe voci
rimangono sulla “Ars et Labor” , forse sua reincarnazione.
Gli impegni “professionali” e qualche delusione per i poco
fraterni dissensi tra la diverse Comunità liberomuratòrie e per le gare tra i
diversi aspiranti a cariche apicali (quant’è difficile deporre i metalli al di
fuori dei Templi) coincisero con il suo definitivo assonnamento. Aveva raggiunto
il grado 30° del Rito scozzese. Il 19 ottobre 2012 la Gran Loggia gli conferì
il grado 33° “alla memoria”, presente sua figlia, Liliana.
“’A Livella”
Il suo più autentico testamento massonico rimane la celebre
raccolta di poesie intitolata “’A livella” (1964). Totò scelse per insegna
l’attrezzo del lavoro di loggia. Sormontata dal compasso, la livella, simbolo
di equilibrio, armonia e uguaglianza, forma un triangolo equilatero
attraversato longitudinalmente dall’archipendolo, che coniuga il piano “terraqueo”
con lo Spirito. Nel film “Letto a tre piazze” (1960) Totò si rivolse a Peppino
De Filippo: durante un’immaginaria quanto allusiva “scalata” gli disse:
“professò’ , la lego ad un masso…, n’ho trovato uno magnifico, questo resiste,
è un bel massone, un massone”. Con una delle sue ultime partecipazioni filmiche
in “Uccellacci, uccellini” di Pier Paolo Pasolini (1966), stupì tutti per la
sua drammatica forza interpretativa, che gli meritò anche una menzione speciale
e un nastro d’argento al Festival di Cannes. Precocemente invecchiato ma
indomito, generoso con tutti (consigliò a Pasquale Zagaria di mutare il nome
d’arte da Lino Zaga in Lino Banfi…), non dimenticò l’amarezza per la sua
esclusione dalla televisione per aver entusiasticamente esclamato “Viva Lauro”
durante una puntata del Musichiere di Gigi Riva (1958). Non era una ingenua
captatio di voti pro-monarchia ma un omaggio a Napoli che, disse una volta, è
l’unica vera grande città d’Italia. Roma ne è solo una “periferia”.
Si avviò alla fine senza rimpianti ma col timore di essere
presto dimenticato. Invece il pubblico gli si affezionò ancor più. Capì la sua
libertà di spirito. L’Italia ne aveva e ne ha bisogno. A nessuno verrebbe in
mente di ignorarlo per la sua scelta del 1° maggio 1925, ribadita vent’anni
dopo, il 9 aprile 1945. D’altronde nella sua originaria “Fulgor”, nella “Fulgor
Artis” o nell’officina intitolata al celebre Gustavo Modena o in altre ancora
delle due diverse liberomuratorie italiane si raccolsero nel tempo attori,
cantanti, scrittori quali Gino Cervi, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Giovacchino
Forzano, Silvio Gigli, Francesco Gorni Kramer, Amedeo Nazari, Tito Schipa,
Odardo Spadaro, Paolo Stoppa, Johnny Dorelli e il Claudio Pica, noto come
Claudio Villa, membro della “Propaganda massonica” n. 2, come il grande e
sfortunato Alighiero Noschese: un patrimonio morale del Paese Italia. Allora,
proprio l’Associazione cuneese Uomini di Mondo potrebbe forse promuovere una
rivisitazione di quell’Universo in omaggio al principe Antonio De Curtis, il
Totò del quale ben si può dire “semel abbas, semper abbas”.
Il pensiero teleologico massonico e la sua tensione ontologica alla Verità
Inizio chiarendo il significato della parola “ermeneutica”.
Questa è la metodologia della interpretazione, del chiarire, dello
spiegare. Nasce in ambito religioso per definire la corretta
interpretazione dei testi sacri e poi, nell’età del Rinascimento
italiano, si amplia all’analisi dei testi tout court, in
qualsiasi ambito. Dicendo corretta interpretazione dei testi sacri,
evidentemente mi riferisco a due modalità interpretative: la prima è
l’interpretazione linguistica atta a riconoscere la validità d’origine
di un testo, dunque l’esatta attribuzione a un autore o a una corrente
di pensiero e di cultura. L’altra modalità, specifica per i testi sacri,
è l’interpretazione fideistica o, in senso più generale,
spiritualistico-religiosa (interna alla teologia) del contenuto del
testo.
Non è questa sommaria distinzione da confondere con quella tra forma e sostanza;
infatti, l’interpretazione del testo in quanto tale, nella sua forma
linguistica, non è rivolta alla pura espressione formale, essa al
contrario si volge alla forma per riconoscerne la sostanza nascosta
nella forma. Ad esempio, se un termine ha un certo significato in un
ambito ben definito, quel termine ci svela, essendo stato usato in
quella frazione di testo, non solo che appartiene ad un determinato
periodo storico e a un preciso ambito culturale, ma anche svela il vero
significato dell’intero frammento di testo. In italiano, ad esempio,
usiamo il termine Illuminismo per una specifica corrente di pensiero dai
forti connotati culturali e civili, mentre il termine tedesco Aufklarung,
che potrebbe essere tradotto sempre con Illuminismo, all’analisi
ermeneutica svela un diverso significato che, purgato di connotati
ideologico- politici, ha valenze più letterarie e culturali; quindi più
opportunamente è da tradurre con “rischiaramento“. Il primo ci
dice che illumina le genti verso un cambiamento sociale, il secondo che
rischiara le menti verso la comprensione della realtà. Allora è ben
evidente che con l’ermeneutica si parte dalla forma, come figliastra,
per giungere alla sostanza, come genitrice indiretta.
L’altro livello o dimensione dell’interpretazione ricerca i sensi
nascosti che determinano una fede, in altri termini, si interpreta dando
dei significati d’ordine spirituale che non necessariamente collidono
con il significato semantico della parola stessa o della frazione di
testo in cui essa è contenuta.
La prima modalità appartiene più all’ambito della filosofia mentre la seconda a quello dell’esegesi.
C’è una concezione che in un certo periodo si è andata affermando
riguardo alla filosofia come scienza dal rigore ineccepibile, ovvero
della filosofia come modalità del pensare umano in grado di
rappresentare la realtà.
Ai Massoni queste concezioni lasciano alquanto distratti e
disattenti. Infatti, non sono queste le condizioni che possono essere
definite come necessarie per il percorso massonico d’elevazione umana e
spirituale. Tutto ciò che tenta di porre un termine allo sviluppo del
pensiero e dell’elevazione spirituale umana appare autolimitante,
sembrano un colpo di freno allo sviluppo della Gnosi umana. Per questo
le ideologie al Massone non possono che apparire una castrazione del
pensiero, dell’evoluzione progressiva del pensare e del sentire
dell’Uomo.
Un Massone dovrebbe partecipare alla nostra società universale, per
superare le limitazioni del pensare, per dare spazi e dimensioni altri
da quelli che il mondo profano riesce ad elaborare e che poi
traumaticamente è costretto periodicamente a negare e reinventare. Lo
scopo della Massoneria è quello di fornire uno sviluppo senza traumi,
senza una presunzione gnoseologica che dall’ontologia profana verrebbe
limitata. Ciò implica il
riconoscimento che la Verità è un concetto trascendente e non immanente, ma su questo ritornerò.
Il pensiero umano, pensiero simbolico, filosofico, teologico e
scientifico, con Tommaso, Galilei, Descart, Kant e altri sommi, si è
posto l’obiettivo di essere garante della rappresentazione fedele della
realtà e, sicuramente, sugli aspetti fenomenici ne ha svolto il compito
con esemplare maestria. Tale visione pone quindi il pensiero filosofico
come specchio in cui la realtà, la Natura si rispecchia o almeno, come
Kant meditava, ne riconosce le strutture di base.
Oggi, l’idea che questo indirizzo sia definibile come metafisico, e
su ciò non si può essere che d’accordo ignorando il senso negativo che
tanti filosofi odierni tendono a dare del termine metafisica, ci deve
indurre a riscoprire i sensi nascosti del pensiero metafisico, in
termini moderni e con analisi ermeneutica, anche se in questo scritto
preferisco usare il termine trascendente.
Quando Heidegger riduce il pensiero metafisico alla contemplazione
della verità oggettiva o tutt’al più all’osservarla, e quindi a
riscoprirne le norme che nella realtà sono insite, egli rifiuta la
realtà come insieme sistemico di cui l’uomo è elemento partecipativo e
lo estranea dalla realtà, più precisamente dalla Natura, configurando
quella scissione che già la religione positiva aveva posto, estendendo
tale scissione a tutto l’essere cosmico, uomo, natura e aspetti
sovradimensionali dello stesso e della stessa natura.
Il Massone, superato l’apprendistato, come Compagno incomincia a
sviluppare un’osservazione ermeneutica della Natura nei termini della
scoperta dei suoi significati misterici, quelli nascosti nell’intimo
della Natura, quelli che non vengono svelati neppure dall’individuazione
delle leggi fenomeniche che controllano gli accadimenti, sempre
fenomenici, della stessa Natura. La Natura, in una visuale esoterica, è
da scoprire non nei suoi accadimenti appariscenti, epifenomenici, che di
ciò la scienza con i suoi attuali sofisticatissimi metodi e strumenti è
in grado di fare meglio, ma con una visione altra, nella sua
sostanzialità metastorica e metafisica. Il pensiero materialistico,
positivistico, scientista ci descrive la Natura nel suo apparire, nei
suoi aspetti discorsivi, ma nulla può dire sulla sua sostanzialità, su
ciò che il senso del sacro e della spiritualità umana possono dire ed
intuire. Anche se c’è da ammettere che questo pensiero non si pone altro
scopo che osservare, descrivere e spiegare ciò che accade nella Natura
lasciando ad altri di enucleare i perché degli accadimenti.
La Massoneria, proprio perché non è metodo gnoseologico, si oppone alla ipostatizzazione di una via prestabilita; essa non è “la via” e neppure “una via” essa supera il concetto di via, quindi di metodo e di metodologia, e si pone come “tensione” ontologica alla Verità“.
L’epistemologia filosofica ci ha insegnato che ogni legge scientifica è
tale nella misura in cui può dimostrare la sua fallacia e quindi
superare se stessa con un modello interpretativo maggiormente
esplicativo. Ciò che non è dimostrabile come errato, parziale, limitato
al contingente storico non è scienza ma è fede, è cristallizzazione del
sapere e della conoscenza scambiata come Verità.
La concezione della Massoneria come “metodo di vita“, in
particolare in una certa corrente del pensiero massonico italiano,
vorrebbe dire come affermano certi alti esponenti di Gran Loggia che «La
Massoneria non esprime, invero, una particolare filosofia o ideologia,
ma un metodo di convivenza tra tutte le filosofie e le ideologie
possibili». Un’idea che sorvola sulla rappresentazione della
Massoneria come associazione iniziatica e separata dal mondo profano ed
anche “laicamente” sincretica, di modo che in essa potrebbe confluire
qualunque pensiero umano senza discriminazione. È evidentemente una
concessione all’uso indiscriminato di pensieri esoterici, religiosi,
filosofici e anche ideologici di ogni epoca e cultura senza che essi
passino nel filtro di una ermeneutica massonica. apparentemente
alternativo è l’idea della Massoneria come “ortoprassi”. Questo è un
concetto ripreso dal pensiero teologico volendo superare la distinzione
tra dottrina e morale;
la prima implica il pericolo del dogmatismo, la seconda dà priorità
al retto comportamento sotto la supremazia del bene universale.
L’ortoprassi, corretto modo di agire, limita tanto il pensiero che
l’azione massonica ad un “essere per fare” (comportarsi) e
necessariamente rischia di confluire nella corrente di pensiero del
pragmatismo anglosassone. È sostanzialmente una visione immanentista, di
cifra comportamentale, che mette in secondo piano ogni espressione
spirituale umana. A ben vedere ambedue le visioni soffrono della stessa
unidimensionalità che Marcuse, tanti anni fa, denunciava nell’immagine
dell’uomo unidimensionale.
Ambedue le elaborazioni evidenziano, la prima più della seconda, la
carente elaborazione del pensiero massonico, l’adeguamento a logiche del
passato, a filosofie del pensiero che la stessa filosofia oggi ha
superato.
L’idea del “metodo” massonico, di matrice cartesiana, da una parte
non prende posizione su una elaborazione squisitamente massonica degli
esoterismi, filosofie e ideologie, dall’altra parte vorrebbe opporsi
all’idea pragmatica, comportamentale, del fare massonico, però
contraddicendosi quando s’immerge nel vissuto collettivo profano
adottando filosofie, indirizzi culturali e ideologie sociali. In
definitiva questa massoneria metodologica si rende più pragmatica di
un’ortoprassi che almeno cerca di definire una morale massonica.
Il pragmatismo anglosassone, con i suoi epigoni l’inglese John Dewey e
l’austriaco Ludwig Wittgenstein, mira a considerare l’uomo non come
osservatore ed esploratore della sostanzialità della realtà, ma come
produttore e imprenditore di conoscenza che trasforma la realtà. Non c’è
bisogno di grandi meditazioni filosofiche per capire ciò, è evidente
che, fin dai suoi primordi, l’umanità si è posta pragmaticamente in
questi termini, ma non solo. È questo “non solo” che rende
carente e svela la soffocante autosufficienza del pensiero pragmatico,
il suo porsi in un vicolo cieco al quale, giunti alla fine, si osserva
impotenti la nebbiosa imperscrutabilità della fine del cammino. Se la
realtà è da considerare solo nella sua accezione di causa produttiva,
che trasforma la realtà, che ne è del pensiero non produttivo quello che
la realtà non vuol trasformare ma coglierne le sue intime essenze?
Però, è questo cogliere le essenze che infastidisce il pragmatico,
perché le essenze non sono di per sé produttive, non modificano la
realtà ma la definiscono in un’altra dimensione che esce dal controllo
dell’Uomo. Il pragmatico, dicendo che osservare la realtà vuol dire
osservare per trasformare, non dice nulla di errato, così come non si
erra dicendo di considerare la Massoneria come ortoprassi, cioè dicendo
di osservare la realtà per definire un corretto comportamento, oppure
considerandosi come sincretismo a tutto spazio. Queste due sono visioni
parziali e unidimensionali. Manca l’altra parte, quella fondante, quella
del discorso che è dell’osservare per scoprire le norme regolative
dell’essere umano nella sua dimensione spirituale. In termini semplici,
metodologismo pragmatico ed ortoprassi sono due modalità del pensiero
amorale, che nega ogni dimensione spirituale all’Uomo e alla Natura.
Scindere le conseguenze morali1 dall’agire comporta necessariamente i
guasti di un produrre concettualistico giunto alla sua
autogiustificazione, così come un comportamento corretto senza definire i
principi morali a cui riferirsi è affermazione general-generica che non
distingue la Massoneria da una qualunque altra forma di approccio
spirituale; anzi, questo ne è escluso per la riduzione ai soli
comportamenti senza considerare l’essenza del sussistere umano.
L’essere umano quando incominciò a mescolare due diversi metalli per
produrne un terzo, ad esempio il bronzo, non si spiegava la
modificazione in terza molecola di altre due mescolate tra loro, non ne
aveva le conoscenze scientifiche. E su questa parziale conoscenza però
sviluppò un sistema di rituali, di miti, di elaborazioni trascendentali
che per lui davano un senso alla Natura nel suo insieme, ponendosi sul
piano della sapienza, anche nel verso di farlo sentire componente vitale
della Natura. Poi, viene lo scienziato, che spiega
la fusione molecolare dei metalli e ignora il pensiero sul
trascendente. Ora sappiamo del potenziale conoscitivo della materia, ma
abbiamo perduto tutto del potenziale sapienziale della Natura, del
Cosmo, del Creato, comunque lo si metta.
Le religioni vorrebbero superare questa frattura e dare una
spiegazione in termini fideisti e finalisti del creato, ma così facendo,
riportando tutto ad un ente creatore. non spiegano l’essenza della
Natura; dicono chi la guida e la giustifica, ma senza rispondere alle
domande: come e perché? Infatti, quel come e perché è nella mente
divina, imperscrutabile all’uomo. Oggi alcuni avventurosi teologi sono
disposti a credere che il Creato sia un Atto divino e che le leggi della
Natura siano effetti e non conseguenze dell’Atto divino, per cui queste
leggi non sono direttamente controllate e gestite dal pensiero divino.
In tal modo si pone all’interno della Natura una capacità di
autorganizzazione ed autoregolamentazione scissa dal divino, in altri
termini non c’è nulla di trascendente nel creato, nella Natura, se non
il solo atto creativo. Pur se affascinante in sé, questa spiegazione
della sussistenza intrinseca della Natura e dei suoi accadimenti non dà
risposta al perché dell’atto creativo, se non nei termini, neoplatonici,
di una “esigenza” autosussistente della creazione rispetto al
divino. In tutto ciò è impossibile, per il pensiero umano, pervenire ad
una Verità in sé esplicativa dei massimi sistemi posti dal pensiero
teologico.
Dunque, anche in questo si evidenzia la limitatezza di certi grandi
del pensiero massonico, come Lessing e Goethe, che ripongono la Verità
ultima nel pensiero divino, come indicibile ed inconoscibile, essendo
troppo compresi in una visione apofasica del divino stesso. Il pensiero
massonico non può porsi in questo spazio autocensorio, anzi deve avere
il coraggio di andare oltre, altrimenti non si distinguerebbe né dal
pensiero scientifico né da quello religioso e, ciò è più importante, non
si definirebbe come pensiero altro, pensiero sapienziale teleologico.
La Massoneria se è altro, ha come necessità epistemologica ed
ermeneutica quella di coniugare il discorso sulla materia e quello sulla
sovramateria, ovvero il pensiero sulla struttura materica e sulla
sovrastruttura spirituale, sul sensibile e sul extrasensibile.
Sempre riguardo all’ortoprassi, questa non aiuta a definire la
Massoneria come pensiero soprasensibile, non fa riconoscere una sua
visione d’ermeneutica esoterica. L’esoterismo non trova lo spazio di
giustificazione di sé nella concezione dell’ortoprassi, che è concezione
di comportamenti umani, pur considerandoli nella loro apparenza
extra-storica ed extra-culturale. Se intendiamo l’esoterismo, visione
riservata e dunque essenzialmente massonica senza inquinamenti estranei,
come strumento essenziale del pensiero massonico è necessario
scandagliarne i suoi peculiari significati non in termini puramente di
perfezionamento spirituale, che non lo distinguerebbe da altre pratiche
spirituali, ma ripeto in peculiari termini massonici. L’esoterismo in
quanto strumento massonico, dal pensiero massonico deve trarre il
proprio significato e non può configurarsi in se stesso, ovvero limitare
il suo sviluppo all’interno di un pensiero avulso da una causalità
esplicativa e da un percorso ben coordinato e indirizzato, altrimenti
una qualunque persona fortemente interessata allo esoterismo potrebbe
benissimo cercare il proprio sviluppo spirituale nell’esoterismo in sé e
non avrebbe la necessità di entrare nella Massoneria. Addirittura,
potrebbe cercare una propria speciale forma d’iniziazione dentro la via
esoterica, ignorando l’iniziaticità massonica. Questo è proprio il
termine ultimo di un pensiero herderiano che in definitiva toglie alla
Massoneria ogni carattere di esclusività, riducendola a mera forma
umanitaria, alla pari di un qualunque umanesimo modernista.
Il Massone, sensibilmente determinato considera l’esistenza come
progetto, alla stregua di un Heidegger, e vuol condividere questo
progetto con altri sotto il riparo della loggia. In questa Loggia il
Massone non trova la spiegazione di come stanno le cose, di
come l’esistere si spiega. La sua concezione di Verità è diversa da quella giuridica, civile e religiosa e pure scientifica.
La filosofia moderna tende a depennare la Verità, intesa come
descrizione oggettiva, dai propri discorsi. È difficile contestare chi
afferma che la razionalità di un discorso se è ridotta alla sua
presentazione decorosa è accettabile dai più. Però, ciò non vuol dire
che la felicità umana risieda nell’essere tutti d’accordo, nella comune
ricerca di una felicità data dall’accordo, come sembra di sentire nelle
parole di un Herder.
Ugualmente, si sente la necessità di superare certe posizioni del XVIII secolo e di quelli successivi, ove la Verità è lo “specchio della Natura”
e che la conoscenza dei dati di fatto e delle norme che li regolano sia
la via alla Verità. I Massoni settecenteschi cercavano ciò, trovandosi
come Lessing, ad essere costretti a negare ogni validità ai plurimi
esoterismi come strumento di conoscenza. È difficile infatti dichiarare
che ogni esoterismo conduce alla Verità, se non appellandosi in modo
fideistico a un’idea di astratta spiritualità non definita. Questo
perché all’epoca, non differentemente da oggi, quello era un esoterismo
che dall’esterno veniva inglobato nel pensare massonico, senza saperlo
integrare, senza saperlo ripensare nei soli termini massonici, facendo
del pensiero massonico un confuso ed incoerente agglomerato dei più
disparati esoterismi, con la tiepida ed inconcludente giustificazione
che ogni forma di esoterismo umano è definibile come ” Tradizione“.
Solo Goethe provò a coniugare massoneria, spiritualità ed esoterismo
extramassonico usando plurime arti, comprese quelle scientifiche, ma con
grande sofferenza e senza giungere ad una conclusione2
Nel linguaggio massonico non appare la parola “felicità”. Il
Massone non cerca la felicità, si distingue dall’accezione moderna
della morale intesa come aiuto reciproco per soddisfare “felicemente“
i desideri personali e collettivi. Una tale concezione, presente ad
esempio in Stuart Mill e in una certa visuale anche nell’idea di
ortoprassi, non rientra nello schema di perfezionamento spirituale; al
più in quello civile e privato del mondo profano. Una tale concezione
parte dal presupposto che non esiste nella natura umana alcuna struttura
sostanziale e ciò è inaccettabile dal pensiero massonico.
Non si deve però pensare che l’accezione trascendentale del pensiero
massonico voglia dire fondarsi su qualcosa di già esistente, di una
trascendenza che trascende persino l’uomo. L’unica trascendenza
concepibile per un Massone potrebbe essere quella di scoprire nella
sostanzialità umana un senso del sacro che lo connota come ente umano e
come essere vivente teso allo spirituale, al metafisico; tutto il resto è
prodotto storico e culturale dell’agire umano. Il pensiero massonico,
depurato dalle connotazioni che gli sono estranee, come quelle
ideologicamente e teologicamente fondate così come quelle di un
esoterismo estraneo alla tradizione massonica, concepisce la morale come
pura espressione umana ed il senso del sacro come propria
sostanzialità. La morale umana, nell’accezione massonica, non discende
dall’extraumano, essa è elaborazione progressiva della pulsione umana al
superamento dei limiti umani, non in senso materiale, civile, religioso
che sono compito e scopo di istituzioni che appartengono all’ambito del
mondo profano. Da parte sua, il senso del sacro è la trascendenza che
appartiene all’uomo e in senso massonico è la sostanzialità che lo
innalza oltre il suo essere produttivo, oltre la sua materialità, oltre i
suoi comportamenti pur moralmente ed eticamente guidati.
Nella Massoneria non si può cercare ciò che Heidegger chiamava
ontoteologia, la ricerca sull’origine e la fondatezza dell’idealità
umana in una sfera extraumana e sulla certezza del possesso di un ideale
giusto e vero. Ciò è rintracciabile solo nel pensiero teologico e a
questo ci si deve rivolgere se quella è la ricerca. Ma, se qualcuno
volesse ridurre il pensiero e la prassi massonica a relativismo, farebbe
un’operazione di mistificazione inaccettabile.
In una società iniziatica, spiritualmente connotata, il relativismo è
cosa estranea. Né può essere considerata come relativistica
l’affermazione che la Massoneria è ricerca di una
Verità, di una Morale, di un Senso del Sacro che fanno parte della
sostanzialità dell’Uomo. Questi concetti hanno valore di assolutezza
dentro la sfera dell’umano. Sono essi che si connotano come veicoli al
superamento della condizione materiale per accedere a quella spirituale.
Se la Massoneria è concepibile come progetto di elevazione dal
materiale allo spirituale, in ciò non sussiste nulla di relativistico.
Ma non solo, infatti, tale rappresentazione è coerente col pensiero
platonico che richiedeva a un progetto di essere affrontato con volontà
superiore. Se una definizione può essere data alla Massoneria è quella
di “fondamentalista”, nel senso di ricerca dei “fondamenti dell’essere umano e della Natura“,
con un proprio metodo e propri strumenti che non fanno parte
della realtà profana. In certe critiche che vengono dal mondo
religioso si tende a stigmatizzare la Massoneria come relativistica
perché essa non riconosce alcuna cosa come definitiva, perché l’uomo è
in una condizione di continuo sviluppo spirituale Ciò, se non è
travisamento voluto, è mancato approfondimento del pensiero massonico.
La Massoneria fonda la propria tradizione sul riconoscimento di un
Ente Supremo, però senza dare definizione di questo Ente e senza farne
discendere altro che il suo riconoscimento, perché ogni Massone è libero
di dare la sua definizione nel rispetto di tutte le fedi. È prassi
tradizionale della Massoneria nel suo insieme il rendersi estranea agli
ambiti religiosi e politici e dunque a non chiudersi dentro un unico
credo o ideologia. La vocazione della Massoneria è quella di essere
universalistica e ancor prima cosmopolitica e di trovare nell’Uomo, a
prescindere dalla sua razza, credo religioso, condizione sociale e
idealità politica le condizioni sostanziali per elevarsi spiritualmente.
Ciò implica non di affermare che per un Massone ogni via da percorrere
sia giusta, bensì di lasciare aperte le porte ad una ricerca la più
ampia possibile e che la sua elevazione spirituale nasce dall’uomo e non
da un qualcosa a lui estraneo. La Massoneria si pone dunque rispetto
all’Uomo come definizione di un ambito spirituale, sacrale, insito
nell’essere umano.
Il fatto che la Massoneria consideri che si possa discutere su tutto
non vuol dire che tutto viene desacralizzato, ma al contrario che nel
tutto si può trovare il senso del sacro e a ciò, a questo senso del
sacro, si sposta la ricerca massonica. In realtà, la critica al
relativismo è puntata verso quel pensiero che non sostiene che la Verità
possa essere detenuta da qualcuno perché a quel qualcuno un Ente
superiore ha rivelato la Verità e che solo quella Verità sia giusta,
mentre tutto il resto, tutte le altre ricerche e vie sono
conseguentemente fallaci ed inutili, che alla “vera” spiritualità non si
possa giungere se non con il proprio credo; anche se oggi teologi
spericolati incominciano a chiedersi con finezza di ragionamento se una
tale concezione possa avere diritto d’esistenza nell’ambito di una
religione3 tesa al bene concepito come libertà che a sua volta
necessariamente implica il senso del rispetto verso le altre vie
spirituali e religiose4.
La corrente pragmatista e relativista del pensiero filosofico moderno
ritiene, sulla falsariga di Nietzsche, che l’uomo è animale
intelligente e che la sua intelligenza si esplica nella collaborazione
degli uomini per la migliore realizzazione dei propri desideri. Questo
modo di vedere la realtà non è in sé errato ma è certamente parziale,
perché volutamente ignora sia il senso del sacro che spinge l’uomo a
vivere pure una vita spirituale, sia la sua connotazione non riducibile
al materiale, la sua sostanzialità metafisica; ignora che l’uomo prima
di sviluppare il senso del sacro ha, come base di partenza, sviluppato
il pensiero simbolico.
Nell’ontoteologia questa unitarietà tra materialità e spiritualità,
che si concretizza nell’essere umano, viene spezzata tra una parte
limitata nella sua finitudine e una parte che anela all’infinito. La
Massoneria, invece, riconosce nel senso di sacro e quindi di infinito la
sostanza che giustifica la parte finita, sensibile. A differenza di
Peter Singer, filosofo americano odierno, la Massoneria non aspira ad “ampliare la cerchia del noi”, piuttosto tende a considerare l’uomo solo alla luce della sua appartenenza all’umanità e quindi come
singolo rappresentante di un “noi assoluto”, come dire che nel singolo uomo esiste l’intera umanità.
Il Massone porta avanti un progetto che ipotizza un futuro possibile
per l’umanità fondato sul riconoscimento del valore trascendentale
insito nell’uomo. Pertanto, la Massoneria si appella tanto alla ragione
quanto al senso del sacro, ove l’uno è ragione d’essere dell’altro e
l’insieme dei due è teleologicamente teso al perfezionamento, giacché
la Massoneria non pensa teologicamente, non concepisce la Verità come
qualcosa di superiore all’uomo e quindi ricerca la Verità dentro la
sostanzialità dell’uomo, della Natura. Non viene ricercato, in altri
termini, un qualcosa che è fuori dall’uomo, a lui superiore, che è
compito teologico, ma vuol scrivere il poema dell’universalità dell’uomo
come percorso di perfezionamento materiale e spirituale, lasciando al
mondo profano il perfezionamento materiale e riservandosi quello
spirituale, inteso come spirituale meramente umano.
Sul piano religioso il misticismo è la via dell’accesso al
trascendente, ma, fuori dall’ambito religioso, può anche essere
concepito un misticismo che del trascendente è azione e pensiero
assieme, nel senso che scopre il trascendente presente nell’uomo o più
precisamente nella determinazione dell’uomo come insieme sistemico di
materia e di spirito. Quest’affermazione che può apparire un paradosso,
un gioco semantico, invece è il percorso non lineare che compie il
Massone. Qualità materiale e qualità trascendentale sono i due distinti
livelli che compongono l’unitarietà dell’essere umano ed il misticismo è
la via che consente di far comunicare i due livelli e farli interagire
sinergicamente, dando luogo ad un superiore essere umano, né solo
materiale né solo spirituale, ma altro da sé.
Richard Rorty, altro filosofo americano pur di pensiero pragmatico e
relativista, pone il misticismo come una superiore forma di linguaggio
che porterebbe al progresso materiale e morale. In una logica massonica è
preferibile parlare di perfezionamento piuttosto che di progresso,
infatti, il perfezionamento è uno scopo mentre il progresso è un
effetto. È però corretto definire il misticismo come linguaggio speciale
che fa comunicare l’uomo sia con la sua parte sensibile sia con la sua
parte spirituale, attuando con questa comunicazione il percorso di
perfezionamento. La via massonica al perfezionamento, in ultima analisi
alla Verità, è raffigurabile come una vite senza fine, che gira senza
mai serrare, che ha la funzione di avvio di un meccanismo che conduce ad
altri risultati che non sono il serrare. La Massoneria può benissimo
concepire una propria forma peculiare di misticismo, estranea alla
religione, proprio partendo da ciò che Rorty definisce come misticismo,
ma superando la sua limitazione al progresso materiale e morale, con il
concetto di perfezionamento spirituale. Come già accennato, Goethe tentò
la ricomposizione dei due livelli della sostanzialità umana; egli aveva
una visione essenzialmente mistica della Massoneria, ma non sviluppò
una mistica massonica e fallì perché volle applicare due strumenti
esoterici, come l’ermetismo e l’alchimia, estranei alla via massonica:
egli, in ultima analisi, fu esoterista perché ermetico e alchimista e
non perché Massone.
LE ORIGINI DELLA LOGGIA MASSONICA ED
I COSTRUTTORI MEDIEVALI DI CATTEDRALI.
Durante il Medio Evo l’umanità fu capace di realizzare le
più grandi opere della storia: in tutta Europa furono movimentati, in poco meno
di tre secoli, milioni di tonnellate di pietra per la costruzione di circa 130
edifici fra cattedrali e grandi chiese. Tali opere impegnarono una quantità di
risorse da far impallidire l’antico Egitto con le sue piramidi.
Per una tale mole di lavoro furono necessari migliaia di
uomini che, operando all’unisono, compirono il miracolo nel nome ed alla gloria
di Dio e della Vergine Maria.
Le opere che si andavano realizzando richiesero certamente
enormi risorse, ma questo non era sufficiente a garantirne il successo: la
sfida da affrontare richiese qualità umane non così comuni.
Organizzazione, comunicazione e competenze necessarie,
richiesero un modello senza precedenti; fu tale spinta a generare la formazione
delle antenate delle moderne Logge Massoniche: praticamente, in tutte le opere
di un certo rilievo, esisteva una loggia a lato della cattedrale; gli operai
ammessi non vi abitavano, ma la utilizzavano per cibarsi o per riposarsi
durante la giornata di lavoro; in più veniva utilizzata per custodire la cassa
con gli utili.
Esisteva poi una differenza di rango fra gli operai, basata
sulle rispettive specializzazioni. Ad esempio, nell’Inghilterra del XIV secolo,
coloro che lavoravano la pietra (ovvero gli “hewers”) percepivano un salario
maggiore rispetto ai posatori (chiamati “layers”); un secolo prima (1212)
alcuni documenti londinesi distinguevano tra categorie di operai “cementarii”,
“scultores lapidum liberorum” e gli altri operai generici.
Come si vede non era ancora apparsa la definizione di
“freestone-mason” poi abbreviato con free-mason, che ritroviamo documentata
solamente dalla metà del ‘300.
Con Maestro artigiano (o massone) della pietra “libera”, si
intendeva coloro che lavoravano le pietre più malleabili, facili a lavorare
(ovvero i cosiddetti “artisti” che avevano il compito di produrre i vari
ornamenti quali statue, capitelli, etc.), rispetto a coloro che dovevano
sgrossare la pietra, più dura e difficile, di cava e infine coloro che avevano
il solo compito di posarla e che quindi si trovavano al livello più basso.
Fra i primi statuti di Loggia medievali, troviamo un
estratto tramandatoci dal canonico Ph. A. Grandidier [su_tooltip
style=”bootstrap” position=”north” content=”Che si occupò con successo della
storia della Cattedrale di Strasburgo, tramandandoci l’opera “Ensayo històrico
y topografico de la Iglesia Catedral de Estrasburgo”, Lerrault, 1782, Strasburgo.”][1][/su_tooltip]
. Riassumendo, si trovano interessantissimi spunti: scrive che, davanti alla
Cattedrale, esisteva un edificio contiguo chiamato Maurer-Hoff, dove si
riunivano gli operai del cantiere; tale antica confraternita di massoni liberi
aveva avuto origine in Germania ed era composta da maestri, compagni e
apprendisti.
Pian piano, nel corso di due-tre secoli, dal tipo di
massoneria, definita operativa, si giunse a quella di carattere speculativo, la
cui data di fondazione ufficiale risale al 1717 [su_tooltip style=”bootstrap”
position=”north” content=”Benché esistano prove documentali che attestino
l’esistenza di massoni speculativi operanti già dalla prima metà del secolo
precedente: Elias Ashmole riporta nei suoi diari di esser stato iniziato in una
Loggia il 16 ottobre 1646: «Sono stato fatto Massone a Warrington, nel
Lancashire, insieme al Col. Henry Mainwaring, di Karincham, nel
Cheshire.»”][2][/su_tooltip] in Inghilterra, ad opera di quattro logge
londinesi, The Goose and Gridiron, The Crown, The Apple Tree e The Rummer and
Grapes che si costituirono nella Gran Loggia di Londra. Successivamente nel
1723, un gruppo di pensatori e scienziati fra cui spiccavano numerosi membri
della Royal Society, primo fra tutti il pastore anglicano Jean-Théophile
Désaguliers, ne redassero le Costituzioni, mentre il pastore presbiteriano
James Anderson ne fu il firmatario. Così la massoneria divenne il “fulcro
d’unione” tra gli uomini, sulla sola base delle loro qualità morali. In un
momento travagliato della storia inglese, ove regnavano le divisioni religiose
a livello dinastico, politico e sociale, la massoneria si erse a simbolo di
unione e fratellanza umana a dispetto della religione professata e dello status
sociale dei singoli adepti. Queste idee, poste a fondamento delle Costituzioni
del 1723, divennero la base per la diffusione dei valori di uguaglianza,
libertà e fratellanza che funsero da innesco per la rivoluzione francese prima
e quella americana poi.
Che cos’è una Loggia Massonica?
Come abbiamo verificato dai documenti storici pervenutici,
la “loggia” ai tempi dei massoni operativi era il luogo ove facevano base gli
operai medievali, ovvero una costruzione ubicata nei pressi del cantiere che
permetteva alle maestranze impegnate nei lavori di avere una sede per riposare,
riporre i propri oggetti, fare riunioni e decidere il da farsi…
La Loggia Massonica moderna, ossia quella speculativa, non è
un luogo identificato nello spazio o nel tempo, ma è, più precisamente, uno
stato mentale; quando i massoni si riuniscono in Loggia significa che
attraverso opportune e precise movenze dettate da antichi rituali si
trasportano su un diverso piano spirituale, utile a dimenticare, ossia mettere
da parte, tutto il bagaglio (o fardello) che ciascuno di noi si porta appresso,
durante il vivere quotidiano.
Generalmente i massoni si ritrovano per giungere a questo
stato in uno spazio con delle determinate caratteristiche, chiamato appunto
“tempio” che, comunque, non è strettamente necessario ad “aprire” i lavori di
una Loggia.
Da questa premessa è facile comprendere come la Loggia non
sia un luogo fisico, ma sia, più propriamente, un’entità completamente avulsa
dalla materialità terrena; più facilmente potremmo definirla come la dimensione
dello “spirito”.
Infatti ciò che rende “rispettabile” una loggia è la
capacità dei propri componenti di elevarsi ad un livello superiore; debbono
cioè riuscire ad abbandonare i “metalli” fuori dal tempio; dove,
simbolicamente, con il termine “metalli” si tende ad indicare l’insieme dei vizi,
pregiudizi, stato socio-economico e così via di ciascun individuo…
Da questa prerogativa, è chiara l’intenzione di eliminare
non solamente le differenze di casta, ma anche quelle politiche e religiose,
fonti inesauribili di guai e contrasti fra gli uomini.
Coloro che intendono “lavorare” in Loggia debbono quindi
tentare di operare “liberamente ed onestamente” con i propri fratelli, partendo
ogni volta da zero; senza preconcetto alcuno si stimola il ragionamento
favorendo la possibilità di seguire la propria “intuizione”, parte fondante del
lavoro di Loggia.
Queste caratteristiche, indispensabili al Libero Pensiero,
permettono a questo variegato consesso di elevarsi ad ideale via di
integrazione fra gli uomini: basti pensare che esistono Logge in cui ebrei,
musulmani e cristiani si chiamano, e soprattutto si comportano da Fratelli.
A tal proposito, è sufficiente ricordare il primo degli
“Antichi Doveri” tramandatici da Anderson nel 1717:
“I. Concernente Dio e la religione.
Un muratore è tenuto per la sua condizione a obbedire alla
legge morale; e se intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un
libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero
obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale
essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a
quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le
loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di
onore ed onestà, quali che siano le denominazioni o le persuasioni che li
possono distinguere; per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il
mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste
perpetuamente distanti.”
Per comprendere la portata di un tale precetto, basti
richiamare alla memoria il particolare momento vissuto dall’Inghilterra – ma
anche dal resto d’Europa – agli inizi del XVIII sec. quando lo scontro
religioso aveva raggiunto il suo apice: anglicani, luterani e cattolici erano
profondamente divisi e la convivenza si era fatta difficile; fu allora che
queste menti illuminate vollero cambiare il corso della storia, cercando di
elevarsi al di sopra delle differenze e concentrandosi piuttosto sui punti di
interesse comuni a tutti gli uomini. Da questa volontà nacquero affermazioni
come quella notissima espressa da Evelyn Beatrice Hall che riassume così il
pensiero di Voltaire: “Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte
il vostro diritto di dirlo.”
E un giorno di inizio primavera, sono in campagna. Di
fronte a me l’orizzonte è grandioso, e posso ammirare le onde di verdi colline
e più in là la maestosa catena di montagne, molto innevate, sublimi, uno
stimolo per la mia immaginazione. Il cielo è intensamente azzurro, non
offuscato dallo smog.
Di fronte ad un simile spettacolo viene spontaneo
riflettere sulla bellezza, sul senso estetico. Riflessione sollecitata, acuita
dalle macchie di colore rosso, rosa, giallo, dei primi tulipani, eleganti sul
loro stelo verde pallido, dalle modeste commoventi pratoline bianche, da questo
verde ancora intatto e fresco di inizio primavera.
Le città in cui oggi viviamo sono ormai invivibili: contaminate dallo smog,
dall’intenso traffico, dall’incuria della gente che molto spesso non le ama
abbastanza, soltanto le usa, che non sa e non vuole vedere. Città che sono pur
scrigni di bellezza, ma nelle quali questa bellezza è tenuta nascosta, è
ignorata. Come accade in certe abitazioni nelle quali splendidi mobili e
ornamenti sono nascosti da inutili e banali suppellettili, che le
involgariscono, le imbruttiscono.
Il senso estetico è molto spesso un innato dono di natura,
e il fortunato mortale che lo possiede può godere di gioie infinite. Un chimico
sa come manipolare e trasformare i prodotti, l’economista elabora grafici e dal
loro zig-zag prevede crisi monetarie o lo sviluppo della ricchezza di un paese.
Professioni indubbiamente utili, come lo sono tutte le professioni che aiutano
il progresso. Ma la ricerca della bellezza non è ricerca di guadagno, è un dono
del tutto gratuito, infinitamente prezioso per chi la sa trovare, la vuole
trovare. La gioia che ci può dare la vista di un fascio di rose elegantemente
sistemate in un vaso, un raggio di sole attraverso i vetri della finestra,
l’azzurro intenso del cielo, il volo di un uccello, un bosco verde cupo, tutto
lo spettacolo grandioso, variopinto, Intenso della natura.
Il senso estetico. In alcuni è istintivo, in altri più
nascosto, assopito e che pur può essere improvvisamente risvegliato in una
felice pausa nella corsa sfrenata della vita.
E un
dono dell’anima. Non si sofferma sulla composizione chimica degli oggetti, ma
vede la forma, il colore, la luce. Non indaga sulle leggi della creazione ma
indugia sulle gioie della creazione. E una ricerca artistica e intuitiva, che
non richiede il sapere, ma il saper vedere. Un geologo, uno scienziato che
studia la composizione delle piante e delle rocce non è sempre in grado di
rendere artisticamente; poeticamente le forme, i colori come invece hanno
saputo superlativamente fare Leonardo, Tintoretto, Turner con qualche colpo di
pennello. Penso che le sensazioni così dette inutili siano le più potenti, le
più squisite.
I nostri sensi• — il tatto, l’olfatto, il gusto, la vista,
l’udito — sono serVitori della nostra vita e strumenti per preservarla. Hanno
una funzione fisiologica e ci guidano alla ricerca di quanto ci è necessario.
Ma questi strumenti ci regalano anche sensazioni profonde e raffinate che spesso,
inconsciamente, ci accompagnano per tutta la vita e rimangono parte del nostro
essere, della nostra sensibilità.
Con il ragionamento filosofi, psicologi possono spiegare
molte cose, l’universo, la sua evoluzione. Ma definiscono apparenze il fremito delle
foglie, i limpidi ruscelli scroscianti, la fiamma dello sguardo, il palpito
delle palpebre. Apparenze a cui tuttavia noi dobbiamo molte nostre sensazioni.
E anche molte nostre decisioni e debolezze. L’apparenza della gloria,
l’apparenza dell’amore.
Il filo dei miei pensieri potrebbe continuare a lungo. Il
contrasto fra corpo e anima, fra concretezza ed intuizione, fra logica, ricerca
e sentimento. Il nostro complicato io che deve cercare e possibilmente trovare
un ampio sbocco di liberazione, come il fiume che sfocia nell’ immenso oceano.
Un oceano dove può trovare poesia, bellezza, sentimento, pace, liberazione,
conciliazione.
Fortunato
chi tutto questo tenta di trovare. Fortunato chi lo trova
La ruota è forse, insieme con la
croce, il simbolo più ricorrente nelle religioni antiche sia occidentali che
orientali.
Diffusissima nelle rappresentazioni celtiche rappresenta
la divinità creatrice (il perno immobile) intorno alla quale tutto gira. È il
dio druidico Dagda al quale Mag è servitore o meglio «servitore della ruota».
Nella piastra di Gundestrug un
uomo gira la ruota cosmica mentre il dio, le braccia levate in alto, è
impassibile fermo nel tempo e nello spazio, perno di un moto che è insieme
avanzamento e ritorno proiettato all’infinito, simbolo quindi dell’eternità.
La ruota di Mag è fatta di legno di tasso, albero della morte (i suoi archi si
piegano nel dare la morte ma indefinitivamente ritornano nella loro posizione
di partenza). Questa ruota è una ruota cosmica.
Quando apparirà sulla terra ne seguirà la fine: chi la
toccherà morrà, chi la vedrà perderà la luce, chi ne udrà il rumore perderà
l’udito. Arianrhod, dea gallese, è la ruota d’argento.
Essa ha due figli, uno si chiama Dylan eil Ton e nuota
rapidissimo nell’acqua, l’altro è Llew ed è un guerriero invincibile.
Riti e danze di queste popolazioni sono tutte improntate
al moto rotatorio e si perpetuano ancor oggi nel folklore inglese, bretone,
normanno e nel nord in genere. Ruote alate, ruote infiammate di Daniele, ruote
dei cherubini di Ezechiele nella religione ebraica.
Le ruote infiammate girano perpetuamente intorno al Bene
immutabile; sono ruote rivelatrici ed elevano l’intelligenza dell’uomo
abbassandosi nel loro movimento fino ai più umili. Esse sono portatrici dell’
illumlnazione divina.
Le ruote alate girano eternamente su un perno senza
declinazione: rappresentano la verità, unica ed assoluta, verità che può
lambire il mondo ma non pervaderlo completamente in quanto imperfetto. La
perfezione è unicamente cosa divina e quindi totalmente ultramondana.
La cintura di Ishtar (casa della luna per gli antichi
babilonesi) è per gli arabi la ruota dello Zodiaco. Zodiaco significa ruota
della vita, Primitivamente con significazione lunare si trasforma nel tempo in
significazione solare.
I limiti dell’orizzonte sono circolari, il firmamento
è emisferico, gli astri si muovono con moto
circolare, la perfezione filosofico-matematica è nel cerchio, sublimazione
divina del quadrato, limite dello spazio umano.
Nell’iconografia indiana la ruota ha spesso dodici
raggi: sono il ciclo lunare ed il ciclo solare espressi nei mesi.
La ruota cinese ha trenta raggi; sono i giorni
approssimati del ciclo lunare.
La ruota dell’esistenza buddista ha sei raggi, cioè
quante sono le classi di esseri o Ioka: è la ruota della Legge volta in un
movimento in unico senso. La ruota del Dharma, con i suoi otto raggi simbolizza
gli otto sentieri della vita.
Il perno della ruota è sempre la Divinità, il Sovrano, l’Uomo univerSale. Il
Chakra è attributo peculiare di Vishnu e non è altro che un disco solare.
Nel mondo occidentale, medioevale la ruota è
attraverso il rosone delle cattedrali il simbolo del centro cosmico e del
centro mistico ricongiunti in una sola figura.
I raggi vanno dal centro alla periferia e da questa
ritornano al centro: unità nella totalità.
RUOTA – ROSONE – ROSA
La fiamma che, sotto il crogiolo dell’Alchimista,
fonde la croce di vile metallo e la trasforma in metallo perfetto ed
incorruttibile è la rosa. E essa mistica rigenerazione nel mondo greco.
Apuleio nel suo «Asino d’oro» fa mangiare, con
l’aiuto di un sacerdote di Iside, a Lucio un serto di rose vermiglie: solo così
egli potrà riacquistare le sue sembianze umane.
Nell’antica Grecia i roseti erano
dedicati ad Afrodite ed in certi casi anche ad Atena, dea dell’ulivo. Sulle
tombe venivano poste le rose: i «rosalia» dei latini che, nel mese di maggio
simbolizzavano in que53
sto modo la rigenerazione della natura. Da ciò
derivava un simbolo di resurrezione e quindi di immortalità.
Centro mistico, perfezione assoluta, anima, cuore ed
amore della coppa della vita: ecco gli aspetti simbolici della rosa indiana.
Nell’iconografia cristiana la rosa è la coppa che
raccoglie il Sangue di Cristo (il Santo Graal) ma anche con i suoi petali
vermigli, la trasfigurazione di questo sangue.
L’erta per giungere al Santo Graal è piena di spine e
di triboli. Persino il peccato si dovrà commettere per potervisi avvicinare.
Peccato e redenzione, terra e cielo.
«Rosa candida», «rosa mistica», «rosa aurea», ecco
tre simboli cristiano-medioevali con significati che spaziano dalla purezza
assoluta alla potenza spirituale.
La Riforma protestante si fregia di una rosa apposta
sulla croce. Analogo emblema è dei Rosa-Croce. In questi due casi la rosa non è
che il Cuore del Cristo.
Rosa è purezza, amore, sofferto amore, sublimato
attraverso la sofferenza che ne arrecano le spine. Giardino dell’anima,
giardino del cuore, tramite di elevazione: Rosa dei Cavalieri, Giardino
dell’Amore, Romanzo della Rosa…
Perfezione umana mai perfetta, perfezione divina
sempre perfetta. L’eterno slancio dell’Uomo, che cosciente della sua razione
rna anche impotente nei suoi limiti cerca nel Trascendente di raggiungere
quella perfezione che intuisce ma che non sarà mai sua. La rosa e la ruota:
identificazione ma non totale.
“L’Architettura compenetra tutta l’esistenza, e l’esistenza stessa diventa architettura”(B. Taut)
Il rischio della tautologia nell’analisi sincronica di un processo diacronico
Uno degli errori commessi spesso da molti Liberi Muratori,
presi dall’entusiasmo della “caccia” ai vari simboli liberomuratori,
è quello di voler cercare, e voler trovare, gli stessi ovunque ed ad ogni
costo, e ciò avviene soprattutto sui documenti più ricchi di tali tracce,
ovvero (chiaramente) gli edifici e le loro varie componenti. Mi spiego: per un
Libero Muratore che se ne vada in giro per il mondo con g li occhi nuovi
dell’iniziato, è assai piacevole, e in fin dei conti motivo di un malcelato
orgoglio misto a un’impressione di immediata familiarità, scoprire una squadra
o un compasso, un segno, un simbolo o una scritta legata alla Tradizione
Muratoria, proprio su una facciata di una cattedrale o di un palazzo, su un
cornicione, una lapide, un dipinto o un bassorilievo. Ma questo non deve
indurci all’errore di significare quello che vediamo riempiendolo di ciò che
assai probabilmente non ha mai contenuto; cioè non possiamo riversare su quei
simboli e segni tutta la storia e la valenza che hanno assunti in tempi moderni
e in particolare dopo il ‘700 inglese e l’illuminismo.
Quando noi vediamo una squadra e un compasso, la mente
ci porta a tutta una serie di idee, di immagini e di concetti che sono propri
della Massoneria come oggi la intendiamo, che ovviamente non è la stessa di
quella antica, “operativa”. Questo però non deve portarci su una
strada sbagliata: la Massoneria moderna, quella nata alla fine del ‘600 in
Inghilterra, benché legata da un cordone ombelicale mai rescisso con la
muratoria antica, è comunque un qualcosa di diverso, e che per altro si è
mutata continuamente nel corso dei decenni.
Va da sé quindi che non solo i simboli muratori che
troviamo negli antichi edifici sono spesso stati messi fi dagli autori con un senso
non esattamente massonico modernamente inteso, ma al contempo è assai poco
stupefacente, o degno di chissà quale panegirico mentale, il fatto stesso di
trovarceli.
ln sintesi, la scoperta di tali segni, forme, archetipi
nelle architetture del passato ci espone ovviamente al rischio della
tautologia: cioè cercare queste tracce nelle opere architettoniche è operazione
chiaramente tautologica, perché non si può che trovare il proprio patrimonio
genetico, se lo si va cercare nei propri avi. Tale rischio è assai tipico di
un’analisi sincronica (cioè vedere oggi un simbolo e interpretarlo, collegarlo
ai suoi attuali
significati) dj un processo diacronico (la formazione del
fenomeno Massoneria dalle origini a oggi).
A ben vedere, è sostanziale tracciare una linea di
separazione tra due possibilità in questo tipo di ricerca: ovvero da una parte
scoprire le tracce della Tradizione Muratoria nei monumenti del passato, con la
coscienza che ne troveremo quasi certamente, ma che altrettanto certamente non
potremo dar loro un significato modernamente massonico, ma limitarci a
inquadrare il loro senso (certamente spesso in iziatico) ed eventuale sviluppo
all’interno della storia della nostra istituzione; dall’altra limitare il campo
all’influsso che la Massoneria moderna ha operato in campo architettonico,
ritrovando le tracce, i simboli, le forme, gli archetipi, questa volta sì, in
stretto legame con i valori e gli ideali della Libera Muratoria universale
(ovvero la muratoria moderna).
A rèbour: quando la Massoneria
finisce per influenzare ciò che le ha dato origine
Negli edifici antichi troviamo molto del bagaglio tipico
dell’Arte Edificatoria, tutto quel substrato di saperi tecnico-iniziatici
ustoditi e trasmessi dalle corporazioni muratorie e dagli
architetti. Però se vogliamo invece cercare le tracce e
i risultati dell’influenza massonica moderna sugli edifici e le città, dobbiamo
giocoforza limitarci a prendere in considerazione le opere di quegli autori che
hanno fatto parte di logge moderne (cioè dal ‘700 in poi) e sono stati
fortemente influenzati culturalmente dal pensiero e dal metodo massonico, o che
lo siano stati, se non per appartenenza, in virtù di una vicinanza di pensiero
(e talvolta di un legame di amicizia) a tali ideali e valori, Da questo fecondo
cross-over culturale è capitato che la Massoneria finisse per influenzare ciò
che le aveva dato origine, cioè l’architettura.
Partiamo dalle Costituzioni di Anderson del 1723: in
esse l’architettura riveste già un ruolo fondante nella mistica del mito massonico;
essa è Opera del Grande Architetto, e questa discendenza divina si trasfigura
nell’uomo quale “costruzione del Tempio dell’Umanità”. Le
Costituzioni sono evidentemente influenzate dal processo cultu rale che dalla
trattatistica vitruviana prosegue la sua infiltrazione palladiana in
Inghilterra e si conclama con Inigo Jones; esse delineano chiaramente il
culmine della tradizione architettonica nell’epoca classica augustea- Ma questo
non è che il primo gradino, perché in questa proiezione idealistica dei modelli
antichi, della “tradizione” dell’Arte, pian piano si avvicenderanno,
o meglio conviveranno tutti gli stili, anche in una aperta dichiarazione di
tolleranza e libertà universali; Io stile dei “Revival”(dal greco,
all’egizio, al gotico, ecc.), dell’Eclettismo che durerà per tutto l’Ottocento,
sarà espressione concreta, materiale ma anche e soprattutto ideale dei mondo
Iatomistico.
È def tutto evidente la capacità evocativa di questo
genere di architettura: ci riporta alle virtù civili della democrazia greca,
allo splendore della civiltà romana, alle acropoli, ai fori imperiali, verso un
tempio laico dell’Umanità; Neoclassicismo quale stile
prediletto, “Architettura di Stato” dell’Illuminismo. Molte sedi
massoniche sono così costruite negli anni, dal ‘700 e fino al ‘900, seguendo
questa mistica evocativa (la sede attuale della Gran Loggia Unita di
Inghilterra, quella del Rito Scozzese a Washington, il George Washington
Masonic Memorial ad Alexandria).
ln Francia, nel secolo dei Lumi, conosciamo con esattezza i
nomi di numerosi architetti settecenteschi che appartennero alla Massoneria,
come Vie’, Dumont, Chalgrin, Rondelet, ma non abbiamo totale certezza invece
per i tre più famosi, ovvero Boullée, Lequeu e Ledoux; tuttavia al di là della
controversia ancora da dirimere, i loro ideali e le loro opere sono così in
sintonia con le istanze illuministico•massoniche che se non sono stati
affiliati, di certo avevano qualcosa di più di una semplice vicinanza di
pensiero.
Lo spazio architettonico viene così concepito nella sua
rappresentazione simbolica tipica dell’ideologia della socialità borghese ed
aristocratica; un riunirsi civile che mette insieme le menti e le professioni è
tipico del pensiero dei philosophes della seconda metà del ‘700. La loggia massonica
è lo spazio più indicato per queste finalità, è uno spazio consacrato a creare
una comunità felice, verso la realizzazione, all’esterno, del “bene e del
progresso dell’Umanità”.
Ricordiamo soprattutto Claude•NicoIas Ledoux (sebbene il
suo nome non sia mai stato trovato tra i documenti superstiti del Grande
Oriente di Francia, l’appartenenza a società iniziatiche ci è testimoniata dal
racconto di un amico inglese): per lui l’architettura è luce, contrapposta
indissolubilmente alle tenebre in un equilibrio dinamico di concezione cosmica.
Ma gli esempi di architettura di ispirazione massonica non
mancano nemmeno in Italia: ci piace ricordare in particolare
anche il senese Agostino Fantastici, in cui l’influsso
massonico è ben evidente già dal linguaggio usato, eclettico certamente
neoclassico. ln sintesi: con l’Illuminismo, il Tempio delle Virtù massonica si
affianca sempre di più al mito della Cattedrale, essi sono la rappresentazione
della “Loggia ideale”.
E così via, i
simboli muratori si intridono di significati densi e si manifestano nei
monumenti per acclarare le nuove ideologie di progresso dell’umanità.
Città invisibili e Città visibili:
l’urbanistica massonica
Interessante è l’influenza massonica in campo urbanistico e
nella fondazione e disegno delle città; questo legame lo si legge attraverso
l’interpretazione, ormai consolidata, dell’architettura utopica
dell’illuminismo come architettura del Progresso, della nuova Socialità. Così
si riflette anche in temi urbanistici, con una visione autocratica, se non
“aristocratica”, dove convivono talvolta istanze socialiste ed un
autoritarismo quasi ancien régime, una ricerca di un Ordine Superiore che
esprima una società ordinata tanto nel suo disegno di città quanto
nell’organizzazione della componente umana.
Gli stessi Boullée, Lequeu e Ledoux sono tra i massimi
esponenti di questa architettura visionaria, con veri e propri contributi alla
città utopica; di Ledoux sono da ricordare le rappresentazioni e gli studi
sulla Città Ideale delle Saline di Chaux. II tratto di Ledoux è tipicamente e
assai chiaramente iniziatico: l’autore si pone quale emulo del Grande
Architetto dell’Universo, conducendo a Ordine (insieme architettonico e
sociale) il Caos; Ordo ab Chao. l
Dalla parte del socialismo utopico, troviamo invece Charles
Fourier, con le sue visioni del Falansterio e di Cosmopoli: visioni
cosmologiche e cosmogoniche che rimandano a idee filosofiche da
“iniziati”, dove si cerca di raggiungere, attraverso la geometria
dello spazio e l’ordine sociale, l’armonia suprema. Fourier, per quanto non si
abbia prova certa della sua appartenenza, ha quantomeno un legame importante
con la Massoneria; egli scrive: «Al nostro secolo, si propone una questione
completamente nuova: esso non ha riconosciuto le preziose forze che la
Massoneria gli offre. La Massoneria è come un diamante non levigato che noi
disprezziamo perché non ne riconosciamo il valore…» È invece nota
l’appartenenza di altre figure del Socialismo Utopico, come Saint-Simon, Godin,
Proudhon, Considérant, ed evidente è la coincidenza di certe tematiche
massoniche con alcuni degli ideali di questa corrente di pensiero, come l’Amore
Fraterno, l’Ordine dal Caos, l’Armonia Universale. Ma le tracce degli ideali
massonici le ritroviamo anche nel disegno di città realizzate: una su tutte,
Washington. Sin dal suo concepimento essa fu al centro di una querelle non
indifferente, che coinvolse vari attori, tra i quali l’omonimo Presidente, il
Segretario di Stato Jefferson, e ovviamente l’urbanista che ne redasse il
piano, L’Enfant: poiché
.
si stava progettando una città ex novo, si
voleva che fosse al contempo simbolo degli Stati Uniti e simbolo della Nuova
Civiltà, una sorta di esempio programmatico dell’era moderna, repubblicana, illuministica e massonica; non
scordiamoci infatti quanti fratelli contribuirono e influenzarono la
Costituzione Americana* e la nuova capitale doveva esserne l’incarnato, la sua
rappresentazione materica.
La nuova
capitale, non potendo cadere in nessuno degli Stati, fu collocata in un
Distretto speciale (District of Columbia) di dieci miglia per lato: il 1 5
aprile del 1791 fu posta la prima pietra di confine, e la cerimonia fu eseguita
con un complesso rituale con tanto di sfilata massonica, al termine del quale
la posa fu eseguita dal Venerabile della Loggia. E ne furono posate molte
altre, ben quaranta, a formare un enorme quadrato (o rombo) simbolico, it cui
significato esoterico è evidente nella loro funzione di pietre miliari, di
landmarks appunto: capisaldi di un’invisibile recinto sacro, il Distretto, Tempio
del Governo Federale; ma anche principi inamovibili che garantiscono l’essenza
stessa dell’Istituzione, della Nazione tanto quanto dell’Ordine Iniziatico.
Avanguardia
e Tradizione
La sottile linea dell’esoterismo tuttavia attraversa la
storia dell’architettura ancora una volta, e in tempi più recenti: dalla fine
dell’Ottocento e nel primo Novecento, latente e quiescente nelle istanze
avanguardiste del Movimento Moderno.
Singolare come, nonostante il movimento delle avanguardie
sia, dal punto di vista stilistico, volutamente di rottura con la Tradizione,
esso invece contenga in nuce una forte valenza esoterica che ci riconduce
ancora una volta a una visione esoterica dell’Arte e al concepimento della
costruzione della Cattedrale dell’Umanità.
Già a partire dall’Art Nouveau, gli influssi esoterici in
architettura sono ben evidenti, e non è un mistero l’appartenenza alla
Massoneria di un personaggio di spicco come Victor Horta. Altro teorico cui si
devono influenze su molti architetti avanguardisti è l’architetto teosofo
J.L.M. Lauweriks, che fu chiamato da Peter Beherens (che nel 1922 progettò la
sede massonica di Monaco di Baviera) a insegnare alla scuola di Darmstadt, la
famosa Colonia Artistica d’avanguardia dove si svolgevano complessi
rituali di influsso esoterico-iniziatico e ispirati da una
concezione di corporazione artistica, quasi medioevale. E proprio dalle logge
dei costruttori medioevali prendevano spunto le nuove associazioni artistiche
previste dal Novembergruppe, che infatti si chiamavano Bauhütte, che vuol dire
appunto “loggia”. E poi come non ricordare Rudolf Steiner, il quale a
sua volta fu autore in campo architettonico del famoso Goetheanum, il cui nome
è un omaggio al grande scrittore romantico (e massone) Goethe.
Un’ondata di misticismo accomuna tutte le istanze
espressionistiche, nella speranza di un rinnovamento sociale e spirituale;
l’architettura, attività edificatrice per eccellenza, diventa meta suprema:
l’edificazione della Cattedrale di Cristallo corrisponde, come in Massoneria,
all’autoedificazione per il bene dell’umanità.
In verità l’Espressionismo non inventa nulla:
l’esoterismo, ben lungi dall’essere inventato o re-inventato allora, è presente
senza soluzione di continuità nella cultura tedesca, e non solo tedesca.
Tutto si coagula nella “Tradizione” grazie ai
gangli con la Massoneria, i’ Rosacrocianesimo, la Teosofia, l’Antroposofia, che
convergono su posizioni simili verso il finire dell’Ottocento: lauweriks,
Steiner, Beherns, la Colonia di Darmstadt.
L’Espressionismo non è un revival, però recupera le
istanze storiche a livello di ispirazione: modelli di comportamento che diano
un senso alla figura dell’architetto. Sarà questo il tema, nell’architettura
moderna, che esprimerà il filone sotterraneo della “Tradizione”,
quello della Cattedrale dell’Umanità, ovvero il Tempio del Bene e del Progresso
dell’Uomo.
Tentiamo una definizione: Architettura Idealizzante ed
Ideologica
Crediamo che, dovendosi prevedere una sorta di
conclusione, o forse meglio un tentativo di estrapolare un fil rouge comune a
tutti gli exempla architettonici appena visti, un’affermazione possa essere
riassuntiva anche se non certo esaustiva: l’architettura, che di sua stessa
natura è legata indiscutibilmente alle origini della Massoneria, ha nei tempi
moderni subito, in alcuni autori e in talune correnti artistiche, un feedback
significativo dalle istanze massoniche o filo-massoniche o che comunque sono
state ispirate dalla Libera Muratoria. E tale influenza, come è d’uopo nella
storia della Massoneria, trae
fondamento da entrambe le correnti che da sempre la sostanziano e la
sostengono, ovvero quella
illuministico•progressista (che è eterno modello della
corrente della Aufklàrung) e quella tradizionale-esoterica (che nelle sue
frange più estreme ha dato vita alla corrente della Schwârmerei), e che qui,
nel campo antico (direi “primitivo” nel senso etimologico del
termine) dell’Architettura finalmente si uniscono in un coro unanime. Quello,
cioè, di un’Architettura che non esiteremmo a definire idealizzante ed
ideologica: ovvero essa è, e rimane talvolta sulla carta nelle sue Utopie, un
modello ideale di creazione, di edificazione, di trasformazione dal Caos all
‘Ordine, simbolo e simulacro defl’autoedificazione dell’Uomo, dei Valori e
delle Virtù umane e civili, che esso ha riconosciuto e a cui si sforza di
elevare Templi; che questi “parlino” per lui (ed a lui), in eterno. È
quindi la testimonianza fatta di materia, ovvero “concreta”, del
profondo spiritualismo ed idealismo che risulta parte essenziale dell’Uomo e
della sua Storia.
Un trait
d’union iniziatico: il Compagnonaggio
II Compagnonaggio al giorno d’oggi pare essere probabilmente
l’unica realtà lavorativa dove l’avviamento al mestiere è una vera e propria
Iniziazione, cioè riveste anche un’importanza spirituale. Naturalmente ai
grandi studiosi di storia massonica la cosa non è certo sfuggita; tra questi
René Guénon, il quale nelle sue opere ha sempre sostenuto la cosiddetta
“teoria del tronco comune”, ovvero che entrambe le realtà derivino da
un unico antenato. ln effetti le somiglianze e le vicinanze sono tantissime:
basti ricordare che anche i Compagnoni hanno una tradizione legata al Tempio di
Gerusalemme, a Salomone e a Hiram, su cui poi si innesta la figura di Maître
Jacques, collega di Hiram ed anch’egli partecipe ai lavori del Tempio, che dopo
lungo viaggiare per- il mondo si ritira in Provenza, dove finisce ucciso da
cinque discepoli compagnoni traditori?
–
Nondimeno, abbiamo rappresentazioni e allegorie molto
esplicite, nei brevetti o nel Rô/e (sorta di piedilista) di società
compagnoniche operanti in alcune città francesi, in cui fanno bella mostra di
sé emblemi e simboli propriamente massonici. Ma, come giustamente fa notare
Mathonière3, molte di queste forme simboliche ed espressive
strettamente massoniche, così come le prime tracce della leggenda
dell’uccisione di Maître Jacques da parte dei cattivi compagnoni, paiono
comparire in documenti pervenutici risalenti a non prima del Sette-0ttocento.
Questo, insieme alla notoria “doppia appartenenza”
di molti compagnoni francesi in quei due secoli, spinge Mathonière e altri
studiosi a mettere fortemente in dubbio l’affermazione categorica di Guénon,
propendendo per una non necessaria identità dei due rami (massonico e compagnonico)
nel passato, e spiegando le clamorose somiglianze simbolico-allegoriche con
un’operazione di influenza massonica massiccia, diremmo quasi una
“massonizzazione”, dovuta alla diffusione enorme che le logge e gli
ideali muratori ebbero in quel periodo, anche tra le classi artigiane. Secondo
tale ipotesi non si può parlare di un “tronco comune” tra le due
istituzioni iniziatiche, ma eventualmente di «…substrati culturali in tutto o
in parte comuni e/o simili» 4 Onestamente, ci pare che tale
contro-ipotesi sia quasi un tentativo di voler dare un risalto maggiore al
compagnonaggio, cercando di sollevarlo dall’appiattimento in cui in effetti la
presunta identità protostorica con l’ordine massonico sembra averlo gettato,
schiacciato da un’ingombrante coinquilino che calamita forse troppo le
attenzioni, quale è la Massoneria.
Una cosa però è certa, la scarsità delle fonti e fa disparità
di approfondimento che esiste tra Libera Muratoria e compagnonaggio non
permettono al momento di tirare alcuna conclusione e lasciano giustamente
interrogativi irrisolti.
A nostro avviso, questa distinzione finisce per divenire, a
secoli di distanza dai fatti storici, una questione de lana caprina: quello che
a noi interessa fondamentalmente è proprio quel substrato culturale, legato
all’Arte della Costruzione, quel senso del Sacro che da tempo immemore ha
sempre contraddistinto l’Architetto ICostruttore, figura iniziatica già per sua
stessa natura: mestiere che era probabilmente particolarmente ricettivo nei
confronti della Tradizione Occidentale, come poi delle istanze Illuministiche.
In questo senso, il Compagnonaggio, col suo inscindibile legame, ancor oggi,
con la parte “operativa”, rappresenta una prova “vivente”
di come il salto verso la Massoneria moderna non sia spiccato casualmente da un
universo, quale quello architettonico-muratorio, denso da sempre di spunti
filosofici
Una conferma
dell’esistenza del GADU: la Sezione Aurea
La Geometria, una delle Sette Arti Liberali, nonché materia
attinente la sfera del Sacro e della Creazione divina, è sempre stata un punto
imprescindibile della figura dell’Architetto /Costruttore e del substrato
culturale protomassonico. Non poteva quindi mancare un accenno al numero che forse
più sembra svelare, nelle sue varie ed incredibili manifestazioni, la presenza
del GADU dietro alla bellezza del Creato, una sorta di matrice divina che si
nasconde come ossatura geometrica sotto fa materia.ll Numero Aureo (in
matematica Q) dalla sua scoperta ha rappresentato un punto cruciale nella
storia non solo della matematica, ma anche del pensiero dell’uomo; non sappiamo
con esattezza se fosse conosciuto anche in civiltà precedenti, ma certamente è
giunto a noi tramite la defi nizione della “proporzione estrema e
media” di Euclide.
La definizione euclidea ci dice che un segmento AB è
diviso in due parti AC e CB, secondo la proporzione estrema e media, quando
AB:AC=AC:CB; cioè risulta diviso secondo quello che è stato definito Rapporto
Aureo, o Sezione Aurea. Tale rapporto è espresso con il numero (P = 1
,61803398…, con infinite cifre decimali prive di sequenze ripetitive. Quindi
Q è un numero ‘irrazionale’! anzi come
qualcuno ha detto, il più irrazionale dei numeri irrazionali.
Quando il concetto dei numeri irrazionali fu sviluppato,
nella Grecia classica, anche in termini filosofici pose un serio problema
epistemologico al pensiero umano tutto: il mondo, la realtà, non era così più
nettamente finita e misurabile.
Si narra, secondo fonti storiche incerte, che il concetto di incommensurabilità
creò enormi angosce in particolare ai Pitagorici, che considerarono questa cosa
la manifestazione di una imperfezione cosmica, una imprecisione di origine
divina. Invero, come vedremo più avanti, il Numero Aureo potrebbe invece
racchiudere, forse, la chiave per la lettura defla perfezione e della
meraviglia che il Creatore ha nascosto nelle pieghe più profonde del creato.
Gli esempi in natura si sprecano, e soprattutto si trovano in campi ed in
ordini di grandezza lontanissimi tra loro. La conchiglia di tipo Nautilus si
sviluppa lungo un certo tipo di spirale, la spirale logaritmica, che ha una
connessione geometrico-matematica strettissima con il Rapporto Aureo. Questo
tipo particolare di spirale si ritrova, magicamente, nella disposizione delle
foglie delle piante (fitlotassi), dei semi di girasole, nella macroarchitettura
delle galassie… Matematicamente, la
geometria della Sezione Aurea è strettamente legata alla Serie di Fibonacci, ed
alle sue incredibili proprietà numeriche: ogni numero della serie, diviso per
il predecessore, è una sempre più accurata approssimazione di (P. Lélenco delle
implicazioni matematiche dovute alla connessione tra la serie di Fibonacci e il
Numero Aureo, è veramente lunga. Basti pensare che una serie lunghissima di
matematici e scienziati del passato vi si sono imbattuti, e stupiti di
conseguenza (pensiamo a Luca Pacioli ed al suo trattato “De divina
proportione”).
Ma allora una domanda si pone necessaria: se «p è
manifestazione del Lògos, del Dio come Principio Ordinatore e Regolatore
dell’Universo, come si interpreta la sua presenza dal senso metafisico a quello
fisico? Qui forse ci viene incontro lo stesso nome di Leonardo Fibonacci, che
in realtà aveva altro cognome ma che passò alla storia, grazie alla sua
scoperta, come ‘*Figlio dei bonacci” (da cui Fi l bonacci),
cioè *’figlio di una buona disposizione’! Cioè fu colta da subito una cosa
fondamentale: le proprietà matematiche, che sono astrazione pura, nella reaftà
corrispondono, con buona approssimazione, a proprietà fisiche del mondo reale.
Quando l’esperienza ci fa notare che la fillotassi delle piante si organizza in
un certo modo, quando il girasole, la mela e la conchiglia seguono una
determinata geometria, il messaggio che traspare è che evidentemente quella è,
in natu ra, la “buona disposizione! cioè probabilmente la migliore per Io
sviluppo della vita.
E fi il Grande Architetto dell’Universo ha dato prova delle
sue capacità matematiche, che noi ancora non riusciamo a comprendere appieno e
probabilmente non ci riusciremo mai; ecco che ne esce una visione della realtà
come di un qualcosa che sussiste sopra (e grazie) a una matrice divina, da
leggere in filigrana e non solo con gli occhi della ragione, ma anche con quelli
dell’intuizione. Ecco come mai l’uomo da millenni considera quindi sacra la
Geometria, e perché ha sempre rivestito un carattere sacrale l’atto del
costruire, e quindi l’Architettura. E nel momento in cui riconobbe la matrice
divina nel Numero Aureo/ ne constatò la sua bontà e al contempo la sua bellezza
(secondo un principio caro agli antichi Greci, Kalòs Kai Agathòs): ciò che è
buono, funzionale, è anche bello. Cioè la bellezza figlia della proporzione, e
quindi dell’armonia, intesa come manifestazione accidentale dell’Armonia
Celeste. E se la Bellezza e l’Armonia sono manifestazioni del Divino e
dell’atto creativo di Dio, anche l’Uomo, fatto a sua immagine e somiglianza,
quando crea e costruisce tende a riconoscere le leggi e le proporzioni che egli
interpreta attraverso il suo intelletto grazie all’astrazione matematica.
L’uomo ha così replicato le forme e le proporzioni della
Natura nelle sue opere, cosicché spesso ha utilizzato in particolare nell’Epoca
Classica, la Sezione Aurea; non a caso la lettera greca (P, corrispondente alla
nostra F, è stata utilizzata per indicare il Numero Aureo in onore di Fidia, il
grande architetto e scultore greco. Ma egli, e con lui gli autori di meraviglie
artistiche ed architettoniche dell’antichità,
lo utilizzarono davvero e con coscienza? Molti studiosi oggi Io mettono in
dubbio, sostenendo che spesso si è trattato di voler trovare (P in tutti i modi
da parte di chi si era invaghito di una teoria da dimostrare, e con i numeri,
si sa, si può giocare quanto si vuole… Questo non significa che in molti casi
non sia effettivamente stato utilizzato consciamente il Rapporto Aureo in un
edificio, però ci deve indurre a valutare con attenzione le tesi, soprattutto
quando si ha a che fare con i numeri, che, Io sappiamo, li possiamo sempre
manipolare e far tornare a piacere…
Un grande architetto del Novecento, Le Corbusier, sviluppò un
sistema proporzionale che chiamò “Modulor”, ovvero la figura
stilizzata di un uomo, ogni parte del corpo seguendo la Serie di Fibonacci. Secondo
il suo autore, il Modulor permetteva di conferire dimensioni armoniose a tutto
ciò che si progetta, dalla cassettiera al palazzo, fino agli spazi urbani,
diventando un sistema di standardizzazione con una matrice di armonia naturale
che potremmo definire quasi “deistica”.
Per una
conclusione: nessuna conclusione?
A fine di questo excursus proviamo a tracciare una possibile
conclusione a un’indagine che forse ha spaziato in campi apparentemente
distanti, ma che invece sono strettamente correlati ad un’unica visione
d’insieme, forse così ampia che la si coglie meglio osservandola da una certa
distanza.
Il rapporto tra Massoneria ed Architettura è un qualcosa di
viscerale, e non solo per la vexata quaestio delle origini della nostra
istituzione, ma a ben vedere, in senso lato ovviamente, essa sprofonda nelle
pieghe mirevoli della storia dello scibile umano, laddove lo studio della
Geometria, della Fisica e della Matematica tornano al primo interrogativo se
Dio si manifesta attraverso la Bellezza del Creato, o se forse è l’uomo che
comunque ha bisogno e desiderio di trovare tutta intorno a sé la traccia della
scintilla divina, e così si prefigura la divinità, a propria immagine e
somiglianza, con in mano un enorme compasso con cui traccia l’armoniosa curva dell’Universo;
il GADU quale noumeno di quella cosa in sé inarrivabile e che trascende la
ragione umana.
Anche per tutta la complessità dei temi trattati, ma non
solo, rimane così volutamente del
tutto aperta questa conclusione, che forse tale non è, e non deve essere, visto
che il Tempio, come sempre, è ancora in costruzione.
Lasciamo però le
ultime righe per un aneddoto su Louis Kahn, uno dei più grandi architetti del
XX secolo: americano di origini ebraiche, in realtà si sentiva apolide e spinto
da un’universalità che comunque non gli fece dimenticare l’influenza della
mistica ebraica, secondo cui il Messia non è ancora venuto, e quindi la
presenza di Dio la si può intravedere nelle sue Opere.
Ma in fondo l’Opera di Dio è anche l’Opera dell’Uomo
che, nel suo atto creativo che lo congiunge alla divinità, crea l’Opera per
Dio, come fece Hiram con il Tempio.
Questo è l’aneddoto, tratto da un racconto
autobiografico: da piccolo, in Estonia, era fortemente attratto dalla luce (e
le sue opere architettoniche tuttora Io testimoniano), e da qualunque cosa la
emettesse, compresi dei tizzoni ardenti, fino al punto, una sera, di metterseli
sul grembiule, che prese ovviamente fuoco, ed egli si bruciò così il volto,
rimanendo parzialmente sfigurato per tutta la vita.
Non sappiamo se Louis Kahn fosse un Libero Muratore,
non avendo trovato notizie in merito, e personalmente ne dubitiamo molto, ma
(ed è ciò che più conta) quello che trasmettono la sua architettura e le sue
parole sono comunque sensazioni che si collocano su una lunghezza d’onda
profondamente universale. Egli amava dire: «Amo gli inizi. Gli inizi mi
riempiono di meraviglia. lo credo che sia l’inizio a garantire il
proseguimento». Che prosegua, con forza e vigore, fa costruzione del Tempio…
La regia della massoneria dietro la marcia su Roma e l’ascesa del fascismo
Mussolini e la marcia su Roma, 28 ottobre 1922
Grazie
a un processo di riconoscimento facciale e a uno studio durato 4 anni,
il regista e scrittore Tony Saccucci ha dimostrato la presenza del gran
maestro Raoul Vittorio Palermi il 28 ottobre 1922 al fianco di
Mussolini.
C’era
la massoneria dietro la marcia su Roma che il 28 ottobre 1922 portò
Mussolini al potere in Italia. A 100 anni dalla marcia su Roma sono
uscite fuori le prove. Fino ad oggi era noto l’appoggio diretto del gran
maestro Raoul Vittorio Palermi a Mussolini, le sue simpatie anche
successive al 1922.
Così
come, d’altra parte, era noto che il potere dei massoni tout court
rappresentava l’ultimo baluardo democratico alla scalata del giovane
Mussolini. Proprio per questo nel 1925 il Duce mise fuori legge la
massoneria e alcuni esponenti finirono male, qualcuno addirittura
ucciso.
Quello
di cui nessuno finora ha avuto la prova, era che lo stesso Palermi
fosse presente alla marcia su Roma e sfilasse insieme al ristretto
gruppo dei futuri ministri e sottosegretari del primo governo Mussolini,
che non è superfluo ricordare abbondava di non fascisti (si pensi solo a
Gronchi, futuro presidente della Repubblica italiana).
La
‘pistola fumante’, la prova della presenza della massoneria dietro la
marcia arriva oggi grazie allo studio durato quattro anni condotto da
Tony Saccucci, regista, sceneggiatore, professore (continua tuttora a
insegnare Storia e Filosofia al liceo classico Mamiani di Roma), autore di ‘Marcia su Roma’,
il film diretto dal regista irlandese Mark Cousins che ha aperto le
Giornate degli autori all’ultima edizione della Mostra del Cinema di
Venezia e attualmente in sala.
Saccucci
ha discusso proprio lo scorso 19 settembre la sua tesi di dottorato in
Scienze politiche dal titolo ‘Il film della marcia’. Un Phd che ha
ottenuto il massimo dei voti e la lode, alla cui esposizione ha
assistito anche il professor Fulvio Conti, uno dei maggiori storici di
storia della massoneria in Italia.
“L’uso
del cinema come fonte storiografica è il futuro della ricerca storica.
Questo è il maggior apporto del mio studio alla scienza storica”, dice
Saccucci all’AGI.
La
mattina del 28 ottobre 1922 Raoul Palermi insieme a Ernesto Civelli era
dal re alle 7.30 del mattino – si legge nel dottorato – e fu lui a
convincerlo a non firmare l’ordinanza di stato d’assedio che avrebbe
impedito la marcia. Questo è un episodio noto e viene raccontato anche
nel film di Cousins, ma ciò
che è del tutto inedito è il fatto che Raoul Palermi prese poi parte
alla marcia su Roma in prima fila, accanto a quelli che sarebbero poi
diventati i ministri del governo fascista.
La
scoperta di questa presenza tra i vertici fascisti e liberali di quel
primo governo Mussolini è arrivata solo questa estate ed è stata frutto
di una complessa operazione di alta tecnologia. Un processo di riconoscimento facciale su
poche centinaia di fotogrammi del film di Umberto Paradisi dal titolo
‘A Noi! Dalla sagra di Napoli al trionfo di Roma’ dove ci sono le uniche
immagini della manifestazione.
“Ho
smontato e rimontato i 64.945 fotogrammi che compongono le 436 scene di
‘A Noi!’ – racconta Saccucci – poi grazie alla Facoltà di Ingegneria
dell’università ‘La Sapienza’ di Roma (all’equipe della professoressa
Francesca Campana) e a Morgana studio (con il Dop Filippo Genovese),
sono stati ‘matchati’ i profili di alcuni manifestanti con foto con
didascalia rinvenute su giornali americani ed è stata scoperta la
presenza di numerosi massoni noti”.
Tra
questi la scoperta più importante riguarda proprio Raoul Palermi. La
sua presenza è la cosiddetta ‘pistola fumante’. Una presenza fisica mai
provata finora. Eppure era lì, in quei fotogrammi, da un secolo.
Il
gran maestro della massoneria, il cui figlio Amleto Palermi aveva un
sodalizio artistico ed era stato socio di Paradisi fino al 13 ottobre
1922, fu la prima persona che Mussolini incontrò dopo aver ricevuto
l’incarico di formare il governo da parte del re. Di
questo ci sono prove documentali. Così come ci sono prove che con
Mussolini sfilarono tanti massoni (il celebre Balbo a parte), tra cui
Giacomo Acerbo, sottosegretario e braccio destro del Duce, autore della
legge che porta il suo nome che, col 25% dei voti, diede a Mussolini il
66% dei seggi in Parlamento.
Acerbo
fu iniziato proprio da Palermi al 32esimo grado del Rito scozzese il 6
novembre, una settimana dopo che aveva assunto la carica di
sottosegretario, quando già redigeva i verbali delle riunioni del
Consiglio dei ministri.
Dopo cento anni, dunque, grazie
a questo monumentale studio e all’ausilio delle moderne tecnologie
dell’università di Roma si aggiunge un tassello importante alla storia
d’Italia.
Palermi
dal re Vittorio Emanuele III per convincerlo a non firmare l’ordinanza
di stato d’assedio. Palermi, il primo a incontrare Mussolini dopo che
questi ha ricevuto l’incarico. Palermi, in posa per la foto di rito col
governo. Uno ‘sponsor’ potente che però, come altri illustri personaggi,
primo fra tutti il sovrano, non ha ottenuto quanto sperato.
Per
tutta la durata del Fascismo Raoul Palermi scriverà centinaia se non
migliaia di lettere al Duce – si può leggere nel lungo lavoro di
Saccucci –
e, dopo aver tentato il suicidio nel 1929, riceverà una pensione di
3.000 lire al mese fino all’aprile del 1943. All’Archivio di Stato è
conservata una delibera datata 25 luglio 1943, ossia il giorno del Gran
consiglio che depose Mussolini, in cui si rinnova il vitalizio per
Palermi.
Una
fine forse non onorevole per quello che nel 1922 era uno degli uomini
più potenti d’Italia (o almeno così sembrava essere in quell’autunno).
AGI
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Nella mia operosa giovinezza ho frequentato assiduamente i testi dei filosofi idealisti e, fra questi, l’opera di Johann Gottlieb Fichte, preso e ammirato, oltre che dalla sua idea di libertà, soprattutto dalla natura pratica della sua filosofia. Nel pensiero del Nostro la filosofia avrebbe dovuto infatti avere unicamente il compito di essere efficace strumento per cambiare il mondo e l’uomo. Dunque non spiegare come il mondo è, ma come potrebbe diventare attraverso l’azione dell’uomo, senza dare per scontata la immodificabilità della situazione esistente. Parimenti non per descrivere la vita delle persone ma per cambiarle, per essere attribuito alle stesse il compito di operare attivamente per incidere sulla società. Nato in una famiglia poverissima, si narra che da fanciullo lavorasse come guardiano di oche per aiutare i genitori. Per sostenersi, da giovane, fu costretto a mille lavori che via via detestava; ma la natura lo aveva creato pensatore. Fu così che costruì un pensiero compiuto che è erroneo degradare – come taluni sostengono – a mero terreno preparatorio del pensiero di Hegel, che fu, quantomeno, ingeneroso quando accusò la filosofia di Fichte di risolversi in un idealismo soggettivo e in un pensiero vuoto e formale. Alla fama del Nostro non hanno poi sicuramente giovato i Discorsi alla nazione tedesca, tenuti a Berlino nel 1807–1808, durante l’occupazione napoleonica, nei quali il filosofo riaffermò il primato della nazione tedesca, considerata la guida degli altri popoli per avere mantenuto in tutte le epoche storiche la purezza della lingua, del carattere e della religione. Tesi questa, come noto, sciaguratamente ripresa e diffusa dalla ideologia nazista. Da qui, in principalità, un giudizio immeritatamente negativo, quando, all’opposto, quelle orazioni altro non erano che un accorato appello al popolo tedesco di riscossa contro l’occupazione napoleonica. Nelle mie modenesi calde e afose vacanze estive di liceale mi è stata silenziosa compagna e fedele amica la lettura di molte pagine della Missione del dotto, dalla quale trascrivo questo pensiero ancora nitido nel ricordo: “L’uomo esiste per migliorarsi sempre più dal punto di vista morale e per rendere migliore tutto ciò che lo circonda” (testo pubblicato dalle Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1991, pag 94). Una volta entrato nella Comunione, ho scoperto l’appartenenza all’Ordine di Fichte, mai rinnegata, seppur breve. Ne nacque così una affezione al filosofo ancora maggiore. L’opera di Fichte a me più cara divenne però ben presto quella intitolata Filosofia della Massoneria (in Italia, edita da Bastogi, Foggia, 1995; ma l’edizione italiana più recente è quella edita da Mursia, Milano, 2019, a cura dell’Amico C. Bonvecchio). Col tempo, il volume, di fatto, è andato in pezzi per eccesso di uso. Da qui la necessità di farlo rilegare. Oggi l’opera è nelle mie mani, in una nuova veste elegante che mi ha indotto alla ennesima rilettura, dalla quale estraggo alcuni dei punti più salienti, mosso dalla convinzione che quella lezione è, ancor oggi, preziosa a quanti praticano l’Arte regia, e non solo. Insegna il Nostro che la Massoneria non può proporsi nessuno degli scopi ai quali si dedica generalmente l’impegno intellettuale degli uomini, perché già tutti realizzati. Sicché, laddove perseguisse codesta finalità, diverrebbe inutilmente superflua e perfino “sommamente nociva”. E per difetto di competenze (non ogni massone è architetto, filosofo, giurista, ecc.), e per la natura riservata in cui la Massoneria opera, visto che – appunto – dovrebbe fare in segreto ciò che, di norma, avviene invece in pubblico. Ciò acclarato, secondo Fichte rimane allora a chiedersi quale possa essere codesto scopo. Domanda alla quale il Nostro risponde secondo ragione e, perciò, in termini del tutto persuasivi: lo scopo della Massoneria non può essere altro che quello di realizzare una perfezione umana maggiore di quella che ciascun individuo avrebbe raggiunto fuori dalla Associazione. Scopo da una parte troppo ampio e dall’altra troppo stretto. Troppo ampio perché codesto fine può essere conseguito anche altrimenti (ad esempio con la meditazione). Troppo ristretto perché nessuna società di qualsiasi specie può, per sua natura, operare il suo perfetto raggiungimento. Sicché la maggiore umanità conseguita rimarrà per sempre una perfezione umana, squisitamente umana, dunque mai superiore alla stessa. Questa educazione, che ha il suo approdo nella acquisizione di una specifica competenza in umanità, secondo il Nostro filosofo deve poi avvenire in una “piccola comunità”, che è centrale non solo per la funzione che assolve, ma pure per la sua lingua. Per la funzione perché, nella “piccola comunità”, si impara a comunicare il proprio sapere e ad acquisire quello degli altri in modo del tutto diverso per la natura eterogenea dei presenti-partecipanti. Per la sua lingua perché, anziché l’estrema specializzazione dei linguaggi professionali degli adepti, è adottata, e parlata, una lingua condivisa, che è quella dei simboli. Fichte non si nasconde poi il pericolo della esistenza di uomini scaltri e disonesti che indirizzano adepti ingenui verso propri fini personali: critica abituale all’istituto massonico. Parimenti è del tutto consapevole della esistenza, all’interno della “piccola comunità”, di uomini che, per soddisfare il proprio orgoglio personale, fallito nel mondo profano, talora pure ripetutamente si impegnano a dirigere, e a prevaricare, chi per cultura o per posizione sociale li sopravanza nella società civile. Né trascura di prendere in considerazione chi è entrato nel sodalizio massonico per semplice curiosità, o per capriccio, o con la speranza di accrescere la propria modestissima clientela. A tutte codeste pur frequenti censure, volte a svilire l’Ordine, Fichte obietta però di avere personalmente conosciuto uomini saggi e onesti che si sono affratellati per un fine sublime, quale quello di essere educati da capo a fondo per divenire “uomini”, uomini veri e autentici. Anche se poi, per raggiungere codesto scopo, sono stati costretti a sacrificare non poco della loro vita e dei loro beni personali. In merito al tanto vituperato “segreto massonico” Fichte dichiara che quello più noto, e a un tempo nascosto, è che i massoni esistono e continuano a esistere malgrado siano vittime abituali di aggressioni, di infamie e calunnie, oltre che delle loro stesse sciagurate scissioni e delle loro reali manchevolezze. Secondo il Nostro, a indubbio merito della Massoneria vanno comunque ascritti, e soprattutto riconosciuti, l’educazione dello spirito, l’aspirazione alla sensibilità morale, l’imposizione di corretti comportamenti e l’osservanza delle leggi che, sia permessa l’integrazione, nei relativi contenuti l’Istituzione ha spesso ispirato, divulgando una cultura politica totalmente umana, perciò universale, elaborata all’interno delle Logge, dove si sono radicati i principi della libertà, della uguaglianza, della fratellanza, della tolleranza e degli stessi diritti umani, oltre che del merito. Una eredità che per certo non merita di morire. Come tutte le epitomi, anche quella che abbiamo presentato altro non è che un semplice compendio del pensiero fichtiano, per definizione privo di ogni reale approfondimento. Temi, invece, affrontati con particolare acume e una dotta e documentata analisi nell’accurato volume di Valerio Meattini intitolato Storicismo e Massoneria. Libertà, uguaglianza e strategia di convivenza da Lessing a Croce (Carrocci Editore, 2021); testo nato in confutazione del duro giudizio formulato da Croce nei confronti della “mentalità” massonica: critica alta, mai astiosa, per certo la più severa contro la libera muratoria. Tuttavia indifendibile una volta dimostrata la incondivisibilità dello “storicismo” posto da Croce a fondamento della sua critica, come Meattini ha argomentato in termini del tutto fondati e, perciò, persuasivi. I temi in precedenza richiamati, sia pure con tutti i limiti propri di ogni sintesi e di ogni brevità, nell’ottica di chi ha scritto queste note sono tuttavia funzionali a segnare un distacco e soprattutto una netta contrapposizione all’indirizzo denominato postumanesimo, ossia a quella crescente sfiducia negli esseri umani nei confronti dell’umano, sul presupposto che le macchine stanno diventando umane (… anche se poi non si sposano!) e gli uomini macchine. Inspiegabile tesi paradossale visto che, in questi ultimi strani giorni, l’uomo è il padrone incontrastato del pianeta. Sicché non si comprende davvero come possa essere sfiduciato proprio verso se stesso! Da qui l’importanza del richiamato pensiero di Fichte e di quanti si pongono a difesa dell’umano nell’uomo e del suo sviluppo integrale fino a dove è consentito alla umana finitudine. Anche se poi occorre riempire di contenuto quella bella, ma oscura parola, visto che, a fronte del termine “umano”, è indispensabile chiedersi cosa sia lo specifico che lo caratterizza e nel contempo lo differenzia, ad esempio, dal corpo, dall’intelletto analitico, dalla ragione sintetica, dalla passione del cuore. A nostro sommesso ma meditato parere, l’umano non può essere altro che la libertà. Non però una libertà qualsiasi, quanto invece quella che è indirizzata al bene, alla giustizia e alla bontà. Il compito principale della esistenza di ciascun uomo è dunque quello di imparare a navigare nello spazio aperto della libertà al fine di diventare liberi, giusti e buoni. Non è poi per nulla detto che questo lavoro sia coronato da successo. Chi non accende dentro di sé l’umano, inteso così come proposto, resterà però privato della sua più autentica natura, quanto dire del tesoro più prezioso dell’esistenza, che è armonia con il mondo e con gli altri uomini. Mentre su ogni cosa sovrasta quel dolore dal quale “si impara”, come ci ha insegnato Eschilo (Agamennone, versi 176-178, in tutte Le tragedie, Mondadori, Milano, 2003, pag. 407). Solo chi ha provato e pensato il dolore si è infatti impadronito della vera conoscenza, il cui nome è saggezza. L’umano nell’uomo, per ripetere ancora una volta la bella espressione di Vasilij Grossman (dal testo La Madonna Sistina [1955] ora in Il bene sia con voi!, Adelphi, Milano, 2014, 2ª Ed., pag. 51) coincide allora con la gioia di vivere la libertà così come dianzi prefigurata: impegno che si costruisce giorno per giorno, senza mai stancarsi, su misura di ciascun uomo e di ciascuna singola esistenza.