PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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IL MASSONE GENNARO ARCUCCI MARTIRE CAPRESE DELLA REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

IL MASSONE GENNARO ARCUCCI

MARTIRE CAPRESE DELLA

REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

di

Domenico d’Alessandro

Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli: Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni, conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.

Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa, come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I ‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato “Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel 1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”. Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S. Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni, malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri, pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27 Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale. In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio, simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la divina benedizione sulla  Repubblica; che all ‘orazione “pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I ‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS. Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli “lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo, per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII, pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di sangue”. Il 14 marzo del 1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici: “Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S. Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu venduto.

Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900, centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere, nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran caffè.

L’attualità dei valori del 1799

Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose, la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799, tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come “Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all ‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.

A Napoli si curò di tracciare i caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del regno accorrevano a Napoli a studiare:

* come medici, tra questi l’Arcucci ed il più famoso Domenico Cirillo;

* come allievi della scuola militare della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e anche questo potrebbe oggi avere un significato;

*come giuristi, sotto la guida del grande Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in latino.

E ciò mentre la città di Napoli viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa 500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘

La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno, in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare

E’ stato detto che le rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I ‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:

*
  • Gaetano Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America.
*
  • le leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri dell ‘ordinamento giuridico italiano;
*
  •  lo stesso spirito del 1799 aleggia nei deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.

Questi passaggi non sono la democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali “naturalmente” vi si arriva.

I legislatori del 1799 si posero l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e, principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!

Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione, anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato, sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata a Napoli “regina santa”, per  offrirlo ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia, ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza “conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal “neolitico” allo “psicozoico” è possibile il “saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida, quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle dei fatti e dell ‘economia.•

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CURIOSITÀ MISTERIOSE

CURIOSITÀ MISTERIOSE

FERRO – In astrologia questo metallo è considerato, insieme al plutonio favorevole ai nati sotto il segno dello Scorpione. Anche per i nati sotto il segno dell ‘Ariete, il ferro è considerato il metallo favorevole.

UNICORNO UMANO – Nel 1598 Enrico IV vinse una forte somma ad un gentiluomo francese con il quale aveva scommesso sull ‘ esistenza o meno di un “unicorno” con le sembianze di un uomo. Per vincere questa scommessa, il sovrano non esitò a far conficcare un corno ricurvo nella fronte di un uomo, il quale morì fra i più atroci tormenti pochi giorni dopo essere stato mostrato al gentiluomo.

GESÙ CRISTO – Secondo il professore Roger Rusk, dell ‘Università del Tennessee, Gesù Cristo venne crocifisso il 6 aprile dell’anno 30 d.c., di giovedì e non di venerdì come sino ad ora si pensava. Al contrario della tradizione ecclesiastica, secondo cui si ritiene che Gesù Cristo sia rimasto nel sepolcro per sole 36 ore, il prof. Rusk è convinto che il Nazareno sia rimasto invece tre giorni interi, come aveva predetto. Lo studioso americano ha ricalcolato le date relative alla passione di Cristo, servendosi di un cervello elettronico e delle tavole delle fasi lunari dal 1001 a.C. al 1651 d.c., recentemente compilate dal cervello elettronico dell ‘Institute of Advanced Studies di Princeton.

Proprio i movimenti della luna di quel tempo, così come sono stati stabiliti dal calcolatore di Princeton, hanno convinto lo studioso che la crocifissione avvenne il giovedì. Rusk afferma infatti di essersi attenuto alle sequenze precise delle lune nuove, rigorosamente seguite per il calcolo delle date nella Giudea di quel tempo. In considerazione del fatto che Cristo morì sulla croce nel pomeriggio precedente il tramonto con cui aveva inizio la celebrazione dell ‘ esodo dall’Egitto, cioè la “pasqua ebraica “, qualsiasi tentativo di attribuire una datazione a tale evento, deve tener conto di questa indicazione, che dipende a sua volta dalla fase lunare.

Dopo aver effettuato i calcoli relativi, non v’è dubbio che il 30 d.c. è l’unico anno plausibile in cui le coordinate relative indicano il giovedì, come giorno della crocifissione.

MONISMO – Qualsiasi dottrina che metta alla base delle realtà un principio unico, che può essere immateriale (monismo idealistico) o materiale (monismo materialistico). Oggi, parlando di monismo, s ‘ intende soprattutto quello postulato dalla scienza ufficiale, che considera la realtà fondata sulla materia o energia e sulle leggi fisiche.

METAPSICORRAGIA METACINETICA – P. Thomas Bret, nel 1948, ha indicato con questa definizione il fenomeno di lacrime o sangue fluenti da immagini di Madonne o di Cristi crocifissi.

RISONANZA – Teoria ipotizzata dall ‘italiano C. Calligaris e dall ‘inglese N. Marchall per spiegare i fenomeni di telepatia. Secondo i due studiosi, emissioni di onde di una data lunghezza, da parte di un cervello umano, potrebbero risuonare in un altro cervello amne così come una nota musicale emessa da un violino fa risuonare la corda corrispondente in altro violino.

IL PAPPAGALLO POLL – Il Dott. J. A. Watson, uno studioso ricercatore di animali intelligenti, tra i tanti casi analizzati cita quello di Poll. Il pappagallo è, tra gli animali, il solo che siamo abituati a sentir parlare. Esso si limita, tuttavia, a ripetere abitualmente le parole che ha sentito, e che sono generalmente sempre le stesse.

Egli racconta che Poll riproduceva una risata assolutamente inimitabile e talmente coinvolgente che era impossibile non esserne coinvolti, soprattutto quando il pappagallo, tra i suoi scoppi di risa, gridava: “Non fatemi ridere così, mi fate morire…”. E subito dopo riprendeva a ridere sonoramente.

Allorquando qualcuno tossiva, a volte diceva: ” Che brutto raffreddore”. Un giorno, dei ragazzi tentarono di ripetere in maniera approssimativa quel che Poll aveva detto. Ad un certo punto, il pappagallo alzò la testa e disse in maniera chiara ed inequivocabile: “Non ho detto questo”. Quando, a volte cantando, emetteva una nota sbagliata, esclamava: “Oh, là,

là”, ridendo di se stesso.

IW8                                                                                                        57

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IL MASSONE GENNARO ARCUCCI MARTIRE DELLA REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

IL MASSONE GENNARO ARCUCCI

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REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

di

Domenico d’Alessandro

Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli: Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni, conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.

Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa, come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I ‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato “Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel 1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”. Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S. Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni, malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri, pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27 Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale. In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio, simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la divina benedizione sulla  Repubblica; che all ‘orazione “pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I ‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS. Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli “lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo, per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII, pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di sangue”. Il 14 marzo del 1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici: “Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S. Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu venduto.

Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900, centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere, nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran caffè.

L’attualità dei valori del 1799

Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose, la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799, tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come “Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all ‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.

A Napoli si curò di tracciare i caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del regno accorrevano a Napoli a studiare:

* come medici, tra questi l’Arcucci ed il più famoso Domenico Cirillo;

* come allievi della scuola militare della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e anche questo potrebbe oggi avere un significato;

*come giuristi, sotto la guida del grande Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in latino.

E ciò mentre la città di Napoli viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa 500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘

La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno, in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare

E’ stato detto che le rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I ‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:

*
  • Gaetano Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America.
*
  • le leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri dell ‘ordinamento giuridico italiano;
*
  •  lo stesso spirito del 1799 aleggia nei deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.

Questi passaggi non sono la democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali “naturalmente” vi si arriva.

I legislatori del 1799 si posero l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e, principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!

Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione, anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato, sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata a Napoli “regina santa”, per  offrirlo ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia, ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza “conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal “neolitico” allo “psicozoico” è possibile il “saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida, quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle dei fatti e dell ‘economia.•

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DAL CIELO ALLA TERRA E DALLA TERRA AL CIELO

DAL CIELO ALLA TERRA E DALLA TERRA AL CIELO

Itinerario artistico iniziatico per l’anima degli uomini ovvero l’Amen delle stelle

Armando Rossi

Loggia di Ricerca Arte e Architettura: Antonello da Messina

Permettetemi, anzitutto, di indirizzare la vostra attenzione sulla forma della Loggia: un parallelepipedo di lunghezza da E ad O, di larghezza da N a S, di ampiezza dalla superficie della terra al suo centro e alto come il cielo.

Dalla spiegazione della tavola di tracciamento di I° grado

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Dalla tavola smeraldina

Incipit

L’uomo come misura di tutte le cose, l’uomo come centro saliente di ogni pensiero e di ogni arte, ma anche l’uomo travolto dalle Moire, dalle proprie passioni.

Esiste una nozione di uomo che connetta strettamente la sua natura al vasto e molteplice mondo delle divinità?

Anthropos, nel suo etimo, racconta l’immagine umana nella peculiarità di volgere gli occhi insù. L’uomo è quell’essere che, a differenza di bestiacce e bestiole, intrattiene con le stelle un legame di privilegio, l’uomo è quell’essere che studia, comprende e apprende le stelle e discerne lo zodiaco dalle costellazioni, distingue il giorno dalla notte e sa che il cielo stellato non svanisce col sole ma li rimane e il non vederlo è solo un suo limite fisico ma non mentale.

Ciò che è si vede anche quando non è palese, chi ha occhi per vedere, veda e comprenda e sia da guida per chi non crede solo perché non riesce a vedere.

Ante factum

“Quando scoppiano i fuochi d’artificio: nessuno guarda il cielo stellato!”

Lo diceva un signore avanti con l’età a voce un po’ elevata, che stava dietro di me, per farsi sentire dal suo vicino, il quale ricordo annuì quasi per compiacenza. Mi ricordo però che io staccai lo sguardo dai brillanti colori dei fuochi artificiali che in quell’attimo (e solo per quell’attimo!) vivevano e guardai più in alto. E un’emozione più intima mi invase. Respirai profondamente…

Un cielo stellato che il nostro emisfero boreale talvolta ci regala in visione nel mese di luglio era là: monotono, perenne, instancabile, insensibile al richiamo di quei poveri ed insulsi colori spumeggianti dei fuochi artificiali ed artificiosi.

Una metafora. Una metafora di me, una metafora del mondo profano?

 

La Massoneria è quell’arte che insegna a staccare lo sguardo dall’estemporaneità della fenomenologia attuale ed istantanea, estemporaneità che forse – può produrre fallaci momenti di finta emozione che proprio come fuochi artificiali durano un attimo e non più, senza lasciare segno di sé un momento dopo.

E’ necessario imparare a staccare lo sguardo per volgerlo al cielo stellato. Quei cieli stellati che Vincent Van Gogh ha magistralmente dipinto rendendoci partecipi dei vortici d’aria che lo formano. Lui pittore complesso e sempre al limite della follia ci permette di cogliere l’invisibile, l’aria che sposta le masse e forma le tonalità dei colori.

E se la notte scende, le stelle, si sa, risplendono ugualmente e illuminano il cammino. Il cielo stellato, archetipo junghiano che in maniera litografica impresse l’anima dei primi uomini, avvia ed induce ad una filosofia concettuale secondo la quale l’identità tra cosmo e uomo è esperienza di vita e Dio è “sentito” come uno spirito che sa rivelare armonia cosmogonica nel “solenne silenzio del cielo stellato”. Tale equazione risulta essere addirittura un “fatto scontato” in Goethe.

Una legge geometrica in cui tutto è armonia

Il cielo azzurro, o blu, con tante stelle che lo impreziosiscono corre da Oriente a Occidente e da Settentrione verso Meridione, uguale da milioni di anni. Il Cielo stellato accomuna le civiltà precolombiane a quelle della Mesopotamia, accomuna i Fenici ai Sumeri, ai Cinesi, ai Tehuelche. Il Cielo stellato è comune per gli Induisti e per i Cristiani, unisce i Mussulmani ai Veda. Sempre!

E dalle Colonne lo possiamo sempre ammirare. Il Tempio è incompiuto, volutamente, poiché il lavoro massonico è infinitamente perfettibile, ma non raggiungerà mai la perfezione. La raggiunge solo là: all’infinito! Il cielo stellato è il tetto naturale del Tempio di Salomone e comunica al Libero Muratore l’infinitezza del creato e lo esorta verso una spiritualità elevata a cui occorre tendere. A cui occorre aspirare.

Anche nell’io dell’Apprendista? Mi chiedo.

L’Apprendista non sa, ma vuol sapere. L’Apprendista quella sera del mese di luglio comprese come il cielo stellato è stato, è, e sarà, un segno, un simbolo che indirizzerà la via e la sua vita. Kant nella conclusione della Critica della Ragion Pratica scrisse: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione, sempre nuove e crescenti, e quanto più spesso e a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”

Corpus

Nell’antichità il termine “Tempio” ha significato un recinto, una delimitazione[1]una porzione del cielo, o un luogo delimitato da cui osservare la volta stellata, posto tra cielo e terra, tra macro e microcosmo, tra finito e infinito, il Tempio diviene il luogo privilegiato della riflessione, della elevazione spirituale.

Ciò che del cielo attraeva l’uomo erano   principalmente le stelle, quelle luci in mezzo al buio che sorprendevano e stupivano, e che per millenni hanno costituito la mappa unica e sicura per coloro che percorrevano il mondo per terra e per mare, per chi come i marinai cercavano la rotta per la nuova terra o per il ritorno verso casa (se questo era il loro desiderio) o per chi, come i Re Magi, seguivano la stella per trovare un essere divino. Ancora oggi si guarda alle stelle, profanamente, perché ci suggeriscano la giusta rotta da seguire.

Il cielo stellato ha sempre rappresentato l’emblema dell’infinito. . La sua rappresentazione nelle opere architettoniche ne ha costituito un limite indefinito che permetteva a chi entrava di sentirsi un unicum con l’universo.

Emblematici i cieli stellati del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna o quelli nella tomba della regina Nefertariin Egitto nella valle delle Regine.

Proprio quest’ultima rappresentazione può considerarsi la più antica volta celeste della storia.

l’origine delle parlate diffusesi in una consistente parte dell’Europa, dell’India e dell’altopiano iranico, nonché di alcune regioni dell’Anatolia, dell’Asia centrale e della Cina occidentale.

Si tratta di una struttura ipogea ricoperta da più di 3500 mq di dipinti che illustrano il viaggio nell’aldilà di Nefertari. Tutto il soffitto è un intero cielo stellato di un intenso blu scuro.

.

Si tratta di un aspetto molto affascinante in quanto la stella a 5 punte è la raffigurazione del pentagramma, della stella pitagorica ed è la figura geometrica costruita sulla base della sezione aurea, proporzione e dimensione già nota agli Egizi.

Queste distese di stelle, generalmente, non hanno riferimenti astronomici ma in alcuni casi gli astri sono raffigurati in modo tale da far pensare a delle vere e proprie mappe stellari.

Le rappresentazioni più antiche di mappe stellari sono in Europa senza dubbio i frammenti rinvenuti nei Templi megalitici di Malta 3.600 a.C. ed il manufatto noto come Disco di Nebra, rinvenuto in Germania quindici anni fa ma risalente a non più tardi del 1.600 a.C.

Nel corso dell’arte classica è difficile trovare grandi esempi di cieli stellati. Qualche frammento fittile di epoca greca mostra il Dio Eosforo che porta la luce del mattino accompagnato da qualche sporadica stella (raffigurata in questo caso con sedici raggi).

Il cielo stellato interamente a coprire la volta interna lo ritroviamo significativamente a Padova, in un altro scrigno pieno di colore e bellezza. È la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto intorno al 1300 con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento.

Qui la volta a botte è interamente dipinta di blu oltremare, colore associato alla sapienza divina e ottenuto con preziosa polvere di lapislazzuli,

San Gimignano

mentre le stelle dorate ad otto punte sono leggermente in rilievo rispetto alla superficie della volta.

Quello degli Scrovegni non è un caso isolato. Nel basso Medioevo, infatti, so no molte le chiese con volte dipinte a cielo stellato (basta ricordare le crociere della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o quelle della cattedrale di Siena o del Duomo di San Gimignano).

Nello stresso periodo si possono trovare esempi anche fuori dall’Italia, come nella tardogotica cappella di San Biagio nella Cattedrale di Toledo o nella coeva chiesa di Santa Maria a Cracovia.

Il cielo stellato nelle chiese va ben oltre il mero significato della volta celeste, esso idealizza, come studio “scientifico” e speculazione filosofica, il cielo dei giusti e dei santi. Proprio l’enfasi religiosa ha determinato la diffusa credenza che il cielo sia sede di esseri superiori che, guardando verso il basso, trovavano divertimento nell’osservare la vita e le gesta dei deboli abitanti della Terra.

Prima del Cristianesimo solo gli uomini migliori ovvero gli “eroi” erano degni dell’interesse divino ed alcuni, per la loro prodezza in battaglia o per un ‘altra non comune qualità, venivano addirittura divinizzati, quali semi-dei.

È chiaro quindi come la sede celeste sia sempre stata considerata simbolo di ciò che vi è di superiore, essendo riservata normalmente ad esseri divini e, solo saltuariamente, a quei rari uomini che avessero dimostrato qualità eccezionali per nascita o, più raramente, per libera scelta.

La volta stellata rappresenta l’incomprensibile, l’infinito e, non ultima, la speranza in un futuro migliore, immateriale, una dimensione che liberi l’umanità dalla sofferenza della vita terrena, meglio se per l’eternità: un luogo in cui lo spirito possa riscaldarsi attraverso l’irraggiamento diretto della fonte di “luce” primigenia[2].

Della fine del Quattrocento è la testimonianza di un altro cielo stellato sulla volta di una cappella. Ma la notizia, stavolta, è quella della sua scomparsa, ovvero all’affresco di Piermatteo d’Amelia che ricopriva il soffitto della Sistina prima dell’intervento di Michelangelo.

Pochi anni dopo, nella seconda metà del Cinquecento un altro splendido soffitto stellato posto a copertura della Cappella Reale di Hampton Court, uno dei palazzi reali eretti da Enrico VIII in Inghilterra. Secondo lo stile dell’epoca si tratta di particolare due opere che compone. “Quatour por la fin du temps” e “Le visioni dell’Amen”.

I colori che Messiaen trasfigura nei suoni – quello sfolgorante arcobaleno sulla testa del settimo Angelo, le colonne di fuoco, il blu del mare, il verde della terra, e tutti gli altri colori dell’Apocalisse – appaiono vividi e smaglianti nei sogni dell’autore. I colori diventavano suoni e i suoni si coloravano di blu e arancio, di limpida           luce stellare.    Un suono definito da tutti limpido come un cielo stellato. E il silenzio – grande solenne che segue l’apertura del settimo sigillo – non rappresenta tanto un’eco dilatata degli ambigui e oscuri silenzi del cielo notturno, quanto il sogno di una quiete inesprimibile.

Il cielo stellato come metafora dell’attesa del giudizio per tutti

gli esseri viventi, da contemplare, da rispettare, da osservare e cercare di comprendere. Chissà. Forse possiamo anche noi oggi provare a capire che cosa significa Apocalisse, come ha fatto Olivier Messiaen e dalla visione privilegiata del cielo stellato del Tempio Massonico possiamo trarne un insegnamento per il nostro tempo e per la crescita di ognuno. Non a caso nella composizione della Visioni dell’Amen [3][4]dopo l’Amen della creazione, segue l’Amen delle stelle, per chiudere con l’Amen del Giudizio e l’Amen della Consumazione.

Ma se l’arte ha saputo nella storia interpretare ed utilizzare il cielo stellato per le proprie esigenze queste non hanno mai contribuito in forma diretta ad una ritualità, ad una liturgia. Il Cielo stellato ha costituito un “naturale e semplice” collegamento tra la terra (luogo degli uomini) e l’infinito (luogo della divinità) e da tutti ampiamente e pienamente utilizzato, come abbiamo potuto vedere.

Da questa semplice e non esaustiva carrellata di esempi (gli esempi non sono mai abbastanza) emerge però un singolare e importante dato: il cielo stellato non è il punto di arrivo ma un mezzo attraverso il quale sia possibile raggiungere la divinità. Il cielo stellato non come meta ma come filtro, come elemento mediale in un sistema di rapporti tra uomo e sua trascendenza.

Che sia esso particolarmente dettagliato o semplicemente sfumato, semplice o prezioso nei materiali esso non “contiene” mai la divinità ma la “vela”, la cela e la contorna.

L’uomo dovrà attraverso la sua conoscenza mediare tra terra e divinità attraverso il cielo come metafora di ascesa. Verso il cielo il bene, al suo opposto il male.

Terra come elemento di mediazione con gli lnferi, cielo come elemento di mediazione con il Divino.

Quale rapporto esiste allora tra l’uomo e il cielo? È il medesimo che esiste tra l’uomo e la terra?

Corpus Massonico

Se il rapporto con il cielo è verso l’alto quello con la terra è verso il basso è il caso di ricordare uno dei due incipit del presente lavoro:

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso

Il Tempio massonico è la peculiare rappresentazione di quanto scritto nella tavola smeraldina, non per mera definizione e attribuzione ma per specifico sistema.

La ritualità si svolge sopra un pavimento a scacchi e sotto la volta celeste e da questi due elementi è “contenuta”.

Il Tempio dei liberi muratori è trasposizione simbolica di un tempio ipetrale[5], cioè un tempio a cielo aperto. È noto che in antico le riunioni massoniche avvenissero en plein air. Perciò nel soffitto delle officine si apre un riquadro rettangolare (affrescato) che simula la volta celeste trapuntata di stelle.

21 x 29,7 cm, 2007, Éditions Durand

L’uomo ha da sempre levato al cielo, con primordiale stupore, il proprio sguardo interrogativo. Il Dante esoterico, summa della sapienza medioevale e fedele d’amore, fa sì che ciascuna delle tre cantiche della Commedia termini menzionando le stelle: e quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno)

/ puro e disposto a salir alle stelle (Purgatorio)  l’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso)

Alla luce di alcune definizioni che abbiamo potuto percepire nell’excursus artistico possiamo affermare che l’uomo ha il dovere morale di tendere verso l’alto e quando questo viene meno la mediazione con la terra è “governata” dal pavimento a scacchi che concede, ricorda e riallinea chi lo percorre permettendo di riprendere il giusto equilibrio, mentre la mediazione verso l’alto è “governa” dal cielo stellato ovvero un “velo” o filtro rispetto alla Divinità alla quale tendiamo elevandoci attraverso la scala di Giacobbe che percorriamo esercitando le virtù su di esse adagiate e che incontriamo nel nostro cammino.

Il Tempio Massonico non è una porzione da cui osservare l’universo ma è l’intero Cosmo, uno spazio aperto che non ha pareti, ma essendo esso stesso Cosmo è impossibile delinearne le dimensioni e ovviamente è impossibile definirne le “visioni”. Questa o quell’altra costellazione sono semplice scelte poiché la volta celeste è simbolicamente rappresentata ma non definibile.

Il cielo stellato prescinde da ciò che in esso è rappresentato.

A Gerusalemme, in una caldissima sera d’agosto poco prima dell’avvento del Messia…

Il “Gadol Cohen ” si svegliò presto quella notte e volle riguardare ancora una volta quello spettacolo nel cielo che già aveva ammirato la sera prima. Uscì dall”‘Ulam ” del Tempio, in quell’afosa serata estiva, scandita dalle folate di un vento caldo, passando accanto alle colonne “Boaz” e “Jachin”. Uscì sulla spianata del Tempio ed il suo sguardo, dopo aver superato, alla sua sinistra, lo “lam Mutzach ” si diresse verso il cielo, con un moto di devoto rispetto, ‘tle-Qedem “.

Il sole sarebbe sorto in quel punto soltanto 2 ore più tardi, ma qualche pallida luce iniziava già ad annunciare timidamente l’alba. Lì, poco più in alto della linea dell’orizzonte, si posò il suo sguardo, su quel punto del cielo chiamato dagli astronomi del suo paese “Sartan “. Quasi al centro di questo settore, gli avevano insegnato, c’era un punto divino, davvero importante per tutti loro e per il Creatore.

Era un piccolo e ristretto agglomerato grigio di stelle, dalla luce fioca e lontana, chiamato “SharAischim ” Era quasi un punto, gli aveva spiegato il suo vecchio maestro rabbi, in cui la volta celeste era più sottile e le anime degli uomini scendevano tutti i sette cieli, provenienti dal “Magazzino delle Anime”, per incarnarsi nei loro corpi, seguendo i dettami della “Shevirat Ha-Kelim “, soltanto per volere del Creatore oppure risalivano lungo la scala di Giacobbe, secondo principi e virtù.

Due piccole fioche stelline20 erano poste ai lati della ‘Porta”, una un po’ a nord e l’altra un po’ più a sud, quasi a sorvegliarne e custodirne con rispetto il sacro accesso. Con umiltà pensò che anche la sua anima avesse fatto un giorno quello stesso tragitto, ed i suoi occhi brillarono di commozione, ma ricordò anche che, spesso, alcuni corpi celesti (Pianeti) vi finivano ‘dentro’ nel corso dell’anno. E quello, per tutti loro, era sempre un grande momento per onorare la magnificenza del Creatore. Anche quella sera stava succedendo quel momento meraviglioso e davvero speciale: il rosso “Maadim ‘ era proprio dentro alla “Porta”, ma c’era anche di più. La bianca “Nogah ” era posta un poco più a sud, ma davvero molto vicina alla “Shar Aischim” ed a “Maadim” che vi stava dentro in quel momento. Quello era un presagio nel cielo che sembrava fatto apposta per segnalare un evento davvero speciale, da ricordare per tutti loro, e che era stato scritto per sempre fra le stelle

Il cielo stellato, tra tutti gli spettacoli della natura, è quello che più è capace di scuoterci profondamente, stimolando la riflessione sulla nostra natura e sul “senso” della nostra esistenza, il cielo stellato è sentito come irraggiungibile, come ‘ultimo orizzonte” oltre al quale, al pari della siepe dell’infinito di Leopardi, non possiamo avventurarci se non con il pensiero. La sensazione di irraggiungibilità e di estensione illimitata nello spazio e nel tempo, suscitata dalla visione del cielo stellato genera in noi una mescolanza di sentimenti di ammirazione, per l’imponenza ed immanenza del Cosmo, e contemporaneamente di angoscia, nel momento in cui confrontiamo la nostra limitatezza con l’infinità del cielo. Il cielo è riprodotto sulla volta del tempio che non è, appunto, un luogo delimitato ma è l’intero cosmo nel cosmo.

La volta celeste posta sopra il Tempio, a prescindere dal suo contenuto fisico o della costellazione in essa rappresentata rappresenta anche un altro principio, spesso dimenticato della Massoneria, ovvero la crescita personale di ognuno Massone e il suo miglioramento personale.

Così come ci ha ricordato il G.M. nella sua ultima allocuzione[6]riportando la definizione di “religioso” delle scuole del Vedânta e della dottrina religiosa del Giainism0 [7][8]per le quali la Religione non è altro che il rapporto personale con un essere divino o trascendente a cui ci sottomettiamo e a cui rivolgiamo le nostre preghiere, per ottenere vantaggi materiali, oppure illuminazione spirituale, o morale e il cielo è universalmente il simbolo delle potenze superiori all’uomo, benevole o temibili.

In antichità gli Auruspici Etruschi indicavano con la presenza o assenza delle Stelle il «carattere» del Cielo, del Numinoso. In presenza di Stelle il responso divino è benevolo, al contrario un Cielo tempestoso rivela la collera divina.

Il cielo del Tempio è stellato, dunque benevolo.

Il Cielo rappresenta tutto ciò che sovrasta l’uomo, l’insondabile immensità, la sfera dei ritmi universali. Tutti gli esseri sono prodotti dall’unione «coniugale» del Cielo con la Terra, del Padre Celeste con la Madre Terra. In Egitto, però, curiosamente le polarità s’invertono. La dea Nut è celeste, il dio Geb terrestre: dalla loro unione nascerà, il Sole.

Nelle religioni orientali come l’induismo, il taoismo e lo shintoismo, il cielo stellato è spesso visto come un segno di una presenza divina. In alcune tradizioni, le stelle sono associate a divinità specifiche e il loro movimento è interpretato come un segno di volontà divina. Ad esempio, nell’induismo, le stelle sono associate ai pianeti e il loro movimento è usato per la previsione astrologica. Nel taoismo, il cielo stellato rappresenta la totalità dell’universo e il suo ordine cosmico. Inoltre, nello shintoismo, le stelle sono considerate una manifestazione della presenza divina in cielo.

Nelle tradizioni esoteriche e spirituali, il cielo stellato ha un significato simbolico profondo. Ad esempio, nella Cabala ebraica, le stelle rappresentano gli spiriti degli uomini giusti che hanno raggiunto la purezza spirituale. Nell’alchimia, le stelle sono viste come rappresentazioni dei diversi elementi e forze cosmiche che influenzano il mondo materiale. Inoltre, nell’astrologia, le posizioni e gli allineamenti delle stelle al momento della nascita di un individuo sono visti come influenti sulla sua vita e il suo destino. In molte tradizioni spirituali, il cielo stellato viene anche associato alla conoscenza divina e alla via verso l’illuminazione spirituale

Nell’Apocalisse il Cielo è la dimora di Dio; al contrario, i Celti non pongono in Cielo la residenza degli Dei. Nella cosmologia dei popoli uralo-altaici vi sono nove cieli, raffigurati attraverso tacche incise sull’Albero del Mondo, la Betulla.

Nella mistica sufi, le stelle sono viste come simboli dell’infinito e dell’eternità, e la contemplazione del cielo stellato viene considerata un modo per avvicinarsi a Dio e alla verità divina.

Per gli Algonchini americani26 i cieli sono dodici; mentre gli Aztechi parlavano di tredici cieli e nove mondi inferiori27. L’espressione «Figlio del Cielo e della Terra» appartiene sia ai Misteri Orfici, sia al Taoismo. Il Figlio del Cielo e della Terra è l’Imperatore (Wang) come archetipo del Vero Uomo, dell’lniziato.

La disposizione della Loggia varia secondo i Riti ma esistono regole assolutamente obbligatorie da osservare: la Loggia, di forma rettangolare. rappresenta il cammino che conduce dall’Occidente all’Oriente, cioè “verso la Luce”: il Trono del Venerabile all’Oriente, il suo lato destro indica il Mezzogiorno, il lato sinistro il Settentrione. Il soffitto rappresenta il cielo stellato. Infatti il Tempio simbolizza il Cosmo: ecco perché pur conoscendone le “proporzioni” non esistono “dimensioni”: la sua lunghezza va dall’Occidente all’Oriente, la sua larghezza dal Settentrione al Meridione, la sua altezza dal Nadir allo Zenit.

La contemplazione del cielo stellato viene vista come un modo per aumentare la consapevolezza di sé, per connettersi con la dimensione cosmica e per raggiungere una comprensione più profonda della realtà.

Il Tempio o Loggia è un luogo aperto e questo è anche fisicamente riscontrabile nella tavola di tracciamento di I grado dove non esistono pareti o limiti fisici in nessuna direzione, limitato per essere utilizzato in basso dal pavimento a scacchi e in alto dal cielo stellato.

Il cielo stellato rappresenta la divinità, la saggezza e l’ordine cosmico e simboleggia la presenza divina nell’universo. Il cielo stellato della Sala del Tempio costituisce sostanzialmente ad un invito a raggiungere una comprensione più profonda della realtà e a cercare la verità. Esso rappresenta la necessità di mantenere un ordine e una struttura nella propria vita, come nel cosmo: le stelle rappresentano gli ideali e i valori che i massoni cercano di perseguire nel loro cammino spirituale e nella vita quotidiana.

Quando una Loggia è impegnata nei lavori rituali questi vengono svolti sotto un cielo stellato e testimonianza del rapporto trascendente che esso ha con l’uomo. Questo rapporto è visto come un legame che supera la dimensione materiale e che connette l’iniziato con una realtà più grande e divina.

Nel platonismo, il cielo stellato rappresenta la dimensione delle idee eterne e l’uomo è invitato a elevarsi verso di esso per raggiungere una comprensione più profonda della realtà così come l’iniziato avendo accesso agli “strumenti” può andare oltre il semplice sguardo profano.

Nel neoplatonismo, il cielo stellato è visto come una manifestazione della divinità e la contemplazione delle stelle è considerata un modo per avvicinarsi a Dio, ragione per cui i nostri lavori si definiscono “rituali” essendo la ritualità l’unica strada che conduce alla Divinità.

Pur avendo visto le molte rappresentazioni nelle diverse arti del cielo stellato possiamo concludere che esso è sempre e assolutamente un riferimento esoterico e spirituale se posto come coronamento, sfondo o completamento di gestualità rituali o luoghi significativamente “rituali”. Il cielo stellato è sempre associato all’anima umana e alla sua dimensione spirituale, e la contemplazione del cielo stellato è sempre vista come un modo per raggiungere una comprensione più profonda di sé e della realtà, per il Massone una perfetta via da percorrere, come un ideale “Cammino di Santiago” lungo la Via Lattea.

La volta stellata è anche il simbolo dell’ideale di fratellanza, ciascun fratello è avvolto dalla stessa volta celeste, uniti l’uno all’altro dalle stesse luci e dallo stesso mistero, dallo stesso segreto; il fratello di Loggia è uguale, per ideale di fratellanza, al fratello di un altro differente luogo sulla terra, uguale al fratello di qualsiasi altra lingua troppo lontano fisicamente per essere incontrato nella vita profana. Il cielo della volta stellata del tempio, benché notturno, lo testimonia la presenza delle stelle, non è nero ma turchese colore di un momento particolare del giorno, quello dell’idea che, una volta infranto il velo della Notte, precede l’Alba e il Sorgere del sole della fratellanza.

Non ha valore rituale, quindi, questa o quella costellazione, il cielo stellato della Loggia, come in arte, non determina il valore esoterico del Tempio. Non importa quale sia la sua rappresentazione e cosa contenga – che rimane una libera scelta – ma l’importante è che ci sia poiché è un “simbolo”!

L’Iniziato che percorre la Via Iniziatica è in grado di ascendere al Cielo. Non si tratta di ottenere la Salvezza con la fede, quanto di ascendere al Cielo, diventando Divino.


[1] Dal termine indoeuropeo Tem. Il sistema morfologico dell’indoeuropeo (così come il sistema fonologico e in genere tutta la grammatica di questa lingua) è una ricostruzione frutto del confronto tra le lingue indoeuropee di attestazione più antica e, in mancanza di queste, tra le lingue moderne, ipotizzandone una origine comune. L’indoeuropeo è infatti l’ipotetica protolingua preistorica ricostruita che si ritiene comunemente essere

[2] Cfr. Michele Galassi – La volta celeste, il paradigma ermetico e la “coincidenza de lio osti” – Ma io 2015

[3] Parola ebraica (‘âmën), passata anche in altre lingue semitiche (siriaco, etiopico, ecc.), nelle versioni greche e latine del Vecchio Testamento e nei varî testi del Nuovo. Deriva dalla radice semitica ‘mn col senso “sostenere, esser saldo”, quindi “esser sicuro, certo, veritiero”

[4] Cfr Partitura per due pianoforti 108 Pagine;

[5] Si chiama così l’edificio, in particolare il tempio, privo di copertura nella parte centrale. Nessun tempio conosciuto era esattamente del’ tipo descritto da Vitruvio (III, 2) come ipetrale; vi si accostavano l’Olympieïon di Atene e il tempio di Apollo a Selinunte. cfr. A. Choisy,

Vitruve, l, Parigi 1909, p. 165

[6] Cfr. Religione e Sacro – Allocuzione nella Gran Loggia del 5 novembre 2022 Fabio Venzi

[7] Cfr. S.N. Dasgupta, Il Misticismo Indiano, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, pag. 31

[8] Gli Algonchini rappresentano l’insieme di tribù di na-

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LA GRANDE RELIGIOSITA’ DELL’EROE DEI DUE MONDI: IL SUO CREDO IN DIO, NEL VERO E NEL GIUSTO

                           LA GRANDE RELIGIOSITA’ DELL’EROE DEI DUE MONDI:                        IL  SUO CREDO IN DIO, NEL VERO E NEL GIUSTO

di

Aldo Chiarle

GIUSEPPE GARIBALDI, INTOLLERANTE

Dl OGNI IMPOSTURA DEI PRETI “PESTE DELL ‘ITALIA

Ancora oggi pochi hanno la visione chiara della religiosità alta e sublime di Giuseppe Garibaldi; la pubblicistica di dozzina lo fa passare per antireligioso e negatore di Dio.

Nulla di più inesatto, perché della religiosità e di Dio Giuseppe Garibaldi ha sempre fatto norma di vita. Annota l’eroe: “Chi è Dio? E’ il regolatore del mondo. E’ quella intelligenza infinita la cui esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia che regge i corpi celesti disseminati, chiunque deve confessare”

“Come tutti gli esseri, io sono dotato di una quantità di intelligenza e se l’intelligenza universale che anima tutto è Dio, io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Divinità, sarei una parte e questa idea mi nobilita, mi soddisfa fa qualcosa del mio nulla e contribuisce a sollevarmi dalle miserie di questa vita.

“Io accenno, ma non insegno, poiché mi sento troppo infinitamente nulla al cospetto dell’onnipotente per poterne ragionare. Semplice bella e sublime è la religione del vero; essa è la Religione del Cristo, poiché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’Eterna Verità. “Non fare agli altri ciò che non vorreste per voi” e “Chi non ha sbagliato, getti la prima pietra sul delinquente”. “Di fratellanza il primo concetto e simbolo di perdono il secondo. Simboli, precetti, dottrine che, radicati negli uomini, costituirebbero quel grado di perfezione e prosperità a cui è suscettibile giungere”

Ma se era grande la religiosità di Garibaldi, grande era la sua reazione contro le imposture religiose.

Il suo anticlericalismo non era di maniera, non era vuota retorica ma era l’esplosione di un animo generoso, conscio della assoluta inconciliabilità del prete con un domani migliore, ln cui il trionfo della libertà e della giustizia spianasse il cammino all ‘illuminato progresso.

“E’ dovere di ogni italiano di combattere il prete, peste dell’Italia”, egli scriveva il 25 agosto del 1868 e il I gennaio 1889 scrive da Caprera ad un convegno di liberi pensatori, augurandosi presto fosse cancellata “la cancrena sacerdotale che appesta il paese”.

Agli organizzatori di un solenne comitato per estendere a Roma e al Lazio la “Pressione delle corporazioni religiose, così il generale nel 1870: “abolire le corporazioni religiose è salvare l’ Italia dalla rogna più pericolosa da cui possa essere colpita una nazione .. .il sacerdozio è puntello di ogni tirannia mascherata… non istiamoci garruli ed indolenti a contemplare cretinamente ciò che si trama a Roma per colpirci col doppio gioco della menzogna e del furto”

E successivamente aderendo al Congresso razionalista di Bruxelles proponeva i seguenti punti:

  1. I liberi pensatori sono apostoli del vero, cioè della ragione, della scienza, e però sono anche i migliori istitutori dei popoli e le scuole debbono essere laiche.
  2. I preti, a qualsiasi religione rivelata appartengono (buddismo, maomettismo, cattolicismo, ecc.), sono falsi apostoli. Essi, gli autori delle torture, dei roghi, dei sacrifici umani, sono i naturali nemici delle nazioni, che hanno mantenuto e che mantengono sempre in sanguinose discordie.

E pochi mesi prima della sua morte, quasi presago della fine, Garibaldi scrisse due lettere, una ai messinesi e l’altra ai palermitani e le volle scrivere di suo pugno.

Ai messinesi: “…ricordando il più grande eroismo di popolo che registri la storia del mondo, il Vespro, vi rammenterò soltanto che gli assassini dei nostri padri di quell’epoca furono mandati e benedetti da un papa e che i successori di quell’infallibile scellerato hanno venduto l’Italia settanta volte allo straniero e che oggi stesso stanno trattando di venderla e non vi riescono per mancanza di mediatori e di barattieri”. Ai palermitani “A te, Palermo, città delle grandi iniziative!

Maestra nell’arte di scacciare i tiranni, a te appartiene di diritto la sublime iniziativa di scacciare dall’Italia il puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti, il patriarca della menzogna, che villeggiando sulla destra del Tevere, sguinzaglia di là i suoi neri scagnozzi….”.

Ma I ‘idiosincrasia per la “nera tonaca” copre un sottofondo ma serio, è la sensibilità di un grande uomo per i problemi dello stato di diritto, per una società laica responsabile e democratica, “L’Italia – scrive Garibaldi – è il paese dove il governo e i preti, mantengono diciassette milioni di analfabeti”

E il suo giudizio sulle Leggi delle Guarentigie, dopo Porta Pia, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa è deciso e drastico: “L’Italia amoreggia oggi con l’idea sacerdotale e la lecca, l’accarezza, supplicandola genuflessa, acciocché le mantenga i suoi figli nella ignoranza e nell ‘abbruttimento, chiamando l’atto suicida delle garanzie”.

Per Garibaldi il papato rimane “sempre il mortale nemico della libertà italiana e lo ha sempre contro in tutte le sue battaglie: gli austriaci da parte loro e i preti non mancano mai di fare le indagini possibili per scoprirmi… i preti poi dal pergamo e dal confessionale suscitano le cittadine ignoranti a far la spia per la maggiore gloria di Dio”

Nel suo testamento, vergato di pugno, scrive: “Ai miei figli, ed a quanti dividono le mie opinioni, io lego I ‘amore mio per la Libertà, per il Vero, il mio odio per la menzogna e la tirannide”

“Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete profittando dello stato in cui si trova il moribondo e della confusione che sovente vi succede, s ‘inoltra e mettendo in opera ogni turpe stratagemma e coll’impostura di cui è maestro che il defunto compiti, pentendosi delle sue credenze passate ai doveri di cattolico, in considerazione, io dichiaro che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole, scellerato di un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell ‘Italia in particolare. E che solo in istato di pazzia o di ben grassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada”

Terminiamo questa carrellata sul pensiero di Garibaldi uno scritto che ci auspichiamo venga meditato perché di palpitante attualità: “Quando io penso al potere dei preti, conservato ad onta d’ogni scelleraggine appenda credibile e di cui dovrebbe essere incapace l’umana natura anche di idearle, dico che in questo secolo che si chiama civile mi viene sovente il dubbio che cotesti cretini a cui appartengo per forme, altro non sino che una delle tante famiglie di scimmie da me vedute nel nuovo mondo”

“Un prete è un impostore. Chi può provare il contrario? E vi vuol poi tanta matematica per capirlo? Eppure la potenza di quell ‘essere malefico continua. Le plebi ne sono affascinate ed il despotismo si serve di cotesto fascino per malmenare i popoli. E si grida da una parte e si fa i sordi dall’altra, ed intanto va avanti questo bordello chiamato costituzione di popolo libero”.•

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LA DIFFERENZA DELLA MASSONERIA

LA DIFFERENZA della MASSONERIA

di

Vittorio Emanuele Esposito

(R.L. “I Pitagorici” n.387 Oriente di Crotone – Valle del Neto)

Uno dei temi centrali di questa inquieta e problematica fine di secolo è quello della “diversità”: concetto utilizzato, sempre più frequentemente, per legittimare le aspirazioni particolaristiche di comunità, gruppi e individui che mirano a ritagliare il proprio spazio entro o contro gli assetti istituzionali esistenti, nell ‘ alveo dei grandi processi di unificazione, economica, politica, culturale, che interessano il mondo odierno.

E’ chiaro che non si può prescindere dalla considerazione di quanto vi è di specifico nelle varie situazioni umane, collettive e individuali, e che non si può negare il diritto di nessuno alla ricerca dell ‘ autonomia, senza mettere in dubbio il principio stesso della libertà; il quale, d’ altra parte, può essere rivendicato soltanto sulla base del reciproco riconoscimento, della comprensione vicendevole e paritetica delle condizioni e delle ragioni dell’altro.

L’idea di un mondo unito, che oggi, nell ‘era spaziale, si va concretamente delineando al nostro orizzonte, non può certo svilupparsi all ‘insegna di una razionalizzazione livellatrice, che cancelli determinazioni naturali e storiche rilevanti e persistenti, senza averne compreso e apprezzato il valore, ma nemmeno si può realizzare in assenza di un forte consenso su ciò che accomuna gli esseri umani, al di là delle loro reciproche differenze.

Al contrario la critica della ragione illuministica ha prodotto esiti relativistici, attraverso la negazione della centralità del soggetto, che viene visto nella sua individualità determinata biologicamente, psicologicamente e culturalmente, cioè nella sua differente particolarità e non più sotto l’ aspetto della coscienza e della capacità di giudizi e di valutazioni incondizionati.

La cultura della “diversità” e della “differenza”, si va affermando in questi anni in forme e manifestazioni che suscitano interrogativi preoccupanti, dal momento che, in tutte le sfere della vita associativa e all’interno stesso della personalità individuale, essa alimenta non già equilibri più naturali e stabili, come si potrebbe supporre, ma un generalizzato e progressivo aumento del tasso di aggressività e di conflittualità.

Da questo punto di vista, la Massoneria, sebbene venga spesso accusata di diffondere una ideologia relativistica, esprime, invece, una concezione e un programma di vita opposti a quelli che caratterizzano le tendenze del nostro tempo.

Infatti, l’esperienza che da secoli si compie all’interno dei templi massonici ribadisce e rinnova uno stesso atto di volontà consapevole, indicando a tutti gli iniziati una via ben diversa da quella che sembra aver imboccato il mondo profano.

I filosofi che oggi celebrano la “differenza” originaria e quanti glorificano gli “eventi”, valorizzandoli semplicemente per la loro novità ed esclusività, si rappresentano una realtà ridotta alle sua manifestazioni più appariscenti, superficiali ed effimere, in cui il sapere cede il posto ai “saperi” e si configura come un labirinto senza centro e senza confini, in cui si naviga alla deriva, in un mare senza approdi e ognuno cerca di salvarsi sulla zattera di un’ identità labile e provvisoria, pronto a saltare su quella che, di volta in volta, gli si presenti come più comoda e più sicura.

La logica della diversità, con la quale oggi individui e gruppi, sempre più numerosi, si autogiustificano e si autolegittimano, è quella della reciproca incompatibilità ed esclusione e si afferma in scelte di isolamento e di contrapposizione, in comportamenti arroganti, fanatici, violenti, al di fuori della relazione attraverso cui, invece, le differenze si costituiscono e acquistano diritto alla cittadinanza.

Questa è la pericolosa tendenza del nostro tempo, quale emerge nei fondamentalismi e nei rigurgiti integralistici delle religioni, nella autoesaltazione di presunte e conclamate identità etniche e territoriali, nelle asprezze della quotidianità politica, in cui sembra smarrito il senso della misura e del decoro, nel malessere dilagante all’interno della società, della famiglia, del singolo individuo.

Se mai l’ assassinio e la guerra hanno trovato un motivo che li renda ammissibili, i delitti e le tragedie di cui siamo giornalmente testimoni si distinguono per la loro terrificante gratuità, avendo come loro base motivazioni inconsistenti, falsi ideali, progetti folli, alimentati dall’ideologia, seguita al crollo dei grandi sistemi: l’ideologia, appunto, dell’ assenza di un centro e della differenza.

Al contrario, ciò che hanno di specifico le diverse aggregazioni etniche, culturali, linguistiche, politiche e sociali, in quanto formazioni storiche, legate al tempo e alle circostanze, può e dovrebbe continuare ad essere difeso unicamente sul fondamento di un principio che le accomuna e le trascende.

Di questo principio, a cui è sottomessa la molteplicità che si svolge nella dimensione del tempo e dello spazio, attraverso lotte e conflitti, altrimenti privi di senso, noi massoni, invece, conserviamo la memoria e manteniamo viva la consapevolezza.

Riunendoci nelle nostre officine noi rivolgiamo lo sguardo al “Re dell ‘universo”, come l’ antico filosofo designò tale principio, e ci esercitiamo a considerare questo nostro mondo non come una irrappresentabile baraonda senza scopo, ma come il suo ordinato regno, visibile attraverso le tracce di un disegno cosmico e concretamente percepibile attraverso I ‘ armonia che siamo in grado di raggiungere dentro di noi, nelle relazioni con gli altri, nei rapporti con la natura, di cui ci sentiamo parte e, insieme, specchio, quando riusciamo a purificarci dalle passioni esclusive e a sottrarci al caos delle differenze. Per questo orientiamo la nostra mente all’unità, piuttosto che alla molteplicità, e coltiviamo l’idea di un unico progetto e di un comune destino. Per questo professiamo la nostra fede nell’uguaglianza, convinti che, nella luce della coscienza, che brilla ugualmente in tutti gli esseri umani, e non nella differenza delle storie personali, sia la verità e il valore dell’ uomo.

Se non riconosciamo in questa tensione verso l’unità, la verità e il bene, l’autentico significato della presenza massonica nel mondo, non possiamo dubitare che il sentimento che ci ispira venga compreso e condiviso, prima o poi, da tutti quelli che avvertono come non vi sia vera comunicazione tra gli esseri umani, senza un rapporto di fraternità, senza una correlazione tra anime, diverse perché uguali e complementari.v

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ANALISI E SINTESI NELL’UOMO MODERNO E NELLA CIVILTÀ’ CONTEMPORANEA


NALISI E SINTESI NELL’UOMO MODERNO E NELLA CIVILTÀ’ CONTEMPORANEA

di

Paolo Caradonna Moscatelli

Alle soglie del “terzo millennio ” e dell’età dell’Acquario, l’uomo moderno appare lacerato da contraddizioni individuali e collettive che lo rendono sul piano animico e spirituale una “.monade stanca ‘

Tutti i punti fermi della vita, capisaldi dell’esistenza dell’uomo antico e della sua visione del mondo “per ordini”, sono sconvolti.

E’ quindi venuta meno quella visione piramidale del mondo sensibile e sovrasensibile che aveva la sua pietra angolare nel “principio di autorità” che scendeva “per li rami” da un Essere Supremo, fino alla intima essenza di ogni materia e di ogni manifestazione della Forza.

La caduta di questo principio solare di autorità che dava una sanzione e un ordine agli eventi naturali e permetteva una profonda proiezione dell’uomo sul piano spirituale (anticamera della comprensione della legge di analogia), da un lato permette di vivere una materialità sempre più tesa ai bisogni di comodità a lungo repressi nei secoli, dall’altro identifica l’uomo con i suoi bisogni, facendo obliare la citata legge di analogia, estraniando l’uomo da se stesso, dalla sua intima essenza.

Da ciò il rifugio della scienza, intesa come “summa analisi” per procacciarsi il bisogno materiale sempre più raffinato, a scapito talora del godimento pieno ed interiore del bene conquistato.

La parcallizzazione propria della scienza moderna può essere considerata come la esasperazione del la analisi che si approfonda nei vari campi del sapere, creando specialisti sempre più preparati e sempre più settoriali.

Ne deriva un tumultuoso divenire che espropria l’ uomo comune da una dimensione e da una comprensione globale del suo tempo; e questo accade proprio mentre i mezzi di comunicazione in real-time dilatano lo spazio a livelli planetari.

Ma il tempo dell’uomo moderno appare frazionato in tanti tempuscoli seguendo una serie infinita e randomizzata di rapporti causa-effetto che annulla il senso di unità personale, di unità naturale e cosmica, e, in definitiva, il senso del sacro.

L’ ascolto costante di una messe infinita di notizie, di nozioni, di fatti spiccioli, privi del necessario tempo di elaborazione (fase del silenzio) e della critica consapevole, ci rende simili a radio che propagano nell’ etere vibrazioni altrui senza ritenerne alcuna e, peggio, senza conoscere la natura sovrasensibile della parola e del pensiero come creazione.

Né va taciuto che la mancanza di una formazione critica e la diffusione di mode massificanti sempre più effimere, permette il facile dominio delle folle e il plagio di un orientamento collettivo.

L’effetto amplificante della rivoluzione industriale prima, e della rivoluzione tecnologica poi, ha fuorviato l’ uomo moderno da se stesso inteso come soggetto/oggetto di unità donandogli, in compenso, una presunta onnipotenza sul mondo del sensibile, inteso come riproducibile e misurabile.

La prima conseguenza è lo scotoma del non visibile, con la negazione del sacro vissuto come tessuto connettivo dell’esistenza dentro e fuori di sé.

In campo medico, per esempio, una miriade di specialisti, si affanna intorno ad uovo, studiandolo nei dettagli consentiti dalle possibilità tecnologiche, ma negandogli al contempo l’unità della mente e la dignità dell’uomo.

Con ciò non si vuole negare l’indagine diagnostica approfondita ma se ne contesta la freddezza disumanizzante.

La diffusione ormai epidemica delle malattie psicosomatiche conferma le mie parole.

In campo militare, la possibilità di una distruzione a distanza del nemico, nega la necessità del coraggio del singolo, della solidarietà nella compagine e in definitiva la scoperta in sé di quei valori etico-esotericomilitari che avevano forgiato la Cavalleria, giunta a noi come galateo essoterico.

Emerge quindi prepotente la necessità della sintesi quale antidoto allo stato delle cose, perché la sintesi presuppone e tende all’unità (anche senza raggiungerla) e quindi necessita di ben precise direttive logiche attuabili dall ‘iniziato con metodo analogico.

ORDO AB CHAO. E alla sintesi UNO si perviene attraverso una riappropriazione della unità fondamentale di tutto ciò che esiste, della Causa, della Forza e della Azione, per noi iniziati, e con la profonda consapevolezza fra uomo e macrocosmo.

La legge analogica di Ermete Trismegisto spiega tutto questo con dovizia.

Ma occorre anche modificare ” nella secreta camera dello core ” la dimensione e la percezione dello spazio-tempo.

Si dovrebbe intuire che il tempo non è una dimensione verticale di eventi in successione ma una dimensione orizzontale di un presente eterno i cui limiti alla comprensione sono solo nella  natura umana del lettore. Questo riporterebbe all’unità in quanto totale ed immanente compresenza del G.•.A .•.D .•.U .

Lo spazio sarebbe invece una dimensione verticale, in una successione ordinata di piani più o meno sottili di cui riappropriarsi in ordine crescente.

Questo creerebbe comunque una tensione verso l’ alto, verso I ‘ ombelico di Brahama in termini di legge di analogia tra uomo e macrocosmo.

Per parlare in linguaggio junghiano, si avrebbe allora una compressione dell’Io individuale, oggi ipertrofico perché unica ancora e pesante limite dell ‘uomo moderno, e la riappropriazione del Sé inteso come percezione logica di una essenza comune a tutti gli esseri umani.

E dalla ambizione di questa conquista e dalla necessaria umiltà con cui accingersi a conseguirla che si può evincere l’intimo significato della LIBERTÀ ‘, della UGUAGLIANZA e della FRATELLANZA. •

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EMMANUEL GIUSEPPE COLUCCI BERTONE

   EMMANUEL GIUSEPPE COLUCCI BARTONE

Macchina del Tempo: “Lo strano caso” di Jules Verne e Dante Alighieri.

Calma, non state per leggere un articolo fantascientifico o pseudo storico, riguardo viaggi nel tempo, nei quali sarebbero coinvolti i due scrittori nominati nel titolo; né tantomeno, quello sopra, rappresenta un titolo esca, finalizzato a catturare l’attenzione dei lettori.

In questo nuovo articolo-studio, in realtà, analizzeremo uno strano quanto particolare collegamento che ho avuto modo di osservare tra Dante Alighieri e Jules Verne, che va oltre i quasi sei secoli che li dividono e, nella fattispecie, che ho riscontrato all’interno di due loro opere specifiche.

Chiunque, conosce il ”Sommo Poeta”, e la sua opera più famosa che nei secoli è divenuta oggetto di studio, di ricerca, ma anche simbolo della stessa italianità nel mondo: la Divina Commedia. Non ritengo perciò che vi sia bisogno di ulteriore introduzione per l’autore fiorentino vissuto nel periodo medievale.

Forse più bisognoso di presentazioni (non essendo, al contrario di Dante, un autore facente parte della cultura popolare italiana) potrebbe risultare invece Jules Verne.

Nato nella francese Nantes, nel 1828, e morto ad Amiens nel 1905, è stato un famoso scrittore di romanzi di avventura, e iniziatore del genere fantascientifico che oggi siamo abituati a guardare nei vari film e serie Tv, che ormai da anni si sono stabiliti all’interno di questo genere narrativo.

Sebbene nella cultura italiana, soprattutto quella del nostro tempo, Dante Alighieri risulti certamente essere più conosciuto del suo ”collega” francese, nondimeno Jules Verne può essere annoverato senza esitazioni, tra autori più tecnici di sempre. Ma adesso cerchiamo di scoprire e conoscere le due Opere letterarie interessate, e secondo quali aspetti, sono stati rilevati elementi in comune, che metterebbero in relazione i due scritti.

Due autori: due opere a confronto

Come è giusto e logicamente corretto che sia, non si può analizzare e parlare delle opere di uno scrittore, prescindendo dall’analisi dello scrittore stesso; a maggior ragione se poi il suo prodotto narrativo, risulti essere estremamente complesso e denso di significati, simbolismi, intenzioni…

Per affrontare la trattazione di questo articolo, e partendo da Dante Alighieri e dalla sua opera più importante, La Divina Commedia che, in questo studio, farà da co-protagonista insieme a quella dell’autore francese, Le Indie Nere, non mi addentrerò ovviamente in una minuziosa analisi dei due scritti, sia perché non risulta essere questo, l’oggetto del presente studio, e sia perché un lavoro del genere, richiederebbe ben più di un articolo pubblicato (quantitativamente e qualitativamente parlando).

Ciò che invece si andrà ad osservare, relativamente alle due opere, avrà invece come campo d’indagine, molto più l’aspetto macroscopicamente ermeneutico e simbolico che i due autori abbiano avuto intenzione di rappresentare (o di celare) nei loro prodotti narrativi, e le loro relative somiglianze e correlazioni che eventualmente si riuscirà a trovare e dimostrare.

1. Dante Alighieri e la Divina Commedia

Come già affermato, la Divina Commedia dantesca, così come il suo autore, non necessitano affatto di presentazioni, o di noiose prefazioni o introduzioni intellettualoidi, soprattutto perché ho già provveduto a negare che fosse questo, lo scopo del presente studio. Non starò quindi qui ad annoiarvi, con quello che di tale favolosa opera letteraria già conoscete, o che potreste conoscere andando a documentarvi su studiosi che, dello studio dell’opera più importante del poeta fiorentino, ne abbiano fatto un impegno di vita.

Più che dilungarmi, allora, su ciò che la Divina Commedia sia, ho invece intenzione di porre all’attenzione del lettore, proprio ciò che la Divina Commedia non possa e non potrà mai essere.

    Iniziamo innanzitutto affermando, senza alcun dubbio, che si può riconoscere come lo scritto dantesco non sia stato affatto ideato (come alcuni debolmente hanno in passato ipotizzato), per divenire una ”chilometrica” poesia d’amore per un’ipotetica donna di cui il poeta si fosse potuto innamorare. Si può tranquillamente ritenere che il genio letterario assoluto che partorì un capolavoro del genere, sia stato ispirato da una motivazione ben più ”alta”, di una dedica amorosa.

    La Divina Commedia (proseguendo), nemmeno può essere identificata come un tentativo, da parte del suo autore, di intentare la realizzazione di un’opera di stampo prettamente teologico-Magisteriale. La motivazione con cui si può pronunciare con molta sicurezza un tale assunto è che, nel pieno del medioevo, la Chiesa poteva vantare un assoluto monopolio relativo all’azione ex Cathedra docendo, cioè alla possibilità di pronunciarsi su dogmi di fede e questioni relative all’ambito teologico. Certamente Dante Alighieri, nella realizzazione di quel capolavoro che oramai da secoli l’umanità sta avendo la possibilità di leggere, fu chiaramente provvisto delle conoscenze teoretiche in ambito teologico e dogmatico, necessarie per poter realizzare un’opera simile, ma ovviamente non avrebbe mai avuto la presunzione, né la motivazione di fondo e né tantomeno l’ardire, di potersi aggiungere o sostituire alla Chiesa, in fatto di attività teologico-dommatica.

    Andando avanti, possiamo affermare in itinere che un’altra cosa che la Divina Commedia non è mai stata, fu quella di fungere da opera Magisteriale, con cui sostituirsi alla ruolo della Chiesa, nel pronunciamento giudiziale sulla sorte ultraterrena delle anime dei personaggi che il poeta incontrò nel suo triplice viaggio (Inferno, Purgatorio, Paradiso). Le motivazioni, sono ovviamente le medesime o simili, di quelle analizzate nel punto precedente.

Ma allora, cosa fu realmente la Divina Commedia? Sintetizzando forse un po’ troppo banalmente la risposta, si potrebbe dire che essa, fu tutti e tre i punti precedentemente elencati e, contemporaneamente, nessuno di essi.

Molto più semplicemente ed ingegnosamente, si può affermare che Dante Alighieri abbia pensato la struttura di tale prodotto narrativo, per fare in modo che l’opera stessa, dietro ciò che poteva apparire, celasse invece ciò che realmente fosse. Dante Alighieri, allora, non fece altro che utilizzare lo strumento che tanti altri scrittori hanno spesso utilizzato: il linguaggio ermetico. Ovviamente il poeta fiorentino si servì di tale mezzo narrativo, in maniera certamente più moderata rispetto ad altri ermetici del passato, al punto che la Divina Commedia, non sembrò mai un’opera il cui significato apparisse totalmente oscurato da tante parole e frasi che apparentemente sembrassero non poter significare nulla; al contrario, invece, lo scrittore italiano fu così abile da nascondere, nella sua realizzazione letteraria, una serie di livelli semantici, ognuno con il proprio nucleo di significato, ed ognuno validamente accettabile, cosicché ad oggi, sembra ugualmente ammissibile l’ipotesi amorosa, l’ipotesi teologica o l’ipotesi Magisteriale.

Ciò che ad uno sguardo attento traspare, è che il poeta fiorentino abbia deciso di occultare un messaggio simbolico ed iniziatico, dietro la convincente parvenza di un’opera realizzata con uno scopo a tratti romantico, a tratti teologico magisteriale.

Come ben si ricorderà, la struttura narrativa della Divina Commedia, si incentra su di un viaggio che l’Alighieri compie, dopo ”che la diritta via era smarrita”, passando nei tre luoghi ultraterreni (inferno, purgatorio e paradiso), nei quali le anime dei defunti possono approdare secondo la dottrina cristiana, una volta staccatesi dai propri corpi mortali.

Si può quindi affermare che il poeta, al di là della triplice apparente metafora con cui decise di rivestire la sua opera, volle invece molto più specificamente affidare al suo scritto, evidentemente la tradizione e la custodia di una propria coscienza e conoscenza iniziatica, che decise di dissimulare per mezzo di simbologie ed analogie, dietro l’impalcatura di un viaggio.

La conferma che ritengo di poter dimostrare di tale ipotesi appena formulata, giungerà con l’esame comparato dell’opera Verniana citata qualche paragrafo sopra: Le Indie Nere. Ma andiamo per gradi.

2. Il simbolismo grafico e semantico di Jules Verne

Prima di procedere ad una comparazione effettiva, tra le opere dei due scrittori, è necessario procedere ad un altrettanto attento esame di quello che sia lo sfondo innanzitutto psicologico, poi ermeneutico, culturale e letterario, dell’uomo Jules Verne; ciò appare necessario, non solo per poter gettare la base di un’uniforme possibilità comparativa tra i due protagonisti di questo articolo, ma anche e soprattutto perché lo scrittore francese non risulta assolutamente da meno, rispetto al suo collega italiano, in fatto di complessità ed ermetismo dei suoi scritti; anzi, si potrebbe forse azzardare ad affermare che Verne risultò perfino più intricato ed aggrovigliato, nel suo linguaggio letterario, rispetto ad un’opera come quella della Divina Commedia, che comunque fu la figlia di un periodo letterario e sociale assolutamente diverso da quello di fine ‘800 inizio ‘900, nel quale si colloca il francese.

Ma entriamo subito nel vivo; non ho dubbi che le premesse con cui abbia descritto la produzione letteraria di Jules Verne, abbiano certamente smosso la curiosità del lettore (o quantomeno di chi non conosca approfonditamente lo stile verniano), che giunto a questo punto, si starà chiedendo quale sarà mai la peculiarità narrativa, che abbia reso questo scrittore così interessante e famoso.

Ebbene, osservando già solamente a grandi linee, la produzione dello scrittore francese, si può notare la sua sterminata passione per quella che noi oggi definiremmo l’enigmistica; Jules Verne infatti, per comunicare, amava servirsi di qualunque gioco di parole o dei loro significati, che potesse dare poi vita a crittogrammi, anagrammi, logogrifi e palindromie. Jules Verne fin da giovane, come tante sue biografie ci testimoniano, amava comporre frasi che contenessero al loro interno anagrammi relativi a nomi di persone o parole, giochi fonetici di pronuncia attraverso i quali, una frase soprattutto se in lingua francese, se pronunciata con una cadenza velocizzata o rallentata, o una diversa pausa tra le parole, poteva invece significare un totalmente altro rispetto alla sua scrittura originaria.

Per far entrare il lettore nel concetto che qui si sta esprimendo, e quindi passando da illustrazioni teoriche ad esempi pratici della tecnica ermetica ed enigmistica di Jules Verne, si può pensare, per esempio, ad una delle sue opere più famose e conosciute: ”Viaggio al Centro della Terra”, nel quale per l’appunto, celando dietro un intento narrativo apparentemente solo avventuriero, una volontà comunicativa iniziatica invisibile (o quasi), possiamo osservare che il protagonista, Axel, viene iniziato a questo viaggio al centro della terra, da suo zio Lidenbrock, che scomposto e tradotto dall’etimo di lingua inglese di cui è composto, emergerà il significato di ”colui che spalanca gli occhi” (lid=palpebra e brocken=rompere).

Come alcuni filosofi e studiosi francesi hanno molto spesso proposto ed avanzato, tra i quali lo stesso filosofo Michel Serres, le opere verniane, dietro l’impalcatura narrativa classica di un’iniziale ricerca misteriosa o risoluzione di un enigma, nascondono spesso invece uno o più sentieri interpretativi che rimandano all’ermetismo, al simbolismo rituale o esoterico. Lo stesso filosofo francese, in una delle sue tante attività di interpretazione delle opere di Jules Verne, riferendosi al significato dell’opera verniana dell’isola misteriosa, afferma: ” L’Isola è il primo microcosmo nel cerchio delle acque. Chiusa in sé stessa, si entra per miracolo: dall’alto, con un pallone gonfiato dall’aria, dal basso mediante un passaggio sottomarino, dal centro attraverso una colonna di fuoco di un cratere. Miracolo d’aria, d’acqua, di fuoco e di terra”.

E che dire di un’opera giovanile di Jules Verne, rimasta inedita ma ritrovata nel suo carteggio personale, che vede la sua trama svolgersi tra le rovine della Clavurerie (Clavé= la chiave) e le rovine dell’Emeri (secondo i giochi di parole verniani, Emeri come richiamo all’Ermetismo e ad Ermete Trismegisto); In questa opera, i personaggi, seguendo il cammino degli allievi(iniziati), giungono a decrittare un messaggio esoterico per mezzo della strega Abraxia, quando l’Abraxas è nel simbolismo, un pentacolo gnostico.

Insomma, le tracce del simbolismo ed ermetismo verniani, sono veramente copiose all’interno delle sue opere letterarie, che furono ben lungi dall’essere pensate come semplici romanzi d’avventura, strutturati con elementi di suspense e mistero fini a sé stessi, ma furono costruite ed innalzate all’interno di un’impalcatura ermeneutica che conferisce ad ognuno dei singoli elementi (dal nome dei personaggi fino all’ultimo apparente dettaglio marginale) un’appartenenza e significato organici e sistematici, con una ratio causale e finale, pienamente fondata sull’intenzione comunicativa dello scrittore stesso.

I due scrittori e loro opere a confronto

Giunti adesso alla fase conclusiva di questo articolo, andremo adesso ad effettuare quelle comparazioni simboliche, semantiche ed ermeneutiche, che ritengo di aver ritrovato all’interno delle opere dei due autori, che abbiamo visto accennare all’inizio di questa trattazione: La Divina Commedia e Le Indie Nere.

Nel paragrafo relativo all’opera dantesca, ci eravamo lasciati con dei riferimenti all’elemento principale e fondativo, sul quale tutta la Divina Commedia è stata costruita, ovvero proprio l’elemento del viaggio che, stranamente, è lo stesso elemento che caratterizza Le Indie Nere di Jules Verne.

Ovviamente, non è questo elemento alquanto generico, a voler costituire il fattore determinante di questo articolo; anzi, giunti a questo punto, dopo tante spiegazioni intermedie relative ai due autori protagonisti, ritengo di dover velocizzare la presente trattazione, di modo da renderne anche più fluida la comprensione, da questo punto in avanti.

Ciò che allora farò, sarà quello di esporre fin da subito, la teoria (o l’ipotesi) che ritengo di aver individuato in questo esame comparato di modo che, via via proseguendo, nei passaggi che seguiranno, sarà il lettore stesso a giudicare l’opportunità o meno di quello che verrà qui esposto.

Sia nell’opera dantesca che in quella verniana, mi è apparso subito evidente dopo un’attenta analisi, l’elemento non solo iniziatico, ma anche e soprattutto spirituale, non come lo si potrebbe intendere secondo paradigmi cristiani o religiosi, ma secondo quelle linee dottrinali facenti capo allo gnosticismo ermetico. Sia nella Divina Commedia che nelle Indie Nere, infatti, ho avuto la sensazione che i veri protagonisti non fossero quelli in carne ed ossa illustrati nei due scritti, ma fossero molto più speculativamente delle personificazioni dell’anima, e del viaggio che la stessa, secondo i due scrittori, dovrebbe autonomamente fare, in un cammino molto più gnostico ed individualistico, che non invece di vera fede e gerarchico nei confronti di un Dio Essente e Supremo.

    Nella Divina Commedia, il poeta si trova misteriosamente smarrito nella selva oscura ed ai piedi dell’entrata dell’inferno; inspiegabilmente in ottica cristiana, dal momento che Dante al tempo doveva già essere stato battezzato. L’incipit avviene quindi con questo smarrimento dalla strada maestra ed il ritrovare sé stesso vicino all’entrata dell’inferno, cioè al caos ed al disordine della spiritualità.

    Similmente, in Le Indie Nere, Verne fa iniziare l’opera nella vecchia miniera di carbone di Aberfoyle luogo della Scozia (casualmente), che stranamente è l’unica località scozzese del suo circondario, a non aver mai avuto giacimenti carboniferi. Similmente all’apertura dello scritto dantesco, anche qui c’è un’iniziale situazione di caos, confusione e pericoli, che qui l’autore rappresenta con pericoli di frane (elemento terra) incendi (elemento fuoco) inondazioni (elemento acqua) e scoppi di grisù (elemento aria) all’interno della miniera.

    Nella Divina Commedia, Dante ritrovatosi in questa selva oscura, ed avendo compreso di aver smarrito la retta via, tenta allora l’esplorazione di questo luogo che lo avrebbe condotto alle porte dell’inferno, dal quale, anche volendo non avrebbe potuto fare ritorno sui suoi passi. Decide allora di proseguire, addentrandosi nell’inferno, insieme alla sua guida, Virgilio. Giunto nell’inferno, per lo spavento e la stanchezza, Dante perde i sensi svenendo.

    In Le Indie Nere, allo stesso modo, il protagonista, Harry Ford, decide di esplorare con degli amici, una galleria della vecchia miniera, con la speranza di poter assicurare alla miniera un nuovo splendore. Ma quando avevano deciso di fare ritorno sulla strada di partenza, il passaggio venne totalmente bloccato, facendo smarrire la via del ritorno, e rendendo incastrato il protagonista in una ”miniera” oscura. Nel frattempo, similmente al dantesco Virgilio, giunge in aiuto come guida per Harry, il suo amico Jack Ryan per aiutare il suo amico a fuggire da quel luogo. Anche in Le indie Nere, il protagonista sviene perdendo i sensi, all’inizio delle peripezie.

    Nella Divina Commedia, tutto ciò che nei tre viaggi effettuati da Dante, faccia apparire distaccati i luoghi e i relativi personaggi, soprattutto quelli che gli fungono da guida, sarebbe in realtà da interpretare come un unico filone composto di tre atti, piuttosto che tre mini-opere ognuna indipendente ed autoreferenziale dall’altra. Se è vero che il cammino che compie il poeta fiorentino, simboleggia la percorrenza del sentiero di trasformazione compiuto dalla sua anima, i tre personaggi che egli incontra come guide (Virgilio, Beatrice e San Bernardo di Chiaravalle), rappresenterebbero allora ognuno un attributo o itinerario di percorrenza, per raggiungere un certo punto di arrivo o grado di perfezionamento dell’anima. Seguendo allora quanto premesso precedentemente, su di un’interpretazione unitaria della Divina Commedia, si potrebbe allora ipotizzare che anche all’inizio del suo viaggio all’inferno, Dante avesse già chiaro dinanzi a se, sia dal punto di vista narrativo dell’opera che anche simbolico e quindi sostanziale del suo significato ermetico, quale sarebbe stato il punto di arrivo del suo itinerario sovrannaturale. Se si presta infatti attenzione, si possono scorgere nelle strutture semantiche e simboliche dell’inferno, delle anticipazioni del purgatorio, il quale a sua volta lasciava intravedere in alcuni passi delle anticipazioni di cosa sarebbe potuto essere il terzo ed ultimo mondo: il paradiso. Rileggendo in maniera organica la Divina Commedia, si può osservare che tutto il viaggio del poeta, dallo smarrimento nella selva oscura, fino alla visione della Presenza Divina, sia un tutt’uno strettamente collegato e connesso.

    Allo stesso modo, nell’opera verniana Le Indie Nere, il protagonista Harry Ford viene salvato, o meglio allontanato da vari pericoli che gli si presentavano, da parte di una salvatrice (una ragazza di nome Nell) che rimane inizialmente misteriosa e sconosciuta al protagonista. Ciononostante, Harry sente un inspiegabile quanto irrefrenabile senso di attrazione verso questo salvatore a lui sconosciuto.

    Insomma, così come la natura e la sostanza della propria anima fungono da richiamo per Dante Alighieri, che viene a trovarsi in un viaggio nel quale seppur presentandosi incognita la destinazione, ciononostante esercita sul poeta fiorentino un’incomprensibile attrazione e richiamo al proseguimento del cammino, allo stesso modo Harry Ford trovatosi intrappolato e smarrito nel suo viaggio, viene aiutato e preservato nella continuazione del suo cammino, da parte di un personaggio anch’esso femminile come la dantesca Beatrice, che rimane anch’ella ignota momentaneamente al protagonista, ma che anche lei esercita su Harry Ford il desiderio di cercarla e conoscerla.

    Altro elemento di somiglianza (per non dire di strettissima similitudine) è la guida iniziale che aiuterà i protagonisti delle rispettive opere, a proseguire ed avanzare in una parte del loro itinerario simbolico; Dante Alighieri avrà con sé infatti Virgilio che sarà sua guida nel viaggio verso l’inferno, e in quello verso il purgatorio, ma che non potrà accedere al paradiso, perché non degno di poter godere di quella luce, essendo il poeta latino espressione e simbolo della materialità e del pensiero terreno.

    Ugualmente nell’opera di Jules Verne, il protagonista Harry Ford, avrà inizialmente come guida nel suo viaggio, Jack Ryan il quale anche lui, similmente al luogo dantesco del purgatorio attraversato dal fiume Lete, oltre il quale Virgilio non potrà andare, vede in questo caso Jack Ryan fermarsi dinanzi alla ”prova dell’acqua” del Lago Katrine da cui non ne uscirà purificato, ma rimarrà intrappolato e schiavo degli elementi umani e materiali che lo tengono legato alla sfera corporea e non gli permettono di elevarsi verso la sfera spirituale.

    Altro punto di contatto tra la Divina Commedia e Le Indie Nere, riguarda proprio il viaggio iniziale; se infatti da una parte, Dante deve prima passare dall’inferno senza rimanerne intrappolato, simbolo della vittoria sulle passioni e vizi che ostacolano l’uomo nell’incontro con la sua anima in una progressione spirituale, allo stesso modo Harry Ford dovrà prima liberare Nell dalla prigionia nella quale è stata tenuta, dal suo padre putativo Silfax, nelle viscere oscure della caverna. E’ interessante, a questo proposito, osservare l’etimologia dei nomi di Nell e Silfax; il primo può farsi infatti derivare dal greco Helios che significa sole, ma anche dal celtico Hel che indica la dimora delle anime dei defunti. Non a caso, in un dialogo tra Harry e Jack, quest’ultimo rivolge al protagonista un ammonimento alquanto indicativo, di fronte al suo desiderio di scendere giù nel tentativo di salvare Nell; dice così Jack: “Harry, questo significa sfidare Dio”, al quale fa seguito la risposta di Harry Ford che dice: “No Jack, perché io implorerò il suo aiuto per riuscire nel mio intento”.

    Ad ulteriore conferma sia della somiglianza delle due opere, che dell’analisi etimologica dei due nomi, c’è da analizzare anche l’etimo di Silfax, che tiene prigioniera Nell. Silfax infatti, deriva dalla combinazione di due termini latini sil dal verbo sileo che significa silenziare o tacere, e fax che invece è il corrispettivo del termine torcia che dimostra come tale personaggio sia il chiaro alter ego del lucifero della Divina Commedia.

    Così come Dante, per ricongiungersi con la sua anima divinizzata, dovrà affrontare e superare l’inferno, simbolo evidentemente delle pulsioni umane verso la materia, allo stesso modo Harry Ford, nel suo tentativo di salvataggio di Nell, si dovrà scontrare con un’iniziale tendenza della ragazza, che nei primi momenti volge il suo pensiero e le sue preoccupazioni, verso quello stesso carceriere che prima la teneva prigioniera: lo stesso Silfax.

    Sarà proprio Jack Ryan ad aiutare Harry nel ritrovamento della prigioniera, così come Virgilio aiuta Dante a percorrere e ad uscire sano e salvo dall’inferno, luogo nel quale evidentemente Dante si riteneva prigioniero.

    Così come Dante Alighieri superato l’inferno, giunge nel purgatorio, dove si devono subire quelle sofferenze e prove, necessarie a purificare l’anima prima di giungere nell’ultimo viaggio, allo stesso modo Harry Ford riesce a trarre in salvo Nell dai sotterranei della vecchia miniera, ma non può ancora coronare il suo sogno di unirsi a nozze (simbolo evidentemente del paradiso e della beatitudine) con la sua amata, se non dopo aver affrontato e superato alcune prove.

    Così come nella Divina Commedia il viaggio nell’inferno termina con l’attraversamento di Dante e Virgilio di un lungo passaggio, al termine del quale i due riescono a rivedere le stelle, segno che ovviamente il viaggio di risalita ed uscita, viene compiuto durante la notte, ugualmente all’interno di Le Indie Nere, Harry Ford porta fuori Nell dalla miniera, giungendo in superficie proprio durante la notte, al chiaro delle stelle e della luna, per permettere all’anima (rappresentata dalla ragazza) di non rimanere accecata da una luce improvvisa, bensì di percorrere la risalita in maniera graduale, con l’aiuto di una luce più tenue, come quella delle stelle e della luna.

    Di fronte all’inadeguatezza di Jack Ryan, come guida al raggiungimento della meta finale, subentra quindi James Starr, personaggio statico e completo, rappresentante la pienezza della conoscenza e della saggezza, che è anche colui che dà inizio al racconto stesso, in quanto inviato proprio ad Aberfoyle, per risanare l’oramai decaduta miniera. James Starr, come suggerisce il suo cognome (Star, ovvero Stella), rappresenta quelle Altezze verso le quali l’anima del protagonista (sempre Nell) è chiamata a fare ritorno. E infatti sarà proprio James Starr, come possessore di quella saggezza e sapienza celesti, ad occuparsi di Nell quando questa verrà condotta in superficie da parte di Harry.

    Si può quindi intravedere in James Starr il corrispettivo verniano che San Bernardo di Chiaravalle rappresenta invece nel poema dantesco. La sola differenza esistente, è puramente di carattere narrativo, che vede nella Divina Commedia un’apparizione graduale di certi personaggi guida, come San Bernardo e Beatrice al posto di Virgilio, che rappresentano i mutati attributi e virtù che sono necessari per il perfezionamento dell’anima, mentre nell’opera di Jules Verne, le virtù rappresentate da certi personaggi guida, sono invece già presenti, quasi come se l’individuo le possedesse innate, e dovesse solo riscoprirle, come se fosse una reminiscenza platonica. Chiaramente su questa differenza si può osservare il divario culturale e temporale di sei secoli che separa un autore immerso in una società totalmente cattolica, come quella dantesca, ed una società invece stabilizzata purtroppo nella filosofia razionalista e gnostica com’era quella francese ed europea di Jules Verne, e che pur tuttavia siano stati espressione di una volontà rappresentativa dei medesimi contenuti.

    Giunti quindi in superficie, similmente al passaggio intermedio che Dante deve compiere nell’attraversamento del Purgatorio, anche i due ragazzi, Harry e Nell, non vedranno la loro unione immediatamente a seguito della risalita dalla miniera, bensì su decisione di James Starr, la ragazza verrà affidata in custodia ai genitori di Harry, nel mentre lo stesso sarà chiamato al superamento di alcune prove.

    Sarà proprio qui che, come nella prova spirituale dell’acqua rappresentata dal fiume Lete, presso cui Dante, salutando Virgilio indegno di proseguire oltre, ritrova Beatrice a fargli da guida di unione tra purgatorio e paradiso, similmente Harry Ford, dinanzi alla prova purificatoria dell’acqua presso il Lago sotterraneo Katrine, perde Jack Ryan, personaggio legato alla materialità, per ritrovarsi a dover affrontare l’ultima prova insieme a Nell, che qui rappresenta sia l’anima dantesca, che la sua Beatrice.

    Come avviene nel passaggio dal purgatorio al paradiso, in cui Beatrice e Dante sono rispettivamente posti in una situazione di silenzio/imbarazzo, che vede Beatrice inizialmente parlare con gli Angeli ma non con Dante, contemplando le verità e segreti celestiali, e Dante a sua volta in difficoltà a parlare e guardare Beatrice, a causa del rimorso dei suoi peccati, ma con il continuo desiderio di chiedere a Beatrice informazioni sul luogo che era loro intorno , allo stesso modo Nell ed Harry sono sottoposti alla prova del silenzio, in cui Nell deve trattenere sé stessa dal rivelare il suo segreto ad Harry, nel mentre quest’ultimo a sua volta riesce a stento a trattenere le domande che vorrebbero tanto uscire dalla sua bocca verso Nell.

    Terminata e superata la prova, Harry riesce finalmente ad assicurarsi la vicinanza di Nell grazie ad un gufo che, fino ad allora faceva da alleato a Silfax, ma che da quel momento in poi prende le parti dei ragazzi, aiutando i giovani a superare finalmente gli ostacoli posti innanzi da parte del padre putativo e carceriere della ragazza, e ponendo finalmente in relazione diretta Harry e Nell.

    In maniera quasi parallela, nel canto XXXI del Purgatorio è proprio un Grifone, animale alato per metà uccello e metà leone, che aiuta Dante a poter guardare definitivamente negli occhi Beatrice e a trovare il coraggio di interagire con lei, mostrando ora una e ora l’altra natura (quella di uccello e quella di leone), facendo così coincidere il parallelo del gufo, che nel racconto verniano prima mostrava una natura, (quella di antagonista) e alla fine ne mostrava un’altra (quella di aiutante dei due giovani protagonisti).

    E’ proprio al termine di questa riconciliazione, avvenuta dopo una purificazione, che Dante dopo aver finalmente compiuto il suo percorso con Beatrice, è pronto ad incontrare San Bernardo come guida finale per la visione Divina, ed il coronamento delle sue nozze spirituali con la sua anima, così come Harry divenuto degno di poter stare al fianco di Nell a seguito del superamento delle prove purificatorie, vede sugellata la sua unione sponsale al fianco dello stesso James Starr.

La Conclusione

Ebbene, giunti al termine di questo articolo di analisi e ricerca, nel quale il lettore vorrà perdonarmi per l’eccessiva lunghezza del presente scritto, tengo innanzitutto a precisare, ribadendo quanto affermato nei paragrafi precedenti, che lo scopo del presente scritto non è mai stato quello di addurre una conclusione analitica oggettiva e scientifica dal punto di vista letterario e filologico; sono infatti consapevole che il materiale qui presentato, sia ben lontano dall’essere quello proprio di una ricerca scientifica e sistematica atta a sostenere un’ipotesi quantomeno condivisibile con relativa certezza.

No; ciò che ho avuto intenzione di presentare attraverso tale elaborato, è piuttosto da considerare come la presentazione di alcuni (molti, a dire la verità) elementi di congruenza narrativa, simbolica e contenutistica, che ho avuto modo di rilevare tra le due opere prese in esame.

Come è stato già esposto, va ovviamente tenuto da conto, il divario temporale ed anche culturale, intercorrente tra i due autori e tra i loro due scritti; è chiaro quindi che qualunque analisi con cui si deciderà di convenire o di confutare, gli elementi sopra esposti, dovrà essere un’analisi chiamata a tenere conto dell’ermeneutica comparativa, con cui confrontare non già contenuti simili, rivestiti di altrettanti simili contenitori, bensì contenuti simili, rivestititi da necessari e contingenti paralleli contenitori.

Le due opere che sono state qui analizzate, indipendentemente dalle opinioni di accordo o disaccordo che il lettore avrà verso le ipotesi qui esposte, rimangono chiaramente il frutto di due incredibili geni creativi e letterari, che hanno saputo far rincorrere tra di essi, la necessità di una trama avvincente, ed il bisogno di raccontare un contenuto significato, al di là di un simbolo significante.

Ci tengo poi a ricordare ai lettori, che la lettura e la conoscenza di determinati elementi simbolici ed ermetici presenti in certe opere letterarie, non debbano mai fungere da pulce nell’orecchio, con cui insinuare il dubbio di una lettura gnostica della vita spirituale di ognuno. Dobbiamo saper distinguere tra le Verità Spirituali salvifiche presenti nel deposito Ecclesiastico cristiano di fede, (le sole a poter garantire una corretta economia salvifica) dalle speculazioni simboliche e gnostiche di uomini che, in quanto tali, non possono essere reinterpretati a scrigni di pseudo verità nascoste, ma essere visti semplicemente per quello che furono: solamente appunto degli esseri umani.

Spero che la fatica veramente enorme che ha comportato la realizzazione di questo articolo, possa eventualmente sopperire, alle imperfezioni ed ai difetti narrativi, di cui certamente questo scritto non sarà privo.

Emmanuel Colucci Bartone

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EMMANUEL GIUSEPPE COLUCCI BARTONE

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CIO’ CHE E’ IN ALTO E’ COME CIO’ CHE E’ IN BASSO

CIO’ CHE E’ IN ALTO E’ COME CIO’ CHE E’ IN BASSO

Riflessioni sulla Tavola Smeraldina di

Mariano L. Bianca

(direttore di “Massoneria Oggi”)

Nisi argentum vivum mortificetur cum corpore occulto, nil valebit

La Tavola Smeraldina o Smaragdina è un breve testo ermetico ed alchemico di autore ignoto attribuito dalla tradizione ad Ermete Trismegisto e da altri studiosi ad Apollonio di Tiana; il testo venne tradotto nel XIII secolo da un’ opera in lingua araba.

Tra le diverse versioni della Tavola proponiamo la seguente in cui vengono numerate le diverse proposizioni che la compongono:

LA TAVOLA SMERALDINA

  1. E’ vero e certo che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere      le meraviglie dell’Uno.

II   . Come tutte le cose sono e pervengono per mediazione dall’Uno, così tutte le cose sono create per adattazione dall ‘ Uno.

III .      Suo padre è il Sole, sua Madre è la Luna; lo porta il Vento nel suo ventre e la Terra è la sua nutrice.

IV. Esso è l’ origine di tutte le perfezioni del Mondo.

V  La sua forza è integra una volta che si sia riversata sulla Terra.

VI .Separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dal denso, operando con prudenza, sapienza e modestia.

VII   Ascende dalla Terra al Cielo e ridiscende in Terra portando con sé la forza delle cose superiori e di quelle                                                                                                                                   VIII   Otterrai così la gloria di tutto il mondo e l’ oscurità e l’ impotenza ti saranno lontane.

   I X    Questo è il più grande di tutti i poteri perché supera quel che è sottile e penetra ciò che è solido.

     X.  Così fu creato il mondo. Da ciò derivano combinazioni mirabili e meraviglie di tutti i tipi.

XI.   Pertanto, fui chiamato Ermete Trismegisto, possessore delle tre parti della sapienza del mondo intero.

XII   Questo è quanto ho da dire sull’Opera solare archemica.

                                 –                                                                                                                          

Nella tradizione iconografica il testo del la Tavola è accompagnato da una rappresentazione simbolica a forma circolare detta Tabula smaragdina Hermetis, pubblicata per la prima volta nel 1599 accompagnata da un testo poetico esplicativo (Aurei velleris Oder der Guldin Schatz und Kunstkammer, Tractatus III, Rorschach, 1599). In questo emblema emetico sono rappresentati simbolicamente i contenuti fondamentali del testo della Tavola accerchiati dall’ acrostico: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultwn lupidem (V.I.T.R.I.O.L.). (Quello che viene qui riprodotto è stato ripreso da Ehrd de Naxagoras, Aureum vellus, Francoforte, 1733, Tomo 11). La presenza dell’ acrostico sta a segnalare la duplicità di interpretazione: quella specificatamente alchemica, riferita direttamente alla pratica dell’Opera e l’altra di natura ermetico-esoterica in cui il simbolismo alchemico accede a una interpretazione in cui gli elementi dell ‘ Opera sono simboli di pratiche di più ampia natura esoterica che coinvolgono la trasmutazione della condizione dell ‘uomo.

La Tavola è un testo passibile di diverse interpretazioni e racchiude in una forma ermetica i contenuti essenziali e fondamentali della tradizione gnostico-ermetica. Essa venne chiamata smeraldina in riferimento allo smeraldo considerato come pietra esoterica che non poche volte venne assegnata a Ermete Trismegisto; la tradizione vuole che sotto alcune statue di Ermete vi fosse uno smeraldo; secondo L. Thurneysser (1586) lo smeraldo dona ragione, saggezza e abilità che sono proprio i caratteri tradizionali di Ermete Trismegisto e del dio Ermete. Lo smeraldo con la sua luce apre l’ orizzonte dell’invisibile e per questo è la pietra degli iniziati.

Il testo della Tavola Smeraldina fa parte della tradizione ermetica, che trova la sua ampia esposizione nel Corpus Hermeticum, tradotto da Marsilio Ficino nel 1463 (pubblicato nel 1471), e da allora in poi diventato fondamentale per la comprensione dell’ermetismo tradizionale (pre-medioevale) e per lo sviluppo di quello successivo che portò alla formulazione di diverse tradizioni esoteriche come i Rosacroce, la filosofia naturale, la teosofia e il pensiero massonico. Pur non facendo parte del Corpus Hermeticum la Tavola Smeraldina condensa in diverse proposizioni l’essenza teorica dell’ermetismo gnostico e si presenta come una guida per intraprendere un cammino che permette all’iniziato di conoscere, attraverso il suo intelletto divino, il fondamento di ogni realtà: ciò che di essa è l’inizio e la fine.

In essa è Ermete Trismegisto che parla.

La parte ontologica della Tavola si fonda sul simbolismo dello specchio che era centrale alla tradizione ermetico-gnostica e che venne ripreso, in modi diversi (colori, luci prismi), da teosofi come Jacob Boheme.

Lo speculum va inteso nel senso arcaico del geroglifo egizio del KA, il doppio, che ritroviamo successivamente nell’ iconografia e nella mitologia greco-romana (per es., in Giano bifronte). Esso non istituisce un dualismo tra mondo superiore e mondo inferiore, ma una unicità che si esprime nelle due dimensioni dell’ alto e del basso, della luce e dell’oscurità e, in senso alchemico, del denso e del sottile. Macrocosmo e microcosmo sono la stessa cosa, come parte dell’Uno, ma anche dimensioni diverse per cui il secondo è lo specchio del primo. Questo principio di corrispondenza è il perno su cui poggia tutto I ‘edificio gnostico-ermetico. L’iniziato è in grado di cogliere il Macrocosmo proprio e solo perché è un microcosmo in cui il primo viene riflesso: l’uomo possiede un intelletto divino, come dicono i teosofi moderni e i Rosacroce, e proprio per questo è in grado di cogliere e conoscere l’Essere Supremo attraverso la contemplazione del mondo, riflesso del macrocosmo, dell ‘ultimità del Nous.

Il principio di corrispondenza non è solo un concetto ontologico, bensì anche metodologico, o se si vuole, iniziatico: il cammino parte sempre dal microcosmo per giungere al macrocosmo: la pietra grezza microcosmica è l’elemento iniziale per raggiungere il macrocosmo. Anche il percorso esoterico- massonico si muove in base a una continuità di specchi in cui si riflette ogni volta un microcosmo riflesso di un macrocosmo: è proprio osservando lo specchio che il massone può trovare in esso l’essenza di ciò che ogni volta ricerca nel suo cammino iniziatico. Allo stesso modo il tempio terreno è speculum del tempio celeste, della Gerusalemme Celeste.

Nella Tavola il simbolismo dello specchio in senso ontologico indica la concezione gnostico-ermetica della realtà espressa, da un lato, dalle parole “ciò che in basso è come ciò che è in alto è ciò che è in alto è come ciò che è in basso”; dall’ altro, dall’ affermazione secondo cui tutte le cose sono e pervengono dall’Uno per mediazione e tutte le cose sono create dall’Uno per adattazione. Allo stesso tempo tutte le cose tornano all’Uno: Ab uno Omnia / Ad Unum Umnia. Un percorso ciclico che dall’Uno si muove vero la molteplicità delle cose e da questa molteplicità verso I ‘Uno. La realtà ultima è intesa come unica ed è costituita allo stesso tempo da materia e da spirito; essa è quel Nous, od Uno, nel senso offerto da Plotino, che è origine e scaturigine di ogni cosa e di ogni diversa natura delle cose. Per usare una espressione della Naturphilosophie si può dire che si tratti di un organismo che possiede una vita e che pulsa e pulsando origina emanazioni e mediazioni che danno luogo a ciò che è in alto e a ciò che è in basso: due poli che si distanziano e si ricongiungono continuamente. In termini alchemici si tratta del processo solve et coagula per cui per cogliere l’essenza di ogni cosa è necessario adoperarsi per dissolverla per poi ricostituirla in una nuova unità: alchemicamente l’ Uno, pur restando tale, si dissolve e dissolvendosi genera le cose del mondo che a loro volta tendono a ricostituirsi in altre sino al finale ricongiungimento con l’ Uno: l’ alto muove verso il basso ed il basso ritorna all ‘ alto. Un processo che è proprio anche della pratica massonica di costruzione del tempio alla gloria del GADU: l’ Uno ha dato luogo all’uomo e l’uomo, dissolvendosi e coagulandosi durante la pratica esoterica, si ricongiunge con esso attraverso la costruzione del suo Tempio Interiore.

Come è noto, la Tavola ha avuto principalmente una interpretazione alchemica (che appare anche palese da alcune sue proposizioni come la VI e la XII) che indica le strette relazioni tra ermetismo ed alchimia intendendo anche che l’ alchimia è lo strumento pratico dell ‘ermetismo. Tuttavia, altre interpretazioni, come quelle dei Rosacroce o dei Teosofi, prescindono dalla pratica alchemica ed intendono la Tavola come una enunciazione di fondamenti filosofici e di indicazioni per una via esoterico-iniziatica che fa appello a un processo di trasmutazione relativa a una elevazione spirituale in cui, non di rado, il Nous è identificato con l’ Essere Supremo.

La Tavola, quindi, in senso più ampio, può essere interpretata come un testo esoterico che fornisce una visione del mondo e dell ‘uomo che , attraverso uno specifico processo, è impegnato in un cammino di perfezionamento e di elevazione spirituale che lo rende capace gradatamente di cogliere dal ciò che è in basso ciò che è in alto; da ciò che è esteriore (per esempio il Tempio fisico, la Cattedrale) ciò che è interiore (il tempio interiore, il proprio sé che si è elevato dalla mondanità senza negarla: il sé iniziatico).

La Tavola è espressione della concezione ermetica secondo cui la pratica dell’Opera (alchemicamente o diversamente intesa) permette di passare dalla materia allo spirito, all’ interno di quella divinizzazione dell ‘universo che fu propria della tradizione esoterica che va da Pitagora a J. Boehme.

In questo lavoro ci occupiamo solo delle prime affermazioni di Ermete Trismegisto indicate con le proposizioni 1 e 2.

La Tavola inizia con una affermazione che è il fondamento della filosofia ermetica: il principio di corrispondenza come viene chiamato nel Kybalion e simbolicamente rappresentato dalla cosiddetta stella di David (due triangoli intersecati tra loro: l’uno con il vertice verso l’alto, l’ altro con il vertice verso il basso). Questo principio viene espresso sotto forma di una verità certa e quindi indiscutibile: “E’ vero e certo

In tutte le versioni della Tavola il processo di corrispondenza parte dal basso per riferirsi all’alto e in secondo luogo viene ribadita la ‘somiglianza’ dell’alto con il basso. Per questo la Tavola non è solo un testo filosofico, ma iniziatico che indica la via dal quale cominciare il cammino verso l’Uno.

Il principio esprime l’unità del reale; l’Uno si separa in ciò che in alto e in ciò che è in basso che posseggono la stessa sostanza; ciò che costituisce ciò che è in basso.

L’alto e il basso sono il macrocosmo e il microcosmo, ma non solo nel senso riferito al terreno e al celeste, ma in modo più ampio alla materia e spirito; ed ancora, l’alto e il basso sono riferibili a un processo di carattere gnostico, mirato cioè alla conoscenza, che opera un continuo passaggio tra ciò che appare nel mondo e ciò che lo costituisce; tra il sopra e il sotto di ogni cosa; tra l’apparenza e la essenza della realtà. La gnosi si raggiunge con il passaggio continuo tra ciò che appare alla superficie (l ‘occultum lapidem) e ciò che è al di essa e la fonda.

Il basso in senso alchemico, è ciò che è solido da cui deve essere estratto l’elisir , ciò che è sottile, ma l’elisir è raggiungibile solo in quanto c’è il solido; ed è proprio partendo dal solido, dai metalli, che si può giungere, per generale separazione, alla pietra filosofale, al sottile, a ciò che come elisir è essenza del mondo. Essenza che è telesma, principio di tutto: dove per telesma si intende proprio ciò che è perfetto, ma perfetto in quanto dato ma allo stesso tempo raggiunto; la radice è quella stessa di telos (fine) per cui si intende il principio che è origine e fine allo stesso tempo.

Il basso (solido) e l’alto (sottile) sono anche ciò che costituiscono l’ Uno ed ogni cosa che proviene da esso, come per esempio anche l’uomo; se si vuole, materia e spirito, metalli e oro philosophico; l’ androgino come unione nella separazione tra maschile e femminile: l’Adamo Khadmon ha in sé questa unione degli opposti separati.

In un senso più ampio la cosa-uno, od Uno, è anche l’unione degli opposti; ciò che è pesante e ciò che è leggero, ciò che è denso e ciò che è liquido, ciò che è interiore e ciò che è esteriore, ciò che duro e ciò che è molle, ciò che è apparente e ciò che è nascosto.

Dall’Uno è stato generato il Tutto, inteso come l’insieme di tutte le cose che appaiono come tali; ma anche di quelle che non sono, di quelle che verranno generate, di quelle che non appaiono fenomenicamente ed ancora di quelle che sono svelate dalla condotta iniziatica. Dall’Uno si diparte ogni cosa, ma ciò non significa che l’Uno viene meno della sua sorgente di potenza: le generazione del tutto non allenta la forza dell’Uno. Esso, inoltre, si arricchisce da ogni processo che dal basso muove verso l’alto (ad Unum Omnia) .

La concezione monista dell’ermetismo, tuttavia, proprio in base al principio di corrispondenza, non porta a una considerazione negativa della materia (o dei metalli), ma a una Iop interpretazione positiva come ciò da cui si diparte ogni cammino verso I ‘Uno.

In riferimento all’ uomo, il principio di corrispondenza da un lato indica la duplicità della sua natura terrena e, dall’altro, il fatto che egli possiede la luce dell’Uno ed è proprio per questo che può accedere ad esso.

La prima duplicità è la constatazione primaria dell ‘iniziazione: la parte esteriore o fisica e quella interiore o spirituale. L’involucro esterno è ciò che racchiude lo smeraldo che riflette la luce dell’Uno. Uno smeraldo che deve essere ricercato, trovato e curato ed in ciò consiste la pratica esoterica. La pietra che si trova in ogni uomo, l’occultum lapidem, è il fondamento su cui costruire la Cattedrale Celeste: la dimora in cui ritrovare se stessi, il senso della propria vita, ma ancor più la dimensione dell’ Oltre e dell’Invisibile in cui ogni uomo può esprimere la pienezza del suo essere e quindi la sua vera ed ultima dimora. L’ occulto è in tal modo oltre ed invisibile.


Secondo il principio di corrispondenza ogni cosa ne nasconde un’altra ed ogni cosa si apre ad un altra. Proprio come il processo iniziatico che ha una origine ma non ha fine, perché la vita stessa iniziaticamente è un percorso di ricerca continua di ciò che è oltre ed invisibile: ciò che sta dietro alle parole, alle cose, ai fatti, ai rituali. Ogni passo raggiunto nel cammino della via esoterica si lascia dietro una oscurità che è superata ma che è sempre oggetto di ulteriore chiarimento. Un processo che è costituito da una via ascendente e di una via discendente attraverso quelle che ho indicato come le cinque vie del percorso massonico.

(Tratto da: Mariano Bianca, Le cinque vie e i quattro percorsi, in Massoneria Oggi, III, 2, pp.35-41; i quattro percorsi sono:

a) esoterico-iniziatico, b) intellettivo-razionale, c) intrapsichico, d) dialogico).

Queste vie sono quelle che permettono di oltrepassare i limiti della apparenza, del fenomico, della superficie per poter così passare dal basso all’alto, dal fuori al dentro ed entrare gradatamente nella dimensione oltre e invisibile. Ogni cosa ha un fuori che è il suo basso ed ha un suo dentro che è il suo alto. L’acrostico del V.I.T.R.I.O.L. , che accompagna la Tavola, indica che il viaggio iniziatico consiste nel visitare l’interno della Terra; e questa Terra è elemento costitutivo primario per cui essa è ogni cosa del mondo di cui si deve svelare ciò che è nascosto. E’ solo viaggiando all’interno, o nell’interno, che si può trovare quella pietra del basso su cui agire per raggiungere l’alto. L’interiora Terrae significa l’interno di ogni alcunché che è posto come punto di partenza: luogo di oscurità, di occulto, che è inteso come ciò che è nascosto, invisibile, non è palese, né ovvio agli occhi dei sensi, ma appare alla luce della ragione e della sapienza.

In riferimento al singolo uomo questo interiore è proprio ciò che chiamiamo la sua interiorità, ciò che è nascosto ed oscuro che deve essere portato alla luce; ciò non significa la luce dei sensi ma quella della sapienza che non traspare palesemente nel mondo. Da qui la segretezza della oscurità che si svela solo alla luce della comprensione della essenza del mondo e la segretezza del lavoro ermetico.

La comprensione del principio di corrispondenza, quindi, non porta solo ad una visione filosofica del mondo, ma induce un atteggiamento attivo, indotto dalla forza dell’Uno attraverso la comprensione del mondo, che fa sì che l’iniziato partecipi attivamente alla vita dell’Uno e quindi alla continua costruzione del cielo stellato, quello che sovrasta il Tempio Massonico. Partecipa a questa vita in quanto emanato continuamente da esso ed in quanto rivolto ad esso.

Nella via iniziatica massonica il libero muratore intende il principio di corrispondenza non solo in riferimento al suo occulto interiore che necessità di essere posto in corrispondenza dell’ alto che solo lui può trovare; ma vuol dire anche che ogni cosa del mondo non può essere intesa così come appare. V’è sempre qualcosa di più, qualcosa che deve essere cercato; in ogni cosa v’è un occulto che per essere raggiunto deve impegnare uno sforzo continuo: da qui la pratica rituale e soprattutto la sua continuità nello scorrere del tempo nella vita quotidiana e all ‘ interno del Tempio.

Ciò che è in alto è così ciò che è occulto, nel senso di nascosto allo sguardo ma si manifesta attraverso dei segni (i segni delle cose, segnatura rerum) che non solo devono essere ricercati ma devono essere capiti nel loro valore di indicatori di ciò che è oltre ed invisibile: l’occulto si svela attraverso segni, ma sono segni ermetici ed oscuri per cui è necessario un lavoro di scavo per poterli comprendere: un’Opera che esegue il singolo iniziato, ma che si fonda su una tradizione e sull’ausilio dei compagni di viaggio ( i fratelli di Officina).

La ritualità sacrale (e sacrale è qui inteso come ciò che sta sopra e da senso ad ogni cosa) procede quindi nella duplice direzione della ricerca e della comprensione. La vita nel Tempio (l’Officina che si rivolge ai segni delle cose) si muove in questa duplice direzione: ricerca l’occulto e si volge alla sua comprensione. L’ impegno primario dell ‘ iniziato è perciò prima di tutto la intenzione occulta, cioè l’intenzione di mirare verso ciò che è nascosto, oltre e invisibile. L’iniziazione, in tal senso, è la disposizione d’ animo dell ‘ iniziato verso questa ricerca e la disponibilità dei liberi muratori di accoglierlo per aiutarlo in questa sua ricerca. L’ iniziato non può fermarsi a ciò che è in basso, a ciò che è esteriore e a ciò che è pesante: egli intende muovere verso I ‘ alto, I ‘interiore, il sottile; quell’occulto che non si disvela ai sensi ma si propone al disvelamento attraverso i segni delle cose. I segni portano all’ occulto e questo, una volta raggiunto, apparirà come la luce che rischiara la caverna in cui l’uomo si è perso: la molteplicità delle cose.

Il Tempio massonico è quel luogo in cui, attraverso la pratica rituale l’occulto appare con i suoi segni che vengono svelati con l’ ausilio della loro comprensione.

La vita nel Tempio massonico per questo si svolge proprio all ‘ insegna del principio ermetico posto come fondamento iniziale nella Tavola Smeraldina. La ritualità ha proprio come scopo lo svelamento dell ‘occulto (occultum lapidem), inteso come ciò che è oltre ed invisibile e quindi come l’essenza delle cose; ciò significa partire dal basso per spingersi verso l’ alto; osservare l’ apparenza per trovare l’essenza, percepire l’ esteriore per entrare nell’interiore, trovare l’occulto: ciò che è nascosto che proprio perché tale è il fondamento dell’ultimità, di ciò che è ultimo di ogni cosa.

Il Tempio è ancora ciò che è in basso se non è partecipato dalla sapienza iniziatica e dalla ritualità, per questo esso è in sostanza meramente simbolico e può essere tracciato in qualsiasi spazio concreto. Il Tempio diventa dimora iniziatica quando è attraversato dal logos e dalla ritualità ermetica e solo così esso, insieme ai fratelli che lo costituiscono in un dato tempo, diventa il luogo del cammino, del viaggio che si dirige verso I ‘ occulto come essenza di ciò che appare nel mondo. Quest’ultimo, quindi, nelle parole templari assume una diversa dimensione; trasmuta da luogo del basso a indirizzo verso l’alto. E’ così che ogni argomento posto ritualmente nel Tempio, anche riferito alla concretezza del mondo, passa dal luogo del basso a quello dell’ alto; esso supera la esteriorità e si pone come oggetto su cui viene posta l’ attenzione per disvelare ciò che in esso è nascosto. Gli ermetici antichi e medioevali ponevano proprio l’accento sull’ aspetto occulto della pratica esoterica; il termine occulto in questo senso non è riduttivamente riferito a pratiche magiche (una riduzione che venne effettuata in particolare da E. Levi nell’Ottocento), ma fa riferimento proprio all’ antica pratica ermetica, come occulta philosophia, cioè quella filosofia che si dirige verso l’alto e in tale prospettiva intende cogliere ciò che è nascosto, occulto, nel mondo. Agli esoterici.. ai massoni, agli emetici, così come agli alchimisti, non interessa soffermarsi all ‘apparenza delle cose del mondo, ma il loro intendimento è proprio quello di cogliere ciò che è nascosto, dietro, interno, al di là delle apparenze. Il mondo concreto, allora, sia nella ritualità templare, che nell ‘impegno profano appare in una nuova dimensione che non annulla la concretezza delle cose, ma la porta proprio in alto, fornendo ad essa nuovo senso e significato e così facendo  cambiando concretamente il mondo e dando luogo alla costruzione di Templi interiori e di Cattedrali Terren che stanno nel basso ma che riflettono direttamente e profondamente ciò che è in alto.

L’ alto così si rivolge al basso ed il basso tende a volgersi verso l’ alto. In ciò risiede la natura dell’Opera della pratica rituale massonica e della sua presenza nel mondo concreto. In ciò sta il senso massonico della vita di ogni uomo e dell’intera umanità. In ciò si fonda il cammino verso l’oltre e l’invisibile che riveste li natura concreta di tutte le cose.

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IL PENSIERO MERIDIONALE TRA IL SEICENTO E IL SETTECENTO

IL PENSIERO MERIDIONALE TRA IL SEICENTO E IL SETTECENTO

di

Concetta Notarile

Delineare in poche righe un profilo del pensiero meridionale costituisce un compito arduo per la molteplicità di motivi che andrebbero presentati, più proficuo forse, è indicare uno “stile di pensiero” che attraversa uno dei periodi più interessanti della cultura meridionale.

Ciò che ha caratterizzato il pensiero meridionale è stata una tradizione vitalistico-naturalistica autoctona che affonda le sua radici in G.B. Della Porta, G. Bruno, B. Telesio, e T. Campanella. Tale tradizione costituì, tra la metà del Seicento e gli inizi del Settecento, una delle componenti fondamentali del confronto critico con l’ Aristotelismo scolastico e con il pensiero moderno.

Di fronte all ‘ avanzante cultura europea, la cultura meridionale trovava una forte identità e continuità culturale nel platonismo. Si ha nel meridione un platonismo civile, riformatore, che dalla metà del Seicento attraversa tutto il secolo dei Intorno alla metà del Seicento, un largo filone della storiografia meridionale, (si pensi a G.B. Vico, ad es.) individua l’antica alternativa all’aristotelismo in un una “filosofia italica”, platonico-neoplatonica, non priva di agganci nell’ ermetismo, e riconosce in essa le lontane origini del pensiero moderno così come si era configurato nel contesto culturale meridionale. In questo contesto storico-erudito, la rinnovata attenzione per il pensiero pitagorico-democriteo-platonico, e quindi “italico”, scaturiva da istanze metafisiche e civili trascurate dal razionalismo cartesiano.

 Più in particolare, si può affermare che lo spartiacque aristotelismo-platonismo che vede la riaffermazione di quest’ultimo, nei termini della già citata categoria di “platonismo civile”, da parte della cultura meridionale di questo scorcio di secolo, sembra articolarsi secondo la seguente duplice polarità tematica: a) accentuata sensibilità, secondo la linea dell ‘ ermetismo naturalistico rinascimentale, per la presenza divina nell ‘uomo; b) spiccato interesse per il mondo della storia, invece che per quello della natura, secondo quanto la moderna scienza sperimentale, nata dentro altri e diversi contesti sociali e culturali, andava fortemente rivendicando.

E’ appena il caso di aggiungere che questi due modelli tematici, alla base della categoria storiografica del “platonismo civile”, non vanno assunti in senso né schematico, né restrittivo rispetto agli autori di volta in volta qui ricordati, ma stanno piuttosto a segnare delle linee di tendenza di un percorso storico-ideale spesso contraddittorio e contraddistinto da non poche opacità.

Maturando la sua strategia intellettuale, Giambattista Vico aveva indicato nella Scienza Nuova un modo diverso di guardare alle origini rispetto alla cultura del proprio tempo. Vico sosteneva che nella cultura delle origini non andava cercata una sapienza riposta, piuttosto di una riflessione che appartiene ad uno stadio avanzato della storia dello sviluppo dello spirito umano, da cui la critica vichiana alla “boria dei dotti”, ma una sapienza volgare frutto dell’ intuizione e quindi dell ‘ immaginazione e della fantasia propria dei primitivi. Solo risalendo alla fase aurorale della storia dell’umanità, ma senza i pregiudizi arrecati dalla “boria” (dei “dotti” e delle “nazioni”), si poteva capirne lo sviluppo perché in quella fase si era formata la conoscenza e il vivere associato.

Solo risalendo a questo momento iniziale si potevano cogliere le leggi naturali e immutabili che sono a fondamento dello sviluppo generale della storia dell’umanità assieme a questi importanti spunti della riflessione vichiana, che non mancarono di trovare risonanza presso più di una generazione di illuministi meridionali, si diffuse durante il regno di Carlo III di Borbone, l’interesse antiquario che, in quanto pura erudizione, divenne un impegno ufficiale legato alla corte ma privo di un rapporto ideale con la nuova cultura dei lumi.

Sebbene il ceto intellettuale formatosi alla scuola del Genovesi fosse volto prevalentemente verso problemi di carattere economico e civile, i prodigiosi ritrovamenti degli scavi di Ercolano e Pompei avviati nel 1738 da Carlo III, provocarono tuttavia in quegli anni un diffuso gusto per le origini, quasi una vera moda antiquaria. La grande suggestione che i reperti rinvenuti negli scavi ercolanensi e pompeiani esercitarono sul pubblico, trovava la sua ragione di fondo in una visione accreditata dal mondo classico, ripresa dalla tradizione ermetico-neoplatonica e largamente diffusa dalla massoneria, che aveva avuto a Napoli uno dei confini latomistici. più importanti a partire dal 1734. Secondo tale visione, che non emerse esplicitamente nei dibattiti del tempo, i reperti rinvenuti negli scavi di Ercolano e Pompei erano stati “disseppelliti” da un passato nel quale si celava un canone di verità che il tempo aveva “seppellito”. Tale visione trovò, alla metà del Settecento, la sua espressione più significativa nella poliedrica attività di Raimondo di Sangro.

Per un verso ancorato al naturalismo rinascimentale e per un altro aperto alle istanze dell’Illuminismo, il Sansevero è stato conosciuto per le bizzarre scoperte ed invenzioni, fra tante, le macchine anatomiche, più che per la figura intellettuale offuscata dagli aspri giudizi di S. Di Giacomo e di B. Croce, una nota a parte nella produzione desangriana occupa la famosa cappella gentilizia di gusto barocco per la quale il Sansevero, insieme allo scultore Corradini, realizzò i modelli dei gruppi marmorei che delineano all ‘ interno della Cappella un vero percorso iniziatico nel Cristo morto realizzato da Sammartino.

Di fronte al mancato decollo di una politica di riforme, intorno agli anni Settanta del Settecento, molti intellettuali abbandonarono il cauto riformismo di stampo genovesiano-tannucciano e, pur rimanendo consapevoli di una funzione civile della filosofia, si volsero ad un riesame globale della dinamica storica. Il senso complessivo di questo movimento di pensiero, non è immediatamente politico, perché I ‘ accento non batte su meccanismi istituzionali e di potere, ma etico-storico, cioè in direzione di una “civile filosofia” che fa i conti con la storia.

Gli illuministi meridionali della “seconda generazione” accolsero e fecero proprie le importanti indicazioni storiografiche del pensiero francese e scozzese, senza peraltro perdere di vista nelle loro indagini storiografiche i riferimenti autoctoni, in particolare VICO. Pur negando il realizzarsi di un piano provvidenziale nella storia umana, erano consapevoli della maggior forza persuasiva della religione rispetto alla ragione e dell ‘influenza che la religione ha avuto in tutte le trasformazioni giuridico-politiche. Questa consapevolezza fece sì che il progetto legislativo che il Filangieri delineò nella Scienza della Legislazione, ad es. culminasse nella proposta di una “ragione illuminata” o “religione civile”.

La riflessione sul proprio passato avviata in questi ultimi trent’ anni del secolo, nasceva nel meridione, come si è detto, innanzitutto, dall ‘ esigenza di una riforma morale e politica. Non a caso uno dei cardini della storiografia meridionale del tardo Settecento è costituito dall’individuazione ed esaltazione di un “modello italico” opposto ad un “modello romano”. Riferirsi ad un “modello italico” significava per gli intellettuali sia porre un parametro originario che consentisse di recuperare le radici della “nazione” e quindi di tutta la storia patria nei suoi diversi aspetti, sia, e soprattutto, contrapporre tale riferimento alle corrotte condizioni del regno.

Non va trascurato che evocare un ritorno alle origini non significava per questi intellettuali condividere il mito del buon selvaggio. La teoria dell ‘uguaglianza tra gli uomini, la teoria contrattualistica e quella dell ‘illegittimità della proprietà privata sostenuta da Rousseau.

Gli illuministi meridionali, per ragioni storico-politiche e culturali, intendevano proporre un ‘ uguaglianza civile, non politica. Una delle aree in cui maturarono le più alte espressioni del tardo illuminismo meridionale e dove il naturalismo trovò, non a caso, i maggiori sostenitori, fu la massoneria, che ebbe nella famosa villa dei fratelli Di Gennaro, uno dei più importanti circoli massonici del tempo. Tra i frequentatori di questa villa, posta tra Mergellina e Posillipo, ricordiamo, tra gli altri, Filangieri, Delfico, Cirillo e Pagano, questi ultimi vittime della Rivoluzione del 1799.

Uno dei figli illustri dell ‘Illuminismo meridionale, fu Vincenzo Cuoco, il quale, come molti illuministi meridionali, apriva i motivi di ispirazione vichiana a suggestioni provenienti dalla cultura d’ Nel Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, Cuoco afferma che la causa del fallimento della Rivoluzione napoletana era da individuarsi nel fatto che essa era stata una rivoluzione “passiva”, ossia, non nata spontaneamente dal popolo, ma si era ispirata al modello francese adottato dagli intellettuali. Era come se la nazione napoletana fosse divisa in “due popoli”, quello degli intellettuali e quello del volgo, che “avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse”. Finché c’era questa dicotomia sarebbe stato impossibile realizzare ogni progetto di riforma, di qui I’ esigenza di un’ azione educativa che formasse una nuova coscienza politica.

Nel Platone in Italia, l’autore tornava sugli stessi temi e auspicava una rinascita spirituale dell’Italia non ispirata ad ideologie straniere ma alle sue tradizioni di pensiero e di civiltà. Tale rinascita doveva basarsi su valori comuni ed autoctoni, Cuoco guarda insomma al “platonismo civile”, ma siamo ormai già all ‘inizio dell’ Ottocento. •

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