PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI
NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo. Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere». Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
Trilussa, pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto
Camillo Mariano Salustri, è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano,
particolarmente noto per le sue composizioni in dialetto romanesco. – Continua
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Carissimi
Ospiti che ornate l’Oriente e le colonne secondo i vostri Ordini e Gradi
Carissimi
Fratelli
Carissimo,
Fratello G.
E’ terminata la tua cerimonia di
iniziazione e in qualità di Oratore ho il piacere di porgerti il benvenuto a
nome mio e di tutta questa R.:. L:. all’Or:. di Follonica.
“Per una Loggia iniziare un Fratello è sempre
motivo di grande felicità e orgoglio, per noi della R:.L:. è anche motivo di grande responsabilità, in
quanto ogni fratello rappresenta un importante anello di una catena, che dalla
sua costituzione ha sempre mirato alla crescita morale delle proprie maestrie. Maestri,
che anche nel silenzio e senza clamore, contribuiscono al prestigio quotidiano
di questa tua Loggia.”
Dopo
averti lasciato meditare nel Gabinetto di Riflessione sulla tua morte profana, sei
stato sottoposto a tutte le prove; hai raggiunto
la purificazione, l’elevazione del tuo spirito sulla materia, confermando la piena
volontà di aderire alla Libera Muratoria.
Con
la punta di una spada sul tuo petto hai promesso, sei stato costituito e creato
dal Rispettabilissimo M:.V:. Libero Muratore , hai raggiunto la Luce, hai recitato
il “Giuramento”, cioè l’impegno di
mantenere il segreto su quanto ti è stato
rivelato.
Carissimo FR:. G.,
E’
su questa importante assunzione di responsabilità, passaggio fondante
dell’Iniziazione, che questa sera vorrei partecipare a te e tutti i carissimi
fratelli presenti questa riflessione;
Con il Giuramento prestato sul Vangelo
di S. Giovanni Evangelista si è compiuto il passo conclusivo dell’ Iniziazione, assommando in questo atto
che è; “promessa solenne e consacrazione etica”, le finalità del diventare
Massone.
Nella formula “prometto e giuro” è insita la dualità tra Divino e Umano che si
integrano per arrivare alla formazione dell’uomo nuovo “ Uomo Rinato” che si impegna ha costruire il proprio Tempio
interiore.
Superato indenne, i tre viaggi simbolici, vincendo le
passioni, l’uomo rinato, ha rafforzato
il suo animo per affrontare il “ cammino
della vita” ed ha conosciuto l’alto valore della moralità che dovrà
guidarlo.
Questa coscienza di sé stesso gli è
compagna per assolvere i compiti terreni assegnatigli dalla vita, percorrendo
un cammino solitario alla ricerca della perfezione interiore “autonoma e soggettiva”; con la
consapevolezza di condividere un percorso ed esigenze comuni con i suoi
Fratelli, che gli permetteranno di superare una strada disagevole.
Non è questo un impegno solo di ordine
pratico. In questo giuramento e promessa, è racchiusa l’essenza stessa
dell’appartenenza alla massoneria;
e’ la sfera morale del fratello, che
viene chiamata a costruire valori assoluti con gli altri.
Il giuramento di solidarietà ha perciò
valenza universale non solo in un arco di tempo attuale, ma si protrae nel
futuro; la fedeltà richiesta al profano è vincolante per il tempo a venire;sarebbe tormentoso ingannare la propria
coscienza.
Servire i Fratelli, dare loro
assistenza, dovunque essi siano, è il dovere che ci permette di comprendere ed
apprezzare la bontà della nostra dottrina, delle azioni e dell’esempio
immortale da tramandare alle generazioni future.
L’osservanza senza tentennamenti del
precetto è condizione necessaria per l’appartenenza massonica, ma è altrettanto
richiesta la definitiva accettazione di una nuova identità culturale ed etica,
che non può prescindere dalla condizione di ottimo cittadino, che con l’esempio
e gli atti “nobili”, contribuisce con tutte le sue forze al miglioramento del
bene comune.
L’immortalità della missione, è quindi ,
vera accezione del giuramento, l’uomo diviene strumento di esempio di vita volta al perseguimento della virtù e al
progresso dell’umanità; questo si otterrà attraverso una irreprensibile condotta civica verso la società,
rispettando le Leggi, e, con una vita esemplare per gli altri, di ineccepibile
moralità.
Ogni azione positiva sarà atemporale
e si riprodurrà come esempio.
L’immortalità delle azioni benefiche , lascito
testamentario del fratello agli uomini, ha la valenza di bene immutabile ,
mattone in-erodibile della costruzione del Tempio Universale.
Si può dunque affermare che il Fratello
Muratore, deve erigere , pertanto, le armi dell’intelletto e della volontà a
difesa dell’umanità; conservare lo
spirito puro e rafforzare la bontà dei proponimenti di crescita personale.
Questa illuminazione dello spirito lo
eleva alla comprensione del disegno divino, in cui l’esistenza di ciascun
individuo rappresenta un piccolo tassello di un grande mosaico.
Ben arrivato Gianni !!, frequenta e vivi
la tua Loggia con perseveranza e passione, tutto questo ed altro imparerai,
tutto questo ed altro è a tua disposizione.
Come scrive un anonimo;
A
volte viviamo una vita da prigionieri, senza sapere di avere le chiavi per
liberarci.
Ho
Detto, per il bene dell’Umanità e .A:.G:.D:.G:.A:.D:.U:.
Il Quadro di Loggia degli
Apprendisti
Gli usi e costumi osservati fra i Liberi Muratori hanno sempre
mostrato una stretta affinità con quelli degli Egiziani. I loro
filosofi, non volendo esporre i loro misteri ad occhi volgari,
coprirono i propri sistemi d’apprendimento e di governo per mezzo di
segni e figure geroglifiche, che venivano comunicati soltanto ai
capi preti o Magi, legati da solenni giuramenti a tenerli celati. Il
sistema di Pitagora fu fondato su un simile principio, così come
molti altri di più recente data. La Massoneria comunque, è non
solo la più antica, ma anche la più onorevole società che sia mai
esistita, poiché non c’è un carattere o emblema qui rappresentato
che non serva a inculcare i princìpi di pietà e virtù fra tutti
quelli che genuinamente la professano. Lasciatemi dapprima
richiamare la vostra attenzione sulla forma della Loggia, che è un
parallelepipedo, lungo dall’Est all’Ovest, largo dal Nord al Sud,
profondo dalla superficie della terra al centro, ed alto fino ai
Cieli. La ragione per cui una Loggia di Massoni è descritta di
queste vaste dimensioni è dimostrare l’universalità nella scienza;
parimenti, la carità di un Massone non dovrebbe conoscere altri
limiti che quelli della prudenza. Le nostre Logge sono
erette su terra santa, perché la prima Loggia fu consacrata in
memoria di tre grandi oblazioni fatte sul Santo Monte Moriah, che
incontrarono l’approvazione divina. In primo luogo, la
pronta compiacenza di Abramo al volere di Dio nel non rifiutarGli di
offrire suo figlio Isacco in olocausto. Misericordiosamente allora
l’Altissimo fece comparire un ariete, impigliato con le corna in un
vicino roveto, e questa fu in vece di Isacco la vittima più
gradita. In secondo luogo, le molte pie preghiere e
invocazioni del Re David, che pacificarono la collera di Dio e
fecero cessare le pestilenza che infuriava fra il suo popolo:
punizione inflitta dall’Onnipotente per la disubbidienza del Re che
aveva fatto il censimento delle Tribù. In terzo luogo, i
molti rendimenti di grazie, olocausti, oblazioni ed offerte preziose
che Salomone, Re di Israele, fece al completamento, consacrazione e
dedicazione del Tempio di Gerusalemme al servizio di Dio. Questi tre
avvenimenti resero allora, da allora hanno sempre, e confido che
sempre renderanno Sante le fondamenta della Massoneria. Le
nostre Logge sono disposte dall’Oriente all’Occidente, perché tutti
i luoghi di adorazione divina, così come le Logge Massoniche ben
formate e costituite regolarmente, sono o dovrebbero essere
orientati così. Noi Massoni ne diamo tre spiegazioni. La prima è che
il Sole, la Gloria del Signore, sorge in Oriente e tramonta in
Occidente. La seconda è che l’istruzione è nata in Oriente, e da lì
ha diffuso in Occidente la sua benefica influenza. C’è poi una
terza, ultima e grande ragione. Dai tempi più antichi ci è stato
insegnato a credere in una Divinità, che non ha mai lasciato Se
Stessa senza una testimonianza vivente fra gli uomini, ed
ogniqualvolta contempliamo la bella opera della creazione, con quale
umiltà e gratitudine dobbiamo adorare quell’Onnipotente Creatore! Ma
benché la Divinità sia stata sempre riconosciuta e venerata, nella
Sacra Scrittura non leggiamo di alcun luogo che sia stato mai
riservato a render solenne la venerazione divina, fino alla felice
liberazione dei figli di Israele dalla loro servitù in Egitto.
Allora Mosè fece erigere nel deserto una tenda o tabernacolo che,
per speciale comando di Dio , fu disposto dall’Oriente
all’Occidente: perché Mosè fece tutto secondo gli ordini datigli
dall’Onnipotente sul Monte Sinai. Questa tenda o tabernacolo più
avanti fornì il modello o la pianta (con riguardo alla situazione)
di quel più splendido Tempio costruito a Gerusalemme da quel saggio
e potente principe, Re Salomone, Tempio del quale lo splendore
regale e il lustro senza pari di gran lunga trascendono ogni idea.
Questa il terzo, ultimo e grande motivo del perché noi Massoni
riteniamo che ogni luogo di adorazione divina, così come le Logge
regolarmente costituite, debba essere così orientato. Le nostre
Logge sono sostenute da tre grandi Pilastri, che si chiamano
Saggezza, Forza e Bellezza. Saggezza per dirigerci in tutti i nostri
propositi, Forza, per sostenerci in ogni pericolo e difficoltà, e
Bellezza per adornare il cuore dell’uomo. Essi rappresentano: Re
Salomone, Hiram Re di Tiro, e Hiram Abif: Re Salomone per la sua
saggezza nel costruire e dedicare il Tempio di Gerusalemme al
servizio divino; Hiram Re di Tiro per la sua forza nel sostenerlo
con uomini e materiali; Hiram Abif per il suo ingegnoso e magistrale
lavoro nell’abbellire ed adornare la struttura. Ma siccome non
abbiamo nobili ordini di architettura che si chiamino Sapienza,
Forza e Bellezza, ci riferiamo a esse con i nomi degli ordini più
celebrati nei tempi antichi, e segnatamente: Ionico, Dorico e
Corinzio. La copertura di una Loggia di Massoni è una
canopia di diversi colori, che arriva fino ai Cieli. Noi speriamo di
arrivare in cima con l’aiuto di una scala, chiamata nelle Scritture
la Scala di Giacobbe. Questa scala ha tanti gradini da comprendere
tutte le morali virtù, ma tre sono le principali: Fede, Speranza e
Carità. Fede nel G A D U; Speranza nella salvezza; e Carità verso
ogni persona. Questa scala poggia sul Volume della Legge Sacra ,
perché le dottrine contenute in questo Santo Libro ci insegnano a
credere che la Divina Provvidenza distribuisce largamente i suoi
doni: e questa dottrina rafforza la nostra Fede e ci permette di
ascendere il primo gradino. Perciò la Fede naturalmente crea in noi
una Speranza di partecipare alle beate promesse in quel Libro
contenute: questa Speranza ci permette di ascendere il secondo
gradino. Ma la terza ed ultima, la Carità, comprende tutto, e il
Massone che possiede questa virtù nel suo senso più alto, si può
considerare che sia arrivato al sommo della Massoneria: si trova,
figurativamente parlando, in una dimora eterea, velata agli occhi
mortali dal firmamento stellato. Essa è emblematicamente
rappresentata nelle nostre Logge da sette stelle, che sono in
rapporto coi sette Massoni regolari, senza i quali nessuna Loggia è
perfetta: e dunque, nessun candidato può esservi legalmente
iniziato.
All’interno di una Loggia si trovano Ornamenti, Mobili e Gioielli.
Gli Ornamenti di una Loggia Massonica sono il Pavimento a Mosaico,
la Stella Fiammeggiante e il Bordo del pavimento Dentellato o
sfrangiato. Il Pavimento a Mosaico è il bel pavimento a riquadri
bianchi e neri della Loggia: ci ricorda l’alternarsi di luce e
oscurità, e di gioie e dolori nella nostra esistenza simile a una
scacchiera. La Stella Fiammeggiante è la Gloria al suo centro, e
rappresenta il Sole, la sorgente e il donatore di ogni fora di vita
sulla terra. Il Bordo Dentellato o sfrangiato è il contorno del
pavimento della Loggia,e rappresenta i pianeti nella loro orbita
infinita intorno al Sole. I Mobili della Loggia consistono
nel Volume della Legge Sacra, nel Compasso e nella Squadra. Le Sacre
Scritture danno regola e governo alla nostra fede, e su di esse noi
facciamo giurare i nostri candidati alla Massoneria. Allo stesso
modo servono a regolare le nostre vite e azioni il Compasso e la
Squadra, quando sono uniti. Le Sacre Scritture sono donate da Dio a
tutti gli uomini in generale; il Compasso appartiene al Gran Maestro
in particolare, e la Squadra a tutta quanta l’Arte. Il Volume della
Legge Sacra deriva da Dio Stesso, perché all’Onnipotente è piaciuto
rivelare all’uomo la Sua Divina Volontà con questo Libro più che con
ogni altro mezzo. Il Compasso appartiene al Gran Maestro, perché
esso, essendo lo strumento principe del quale si fa uso in ogni
disegno e piano architettonico, è proprio a lui in particolare, come
emblema della sua dignità, essendo il Gran Maestro il capo e
reggitore dell’Arte. Ed avendo giurato gli Operai sulla Squadra,
sono tenuti perciò ad agire di conseguenza. Dei Gioielli,
tre sono detti “mobili” e tre “immobili”. I Gioielli mobili sono la
Squadra , la Livella e il Filo a Piombo. La Squadra è usata dai
Massoni Operativi per provare e aggiustare gli angoli retti degli
edifici, ed aiutare a ridurre la materia grezza nella forma dovuta;
la Livella per rendere piano e verificare l’orizzontalità delle
superfici; e il Filo a Piombo per verificare e correggere le
verticali mentre sono fissate sulle loro basi. Fra i Massoni Liberi
e Accettati, la Squadra insegna la moralità, la Livella l’equanimità
e il Filo a Piombo la rettitudine della vita e la dirittura
dell’agire. Questi Gioielli sono chiamati “mobili” perché sono
indossati dal Maestro Venerabile e dai suoi Sorveglianti, e sono
trasmessi ai loro successori la tornata dell’installazione. Il MV è
contraddistinto dalla Squadra, il PS dalla Livella e il SS dal Filo
a Piombo. I Gioielli immobili sono la Tavola da Disegno, la
Pietra Grezza e la Pietra Perfetta. La Tavola da Disegno appartiene
ai Maestri, che vi tracciano linee e progetti; la Pietra Grezza è
per gli Apprendisti, che la scavino, segnino e riducano, e la Pietra
Perfetta è per l’Artigiano esperto, che vi vi provi e aggiusti sopra
il suo Gioiello. Sono chiamati gioielli immobili perché sono posti
apertamente e permanentemente nella Loggia, affinché i Fratelli ne
traggano la lezione morale. In antico sulla Tavola da Disegno
nelle Logge non c’era nulla, ed i Maestri se ne servivano davvero
per disegnarci; questi ed altri emblemi rappresentati oggi sulle
attuali Tavole da Disegno, (o Quadri di Loggia), erano disegnati
diretta mente sul pavimento della Loggia, generalmente dal
Tegolatore, per mezzo di carbone e calce. Alla fine della cerimonia
al nuovo Apprendista Introdotto venivano dati un secchio d’acqua e
uno straccio, con l’ordine di cancellare ogni traccia. Ma la vera
Tavola da Disegno della Loggia, la Tavola del Disegno Spirituale, è
quel grande Libro che sempre si trova dischiuso per tutto il tempo
che è aperta la Loggia. Così
come la Tavola da Disegno serve ai Maestri per tracciarvi linee e
progetti, per permettere ai Fratelli di portare avanti al meglio la
costruzione convenuta in maniera propria e regolare, così il Volume
della Legge Sacra può essere considerato giustamente la Tavola del
Disegno Spirituale del G A D U , sulla quale sono stesi Leggi Divine
e Piani Morali tali che se noi ci convertiamo ad essi e vi aderiamo,
saremo condotti ad una Dimora Eterea, non costruita da mani umane,
eterna nei Cieli. La Pietra Grezza è una pietra, brutta e
maltagliata così come presa nella cava, finché per l’industria e
l’ingegno dell’Artigiano è modellata, ristretta alla forma voluta, e
resa adatta alla costruzione progettata; essa rappresenta l’uomo nel
suo stato infantile o primitivo, rozzo e non educato come quella
pietra, finché, per la gentile cura e attenzione dei suoi genitori o
tutori nel dargli una educazione liberale e virtuosa, la sua mente
diventa coltivata, ed egli è da allora reso un degno membro della
società civile. La
Pietra Perfetta è un vero plinto squadrato, atto ad essere provato
con la sola Squadra e il Compasso ; essa rappresenta l’uomo nel
declinare degli anni, dopo una vita regolare ben spesa in atti di
pietà e di virtù, che non può essere saggiata e approvata altrimenti
che per mezzo della Squadra della parola di Dio e del Compasso del
giudizio della propria coscienza. In ogni Loggia regolare,
ben formata e debitamente costituita, c’è un punto all’interno di un
cerchio intorno al quale i Fratelli non possono errare. Questo
cerchio è limitato fra Nord e Sud da due grandi linee parallele, la
prima rappresentante Mosè e l’altra il Re Salomone; sulla parte
superiore del cerchio poggia il Volume della Legge Sacra aperto, a
sostenere la Scala di Giacobbe, e se noi ci convertiamo a quel Sacro
Libro e aderiamo alle sue dottrine come quelle due Grandi Parallele,
essa ci condurrà a Colui che non ingannerà, né si lascerà ingannare.
Passando attorno a questocerchio noi dobbiamo di necessità toccare
ambedue queste linee parallele, come pure il Volume della Legge
Sacra : e finché un Massone si mantiene così circoscritto è
impossibile che sbagli. Lo strumento al quale la Pietra
Perfetta è sospesa si chiama Lewis. Lewis indica forza, ed è qui
rappresentato da certi particolari di metallo che quando sono
incastrati nella pietra formano un morsetto e rendono possibile al
Massone operativo di sollevarla all’altezza richiesta in
preparazione della muratura. Il termine Lewis indica allo stesso
modo il figlio di un Massone, il cui dovere verso i genitori anziani
è di sopportare il calore e il peso della giornata di lavoro dalla
quale essi, in ragione della loro età dovrebbero essere esentati; di
assisterli in tempo di bisogno; e comunque di render il declino dei
loro giorni felice e confortevole. Il suo privilegio per agir così è
quello di essere fatto Massone prima di chiunque altro, di qualunque
dignità egli fosse rivestito. Dagli angoli della Loggia
pendono quattro frange, a ricordarci delle quattro Virtù Cardinali:
la Temperanza, la Forza, la Prudenza e la Giustizia, che come un
tutto, ci informa la tradizione, furono con costanza praticate dal
più dei nostri antichi Fratelli. La storia romana ci narra che il
Console Marcello costruì due templi: uno dedicato alla Virtù e
l’altro all’Onore. Egli li costruì in una maniera tale che il solo
possibile mezzo di guadagnare l’accesso al Tempio dell’Onore era il
passare prima attraverso il Tempio della Virtù: lasciava così una
imponente lezione alle età future. Possano dunque la Virtù,
l’Onore e la Misericordia essere i caratteri che di stinguono ogni
Libero e Accettato Massone, finché il tempo non sarà più. Così
sia.
In seguito, attraverso le parole del Maestro Venerabile
della Loggia accogliente, l’Istituzione precisa in questo modo le proprie
caratteristiche fondamentali:
1- Dal punto di vista religioso:
“La Libera Muratoria è una istituzione che ha il suo principio di base
nella ragione ed è perciò universale;
essa ha una origine propria non confondibile con quella di nessuna religione;
riconosce a ciascuno la libertà di credenza e pertanto è libera da qualsiasi
dogma religioso.”
A completamento di questa affermazione che riconosce a chiunque la libertà di
professare la propria fede religiosa, si può aggiungere che la Libera Muratoria
postula l’esistenza di un Ente Supremo che chiama Grande Architetto
Dell’Universo. E’ in questo simbolo, ontologicamente semplificato alla sola
accezione della Creazione, che ciascun Libero Muratore può apporre il proprio
Dio. Per altro verso, secondo “Gli Antichi Doveri”(“Old
charges”), annessi alla Costituzione dell’Anderson, il massone è chiamato
a corrispondere, tra l’altro, a quanto in essi è scritto all’art.1:
“Un Libero Muratore ha l’obbligo, in virtù del suo titolo, di obbedire
alla Legge morale; e se
egli ben comprende l’Arte, non sarà mai uno stupido ateo, né un libertino senza
Religione. Negli antichi tempi i Liberi Muratori erano obbligati in ogni paese
a professare la religione della loro Patria o Nazione, qualunque essa fosse; ma
oggi, lasciando a loro stessi le particolari opinioni, si trova più a proposito
di obbligarli soltanto a seguire la Religione sulla quale tutti gli uomini sono
d’accordo: essa consiste nell’essere buoni, sinceri, modesti e persone d’onore
qualunque sia il Credo che li distingue…”
2-Dal punto di vista della relatività della conoscenza:
“Quantunque ferma nel suo principio fondamentale formulato nelle
dichiarazioni al convegno di Losanna del 1875, la Libera Muratoria è avanti
tutto progressiva e non impone alcun limite alla ricerca della verità”.
3- Infine dal punto di vista morale, l’atteggiamento inderogabile richiesto a
chi sta per essere accolto deve essere improntato al rispetto dei seguenti
principi:
“Entrando nel sodalizio massonico si deve rinunziare a quello spirito
egoistico di interesse che costituisce il più grande ostacolo al coronamento
del Tempio della virtù, che ha inciso sulla sua fronte le tre parole:
Libertà – Uguaglianza – Fratellanza”
“La tolleranza è principio fondamentale della Libera Muratoria e come tale
essa obbliga al rispetto scrupoloso della coscienza sia politica che religiosa
di ogni singolo Fratello.”
“Se, entrando in Massoneria, si trovasse tra i Fratelli taluno che per
partito politico, fede religiosa o per altro sia stato considerato sino a quel
momento come nemico, si deve essere pronti ad abbracciarlo e considerarlo come
Fratello.”
Quale azione esercita la cultura massonica sul mondo: influsso reciproco delle classi sociali
FICHTE
Se questo problema si potesse
pure con piena serietà presentare in forma
di dubbio, ancora si potrebbe, effettivamente, domandare se l’Ordine
agisca anche sul mondo, sulla maggiore società umana.
Quest’uomo così educato
nell’intima santità dell’Ordine, non rimane dunque come prima di fronte al mondo,
e come prima occupa in esso il suo posto?
Non resta, com’era prima, sposo,
padre di famiglia, compagno, membro della condizione che egli riveste nel
mondo? Può forse mancare che la sua cultura, ottenuta nell’Ordine, ma diventata
ora interamente sua propria, cosi da formare una parte costitutiva della sua
personalità, a cui egli non può tanto arbitrariamente rinunciare, quando
abbandona la loggia, può forse mancare che questa cultura si manifesti in tutte
queste relazioni [sociali]? E non agisce così l’Ordine, in forma sommamente
benefica, sul mondo, mediante i suoi membri?
Richiamo la vostra attenzione su
qualche cosa che vi sosterrà nelle vostre proprie riflessioni.
Nessuno occupa il suo posto
nella più grande società in maniera meglio idonea di colui che può stender lo
sguardo oltre il suo posto medesimo, che non vede soltanto questo, ma anche
intuisce e contempla la sottile linea di separazione dove esso trapassa e
penetra nella più grande società: come è il caso del grande e illustre
scienziato, che volge lo sguardo non solo alla sua disciplina, ma anche a
quelle confinanti, e anche a tutto quanto il campo del sapere. Soltanto colui
che sta in tal modo nella sua posizione, agisce per il mondo con gli occhi
aperti e con buona coscienza di sé: l’altro è un cieco strumento di lavoro; che
forse opera affatto rettamente al suo posto, mala cui attività soltanto per
opera del tutto viene da ultimo indirizzata alla verace mèta. Il primo sa, a
tempo opportuno, ora lasciar
perdere parte delle esigenze e
delle norme della sua condizione, ora attenervisi strettamente, e ora acuirle;
quest’altro nulla intende del poi, ma procede, come una macchina, oggi e domani
per il cammino a cui se fermamente abituato. Ora, è proprio la Massoneria
quella che innalza tutti gli uomini sopra la loro condizione; essa educa
quindi, in quanto educa degli uomini, anche i più abili membri della più grande
società: dotti c sapienti amabili e popolari, uomini d’affari non soltanto
capaci, ma anche forniti di giudizio, guerrieri umani, buoni padri di famiglia
e savi educatori dei loro figliuoli. A qualsiasi relazione umana si voglia pure
pensare, la Massoneria esercita su di essa il più vantaggioso influsso.
La società umana deve inoltre
essere occupata in un continuo progredire: tutte le sue relazioni devono diventare
sempre più pure, c perfezionarsi sempre più. In particolare, uno stato ben
governato progredisce nella legislazione, nell’amministrazione, nelle
istituzioni educative, e tiene sempre un orecchio aperto a tutte le obiezioni e
correzioni. Uno stato siffatto, tutto occupato a procedere verso la perfezione,
nulla può intraprendere con dei professionisti che non abbiano mai proteso lo
sguardo oltre la ristretta sfera della loro particolare vocazione e che non
potrebbero progredire se non sulla via fino a ieri battuta: essi diventano inutili
tosto che vien fuori un miglioramento: e poiché non vogliono diventare inutili,
si impuntano contro i miglioramenti, e impiegano tutto il proprio influsso per
impedirli, oppure preparano ad essi, nonostante il loro buon volere di
promuoverli, una cattiva riuscita. Dove è così disposta la maggioranza dei
professionisti di uno stato, là si rimarrà in eterno all’antico.
È vero che già uno studio
fondamentale delle scienze eleva sopra a questa angusta cerchia della routine professionale
e delle contratte abitudini; la scienza mostra la reciproca dipendenza di tutte
le relazioni umane e indica i punti, dai quali si deve muovere il passo più
avanti. Ma la scienza esercita poi
effettivamente questo influsso
sul mondo? Quando anche la maggioranza usasse studiare più a fondo che non
faccia; quand’anche essa non fosse solita a dimenticare senz’altro, dopo alcuni
anni, questa mezza cultura che porta via seco, in qualche modo, dalle
università: quand’anche tutto ciò non fosse, a che giova il mero sapere, senza
esercizio pratico? Qui, dove nulla può ulteriormente giovare, ritorna ora a
mezzo la Massoneria, come un istituto di esercizio pratico perla versatilità; e
riempie una lacuna, che la grande società civile doveva necessariamente lasciar
aperta. Vi rammento qui, di passaggio, lo stato in cui tutti noi viviamo, al
quale non si può negare, senza
somma ingiustizia, il vanto dello sforzo verso la perfezione. Non sentenzierò
se questa tendenza proceda pure all’infuori della Massoneria, che in esso da
lungo tempo è fiorita, ovvero se c come fin qui sia stata sostenuta dalla
Massoneria stessa; ma posso recisamente affermare che questa tendenza deve
trovar nell’Ordine un buon appoggio per avvenire.
Ponderate inoltre la seguente
osservazione. In un notevole scritto, in cui le condizioni sociali dell’uomo vengono
divise in due classi, e alla prima classe sono ascritti coloro che si occupano
della cultura intellettuale e morale degli altri, come pure di governarli
[politicamente]
, alla seconda coloro che si curano delle esigenze della vita
terrena, in questo scritto è stato mostrato che il fondamento principale
almeno verso i membri della
prima classe, che sono suoi Fratelli nell’Ordine; un membro della prima classe, che apprende qui a scacciare il suo
dispregio, almeno per i membri della seconda classe, che sono suoi confratelli,
porterà seco certamente questa disposizione sentimentale anche fuor della
loggia, nel mondo, estenderà la sua migliorata concezione di queste classi
anche ad altri membri di esse che non sono Fratelli dell’Ordine, e comunicherà
tal concezione migliore ad altri non iniziati della sua propria classe. Un
retto cittadino, che in qualche modo dentro all’Ordine si convincesse, che un
dotto non è necessariamente un pedante, anche fuori dell’Ordine non farà più
questa supposizione in modo così incondizionato, e certo comunicherà,
occasionalmente, anche ad altri onesti cittadini, che non siano «Fratelli», la
sua scoperta. Un dotto, che in qualche modo avesse appreso nell’Ordine che un impiegato
o un cittadino senza studi non è punto un uomo ignorante e corto di mente, col
quale non si possa parlare di nessun argomento razionale o dal quale nulla si
possa imparare, tratterà con riguardo tali persone anche fuori dell’Ordine e
diffonderà questa sua scoperta in conversazioni e scritti. E così l’Ordine
massonico sarebbe una delle più importanti istituzioni in pro del mondo, quale,
senza di lui, vi manca interamente.
Ma da ultimo, il che per altro
io posso soltanto accennare a rapidi tratti, l’Ordine potrebbe appunto operare
proprio per lo stato, per la Chiesa, per il pubblico colto, ed essere
utilizzato da tutte queste realtà sociali, per preparare a poco a poco quei
miglioramenti, per i quali si facesse prevedere l’opposizione della unilateralità.
Avete ora dati sufficienti sulla
idoneità, utilità, anzi indispensabilità dell’Ordine Frammassonico nella grande
società civile e umana. Che cosa esso possa operare, Vi è chiaro per naturali
ed esatte conseguenze [tratte] dal presupposto del suo scopo; la sua attività
deve seguire dal fatto ch’esso ha per scopo di far acquistare ai suoi membri,
in tal colleganza, una cultura universale, puramente umana, in
opposizione alla cultura
particolare di classe; ma questo scopo razionale è superiore a ogni biasimo è poi
tanto certo ch’esso lo abbia, quanto è vero che si occupano assiduamente di lui
uomini seri, saggi e virtuosi.
«Fu tanto raro e universale, che dalla natura per suo
miracolo esser produtto dire si puote: la quale non solo della bellezza del
corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di molte rare virtù
volse anchora farlo maestro. Assai valse in matematica et in prospettiva non
meno, et operò di scultura, et in disegno passò di gran lunga tutti li altri.
Hebbe bellissime inventioni, ma non colorì molte cose, perché si dice mai a sé
medesimo avere satisfatto, et però sono tante rare le opere sue. Fu nel parlare
eloquentissimo et raro sonatore di lira […] et fu valentissimo in tirari et
in edifizi d’acque, et altri ghiribizzi, né mai co l’animo suo si quietava, ma
sempre con l’ingegno fabricava cose nuove.»
(Anonimo Gaddiano, 1542)
Giovinezza (1452–1472)
Le origini e la famiglia
La casa natale di Leonardo ad Anchiano (frazione di
Vinci)
Leonardo da Vinci fu il figlio primogenito nato da una
relazione illegittima tra il notaio ventiquattrenne Piero da Vinci e
Caterina[7], donna d’estrazione sociale modesta. La notizia della nascita del
primo nipote fu annotata dal nonno Antonio, padre di Piero e anche lui notaio,
su un antico libro notarile trecentesco, usato come raccolta di
“ricordanze” della famiglia, dove si legge: «Nacque un mio nipote,
figliolo di ser Piero mio figliolo a dì 15 aprile in sabato a ore 3 di notte
(secondo il calendario gregoriano, il 23 aprile alle ore 21:40). Ebbe nome
Lionardo. Battizzollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino
di Nanni, Meo di Tonino, Pier di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigo di Giovanni
Tedesco, monna Lisa di Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna
Niccolosa del Barna, monna Maria, figlia di Nanni di Venzo, monna Pippa di
Previcone».
Nel registro non è indicato il luogo di nascita di
Leonardo, che si ritiene comunemente essere la casa che la famiglia di ser
Piero possedeva, insieme con un podere, ad Anchiano, dove la madre di Leonardo
andrà ad abitare. Il battesimo avvenne nella vicina chiesa parrocchiale di
Santa Croce, ma sia il padre sia la madre erano assenti, poiché non sposati. Per
Piero si stavano preparando ben altre nozze, mentre per Caterina fu cercato,
nel 1453, un marito che accettasse di buon grado la sua situazione
“compromessa”; fu così trovato un contadino di Campo Zeppi, vicino a
Vinci, tale Piero del Vacca da Vinci, detto l’Attaccabriga, che forse, come il
fratello Andrea, faceva anche il mestiere del mercenario.
La fonte dove fu battezzato Leonardo presso la Chiesa di
Santa Croce a Vinci
Nel frattempo, già nel 1452, il padre Piero si era
sposato con Albiera di Giovanni Amadori, dalla quale non avrà figli. La lieta
accoglienza del bambino, nonostante il suo status illegittimo, è testimoniata
oltre che dall’annotazione del nonno anche dalla sua presenza nella casa
paterna di Vinci. Ciò si legge nella dichiarazione per il catasto di Vinci
dell’anno 1457, redatta sempre dal nonno Antonio, dove si riporta che il detto
Antonio aveva 85 anni e abitava nel popolo di Santa Croce, marito di Lucia, di
anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato ad Albiera,
ventunenne, e con loro convivente era «Lionardo figliuolo di detto ser Piero
non legittimo nato di lui e della Chaterina che al presente è donna
d’Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d’anni 5».
La matrigna Albiera morì appena ventottenne nel 1464,
quando la famiglia risiedeva già a Firenze, venendo sepolta in San Biagio. Ser
Piero si risposò altre tre volte: una seconda (1464) con la quindicenne
Francesca di ser Giuliano Lanfredini, che pure morì senza progenie, una terza
con Margherita di Francesco di Jacopo di Guglielmo (1500), che gli diede
finalmente sei figli; altri sei li ebbe dal quarto e ultimo matrimonio con
Lucrezia Cortigiani.
Leonardo ebbe così dodici fratellastri e sorellastre,
tutti molto più giovani di lui (l’ultimo nacque quando Leonardo aveva
quarantasei anni), con i quali ebbe pochissimi rapporti, ma che gli diedero
molti problemi dopo la morte del padre nella contesa sull’eredità.[8] Essi
erano: Antonio (1476), Maddalena (1477), Giuliano (1479), Lorenzo (1484),
Violante (1485), Domenico (1486), Margherita (1491), Benedetto (1492), Pandolfo
(1494), Guglielmo (1496), Bartolomeo (1497), Giovanni (1498). Inoltre ebbe
altre nove fratellastri da parte della madre, di cui di cinque si sanno i nomi:
Piera (1454), Maria (1457), Lisabetta (1459), Francesco (1461) e Sandra (1463).
Nel trattato Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori del
Vasari pubblicato nel 1550 nelle pagine dedicate a Lionardo da Vinci ci viene detto
: «Adunque mirabile e celeste fu Lionardo, nipote di ser Piero da Vinci, che
veramente bonissimo zio e parente gli fu, nell’aiutarlo in giovanezza« ed
aggiunge: «Quantunque non funse leggittimo figliuolo di Ser Piero da Vinci, era
per madre nato di buon sangue.»
Periodo di formazione
Ser Piero aveva già lavorato a Firenze e nel 1462, a dire
di Giorgio Vasari,vi ritornò con la famiglia, compreso il piccolo Leonardo. Il
padre Piero avrebbe mostrato all’amico Andrea del Verrocchio alcuni disegni di
tale fattura che avrebbero convinto il maestro a prendere Leonardo nella sua
bottega; è in realtà alquanto improbabile che un apprendistato cominciasse ad
appena dieci anni, per cui l’ingresso di Leonardo nella bottega del Verrocchio
viene oggi ritenuto posteriore.
Si pensa infatti che Leonardo restasse in campagna nella
casa dei nonni, dove avvenne la sua educazione, piuttosto disordinata e
discontinua, senza una programmazione di fondo, a cura del nonno Antonio, dello
zio Francesco e del prete Piero che l’aveva battezzato. Il fanciullo imparò
infatti a scrivere con la sinistra e a rovescia, in maniera del tutto speculare
alla scrittura normale. Vasari ricordò
come il ragazzo nello studio cominciava «molte cose […] e poi l’abbandonava»
e nell’impossibilità di avviarlo alla carriera giuridica il padre decise di
introdurlo alla conoscenza dell’abaco, anche se «movendo di continuo dubbi e
difficultà al maestro che gl’insegnava, bene [che] spesso lo confondeva».
L’arrivo a Firenze
Leonardo da Vinci, statua nel piazzale degli Uffizi a
Firenze
Quando il nonno di Leonardo morì novantaseienne nel 1468
citò nel suo testamento “Lionardo”, assieme alla nonna Lucia, al
padre Piero, alla nuova matrigna Francesca Lanfredini, e agli zii Francesco e
Alessandra. L’anno dopo la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria
fiorentina, insieme con quella dello zio Francesco, che era iscritto all’Arte
della Seta, risultava domiciliata in una casa fiorentina, abbattuta già nel
Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi, accanto a piazza della Signoria.
Nella bottega del Verrocchio
Diventando ormai sempre più evidente l’interesse del
giovane Leonardo nel “disegnare et il fare di rilievo, come cose che
gl’andavano a fantasia più d’alcun’altra”, ser Piero mandò infine il
figlio, dal 1469 o 1470, nella bottega di Andrea del Verrocchio, che in quegli
anni era una delle più importanti di Firenze, nonché una vera e propria fucina
di nuovi talenti.
Tra i suoi allievi figuravano nomi che sarebbero
diventati i grandi maestri della successiva generazione, come Sandro
Botticelli, Perugino, Domenico Ghirlandaio e Lorenzo di Credi, e la bottega
espletava un’attività poliedrica, dalla pittura alle varie tecniche scultoree
(su pietra, fusione a cera persa e intaglio ligneo), fino alle arti
“minori”. Soprattutto veniva stimolata la pratica del disegno,
portando tutti i collaboratori a un linguaggio pressoché comune, tanto che
ancora oggi può risultare molto difficile l’attribuzione delle opere uscite
dalla bottega alla mano del maestro oppure a un determinato allievo. Si
conoscono vari esempi di disegni di panneggi usciti dalla sua bottega, che
derivano da esercizi che il maestro faceva fare copiando le pieghe dei tessuti
sistemati su modelli di terra. Inoltre gli allievi apprendevano nozioni di
carpenteria, meccanica, ingegneria e architettura.
Leonardo si trova menzionato nella Compagnia di San Luca,
dei pittori fiorentini, nel 1472: «Lionardo di ser Piero da Vinci dipintore de’
dare per tutto giugno 1472 sol. sei per la gratia fatta di ogni suo debito
avessi coll’Arte per insino a dì primo di luglio 1472 […] e de’ dare per
tutto novembre 1472 sol. 5 per la sua posta fatta a dì 18 octobre 1472». Ciò
significa che a quell’epoca era già riconosciuto come pittore autonomo, la cui
esperienza formativa poteva dirsi conclusa, sebbene la sua collaborazione col
maestro Verrocchio si protraesse ancora per diversi anni.
Il 5 agosto 1473 Leonardo datò il Paesaggio con fiume, un
disegno con una veduta a volo d’uccello della valle dell’Arno, oggi al
Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi. L’attenzione verso una
descrizione autentica del mondo naturale fu una caratteristica costante di
Leonardo, soprattutto evidente nella fase giovanile. Ciò gli ha valso
l’assegnazione di alcuni contributi a opere uscite dalla bottega di Verrocchio,
come l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo Londra, National Gallery), in cui la
realistica squamosità del pesce o l’energia scattante del cagnolino sono state
proposte come dettagli leonardeschi, anche se si tratta di attribuzioni non
universalmente condivise. Lo stesso vale per il paesaggio della Madonna col
Bambino e angeli (sempre a Londra), con un picco roccioso che ricorderebbe
proprio il Paesaggio con fiume.
Paesaggio con fiume (1473)
Testimonia il confronto serrato col maestro il Battesimo
di Cristo degli Uffizi, dipinto a più mani. Secondo l’indicazione di Vasari,
confermata poi anche dalla critica moderna, è da assegnare a Leonardo l’angelo
in primo piano a sinistra e il morbido paesaggio sullo sfondo, oltre a una
sistemazione generale dello stile per amalgamare almeno tre mani di personalità
diverse (Verrocchio, un allievo poco dotato e Leonardo stesso). In quest’opera
sono già evidenti alcuni motivi dello stile leonardesco, che superano i limiti
degli insegnamenti di bottega: la decorazione basata su motivi fluenti,
l’attenzione agli elementi vegetali, o all’espressività dei volti, spesso
ritratti con un sorriso ambiguo; nuova è inoltre la resa spaziale e atmosferica
unificata, nonché i primi accenni a uno stile sfumato.
Ancora secondo Vasari, la bravura di Leonardo nella prova
del Battesimo avrebbe spinto Verrocchio, restio a un confronto diretto che
cominciava a vederlo perdente, a dedicarsi esclusivamente alla scultura. In
realtà l’aneddoto è scartato dalla critica moderna, propensa a ritenerlo
un’enfatizzazione arbitraria del tema letterario dell'”allievo che supera
il maestro” operata dallo storico aretino.
Il dipinto su tavola raffigurante Madonna con Bambino,
detto comunemente Madonna di Camaldoli per la sua collocazione nell’eremo in
provincia di Arezzo, è una elaborazione della Madonna Dreyfus tanto da
ipotizzare che questa ne rappresenti il modello; il volto della Madonna è
sovrapponibile a opere di Lorenzo di Credi; la testa del Bambino è identica a
un disegno di Verrocchio; alcuni particolari del paesaggio seguono lo schema e
le forme di quelli presenti nel Tobiolo e l’angelo; sul retro è presente il
disegno che traccia lo schema di una cornice coincidente a quella che orna il
tondo di Botticelli, pure allievo di Verrocchio, oggi nella Pinacoteca di
Piacenza; il gioiello della Vergine è lo stesso raffigurato in disegni di
Verrocchio e in pitture di Leonardo. Carlo Starnazzi ha sostenuto con forza la
presenza della mano di Leonardo in quest’opera e più recentemente gli studi
sembrano confermare che sia certamente uscita dalla bottega di Verrocchio,
senza però poter individuare chi degli allievi e collaboratori vi abbia
partecipato.
Leonardo scultore
Vasari ricordò come Leonardo operò anche “nella
scultura, facendo, nella sua giovanezza, di terra alcune teste di femine che
ridono, che vanno, formate per l’arte di gesso, e parimente teste di putti, che
parevano usciti di mano d’un maestro”. Non si conosce tuttavia alcuna
opera scultorea sicura di Leonardo, nonostante varie proposte attributive
avanzate in passato. Una delle più vecchie attribuzioni in questo senso è il
busto di fanciulla in cera dei Musei statali di Berlino, opera che mostra il
sorriso ambiguo tipicamente leonardesco, ma che oggi viene considerata un falso
ottocentesco, ispirato alla Flora di Francesco Melzi.
Carlo Pedretti aveva riferito a Leonardo anche l’Angelo
annunciante della chiesa di San Gennaro a Capannori: opera sicuramente
verrocchiesca e di alta qualità però che mostra una derivazione dal San Tommaso
di Orsanmichele di Verrocchio, quindi meno facile da riferire alla genialità
del maestro di Vinci.
Durante la mostra sul Verrocchio a palazzo Strozzi del
2019, Francesco Caglioti ha sostenuto con decisione la riattribuzione di una
Madonna col Bambino del Victoria and Albert Museum a Leonardo, opera
precedentemente riferita ad Antonio Rossellino da John Pope-Hennessy. L’opera
in effetti mostra una notevole originalità rispetto ad altre Madonne coeve, e
ha un panneggio pesante e a effetto “velluto bagnato” che si
riscontra in alcuni studi di Leonardo e di altri artisti verrocchieschi. Al
termine della rassegna fiorentina il museo londinese l’ha prudentemente
rischedata come “di scuola fiorentina del Verrocchio”.
Di recente Alessandro Parronchi ha assegnato a Leonardo
un Busto di fanciullo, già in collezione privata fiorentina e acquistato dal
Getty Museum. L’opera mostra una notevole ascendenza da Desiderio da
Settignano.
Numerose sono comunque le coincidenze, anche molto
stringenti, tra alcuni disegni o schizzi di Leonardo e le opere scultoree di
Verrocchio, come il Profilo di capitano antico (1475 circa, Londra, British
Museum), simile ai bassorilievi di capitani antichi scolpiti per Mattia
Corvino, o lo Studio di mani (1475 circa, Windsor, Royal Library), ritenuto uno
studio per il Ritratto di Ginevra de’ Benci e molto somigliante alla posizione
delle mani del busto della Dama col mazzolino.
Alla fine comunque l’unico esperimento sicuro con la
scultura di Leonardo fu l’incompiuto Monumento a Francesco Sforza. A questo
lavoro, di cui tuttavia non si conoscono le reali fattezze, viene collegato un
modellino in cera in collezione privata. Sembra invece derivare dai disegni
della Battaglia di Anghiari il bronzetto di cavallo che si contorce, il cui
migliore esemplare è nel Museo di belle arti di Budapest.
Prime opere indipendenti
Madonna Dreyfus (1469 circa)
Le prime opere indipendenti di Leonardo vengono oggi
datate tra il 1469 e i primi anni settanta, ancora prima del Battesimo. In
questi lavori, su cui il dibattito critico è stato molto acceso, l’artista
mostra una forte adesione al linguaggio comune degli allievi di Verrocchio,
complicando gli studi attributivi. La piena autografia della piccola Madonna
Dreyfus (1469 circa, National Gallery of Art, Washington) è una constatazione
recente della critica, che in passato aveva oscillato anche sui nomi di
Verrocchio e Lorenzo di Credi: stretta è infatti la vicinanza stilistica con la
successiva Madonna del Garofano (1473 circa, Alte Pinakothek, Monaco), con gli
incarnati delicati e quasi trasparenti, la gestualità familiare tra madre e
figlio, l’ambientazione su uno sfondo scuro in cui si aprono “alla
fiamminga” due finestre su un luminoso paesaggio.
Proviene dalla bottega del Verrocchio la contemporanea
Annunciazione degli Uffizi, ma la sua paternità – se pure può considerarsi di
unica mano – è stata a lungo disputata dalla critica, per assestarsi infine sul
nome di Leonardo. L’Angelo annunciante appare infatti prossimo alla fattura
dell’angelo del Battesimo, ed esistono due disegni certi di Leonardo: uno
Studio di braccio alla Christ Church di Oxford e uno Studio di drappeggio con
le gambe della Madonna al Museo del Louvre, che fanno preciso riferimento,
rispettivamente, all’arcangelo e alla Vergine. Nonostante si stia formando uno
stile personale, affiorano ancora motivi verrocchieschi, come il leggio-altare
con zampe leonine, che ricordano da vicino la Tomba di Giovanni e Piero de’ Medici.
Il dipinto contiene un “errore” di prospettiva, nel braccio destro
eccessivamente lungo della Vergine, difetto che risulta attenuato assumendo un
punto di vista leggermente a destra dell’opera.
La Madonna del Garofano (1475-1480) mostra già con
evidenza una veloce maturazione dello stile dell’artista, indirizzato a una
maggiore fusione tra i vari elementi dell’immagine, con trapassi luminosi e di
chiaroscuro più sensibili e fluidi; la Vergine difatti emerge da una stanza in
penombra contrastando con un lontano e fantastico paesaggio che appare da due
bifore sullo sfondo.
Al 1474 al 1478 risale il Ritratto di donna di
Washington, identificata con Ginevra de’ Benci – così si spiega il ginepro
dipinto alle sue spalle. Si tratta della figlia di un importante mercante
fiorentino, il che dimostra come Leonardo potesse accedere a commissioni da
parte della ricca borghesia fiorentina. L’opera mostra sempre più chiari gli
influssi della pittura fiamminga, nelle luminescenze della capigliatura,
nell’attenzione alla resa luminosa tramite il colore. Vi si trova però anche la
caratteristica resa atmosferica tra personaggio in primo piano e paesaggio,
oltre alla particolare tecnica di sfumare coi polpastrelli i colori,
soprattutto nella realistica epidermide.[20]
Quattro anni di silenzio
Madonna del Garofano, Alte Pinakothek, Monaco di Baviera
(dettaglio, 1473 circa)
Dal gennaio 1474 all’autunno 1478 non si conoscono opere
di Leonardo. Questo silenzio è particolarmente strano se si considera come
negli anni precedenti la carriera di Leonardo stesse definitivamente
decollando, con alle spalle un padre influente e facoltoso, che lo mantenne
almeno fino al 1480 e che sicuramente poteva aiutarlo nel procurarsi le
commissioni.[25]
Si è ipotizzato quindi che il poco più che ventenne
Leonardo fosse ancora incerto sul proprio futuro, avvicinandosi al mondo della
scienza con la frequentazione dell’anziano geografo e astronomo Paolo dal Pozzo
Toscanelli. Probabilmente ebbe modo di approfondire l’anatomia assistendo alla
dissezione dei cadaveri nelle camere mortuarie degli ospedali, ma dovette
studiare anche la fisica e la meccanica tramite esperimenti diretti.[25]
Il 9 aprile 1476 venne presentata una denuncia anonima
agli Ufficiali di notte e de’ monasteri contro diverse persone, tra le quali
Leonardo, per sodomia consumata verso il diciassettenne Jacopo Saltarelli,
residente in via Vacchereccia (accanto a piazza della Signoria). Anche se nella
Firenze dell’epoca c’era una certa tolleranza verso l’omosessualità, la pena
prevista in questi casi era severissima: l’evirazione per i sodomiti adulti e
la mutilazione di un piede o della mano per i giovani.[27] Oltre a Leonardo,
tra gli altri inquisiti vi erano l’orefice Bartolomeo di Pasquino, il
farsettaio (sarto) Baccino, residente in via de’ Cimatori presso Orsanmichele,
e soprattutto Leonardo Tornabuoni che è annotato come vestito di
“nero” (la stoffa più costosa, prerogativa dell’alta società): egli
era infatti un giovane rampollo della potentissima famiglia imparentata con i
Medici.[27] Un’identica denuncia fu presentata anche nel giugno dello stesso
anno.[27] Fu proprio il coinvolgimento del Tornabuoni che avrebbe giocato a
favore degli accusati: l’accusa venne infatti archiviata e gli imputati furono
tutti “absoluti cum conditione ut retumburentur”, “perdonati (o
liberati) salvo che non vi siano altre denunce in merito”.[27] La denuncia
riporta come comunque Leonardo a quella data fosse ancora a bottega da
Verrocchio.
Il ritorno alla pittura
Madonna Benois, particolare
Il 10 gennaio 1478 ricevette il primo incarico pubblico,
una pala per la cappella di San Bernardo nel palazzo della Signoria; incassò
dai Priori 25 fiorini ma forse non cominciò nemmeno il lavoro, affidato poi nel
1483 a Domenico Ghirlandaio e poi a Filippino Lippi, che lo completò nel 1485
(la Pala degli Otto, oggi agli Uffizi). In questa pala l’espressione
“leonardesca”, cioè ambiguamente sorridente, della Madonna aveva in
passato confuso alcuni critici che l’avevano attribuita a Leonardo.
Nel frattempo il desiderio di dedicarsi alla pittura
dovette tornare a farsi sentire, come testimonia un’annotazione, parzialmente
mutila, in cui l’artista ricorda come a fine del 1478[28] incominciò due
Madonne. Una di queste è riconosciuta nella Madonna Benois, oggi all’Ermitage
di San Pietroburgo, che il Bocchi nel 1591 menzionò nella casa fiorentina di
Matteo e Giovanni Botti: «tavoletta colorita a olio di mano di Leonardo da
Vinci, di eccessiva bellezza, dove è dipinta una Madonna con sommo artifizio et
con estrema diligenza; la figura di Cristo, che è bambino, è bella a
maraviglia: si vede in quello un alzar del volto singolare et mirabile lavorato
nella difficultà dell’attitudine con felice agevolezza»; descrizione che però
potrebbe riferirsi anche alla Madonna del Garofano.
Ancora al 1475-1478 circa è databile la piccola
Annunciazione del Museo del Louvre, probabilmente parte della predella della
Madonna con Bambino e santi di Andrea del Verrocchio e Lorenzo di Credi per il
Duomo di Pistoia, che avrebbe compreso anche la Nascita della Vergine del
Perugino, ora all’Art Gallery di Liverpool e il San Donato e il gabelliere
dello stesso Lorenzo, ora all’Art Museum di Worcester. L’unità di composizione,
la coerenza e l’individualità della piccola tavola, posteriore ma lontana
dall’Annunciazione di Firenze, ne confermano l’attribuzione concorde a
Leonardo. Intanto, almeno dal 1479 non viveva più nella famiglia del padre
Piero, come attesta un documento del catasto fiorentino.
L’avvicinamento ai Medici
Disegno di Bernardo Bandini, impiccato (1479)
A questi anni risalì probabilmente anche l’avvicinamento
a Lorenzo il Magnifico e alla sua cerchia, della quale faceva parte il suo
maestro Verrocchio. Alcuni fogli dei Codici vinciani mostrano studi per
consulenze militari e ingegneristiche, richieste probabilmente da Lorenzo. Il
29 dicembre 1479 Leonardo ritrasse il cadavere impiccato di uno dei
responsabili della congiura dei Pazzi, Bernardo di Bandino Baroncelli[29]
(l’assassino di Giuliano de’ Medici), confermando un legame con la Casa
Medici[25].
L’Anonimo Gaddiano inoltre ricorda la sua frequentazione,
verso il 1480, del Giardino di San Marco, una sorta di museo all’aperto in cui
era esposta la collezione di statue antiche dei Medici e l’anziano scultore
Bertoldo di Giovanni teneva una scuola d’arte[25] a cui partecipò anche, quasi
dieci anni dopo, il giovane Michelangelo Buonarroti[11]. L’annotazione recita:
«stette […Leonardo] col Magnifico Lorenzo et, dandoli provisione per sé, il
faceva lavorare nel giardino sulla piazza di San Marco a Firenze»: l’acquisto
del terreno da parte di Lorenzo fu di quell’anno e pertanto Leonardo dovette
eseguirvi lavori di scultura e restauro.
L’Adorazione dei Magi
Se dell’incompiuto San Girolamo della Pinacoteca vaticana
non si ha nessuna testimonianza documentaria, dell’Adorazione dei Magi, ora
agli Uffizi, si sa che gli fu commissionata nel marzo 1481 dai monaci di San
Donato a Scopeto, come pala dell’altare maggiore, da compiere entro trenta
mesi; la commissione, la più importante ricevuta da Leonardo fino ad allora,
venne probabilmente facilitata dal padre ser Piero, che era notaio per i
monaci.[30] Leonardo però non consegnò mai l’opera e solo quindici anni dopo fu
sostituita con un dipinto dello stesso soggetto, opera di Filippino Lippi.
L’opera, rimasta allo stato di abbozzo, in bruno
lumeggiato con biacca, fu lasciata da Leonardo, in partenza per Milano,
all’amico Amerigo Benci, il padre di Ginevra, nel 1482. In essa Leonardo avviò
una riflessione più profonda sul tema, così frequente nell’arte fiorentina del
XV secolo, sottolineando il momento dell'”Epifania” nel significato
greco originario di “manifestazione”. Gesù Bambino rivela infatti la
sua natura divina sorprendendo gli astanti[31]. «Nulla rimane dell’Epifania
tradizionale, e ai pastori e ai re è sostituita la più vasta moltitudine delle
mani, dei volti intensamente caratterizzati, dei panni guizzanti da un lato
fuori dalle ombre della siepe umana, succhiati dall’altro da un sospeso
pulviscolo luminoso. Non sono magi, non sono guardiani d’armenti: sono le
creature viventi, tutte le creature con la fede e col dubbio, con le passioni e
con le rinunce della vita, aureolate dalla luce creatrice di questo capolavoro
in cui il colore non avrebbe luogo» (Angela Ottino).
A Milano (1482–1499)
La partenza
Dama con l’ermellino (1485), Museo nazionale di Cracovia,
Cracovia
Fra la primavera e l’estate del 1482 Leonardo si trovava
già a Milano, una delle poche città in Europa a superare i centomila abitanti,
al centro di una regione popolosa e produttiva. Le ragioni della sua partenza
da Firenze sono molteplici. Sicuramente, come testimoniano l’Anonimo Gaddiano e
Vasari, l’invio dell’artista fu causato da Lorenzo il Magnifico nell’ambito
delle sue politiche diplomatiche con le signorie italiane, in cui i maestri fiorentini
erano inviati come “ambasciatori” del predominio artistico e
culturale di Firenze. Così Antonio Rossellino e i fratelli Giuliano e Benedetto
da Maiano erano partiti per Napoli e un gruppo di pittori era partito per
decorare la nuova cappella pontificia di Sisto IV.
Leonardo ebbe la missione di portare al duca Ludovico il
Moro un omaggio. Scrisse l’Anonimo Gaddiano: «[Leonardo] aveva trent’anni che
dal detto Magnifico Lorenzo fu mandato al duca di Milano a presentarli insieme
con Atalante Migliorotti una lira[32] che unico era in suonare tale strumento».
Vasari tramanda che fosse un grandissimo musicista[6][11] e che avesse
costruito questa lira in argento, in parte a forma di una testa di cavallo
«cosa bizzarra e nuova, acciò ché l’armonia fosse con maggior tuba e più sonora
di voce».[11] Arrivato, Leonardo partecipò a una gara musicale con quello
strumento indetta alla corte sforzesca, «laonde superò tutti i musici, che
quivi erano concorsi a sonare».[11]
In quell’occasione Leonardo scrisse una famosa
“lettera d’impiego” di nove paragrafi,[33] in cui descriveva
innanzitutto i suoi progetti di ingegneristica, di apparati militari, di opere
idrauliche, di architettura, e solo alla fine, di pittura e scultura, di cui
occuparsi in tempo di pace, tra cui il progetto di un cavallo di bronzo per un
monumento a Francesco Sforza.[34]
Appare chiaro che Leonardo fosse intenzionato a restare a
Milano, città che doveva affascinarlo per la sua apertura alle novità
scientifiche e tecnologiche, causata dalle continue campagne militari.
L’ambiente fiorentino doveva infatti procurargli ormai un certo disagio: da un
lato non si doveva riconoscere nella cultura neoplatonica della cerchia
medicea, così imbevuta di ascendenze filosofiche e letterarie, lui che si
definiva “omo sanza lettere”;[34] dall’altro la sua arte stava
divergendo sempre di più dal linearismo e dalla ricerca di una bellezza
rarefatta e idealizzata degli artisti dominanti sulla scena, già suoi compagni
nella bottega di Verrocchio, come Perugino, Ghirlandaio e Botticelli. Dopotutto
la sua esclusione dai frescanti della Sistina rimarca la sua estraneità a quel
gruppo.[34]
La Vergine delle Rocce
Vergine delle Rocce (prima versione, 1486 circa),
particolare, Parigi, Louvre
I documenti sembrano indicare che l’accoglienza di
Leonardo nell’ambiente milanese fu piuttosto tiepida, non ottenendo
inizialmente gli esiti sperati nella famosa lettera al duca.[34] L’artista ebbe
anche diverse difficoltà con la lingua parlata dal popolo (ai tempi la lingua
italiana quale “toscano medio” non esisteva, tutti parlavano solo il
proprio dialetto), sebbene gli esperti ritrovino poi nei suoi scritti degli
anni successivi addirittura dei “lombardismi”.
Per una prima commissione l’artista dovette infatti
attendere il 25 aprile 1483, quando con Bartolomeo Scorione, priore della
Confraternita milanese dell’Immacolata Concezione, stipulò il contratto per una
pala da collocare sull’altare della cappella della Confraternita nella chiesa
di San Francesco Grande (oggi distrutta).[34] Al contratto presenziarono anche
i fratelli pittori Evangelista e Giovanni Ambrogio de Predis, che ospitavano
Leonardo nella loro abitazione vicino a Porta Ticinese.
Si tratta della pala della Vergine delle Rocce che,
stando al dettagliatissimo contratto, doveva essere lo scomparto centrale di un
trittico. La tavola centrale avrebbe dovuto rappresentare una Madonna col
Bambino con due profeti e angeli, le altre due, quattro angeli cantori e
musicanti, dipinte poi dai De Predis; la decorazione doveva essere ricca, con
abbondanti dorature[34] e l’opera doveva essere consegnata entro l’8 dicembre
per un compenso complessivo di 800 lire da pagarsi a rate fino al febbraio
1485.
Leonardo, nonostante la strettezza dei termini
contrattuali, interpretò il programma iconografico in maniera originalissima,
raffigurando la scena del leggendario incontro tra san Giovannino e il Bambin
Gesù nel deserto, e celando riferimenti all’Immacolata Concezione nell’arido
sfondo roccioso e nel modo in cui la Madonna vi si fonde attraverso un anfratto
che sembra rievocare il mistero legato alla maternità.[34]
In una supplica a Ludovico il Moro, databile al 1493,
dalla quale si evince che l’opera era stata compiuta almeno entro il 1490 – ma
la critica la considera comunque finita entro il 1486 – Leonardo e Ambrogio de’
Predis (Evangelista morì alla fine del 1490 o all’inizio del 1491) chiedevano
un conguaglio di 1 200 lire, rifiutato dai frati. La lite giudiziaria si
trascinò fino al 27 aprile 1506, quando i periti stabilirono che la tavola era
incompiuta e, stabiliti due anni per terminare il lavoro, concessero un
conguaglio di 200 lire; il 23 ottobre 1508 Ambrogio incassò l’ultima rata e
Leonardo ratificò il pagamento.
Sembrerebbe che Leonardo, dato il mancato pagamento delle
1 200 lire da parte della Confraternita, avesse venduto per 400 lire la tavola,
ora al Louvre, al re di Francia Luigi XII, mettendo a disposizione, durante la
lite giudiziaria, una seconda versione della Vergine delle Rocce, che rimase in
San Francesco Grande fino allo scioglimento della Confraternita nel 1781 ed è
ora conservata alla National Gallery di Londra, insieme con le due tavole del
de’ Predis. Per completezza va detto che non per tutti l’esemplare di Londra è
di Leonardo: per alcuni, fra cui Carlo Pedretti, pur abbozzato dal maestro, fu
condotto con l’ausilio degli allievi; che possa essere intervenuto Ambrogio de’
Predis per completare l’opera è plausibile.[35]
Giulio Carlo Argan evidenzia come per Leonardo tutto è
“immanenza”. Egli guarda la realtà e la natura con gli occhi dello
scienziato. Il paesaggio di quest’opera “non è un paesaggio veduto né un
paesaggio fantastico: è l’immagine della natura naturans, del farsi e del
disfarsi, del ciclico trapasso della materia dallo stato solido, al liquido,
all’atmosferico: la figura non è più l’opposto della natura, ma il termine
ultimo del suo continuo evolvere”.[36]
Rodolfo Papa fa peraltro notare come quest’opera di
Leonardo risenta fortemente di alcune riflessioni di San Bonaventura,
presentando eventi “storicamente tramandati ma misticamente
rappresentati”: il pittore insomma “riesce a rispondere alle esigenze
spirituali dell’ordine francescano e dell’Arciconfraternita committente
dedicata al mistero dell’origine di Maria […] quasi traducendo in immagine le
parole di san Bonaventura”.[37]
Nella cerchia del Moro
Belle Ferronnière (1490–1495), Parigi, Louvre
Nei primi anni milanesi Leonardo proseguì con gli studi
di meccanica, le invenzioni di macchine militari, la messa a punto di varie
tecnologie.[38] Verso il 1485 doveva essere già entrato nella cerchia di
Ludovico il Moro, per il quale progettò con versatilità sistemi d’irrigazione,
dipinse ritratti, approntò scenografie per feste di corte, ecc. Una lettera di
quegli anni ricorda però come l’artista fosse insoddisfatto per i compensi
ricevuti, descrivendo anche il suo stato familiare all’epoca. Scrisse infatti
Leonardo al duca che in tre anni aveva ricevuto solo cinquanta ducati, troppo
pochi per sfamare “sei bocche”: si tratta della sua, di quelle dei
tre allievi Marco d’Oggiono, Giovanni Antonio Boltraffio e Gian Giacomo
Caprotti detto il Salaì, di un uomo di fatica e, dal 1493, di una domestica di
nome Caterina, forse la madre naturale di Leonardo al seguito del figlio dopo
essere rimasta vedova.[39] Il Salaì, da Oreno, al servizio di Leonardo dal
1490, quando aveva dieci anni, ebbe il suo soprannome da un diavolo del
Morgante del Pulci: Leonardo definì poi l’assistente “ladro, bugiardo,
ostinato, ghiotto”,[40] ma lo trattò sempre con indulgenza.
Conclusa la Vergine delle Rocce Leonardo dovette
dedicarsi ad alcune Madonne. Una fu probabilmente quella “d’optimo
pittore” da inviare in dono al re d’Ungheria Mattia Corvino nel 1485
(descritta come “figura di Nostra Donna quanto bella excelente et devota
la sapia più fare, senza sparagno di spesa alcuna” in una lettera ducale
datata 13 aprile 1485).[41] Un’altra fu probabilmente la Madonna Litta,
eseguita in massima parte dagli assistenti, soprattutto Giovanni Antonio
Boltraffio e Marco d’Oggiono.
Un altro tema ricorrente del periodo milanese è il
ritratto, in cui l’artista poté mettere a frutto gli studi anatomici avviati a
Firenze, interessandosi soprattutto ai legami tra le fisionomie e i “moti
dell’animo”, cioè gli aspetti psicologici e le qualità morali che
trasparivano puntualmente dalle caratteristiche esteriori. Una delle prime
prove su questo tema che ci sia pervenuta è il Ritratto di musico, forse il
maestro di Cappella del duomo milanese Franchino Gaffurio. Notevoli sono in
quest’opera l’attenzione analitica e il risvolto psicologico nello sguardo
sfuggente dell’effigiato.[41] Un altro famoso ritratto di questo periodo è la
cosiddetta Belle Ferronnière, una dama, forse legata alla corte sforzesca,
dall’intenso sguardo che evita aristocraticamente lo sguardo dello
spettatore.[41]
Sicuramente collegato alla committenza ducale è il
Ritratto di Cecilia Gallerani, detto la Dama con l’ermellino. La presenza
dell’animale, oltre a richiamare il cognome della donna (galé in greco),
alludeva anche all’onorificenza dell’Ordine dell’Ermellino, ricevuta proprio
nel 1488 dal Moro da parte di Ferdinando I di Napoli.[41]
Le nozze tra Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona
Nei due anni successivi le commissioni ducali si fecero
sempre più frequenti.[41] Ricevette ad esempio pagamenti per il progetto del
tiburio del duomo di Milano.
Nei primi mesi del 1489 si occupò delle decorazioni, nel
Castello Sforzesco, per le nozze di Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella
d’Aragona, presto sospese per la morte della madre della sposa, Ippolita
d’Aragona, e rimandate all’anno successivo, come Leonardo scrisse sul Libro
titolato de figura umana.[42]
I festeggiamenti ripresero solo il 13 gennaio 1490; per
essi, come scrisse il poeta Bernardo Bellincioni nel 1493, «v’era fabbricato,
con il grande ingegno et arte di Maestro Leonardo da Vinci fiorentino, il
paradiso con tutti li sette pianeti (sette, perché anche la Luna era
considerata un pianeta) che giravano e li pianeti erano rappresentati da
homini».[43] Un altro documento, redatto poco dopo la celebrazione e conservato
nella Biblioteca estense universitaria di Modena, ricorda l’emozione della
messa in scena, il pubblico, gli attori e lo sfarzo degli abiti: «El Paradiso
era facto a similitudine de uno mezzo uovo, el quale dal lato dentro era tottu
messo a horo, con grandissimo numero de lumi ricontro le stelle, con certi
fessi dove stava li sette pianeti, segondo el loro grado alti e bassi. A torno
l’orlo de sopra del dito mezo tondo era li XII signi, con certi lumi dentro del
vedro, che facevano un galante et bel vedere: nel qual Paradiso era molti canti
et soni molto dolci et suavi».[43]
Il “cielo” inventato da Leonardo, mettendo a
frutto la lunga tradizione delle sacre rappresentazioni fiorentine, doveva
essere ricco di effetti speciali, giochi di luci e suoni, che restarono a lungo
vivi nella memoria dei contemporanei.[41]
Il monumento equestre a Francesco Sforza
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cavallo di Leonardo.
In quegli anni Leonardo avviò il grandioso progetto per
un monumento equestre a Francesco Sforza, come testimonia un pagamento a titolo
di anticipo per le spese per un modello, pagate per conto del Duca dal
sovrintendente all’erario di corte, Marchesino Stanga. Il 22 luglio 1489, inoltre,
Pietro Alamanni comunicò a Lorenzo il Magnifico la richiesta di Ludovico di
ottenere la collaborazione di fonditori in bronzo fiorentini: «un maestro o due
apti a tale opera et benché gli abbi commesso questa cosa in Leonardo da Vinci,
non mi pare molto la sappia condurre».[44]
L’impresa era colossale, non solo per le dimensioni della
statua, che doveva essere fusa in bronzo, ma anche per l’intento di scolpire un
cavallo nell’atto di impennarsi e abbattersi sul nemico[41]. L’artista spese
mesi interi nello studio dei cavalli, frequentando le scuderie ducali per
studiare da vicino l’anatomia di questi animali, soprattutto riguardo al
rilassamento e alla tensione dei muscoli durante l’azione. L’impresa venne
sospesa per riprendere le celebrazioni del matrimonio Sforza-d’Aragona.[41]
A Pavia
Il 21 giugno 1490 andò a Pavia, su richiesta dei
fabbricieri del Duomo per una consulenza, che lo ospitarono nell’albergo de
Saracino. Vi si recò con Francesco di Giorgio Martini, architetto e autore del
Trattato di architettura, che riprendeva il De architectura di Vitruvio.
Leonardo dovette trovare particolarmente stimolante la rielaborazione in
volgare del testo latino, approfondendo lo studio dell’architettura: di quegli
anni è infatti il cosiddetto Manoscritto B (Parigi, Institut de France),
dedicato all’urbanistica, all’architettura religiosa e militare.[45]
Risalgono allo stesso periodo anche gli studi sul corpo
umano e sulle sue perfette proporzioni, che culminarono nell’esecuzione del
celeberrimo disegno dell’Uomo vitruviano.[45]
La fusione del “Colosso”
Rientrato a Milano si dedicò a varie attività, tra cui i
festeggiamenti per le nozze di Anna Maria Sforza e Alfonso I d’Este (1491) e
per quelle di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este (1494).
Lentamente portò avanti il progetto di un monumento
equestre a Francesco Sforza che Ludovico il Moro voleva dedicare alla memoria
del padre. Il progetto che passò attraverso diverse versioni era di dimensioni
colossali, arrivando, nel 1491, alla fase finale della messa in opera del
modello definitivo (in cera e poi in terracotta) che attendeva la successiva
fusione a cera persa del bronzo. L’impresa si presentava estremamente
difficile, per la grande necessità di bronzo fuso da versare, per questo
l’artista si dedicò a calcoli minuziosi in fase progettuale.
Nel frattempo, nel 1493, fu per un tratto al seguito del
corteo che accompagnava in Germania Bianca Maria Sforza, sposa dell’imperatore
Massimiliano d’Asburgo; si recò sul Lago di Como (dove studiò la celebre fonte
intermittente presso la villa Pliniana, a Torno), visitò la Valsassina, la
Valtellina e la Valchiavenna.
Rientrato a Milano il 13 luglio di quell’anno ricevette
forse la visita della madre Caterina. Alla fine del 1493 tutto era pronto per
la fusione del “Colosso”. In Corte Vecchia, sede da anni
dell’officina di Leonardo (sul luogo dell’attuale Palazzo Reale), il modello di
creta era ormai pronto e visibile, ma una notizia improvvisa bloccò la
disponibilità del metallo: l’imminente calata di Carlo VIII di Francia in
Italia, per la guerra contro il Regno di Napoli degli Aragonesi (1494), rese
infatti impellente la domanda di bronzo per la fabbricazione di armi,
vanificando il progetto di Leonardo, il quale fu profondamente deluso e
amareggiato anche per i nuovi problemi di natura economica causati dalla
mancata commissione.[45]
Sempre al periodo milanese, risale il Salvator mundi
raffigurazione “innovativa” della Vera immagine di Cristo, di origine
bizantina, opera della quale si conserva una copia nel complesso di San
Domenico Maggiore a Napoli, dove san Tommaso D’aquino trascorse alcuni mesi fra
il 1272 ed il 1274, anno della morte.
Questa copia del Salvator Mundi è attribuita alla scuola
leonardesca[46].
L’Ultima Cena
L’Ultima Cena, dopo il restauro
Nel 1494 Leonardo ricevette però una nuova commissione,
legata al convento di Santa Maria delle Grazie, luogo caro al Moro, destinato
alla celebrazione della famiglia Sforza, in cui aveva da poco finito di
lavorare Bramante. I lavori procedettero con la decorazione del refettorio, un
ambiente rettangolare dove i frati domenicani consumavano i pasti. Si decise di
affrescare le pareti minori con temi tradizionali: una Crocifissione, per la
quale fu chiamato Donato Montorfano che elaborò una composizione tradizionale,
già conclusa nel 1495, e un’Ultima Cena affidata a Leonardo.[45] In tale opera,
che lo sollevò dai problemi economici imminenti, Leonardo riversò come in una
summa tutti gli studi da lui compiuti in quegli anni, rappresentandone il
capolavoro.[47]
Il novelliere Matteo Bandello, che ben conosceva
Leonardo, scrisse di averlo spesso visto «la matina a buon’hora a montar su’l
ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto; soleva dal nascente Sole
sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il
mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e
quattro dì, che non v’averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talhora una o
due ore al giorno e solamente contemplava, considerava et essaminando tra sé,
le sue figure giudicava. L’ho anche veduto (secondo che il capriccio o
ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da
Corte Vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto
a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate
dar ad una di quelle figure e di subito partirse et andare altrove».[48]
Leonardo attinse alla tradizione fiorentina dei cenacoli,
reinterpretandola però in maniera estremamente originale con una maggiore enfasi
sul momento drammatico in cui Cristo afferma «Qualcuno di voi mi tradirà» e sui
“moti dell’animo” degli apostoli turbati. Essi sono ritratti a gruppi
di tre, come una serie di onde emotive successive, con al centro la figura
isolata e dominante del Cristo.[47]
Leonardo cambiò l’iconografia tradizionale scegliendo di
non rappresentare Giuda da solo su un lato del tavolo, ma accanto agli altri
sul medesimo lato rivolto allo spettatore.
Come è noto Leonardo non si trovava a suo agio con la
tecnica dell’affresco, poiché i veloci tempi di asciugatura dell’intonaco
richiedevano un tratto deciso e rapido, non compatibile con i lunghi studi, le
successive velature e la sua finissima pennellata. Per questo Leonardo inventò
una tecnica mista di tempera e olio su due strati di intonaco, che rallentò le
fasi di esecuzione dell’opera consentendogli di rendere una maggiore armonia
cromatica e gli effetti di luce e di trasparenze a lui cari.[47] L’opera era
conclusa nel 1498, quando venne ricordato nel De Divina Proportione di Luca
Pacioli.[49] L’esperimento si rivelò però drammaticamente inadatto a un
ambiente umido come il refettorio, con la parete comunicante con le cucine: già
nel 1517 Antonio de Beatis annotò le prime perdite di colore,[49], che
all’epoca di Vasari erano già evidenti, da allora si susseguirono restauri e
ridipinture, oltre a eventi estremamente drammatici durante l’occupazione
napoleonica e la seconda guerra mondiale, che avevano consegnato un capolavoro
estremamente compromesso, a cui ha posto rimedio, per quanto possibile, il
capillare restauro concluso nel 1999.[50]
La Danae
Il 31 gennaio 1496, il successo della messa in scena del
Paradiso venne replicato dall’allestimento della Danae di Baldassarre Taccone,
rappresentata a Milano in casa del conte di Caiazzo Francesco Sanseverino. Sul
verso di un folio leonardesco, conservato al Metropolitan Museum of Art, si
trova uno studio preparatorio per l’impianto scenico: al centro di una nicchia
si trovava un personaggio, forse Giove, fiammeggiante e in una mandorla,
circondato da un palcoscenico con ali ricurve, forse riservate ai musici. Altre
fonti ricordano come gli dei dell’Olimpo calassero dall’alto, rimanendo sospesi
nel vuoto tra effetti luminosi che simulavano un cielo stellato; un sistema di
argani e carrucole dava agli attori la capacità di muoversi con
disinvoltura.[43]
Sala delle Asse
Sala delle Asse
Dettaglio monocromo
Dettaglio del monocromo riscoperto durante il restauro in
corso della Sala delle Asse
In quel periodo Leonardo si dedicò anche alla decorazione
di alcune stanze del Castello Sforzesco. In una lettera del 21 aprile 1498[51],
Gualtiero Bescapè informa Ludovico il Moro che la “sala” verrà liberata dalle
“asse”[52] e che “Magistro Leonardo” completerà la sua decorazione entro
settembre, ma, in realtà, non è nota con esattezza la data in cui i lavori
furono terminati. La concezione era grandiosa: una foresta di alberi si
dispiega sulla parete, proiettando rami e fogliame sul soffitto, con intrecci
vegetali e gelsi[53], che con un’illusione ottica creano un pergolato lungo
tutta la volta, le vele e le lunette. Un primo restauro del 1902 riportò alla
luce le decorazioni (di cui si era persa traccia). Un secondo restauro fu
eseguito nel 1953. Un ulteriore restauro, in corso nel 2018[54], ha riportato
alla luce dei bellissimi disegni preparatori a carboncino, in cui le radici
degli alberi si insinuano tra le pietre della parete.
Ultimi anni a Milano
Nel 1496 molto probabilmente morì sua madre, come si
deduce da una sua nota di spese[55] per una sepoltura che porta questa data.
Del 2 ottobre 1498 è l’atto notarile col quale Ludovico
il Moro gli donò una vigna tra il convento di Santa Maria delle Grazie e il
monastero di San Vittore al Corpo. Intanto nubi minacciose si addensavano
sull’orizzonte milanese: nel marzo 1499 Leonardo si sarebbe recato a Genova
insieme con Ludovico, sul quale incombeva la tempesta della guerra che egli
stesso aveva contribuito a provocare; mentre il Moro era a Innsbruck, cercando
invano di farsi alleato l’imperatore Massimiliano, il 6 ottobre 1499 Luigi XII
conquistava Milano. Il 14 dicembre Leonardo fece depositare 600 fiorini
nell’Ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze e abbandonò Milano.
Il periodo errabondo (1499–1508)
La partenza da Milano, occupata dai francesi, segnò
l’inizio di un periodo di viaggi e peregrinazioni, che lo condussero a visitare
più corti e città e lo fecero tornare per brevi periodi a Firenze.[56]
A Mantova
Cartone per il ritratto di Isabella d’Este, Museo del
Louvre, Parigi, 1500 circa
Nel dicembre 1499 riparò a Mantova,[57] ospite di
Isabella d’Este, la quale aveva visto la Dama con l’ermellino restandone
colpita e gli commissionò un ritratto mai completato, del quale si conserva il
cartone preparatorio, oggi al Museo del Louvre.[56]
Nonostante le lusinghe di Isabella, che voleva fare di
lui il pittore di corte in sostituzione dell’anziano Andrea Mantegna, del quale
non apprezzava l’arte nel ritratto, Leonardo ripartì presto, trovando
l’ambiente mantovano forse troppo soffocante e tutto sommato con limitate
prospettive di guadagno per i continui problemi economici del piccolo
marchesato.
A Venezia
Giunse così a Venezia nel marzo 1500. La presenza
dell’artista fiorentino nella Serenissima è testimoniata da Luca Pacioli, che
forse l’accompagnò in città per approntare insieme la stampa del De divina
proportione, che era illustrato con disegni forse derivati da prototipi di
Leonardo. Vasari non citò la trasferta, forse perché legata alle attività di
ingegnere e matematico piuttosto che alle discipline artistiche.[58]
Qui venne incaricato di immaginare alcuni sistemi
difensivi contro la continua minaccia turca. Leonardo iniziò il progetto di una
diga mobile, da collocare sull’Isonzo, in grado di provocare inondazioni sui
presidi in terraferma del nemico, che, per il costo elevato, fu accantonato. Al
suo posto Leonardo iniziò a progettare il rafforzamento delle mura di cinta di
Gradisca d’Isonzo. In ogni caso anche da Venezia ripartì presto[56]. Forse a
Venezia fece o comunque lasciò alcuni dei suoi innovativi studi sulle
caricature e volti grotteschi, la cui influenza si legge in alcune opere
successive prodotte in città, come La Vecchia di Giorgione[59] o il Cristo
dodicenne tra i dottori del soggiorno veneziano di Albrecht Dürer.[60] Leonardo
aveva inoltre con sé il cartone per il Ritratto di Isabella d’Este, che
potrebbe aver agito da modello per gli artisti locali in direzione di un
approfondimento psicologico nel ritratto e di una maggiore sensibilità verso
gli effetti luminosi.[58]
Il ritorno a Firenze
Dopo aver visitato Roma e Tivoli, nell’aprile 1501 tornò
a Firenze, dove non metteva piede da vent’anni. Trovò accoglienza presso il
canonico Amadori a Fiesole, fratello della matrigna Albiera, nonostante suo
padre Piero fosse ancora vivo; probabilmente l’artista si sarebbe trovato a
disagio nella casa piena dei fratellastri che non conosceva nemmeno e che si
rivelarono poi a lui ostili dopo la morte del padre, riguardo all’eredità.
Durante la sua assenza, Firenze era cambiata sia sul
piano politico sia sulla scena artistica. Morto il Magnifico e cacciato suo
figlio Piero nel 1494, si era restaurata la piena Repubblica, con a capo dal
1502 il gonfaloniere a vita Pier Soderini. Nuove “stelle” erano
salite alla ribalta, tra cui quella di Michelangelo, di oltre vent’anni più
giovane di Leonardo, con il quale non corse mai buon sangue.[61]
Leonardo era tormentato da problemi economici e bisognoso
di lavorare. Fu così che l’amico Filippino Lippi, che in passato aveva ricevuto
commissioni lasciate incompiute da Leonardo, rinunciò in suo favore
all’incarico di dipingere per i frati Serviti una pala d’altare per l’altare
maggiore della Santissima Annunziata. Leonardo, col Salaì, si trasferì allora
nel convento, ma ancora una volta non riuscì a completare l’opera affidatagli.
I frati si dovettero accontentare di un cartone con la Sant’Anna, poi perduto,
che godette di una straordinaria fama tra i contemporanei. Ne resta una vivace
descrizione del Vasari:
«Finalmente fece un cartone dentrovi una Nostra Donna et
una S. Anna, con un Cristo, la quale non pure fece maravigliare tutti
gl’artefici, ma finita ch’ella fu, nella stanza durarono due giorni d’andare a
vederla gl’uomini e le donne, i giovani et i vecchi, come si va a le feste
solenni, per veder le maraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel
popolo.»
(Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori,
scultori e architettori (1568), Vita di Lionardo da Vinci.)
Pare ormai assodato che l’opera non sia il Cartone di
sant’Anna (oggi a Londra), che è invece un’opera dipinta forse per Luigi XII
poco dopo, entro il 1505, e proveniente dalla casa milanese dei conti
Arconati;[62] piuttosto dal cartone fiorentino dovette derivare la Sant’Anna,
la Vergine e il Bambino con l’agnellino del Louvre, completata comunque molti
anni dopo.[63]
La Madonna dei Fusi
Madonna dei Fusi (1501 circa), New York, collezione
privata
Isabella d’Este nel frattempo cercava di ottenere i
servigi di Leonardo per il suo studiolo e per un ritratto, secondo il suo
progetto di far competere i maggiori pittori dell’epoca, che doveva coinvolgere
anche Giovanni Bellini, Giorgione e altri. Con l’intercessione del carmelitano
Pietro da Novellara chiese il ritratto e in subordine, «un quadretto de la
Madonna devoto e dolce como è il suo naturale», ma il frate le rispose che «li
suoi isperimenti matematici l’hanno distratto tanto dal dipingere che non può
patire il pennello».
Nella lettera datata 14 aprile 1501 il frate le comunicò
che Leonardo stava eseguendo un “quadrettino” per il segretario del
re di Francia Florimond Robertet, che raffigurava la Vergine nell’atto di
“inaspare i fusi” e il Bambino mentre afferra l’aspo come se fosse
una croce. Si tratta sicuramente della Madonna dei Fusi, della quale esistono
molte versioni, nessuna pienamente autografa. Le più vicine alla mano
leonardesca sono ritenute quella nella collezione del duca di Buccleuch nel
Drumlaring Castle presso Edimburgo, forse la più antica, e quella in una
collezione privata a New York.[64]
Le lettere testimoniano comunque che Leonardo fosse ormai,
anche a Firenze, pienamente occupato come pittore.[64]
Al servizio di Cesare Borgia
Pianta di Imola disegnata per Cesare Borgia, Royal
Collection
Nel 1502 Leonardo venne assoldato da Cesare Borgia in
veste di architetto e ingegnere militare; i due avevano già avuto modo di
conoscersi a Milano nel 1499. Il figlio di papa Alessandro VI, detto “duca
del Valentino”, fu uno dei tiranni più feroci del momento e occupò
Leonardo, che era giunto a Cesena, in varie mansioni legate alle continue campagne
militari, come rilevare e aggiornare le fortificazioni delle città di Romagna
conquistate. Per lui mise a punto un nuovo tipo di polvere da sparo, formata da
una miscela di zolfo, carbone e salnitro, studiò macchine volanti e strumenti
per la guerra sottomarina.[64] Nel mese di agosto soggiornò a Pavia, da dove
partì per ispezionare le fortezze lombarde del Borgia; disegnò inoltre mappe
dettagliate per facilitare le mosse strategico-militari dell’esercito.[64]
Leonardo accettò l’incarico e alla fine del giugno 1502
era già a Urbino al seguito dell’esercito di Cesare Borgia in qualità di
“Architecto et Ingegnero Generale”. L’investitura fu
“ufficializzata” con una lettera patente (una sorta di lasciapassare)
rilasciata il 18 agosto. In questo documento[65] sono descritti con chiarezza i
compiti che il Valentino affidò a Leonardo: egli doveva “vedere, mesurare,
et bene extimare” allo scopo “di considerare li Lochi et Forteze e li
Stati Nostri, Ad ciò che secundo la loro exigentia ed suo iudico possiamo
provederli”. Si doveva trattare cioè di una ricognizione al fine di
individuare e progettare quelle opere militari e civili che avrebbero
consolidato la signoria del Valentino e permesso una difesa efficace contro i
numerosi nemici esterni e interni.
Al seguito del Valentino assistette a una delle più
sanguinose e crudeli campagne dell’epoca, l’attacco a tradimento contro
Urbino.[64] Proprio a Urbino Leonardo strinse rapporti d’amicizia con Niccolò
Machiavelli, probabilmente già conosciuto a Firenze.[64]
La Battaglia di Anghiari
Studio per la Battaglia di Anghiari
Dal marzo 1503 fu nuovamente a Firenze, scampando per
poco al crollo dei domìni del Borgia. Ad aprile Pier Soderini gli affidò
l’incarico di decorare una delle grandi pareti del nuovo Salone dei Cinquecento
in Palazzo Vecchio, opera grandiosa per dimensioni e per ambizione, a cui
avrebbe atteso nei mesi successivi. Nel luglio dello stesso anno, intanto, la
Repubblica gli affidò un complesso progetto idraulico-militare per lo
sbarramento dell’Arno in modo da farlo deviare contro la ribelle Pisa: Leonardo
si recò nella città assediata dai fiorentini, insieme con Gerolamo da Filicaja
e Alessandro degli Albizzi, ma il suo progetto fallì per un errore di calcolo,
che mandò su tutte le furie il gonfaloniere Soderini.[64]
Tornato in città, si dedicò allora al progetto in Palazzo
Vecchio. Nel Salone dovevano essere raffigurate alcune vittorie militari dei
fiorentini, celebranti il concetto di libertas repubblicana contro nemici e
tiranni. A Leonardo venne affidato un episodio degli scontri tra esercito
fiorentino e milanese del 29 giugno 1440, la Battaglia di Anghiari, mentre
sulla parete opposta avrebbe dovuto lavorare Michelangelo Buonarroti, con la
Battaglia di Cascina (29 luglio 1364, contro i Pisani).[64] Per ragioni
diverse, nessuna delle due pitture murali venne portata a termine, né si sono
conservati i cartoni originali, anche se ne restano alcuni studi autografi e
copie antiche di altri autori.
Leonardo in particolare studiò una nuova tecnica che lo
sollevasse dai tempi brevi dell’affresco, recuperando dalla Naturalis historia
di Plinio il Vecchio l’encausto. Come per l’Ultima Cena anche questa scelta si
rivelò drammaticamente inadatta quando era ormai troppo tardi.[64] La vastità
del dipinto non permise infatti di raggiungere coi fuochi una temperatura
sufficiente a far essiccare i colori, che colarono sull’intonaco, tendendo
ovvero ad affievolirsi, se non a scomparire del tutto. Nel dicembre 1503
l’artista interruppe così il trasferimento del dipinto dal cartone alla parete,
frustrato da un nuovo insuccesso.[64]
Tra le migliori copie tratte dal cartone di Leonardo c’è
quella di Pieter Paul Rubens, oggi al Louvre[64]. Perduto anche il cartone, le
ultime tracce dell’opera furono probabilmente coperte nel 1557 dagli affreschi
del Vasari.
La Gioconda
La Gioconda (1503-1506), Parigi, Museo del Louvre
In questo periodo iniziò a lavorare al capolavoro che lo
ha reso celebre nei secoli, la Gioconda.
Identificata tradizionalmente come Lisa Gherardini, nata
nel 1479 e moglie di Francesco Bartolomeo del Giocondo (da cui il nome
“Gioconda”), il dipinto, considerato il ritratto più famoso del
mondo, va ben oltre i limiti tradizionali del genere ritrattistico. Come
scrisse Charles de Tolnay nel 1951:
«Nella Gioconda, l’individuo – una sorta di miracolosa
creazione della natura – rappresenta al tempo stesso la specie: il ritratto,
superati i limiti sociali, acquisisce un valore universale. Leonardo ha
lavorato a quest’opera sia come ricercatore e pensatore sia come pittore e
poeta; e tuttavia il lato filosofico-scientifico restò senza seguito.
Tuttavia, l’aspetto formale – l’impaginazione nuova, la
nobiltà dell’atteggiamento e la dignità del modello che ne deriva – ebbe
un’azione risolutiva sul ritratto fiorentino dei due decenni successivi […]
Leonardo ha creato con la Gioconda una formula nuova, più monumentale e al
tempo stesso più animata, più concreta, e tuttavia più poetica di quella dei
suoi predecessori. Prima di lui, nei ritratti manca il mistero; gli artisti non
hanno raffigurato che forme esteriori senza l’anima o, quando hanno
caratterizzato l’anima stessa, essa cercava di giungere allo spettatore
mediante gesti, oggetti simbolici, scritte. Solo nella Gioconda emana un
enigma: l’anima è presente ma inaccessibile.[66]»
La morte del padre e il Trattato delli uccelli
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Grande Nibbio.
Il 9 luglio 1504 morì il padre Piero; Leonardo annotò più
volte la circostanza, in apparente agitazione: «Mercoledì a ore 7 morì ser
Piero da Vinci, a dì 9 luglio 1504, mercoledì vicino alle ore 7»[67] e ancora:
«Addì 9 di luglio 1504 in mercoledì a ore 7 morì Piero da Vinci notaio al
Palagio del Podestà, mio padre, a ore 7. Era d’età d’anni 80. Lasciò 10 figlioli
maschi e due femmine».[68] Il padre non lo fece erede e, contro i fratelli che
gli opponevano l’illegittimità della sua nascita, Leonardo chiese invano il
riconoscimento delle sue ragioni: dopo la causa giudiziale da lui promossa,
solo il 30 aprile 1506 avvenne la liquidazione dell’eredità, dalla quale
Leonardo fu escluso.
Nei primi anni del Cinquecento Leonardo dedicò
particolare attenzione allo studio del volo e al progetto di una nuova macchina
volante. Riuscire a realizzare l’impresa del volo umano rappresentava la sfida
più ambiziosa e Leonardo coltivava l’idea di scrivere un trattato sul volo
diviso in quattro capitoli. Al foglio 3r del manoscritto K Leonardo annota:
Dividi il trattato degli uccelli in quattro libri, de’ quali il primo sia del volare
per battimento d’alie: il secondo del volo sanza battere d’alie, per favor di
vento, il terzo del volare in comune, come d’uccelli, pipistrelli, pesci,
animali, insetti; l’ultimo del moto strumentale.
Leonardo non completerà mai la stesura del trattato sul
volo, ma nel 1505 compilò il Codice sul volo degli uccelli, oggi custodito
presso la Biblioteca Reale di Torino. Il Codice del volo è la raccolta del
pensiero più maturo di Leonardo inerente allo studio del volo, ed è nelle
pagine di questo prezioso manoscritto che Leonardo progetta la sua macchina
volante più evoluta: il Grande Nibbio.
Il Grande Nibbio, macchina volante di Leonardo descritta
nel Codice del Volo
Nei tre anni successivi Leonardo sviluppò ulteriormente i
suoi studi sull’anatomia dei volatili e sulla resistenza dell’aria e, attorno
al 1515, sulla caduta dei pesi e sui moti dell’aria.[43] Da queste conoscenze
cercò poi di costruire originali macchine volanti, in alcuni casi messe in
opera, come sembra confermare un appunto autografo di data imprecisata:
«Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso del suo magno Cecero,
empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture e
gloria eterna al nido dove nacque».[69] Si crede che Leonardo abbia fatto
sperimentare il volo a un suo attendente fidato, Tommaso Masini detto
“Zoroastro”, dalla collina di Fiesole, senza però ottenere un
successo: pare infatti che il malcapitato cadde rovinosamente rompendosi anche
una gamba.[43]
Leonardo e Michelangelo
Il rapporto tra i due geni del Rinascimento, Leonardo e
Michelangelo Buonarroti, fu difficile, spesso teso, a causa della differenza
generazionale (Michelangelo era di 23 anni più giovane di Leonardo), ma
soprattutto, per via dei caratteri diversi e degli ideali artistici
inconciliabilmente lontani: il primo fu riflessivo, poliedrico e interessato al
mondo naturale; il secondo più impulsivo, notoriamente riottoso e
idealista[70]. Non vi sono prove dirette della loro inimicizia, ma svariati
indizi e testimonianze indirette. Nel Trattato della pittura, ad esempio,
Leonardo condannò gli “eccessi anatomici e la retorica muscolare”[71]
che fanno parte dello stile michelangiolesco e dei suoi seguaci, pur senza mai
citare direttamente il rivale.
L’Anonimo Gaddiano li ricorda in una novella, in cui i
due artisti, presso piazza Santa Trinita, si incontrarono e Michelangelo,
sprezzante e polemico, incalzò Leonardo circa l’interpretazione di un verso
dantesco, oggetto della discussione. La reticenza di Leonardo nell’accettare la
provocazione generò l’ira di Michelangelo, che lo dileggiò circa il fallito
progetto del cavallo di bronzo terminando: “et che t’era che creduto da
que’ caponi de’ Milanesi?”.[70]
Le incomprensioni e la rivalità dovettero accendersi
anche durante la doppia commissione ufficiale in Palazzo Vecchio, ma le fonti
tacciono al riguardo, forse per la mancata attuazione del progetto.[70]
Prima di partire da Firenze ci fu un altro episodio che
riguardò i due: Michelangelo aveva completato il suo David e gli artisti fiorentini
vennero chiamati in commissione a decidere per la collocazione della statua in
piazza della Signoria, il 25 gennaio 1504. Tra Sandro Botticelli, Andrea della
Robbia, Simone del Pollaiolo, Filippino Lippi, il Perugino, Lorenzo di Credi,
Giuliano e Antonio da Sangallo, Leonardo prese la parola per consigliare,
seguendo un’idea di Giuliano, una posizione defilata per la statua, nella
Loggia della Signoria, a ridosso della parete breve incorniciata magari da una
nicchia “in modo che non guasti le cerimonie delli ufficiali”. La sua
presa di posizione, che provocò evidentemente la contrarietà del Buonarroti,
ebbe un seguito minoritario, prevalendo infine l’ipotesi di Filippino Lippi,
per una collocazione di massimo risalto all’aperto, dominante e autorevole
davanti a Palazzo Vecchio, l’edificio più importante della città, nonché cuore
nevralgico della politica e della vita sociale fiorentina.[72]
Gli ultimi anni (1508–1519)
Castello di Clos-Lucé
Il secondo soggiorno milanese
A Firenze Leonardo cominciò a essere lusingato dal
governatore francese di Milano, Charles d’Amboise, che lo sollecitava, fin dal
1506, a entrare al servizio di Luigi XII di Francia. L’anno successivo fu lo
stesso re a richiedere espressamente Leonardo, che infine accettò di tornare a Milano
dal luglio 1508. Il secondo soggiorno milanese, durato fino al 1513, con alcuni
viaggi dall’ottobre 1506 al gennaio 1507 e dal settembre 1507 al settembre
1508, fu un periodo molto intenso:[73] dipinse la Sant’Anna, la Vergine e il
Bambino con l’agnellino, completò, in collaborazione col De Predis, la seconda
versione della Vergine delle Rocce e si occupò di problemi geologici,
idrografici e urbanistici.[74] Studiò fra l’altro un progetto per una statua
equestre in onore di Gian Giacomo Trivulzio, come artefice della conquista
francese della città.[74]
Viveva nei pressi di San Babila e sul suo stato
finanziario resta l’annotazione di una provvigione ottenuta per quasi un anno
di 390 soldi e 200 franchi dal re di Francia.[75] Il 28 aprile 1509 scrisse di
aver risolto il problema della quadratura dell’angolo curvilineo e l’anno dopo
andò a studiare anatomia con Marcantonio della Torre, giovanissimo professore
dell’università di Pavia; allo scopo, scrisse, di dare «la vera notizia della
figura umana, la quale è impossibile che gli antichi e i moderni scrittori ne
potessero mai dare vera notizia, sanza un’immensa e tediosa e confusa lunghezza
di scrittura e di tempo; ma, per questo brevissimo modo di figurarla» – ossia
rappresentandola direttamente con disegni, «se ne darà piena e vera notizia. E
acciò che tal benefizio ch’io do agli uomini non vada perduto, io insegno il
modo di ristamparlo con ordine».[76]
Durante i suoi brevi viaggi visitò Como, poi si avventurò
verso le pendici del Monte Rosa, (all’epoca era infatti impossibile salire sino
sulla vetta che è alta ben 4.634 metri), poi con il Salaì e il matematico Luca
Pacioli soggiornò a Vaprio d’Adda, in provincia di Milano, dove gli venne
affidato dal padre il giovane Francesco Melzi, l’ultimo e il più caro dei suoi
allievi che lo seguì fino alla morte[74].
Nel 1511 morì il suo mecenate Charles d’Amboise. L’anno
seguente la nuova guerra della Lega Santa scacciò i Francesi da Milano, che
tornò agli Sforza[74].
A Roma
Mappa dell’Agro Pontino, Royal Library, Windsor
Nell’incertezza della situazione, il 24 settembre 1514
Leonardo partì per Roma, portandosi gli allievi più vicini, il Melzi e il
Salaì[77]. Qui Giuliano de’ Medici, fratello del papa Leone X, gli accorda il
suo favore, ottenendo per lui un alloggio negli appartamenti del Belvedere al
Vaticano.[74] Qui l’artista si dedicò ai suoi studi scientifici, meccanici, di
ottica e di geometria[78] e cercò fossili sul vicino monte Mario,[79] ma si
lamentò con Giuliano che gli venissero impediti i suoi studi di anatomia
nell’Ospedale di Santo Spirito. Non ottenne commissioni pubbliche, ma ebbe modo
di rivedere Giuliano da Sangallo, che si stava occupando della fabbrica di San
Pietro, Raffaello Sanzio, che affrescava gli appartamenti papali, e forse anche
Michelangelo, dal quale lo divideva l’antica inimicizia.
Si occupò del prosciugamento delle Paludi pontine, i cui
lavori erano stati appaltati da Giuliano de’ Medici – il progetto venne
approvato da papa Leone X il 14 dicembre 1514, ma non fu eseguito per la morte
sia di Giuliano che del papa di lì a pochi anni – e della sistemazione del
porto di Civitavecchia.[80] Con Giuliano e il papa fece un viaggio a Bologna,
dove ebbe modo di conoscere direttamente Francesco I di Francia.[74]
Dal settembre 1513 al 1516, Leonardo trascorse la maggior
parte del tempo vivendo nel cortile del Belvedere nel Palazzo Apostolico, dove
Michelangelo e Raffaello erano entrambi attivi.[81] Leonardo riceveva
un’indennità di 33 ducati al mese e, secondo il Vasari, decorava una lucertola
con scaglie immerse nel mercurio.[82] Il papa gli diede una commissione
pittorica di materiale sconosciuto, ma la cancellò quando l’artista iniziò a
sviluppare un nuovo tipo di finitura.[82] Leonardo si ammalò, in quello che potrebbe
essere stato il primo di molteplici ictus che portarono alla sua morte.[82]
Leda e il cigno, Chatsworth
La Scapigliata esposto alla Galleria Nazionale di Parma.
Si è anche ipotizzato che l’opera possa essere uno studio per la Leda col cigno
ora perduta.
Secondo il Vasari, durante questa sua breve permanenza a
Roma, fece «per messer Baldassarre Turini da Pescia, che era datario di Leone,
un quadretto di una Nostra Donna col figliuolo in braccio con infinita
diligenza e arte» e ritrasse «un fanciulletto che è bello e grazioso a
maraviglia, che sono tutti e due a Pescia», ma delle due opere si è persa ogni
traccia, unitamente alla Leda col cigno, celebre al tempo, e vista ancora da
Cassiano dal Pozzo nel 1623 a Fontainebleau: «una Leda in piedi, quasi tutta
ignuda, col cigno e due uova al piè della figura».
A Roma cominciò anche a lavorare a un vecchio progetto,
quello degli specchi ustori che dovevano servire a convogliare i raggi del sole
per riscaldare una cisterna d’acqua, utile alla propulsione delle macchine. Il
progetto però incontrò diverse difficoltà soprattutto perché Leonardo non
andava d’accordo con i suoi lavoranti tedeschi, specialisti in specchi, che
erano stati fatti arrivare apposta dalla Germania. Contemporaneamente vennero
ripresi i suoi studi di anatomia, già iniziatisi a Firenze e Milano, ma questa
volta le cose si complicarono: una lettera anonima, inviata probabilmente per
vendetta dai due lavoranti tedeschi, l’accusò di stregoneria. In assenza della
protezione di Giuliano de’ Medici e di fronte a una situazione fattasi pesante,
Leonardo si trovò costretto, ancora una volta, ad andarsene. Questa volta aveva
deciso di lasciare l’Italia. Era anziano, aveva bisogno di tranquillità e di
qualcuno che l’apprezzasse e l’aiutasse.
L’ultima notizia del suo periodo romano data all’agosto
1516, quando misurava le dimensioni della basilica di San Paolo fuori le
mura,[83] dopodiché dovette accettare gli inviti del re di Francia.[74]
In Francia, al servizio di Francesco I
Nel 1517 Leonardo partì per la Francia, dove arrivò nel
mese di maggio, insieme con Francesco Melzi e col servitore Battista de
Vilanis, venendo alloggiato dal re nel castello di Clos-Lucé,[74] vicino ad
Amboise, e onorato del titolo di premier peintre, architecte, et mecanicien du
roi, con una pensione di 5.000 scudi. Francesco I era un sovrano colto e
raffinato, amante dell’arte soprattutto italiana, come dimostrò anche negli
anni successivi accogliendo con onori altri artisti (Francesco Primaticcio,
Rosso Fiorentino, Andrea del Sarto e Benvenuto Cellini).
Gli anni passati in Francia furono sicuramente il periodo
più sereno della sua vita, assistito dai due fedeli allievi e, sebbene
indebolito dalla vecchiaia e da una probabile trombosi cerebrale che gli
paralizzò la mano destra, poté continuare con passione e dedizione i propri
studi e le ricerche scientifiche.[74]
L’alta considerazione di cui godette è dimostrata anche
dalla visita ricevuta, il 10 ottobre, del cardinale d’Aragona e del suo
segretario Antonio de Beatis che lasciò scritto nel suo diario di viaggio che
Leonardo, colpito da una «certa paralesi ne la dextra», gli mostrò «tre quadri,
uno di certa donna Fiorentina facta di naturale ad istantia del quondam mag.co
Juliano de Medici, l’altro de San Joane Bap.ta giovane et uno de la Madona et
del figliolo che stan posti in grembo di S.ta Anna tucti perfectissimi, et del
vero che da lui per esserli venuta certa paralesi ne la dextra, non se ne può
expectare più bona cosa. Ha ben facto un creato Milanese chi lavora assai bene,
et benché il p.to M. Lunardo non possa colorir con quella dulceza che solea,
pur serve a far disegni et insegnar ad altri. Questo gentilhomo ha composto de
notomia tanto particularmente con la demonstratione de la pictura sì de membri
come de muscoli, nervi, vene, giunture, d’intestini tanto di corpi de homini
che de done, de modo non è stato mai facto anchora da altra persona […] Ha
anche composto la natura de l’acque, de diverse machine et altre cose, secondo
ha riferito lui, infinità di volumi et tucti in lingua vulgare, quali se
vengono in luce saranno proficui et molto dilectevoli».[84]
Progettò il palazzo reale di Romorantin, che Francesco I
intendeva erigere per la madre Luisa di Savoia. Si trattava del progetto di una
cittadina, per la quale previde lo spostamento di un fiume che l’arricchisse
d’acque e fertilizzasse la vicina campagna: «El fiume di mezzo non riceva acqua
torbida, ma tale acqua vada per li fossi di fori della terra, con quattro
molina dell’entrata e quattro all’uscita […] il fiume di Villafranca sia
condotto a Romolontino, e il simile sia fatto del suo popolo […] se il fiume
mn [Bonne Heure], ramo del fiume Era [Loira] si manda nel fiume di Romolontino,
colle sue acque torbide esso grasserà le campagne sopra le quali esso adacquerà,
e renderà il paese fertile».[85]
Partecipò alle feste per il battesimo del Delfino e a
quelle per le nozze di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino. Tra i lavori come
curatore di feste e apparati si ricorda quello messo in scena a Lione nel 1515
e ad Argenton nel 1517, in entrambi i casi per festeggiare la presenza di
Francesco I. Si trattava dell’automa del leone, che era in grado di camminare e
poi fermarsi aprendosi il petto “tutto ripieno di gigli e diversi fiori,
[…] che fu di tanta meraviglia a quel re”.[86]
L’ultima data presente su un manoscritto di Leonardo
risale al 24 giugno 1518: preso da calcoli di geometria, gli studi sono
bruscamente interrotti con un “eccetera, perché la minestra si
fredda”! Si tratta di una rara annotazione istintiva di vita quotidiana,
che rende la dimensione umana del personaggio che, incalzato dai richiami di
qualcuno, forse dalla domestica Mathurine [87] deve rompere la concentrazione
per mangiare.[88]
La morte
La tomba di Leonardo, nella cappelletta di Saint-Hubert
presso il castello di Amboise
Il 23 aprile 1519 redasse il testamento davanti al notaio
Guglielmo Boreau, alla presenza di cinque testimoni e dell’inseparabile
Francesco Melzi: dispose di voler essere sepolto nella chiesa di San
Fiorentino, con una cerimonia funebre accompagnata dai cappellani e dai frati
minori, oltre che da sessanta poveri, ciascuno reggente una torcia; richiese la
celebrazione di tre messe solenni, con diacono e suddiacono, e di trenta messe
“basse”, a San Gregorio, a Saint-Denis e nella chiesa dei
francescani.[88]
A Francesco Melzi, esecutore testamentario, lasciò «li
libri […] et altri Instrumenti et Portracti circa l’arte sua et industria de
Pictori», oltre alla collezione dei disegni e del guardaroba;[88] al servitore
De Vilanis e al Salaì la metà per ciascuno di «uno iardino che ha fora de le
mura de Milano […] nel quale iardino il prefato Salay ha edificata et
constructa una casa»; alla fantesca Maturina dei panni e due ducati; ai
fratellastri fiorentini il suo patrimonio nella città toscana, cioè 400 scudi
depositati in Santa Maria Nuova e un podere a Fiesole.[89]
Leonardo morì pochi giorni dopo, il 2 maggio, presso il
maniero di Clos-Lucé ad Amboise. Aveva 67 anni.
Francesco I, a Saint Germain en Laye dove si trovava per
il battesimo del figlio, apprese la notizia della scomparsa direttamente dal
Melzi e si lasciò andare a un pianto sconsolato.[88]
Trent’anni prima aveva scritto delle parole che suonano
profetiche nel suo caso:
«Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così
una vita bene usata dà lieto morire.»
(Trattato della pittura, 27 r.)
Inumazione
Il 12 agosto un registro ricorda come «fu inumato nel
chiostro di questa chiesa [Saint-Florentin ad Amboise] M. Lionard de Vincy,
nobile milanese e primo pittore e ingegnere e architetto del Re, meschanischien
di Stato e già direttore di pittura del duca di Milano».[90] Cinquant’anni
dopo, violata la tomba, le sue spoglie andarono disperse nei disordini delle
lotte religiose tra cattolici e ugonotti.[74]
Nel 1874 delle ossa ritrovate e attribuite a Leonardo[91]
furono poste nella cappelletta di Saint-Hubert presso il castello di
Amboise.[92]
Studi, attività e interessi
Il problema della lingua
Nel Rinascimento italiano gli uomini illustri come i
grandi artisti-artigiani che volevano presentarsi ai contemporanei come autori
di libri e trattati, dovevano necessariamente confrontarsi con gli esponenti
della cultura umanistica che giudicava le arti figurative e quelle
ingegneristiche come “arti meccaniche”, inferiori rispetto alle arti
liberali. Da questo nasce la necessità per Leonardo d’impegnarsi in quella che
Italo Calvino ha chiamato la «battaglia con la lingua»[93]: il rifornirsi cioè
di un vocabolario dotto minimo[94] che egli però lascia inconcluso e tendente
piuttosto a mutarsi e ad adattarsi sempre meglio ai cambiamenti della realtà.
Anche in questo Leonardo è alla ricerca della perfezione: scrive e riscrive gli
stessi testi cercando il massimo di esattezza e concretezza e li trasferisce da
un quaderno all’altro ma egli alla fine sa bene di non potersi confrontare con
le competenze linguistiche degli umanisti:
«So bene che, per non essere io letterato, che alcuno
prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere
omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei, sì come
Mario rispose contro a’ patrizi romani, io sì rispondere, dicendo: “Quelli
che dall’altrui fatiche se medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non
vogliono concedere”. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser
tratte dalla esperienza, che d’altrui parola, la quale fu maestra di chi bene
scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò.[95]»
“Omo sanza lettere” confessa di essere
Leonardo, che ha scarsa conoscenza del latino e ignoranza del greco, ma «Io ho
tanti vocaboli nella mia lingua materna, ch’i’ m’ho piuttosto da doler del bene
intendere le cose, che del mancamento delle parole, colle quali bene esprimere
il concetto della mente mia»; e se il volgare ha piena capacità di esprimere
ogni concetto, il problema riguarda piuttosto quello della verità di ciò che si
argomenta. La parola non conta nulla senza l’esperienza, e inorgoglirsi della
conoscenza letteraria significa vantarsi di cose non proprie, ma create da
altri.
Lo scienziato
L’Uomo vitruviano, studio di proporzionalità di un corpo
umano, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Secondo il pensiero di Leonardo, una prima verità si trae
dall’esperienza diretta della natura, dall’osservazione dei fenomeni: «molto
maggiore e più degna cosa a leggere» non è allegare l’autorità di autori di
libri ma allegare l’esperienza, che è la maestra di quegli autori. Coloro che
argomentano citando l’autorità di altri scrittori vanno gonfi «e pomposi,
vestiti e ornati, non delle loro, ma delle altrui fatiche; e le mie a me
medesimo non concedano; e se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente
loro, non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno
essere biasimati».[96] Se poi costoro lo criticano sostenendo che «le mie prove
esser contro all’alturità d’alquanti omini di gran riverenza appresso a’ loro
inesperti iudizi», è perché non considerano «le mie cose esser nate sotto la
semplice e mera sperienza, la quale è maestra vera».[95]
«Io credo che invece che definire che cosa sia l’anima,
che è una cosa che non si può vedere, molto meglio è studiare quelle cose che
si possono conoscere con l’esperienza, poiché solo l’esperienza non falla. E
laddove non si può applicare una delle scienze matematiche, non si può avere la
certezza.»
(Codice Atlantico a 119 v)
Se l’esperienza fa conoscere la realtà delle cose, non dà
però ancora la necessità razionale dei fenomeni, la legge che è nascosta nelle manifestazioni
delle cose: «la natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei
infusamene vive» e «nessuno effetto è in natura sanza ragione; intendi la
ragione e non ti bisogna sperienza», nel senso che una volta che si sia
compresa la legge che regola quel fenomeno, non occorre più ripeterne
l’osservazione; l’intima verità del fenomeno è raggiunta.
Le leggi che regolano la natura si esprimono mediante la
matematica: «Nissuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s’essa
non passa per le matematiche dimostrazioni»[97], restando fermo il principio
per il quale «se tu dirai che le scienze, che principiano e finiscano nella
mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si niega, per molte ragioni; e
prima, che in tali discorsi mentali non accade sperienza, senza la quale nulla
dà di sé certezza».[97]
Il rifiuto della metafisica non poteva essere espresso in
modo più netto. Anche la sua concezione dell’anima consegue dall’approccio
naturalistico delle sue ricerche: «nelle sue [della natura] invenzioni nulla
manca e nulla è superfluo; e non va con contrapesi, quando essa fa li membri
atti al moto nelli corpi delli animali, ma vi mette dentro l’anima d’esso corpo
contenitore, cioè l’anima della madre, che prima compone nella matrice la
figura dell’uomo e al tempo debito desta l’anima che di quel debbe essere
abitatore, la qual prima restava addormentata e in tutela dell’anima della
madre, la qual nutrisce e vivifica per la vena umbilicale» e con prudente
ironia aggiunge che «il resto della difinizione dell’anima lascio ne le menti
de’ frati, padri de’ popoli, li quali per ispirazione sanno tutti i segreti.
Lascio star le lettere incoronate [le Sacre Scritture] perché son somma
verità».[98]
Tuttavia, ribadisce: «E se noi dubitiamo della certezza
di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi
dubitare delle cose ribelli ad essi sensi, come dell’essenza di Dio e
dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente
accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida, la qual cosa non
accade nelle cose certe».
Riconosce validità allo studio dell’alchimia,
«partoritrice delle cose semplici e naturali», considerata non già un’arte
magica ma «ministratrice de’ semplici prodotti della natura, il quale uffizio
fatto esser non può da essa natura, perché in lei non è strumenti organici,
colli quali essa possa operare quel che adopera l’omo mediante le mani», ossia
scienza dalla quale l’uomo, partendo dagli elementi semplici della natura, ne ricava
dei composti, come un moderno chimico; l’alchimista non può però creare alcun
elemento semplice, come testimoniano gli antichi alchimisti, che mai
«s’abbatero a creare la minima cosa che crear si possa da essa natura» e
sarebbero stati meritevoli dei massimi elogi se «non fussino stati inventori di
cose nocive, come veneni e altre simili ruine di vita e di mente».
È invece aspramente censore della magia, la «negromanzia,
stendardo ovver bandiera volante mossa dal vento, guidatrice della stolta
moltitudine». I negromanti «hanno empiuti i libri, affermando che l’incanti e
spiriti adoperino e sanza lingua parlino, e sanza strumenti organici, sanza i
quali parlar non si pò, parlino e portino gravissimi pesi, faccino tempestare e
piovere, e che li omini si convertano in gatte, lupi e bestie, benché in bestia
prima entran quelli che tal cosa affermano».[99]
Leonardo è conosciuto soprattutto per i suoi dipinti, per
i suoi studi sul volo, probabilmente molto meno per le numerose altre cose in
cui è stato invece un vero precursore, come ad esempio nel campo della
geologia. È stato tra i primi, infatti, a capire che cos’erano i fossili, e
perché si trovavano fossili marini in cima alle montagne. Contrariamente a
quanto si riteneva fino a quel tempo, cioè che si trattasse della prova del
diluvio universale, l’evento biblico che avrebbe sommerso tutta la terra,
Leonardo immaginò la circolazione delle masse d’acqua sulla terra, alla stregua
della circolazione sanguigna, con un lento ma continuo ricambio, arrivando quindi
alla conclusione che i luoghi in cui affioravano i fossili, un tempo dovevano
essere stati dei fondali marini. Anche se con ragionamenti molto originali, la
conclusione di Leonardo era sorprendentemente esatta.
Il contributo di Leonardo a quasi tutte le discipline
scientifiche fu decisivo: anche in astronomia ebbe intuizioni fondamentali,
come sul calore del Sole, sullo scintillio delle stelle, sulla Terra, sulla
Luna, sulla centralità del Sole, che ancora per tanti anni avrebbe suscitato
contrasti e opposizioni. Ma nei suoi scritti si trovano anche esempi che
mostrano la sua capacità di rendere in modo folgorante dei concetti difficili;
a quel tempo si era ben lontani dall’aver formulato le leggi di gravitazione,
ma Leonardo già paragonava i pianeti a calamite che si attraggono
vicendevolmente, spiegando così molto bene il concetto di attrazione
gravitazionale. In un altro suo scritto, sempre su questo argomento, fece
ricorso a un’immagine veramente suggestiva; dice Leonardo: immaginiamo di fare
un buco nella terra, un buco che l’attraversi da parte a parte passando per il
centro, una specie di “pozzo senza fine”; se si lancia un sasso in
questo pozzo, il sasso oltrepasserebbe il centro della terra, continuando per
la sua strada risalendo dall’altra parte, poi tornerebbe indietro e dopo aver
superato nuovamente il centro, risalirebbe da questa parte. Questo avanti e
indietro durerebbe per molti anni, prima che il sasso si fermi definitivamente
al centro della Terra. Se questo spazio fosse vuoto, cioè totalmente privo
d’aria, si tratterebbe, in teoria, di un possibile, apparente, modello di moto
perpetuo, la cui possibilità, del resto, Leonardo nega, scrivendo che «nessuna
cosa insensibile si moverà per sé, onde, movendosi, fia mossa da disequale
peso; e cessato il desiderio del primo motore, subito cesserà il secondo».[100]
Anche nella botanica Leonardo compì importanti
osservazioni: per primo si accorse che le foglie sono disposte sui rami non
casualmente ma secondo leggi matematiche (formulate solo tre secoli più tardi);
è una crescita infatti, quella delle foglie, che evita la sovrapposizione per
usufruire della maggiore quantità di luce. Scoprì che gli anelli concentrici
nei tronchi indicano l’età della pianta, osservazione confermata da Marcello Malpighi
più di un secolo dopo.
Osservò anche l’eccentricità nel diametro dei tronchi,
dovuta al maggior accrescimento della parte in ombra. Soprattutto scoprì per
primo il fenomeno della risalita dell’acqua dalle radici ai tronchi per
capillarità, anticipando il concetto di linfa ascendente e discendente. A tutto
questo si aggiunse un esperimento che anticipava di molti secoli le colture
idroponiche: avendo studiato idraulica, Leonardo sapeva che per far salire
l’acqua bisognava compiere un lavoro; quindi nelle piante, in cui l’acqua
risale attraverso le radici, doveva compiersi una sorta di lavoro. Per
comprendere il fenomeno tolse la terra, mettendo la pianta direttamente in
acqua, e osservò che la pianta riusciva ancora a crescere, anche se più
lentamente.
Si può trarre un conclusivo giudizio sulla posizione che
spetta a Leonardo nella storia della scienza citando Sebastiano Timpanaro:[101]
«Leonardo da Vinci attinge dai Greci, dagli Arabi, da Giordano Nemorario, da
Biagio da Parma, da Alberto di Sassonia, da Giovanni Buridano, dai dottori di
Oxford, dal precursore ignoto del Duhem, ma attinge idee più o meno
discutibili. È sua e nuova la curiosità per ogni fenomeno naturale e la
capacità di vedere a occhio nudo ciò che a stento si vede con l’aiuto degli strumenti.
Per questo suo spirito di osservazione potente ed esclusivo, egli si
differenzia dai predecessori e da Galileo Galilei. I suoi scritti sono
essenzialmente non ordinati e tentando di tradurli in trattati della più pura
scienza moderna, si snaturano. Leonardo (bisogna dirlo ad alta voce) non è un
super-Galileo: è un grande curioso della natura, non uno scienziato-filosofo.
Può darsi che qualche volta vada anche più oltre di Galileo, ma ci va con un
altro spirito. Dove Galileo scriverebbe un trattato, Leonardo scrive cento
aforismi o cento notazioni dal vero; mentre Galileo è tanto coerente da
diventare in qualche momento conseguenziario. Leonardo guarda e nota senza
preoccuparsi troppo delle teorie. Molte volte registra il fatto senza nemmeno
tentare di spiegarlo». Sullo stesso piano le considerazioni di Paolo Rossi:
«la ricerca di Leonardo, che è straordinariamente ricca
di balenanti intuizioni e di geniali vedute, non oltrepassa mai il piano degli
esperimenti curiosi per giungere a quella sistematicità che è una delle
caratteristiche fondamentali della scienza e della tecnica moderne. […]
Leonardo non ha alcun interesse a lavorare a un corpus sistematico di
conoscenze e non ha la preoccupazione (che è anch’essa una dimensione
fondamentale di ciò che chiamiamo tecnica e scienza) di trasmettere, spiegare e
provare agli altri le proprie scoperte.[102]»
Il filosofo
Acquista cosa nella tua gioventù che ristori il danno
della tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la
sapienza, adoprati in tal modo in gioventù, che a tal vecchiezza non manchi il
nutrimento.[103]
Secondo Leonardo la capacità di ben descrivere e
rappresentare la realtà è propria di chi pratica la pittura che è la più
“filosofica” delle altre arti, perché essa tratta della realtà intesa
come «campo del “visibile”, nella sua interezza, in tutte le sue
possibilità»[104] e, nello stesso tempo, si sgancia dalla contingenza naturale
poiché, grazie alla prospettiva, non subisce le limitazioni dello spazio e del
tempo ma le signoreggia liberamente combinandole, («tutte e’ parti porta
seco»)[105].
Il pittore quindi, può essere considerato come il signore
della natura poiché egli è in grado di fissare nel tempo la bellezza della
natura che il tempo corrompe: «Quante pitture han conservato il simulacro d’una
divina bellezza che ’l tempo o morte in breve ha distrutto il natural essempio,
et è restata più degna l’opera del pittore che della natura sua maestra!»[106]
Il pittore, inoltre, è in grado di creare una visione illusoria dello spazio
tale che ne vengano ingannati uomini e animali[107]. La mente del pittore è
simile a quella divina «imperò che con libera potestà discorre alla generazione
di diverse essenzie di varii animali, piante, frutti, paesi, campagne, ruine di
monti, loghi paurosi e spaventevoli, che danno terrore alli loro
risguardatori»[108].
Il pittore, quasi come un dio, può rendere eterna la
bellezza e sconvolgere le emozioni e i sentimenti dei popoli: «Con questa [la
pittura] si move li amanti inverso li simulacri della cosa amata a parlare con
le imitate pitture; con questa si move li populi con infervorati voti a
ricercare li simulacri delli iddii[109]. «Con questa [la pittura] si fa
simulacri alli dii; […] con questa si dà copia alli amanti della causa de’
loro amori; con questa si riserva le bellezze, le quali il tempo e la natura fa
fuggitive[110].
Il pittore può superare con un’operazione mentale
l’aspetto scientifico razionale della necessità delle leggi naturali creando
quell'”artifizio e meraviglia” che invece la scultura, maggiormente
legata alla realtà naturale[111], non può mettere in atto[112]
Altrettanta superiorità ha la pittura nei confronti della
poesia che è costretta a servirsi del “linguaggio” mentre quella crea
l’immagine, diretta emanazione della natura e realtà fissata al di fuori del
tempo. La parola poetica, invece, costretta alla dimensione orale non solo è
dominata dal tempo, ma può solo alludere alla realtà poiché le parole, come
«opere degli omini»[113], sono per loro natura contingenti e imperfette[114]
Del resto anche il pittore deve ricorrere all’immagine contingente
se vuole dominare la natura ed allora il pensiero di Leonardo oscilla tra la
concezione della pittura come una «scienza semidivina»[115] e un’arte che si
pone come mediatrice tra se stessa e la natura per cui il pittore si fa
«interprete infra essa natura e l’arte»[116] divenendo per un verso mediatore
di una creazione che va oltre la contingenza umana e per un altro come un
modesto artigiano che educa il popolo tramite l’arte.
Leonardo filosofo? Una critica crociana
Se le considerazioni di Leonardo sulla pittura possono
considerarsi un contributo alla storia del pensiero, vale la pena anche
riferirsi all’analisi operata da Benedetto Croce, fortemente critica del
riconoscimento di una valenza filosofica attribuibile al pensiero leonardesco
sia pure limitata a una sua teoria dell’arte deducibile dai suoi trattati sulla
pittura.
La negazione di una filosofia leonardesca, origina in
Croce dalla sua polemica nei confronti del positivismo. Croce, infatti,
confessa che la sua critica, esposta nel saggio Leonardo filosofo[117] aveva
come oggetto primario lo scientismo positivista del suo tempo esaltante la
presunta filosofia naturalista di Leonardo: «Perché quelle conferenze erano,
nel loro complesso, manifestazione dell’odierna moda del culto leonardesco, io
volli reagire nel trattare il tema a me assegnato e fare alquanto l’avvocato
del diavolo. Dico ciò, perché s’intenda l’intonazione del mio discorso[118]
Croce chiarisce che occorre riconoscere tuttavia al
naturalismo il merito di aver sottratto alla filosofia certi temi che non le
competevano aprendo alla speculazione propriamente filosofica argomenti
riguardanti il mondo e l’esperienza prima tralasciati. In questo senso
«Leonardo […] deve essere per ciò stesso allogato tra i promotori per indiretto
della filosofia moderna; e potrà anche essere chiamato, se così piace, per
metonimia, filosofo»[119] Quindi Leonardo solo metaforicamente può essere
chiamato filosofo nel senso di un «sottile e rigoroso e infaticabile
investigatore dei fatti della natura» ma la filosofia non è riducibile
all’oggetto della sua riflessione quanto piuttosto essa deve essere concepita
come un percorso, una «tradizione spirituale che, dal gran pensiero ellenico,
attraverso il neoplatonismo e il cristianesimo e le controversie della
scolastica, si annoda al Cusano e al Bruno, a Cartesio e allo Spinoza, e
procede via via fino a raggiungere Kant e l’idealismo del secolo
decimonono»[120] Leonardo compie un percorso solitario, estraneo a quel cammino
spirituale: egli «è tutto vòlto a osservare e calcolare: verso l’osservazione e
il calcolo effonde ogni suo entusiasmo»[121].
Leonardo anticipa la visione galileiana del “gran
libro della natura scritto in caratteri matematici”[122] poiché «nissuna
umana investigazione si pò dimandare vera scienzia, s’essa non passa per le
matematiche dimostrazioni»[123] ma non crede alle scienze elaborate solo
mentalmente poiché «in tali discorsi mentali non accade esperienzia, senza la
quale nulla dà di sé certezza»[124] È impossibile quindi per Leonardo trattare
problemi spirituali poiché essi non possono essere trascritti matematicamente:
«E così piacessi al nostro altore [autore] che io potessi dimostrare la natura
delli omini e loro costumi nel modo che io descrivo la sua figura»[125] Quindi
egli, sfidando il divieto di sezionare privatamente i cadaveri, compirà studi
accurati di anatomia sperando di scoprire le segrete parti spirituali della
perfetta macchina umana ma se ne ritrarrà alla fine deluso.
Giovanni Gentile concorda con la critica crociana sostenendo
che
«Leonardo, artista e scienziato (naturalista e
matematico), è filosofo dentro alla sua arte e alla sua scienza: voglio dire
che si comporta da artista e da scienziato di fronte al contenuto filosofico
del proprio pensiero, che non svolge perciò in adeguata e congrua forma
filosofica, ma intuisce con la genialità dell’artista e afferma con la
dommaticità dello scienziato. La sua filosofia, in questo senso, non è un
sistema, ma l’atteggiamento del suo spirito[126]»
In tempi più recenti anche il filosofo e storico della
filosofia Eugenio Garin esprime l’impossibilità di definire Leonardo come
filosofo: «Allo storico e al critico che facciano il mestiere loro, e non
vogliano trovar solamente occasioni di sonante oratoria, non pochi dei testi anche
celebri di Leonardo appariranno alla fine piuttosto appunti buttati giù tra
frettolose letture che conclusioni sottilmente ragionate; e rispetto alla
validità del contenuto scientifico non di rado confusi e contraddittori. […]
Ma lo storico delle idee non potrà non sentire talora smarrimento e sconforto;
perché riconoscerà certamente una sete inesauribile di conoscere unita a una
singolare ricchezza espressiva, un acume raro ed un’insuperabile capacità, non
solo di osservazione visiva, ma di tradurre in termini visivi i vari stati
d’animo. Eppure dovrà anche constatare una certa incapacità di ordinate sintesi
razionali non meno che di ben disposti procedimenti sperimentali»[127] »
Leonardo e la paleontologia
Alcuni studiosi recentemente hanno attribuito a Leonardo
da Vinci il ruolo di padre fondatore della paleontologia, per avere
interpretato correttamente la natura dei due principali gruppi di fossili: i
resti fossili di organismi (ad esempio le conchiglie fossilizzate) e gli
icnofossili, ovverosia le tracce lasciate dagli organismi mentre interagivano
con il substrato[128]. Leonardo studiò infatti le conchiglie (nichi) ed i
coralli ‘pietrificati’ provenienti dai depositi sedimentari dell’Appennino;
anche molti contemporanei di da Vinci conoscevano simili fossili,
interpretandoli spesso come curiosità inorganiche della roccia.
Tuttavia, Leonardo da Vinci osservò le tracce
(icnofossili) lasciate da antichi organismi perforanti:
“Vedesi in
nelle montagnie di Parma e Piacentia le moltitudini di nichi e coralli
intarlati, ancora appiccicati alli sassi, de’ quali quand’io facevo il gran
cavallo di Milano, me ne fu portato un gran sacco nella mia fabbrica da certi
villani”.
– Leicester
Codex, folio 9r
Conseguentemente, le conchiglie pietrificate non potevano
essere curiosità inorganiche, ma resti di antichi organismi[129]. Con le parole
di Leonardo:
“Ancora
resta il vestigio del suo andamento sopra la scorza che lui già, a uso di tarlo
sopra il legname, andò consumando […]”.
– Leicester
Codex, folio 9v
Le intuizioni paleontologiche di Leonardo, prive del
tutto del supporto del metodo scientifico, sono ritenute eccezionali in quanto
da Vinci riuscì ad interpretare correttamente non solo le perforazioni fossili
prodotte da antichi organismi nel guscio dei molluschi, ma anche le gallerie
scavate nel soffice sedimento da antichi organismi marini[130].
La storia della paleontologia mostra che le gallerie di
invertebrati sono i fossili più difficili da comprendere: fino ai primi anni
del Novecento erano generalmente interpretati come resti fossili di alghe,
tanto da essere denominati fucoidi. Quasi cinquecento anni prima, Leonardo
aveva intuito che quelle strutture sugli strati (falde) erano icnofossili
prodotti da organismi vermiformi nel soffice fondale marino, poi divenuto
roccia[128]:
“Come
nelle falde, infra l’una e l’altra si trovano ancora gli andamenti delli
lombrici, che caminavano infra esse quando non erano ancora asciutte”.
– Leicester
Codex, folio 10v
Gli studi di anatomia
Anatomia femminile, Windsor, Raccolte Reali
Fra le molte discipline alle quali Leonardo da Vinci
dedicò la sua attenzione, un posto privilegiato è senza dubbio occupato
dall’Anatomia umana. L’insaziabile desiderio di conoscere, di capire tutto ciò
che vedeva, portava Leonardo a esplorare ogni cosa. Anche il corpo umano
l’affascinava, quale macchina perfetta e ben più complicata delle macchine
fatte di ingranaggi. Leonardo voleva capire cosa c’era dentro, come funzionava
e cosa succedeva quando si fermava definitivamente con la morte. Tutti gli
organismi viventi, vegetali o animali, si offrirono allo studioso quale oggetto
di indagine scientifica. Ma «quella cosa che contiene in sé più universalità e
varietà di cose, quella sarà detta di più eccellenza»[131]: questa cosa è senza
dubbio l’uomo, secondo la visione dello studioso. Per questo, prima a Milano,
alla fine del Quattrocento, e poi a Firenze, agli inizi del Cinquecento, era solito
recarsi in segreto negli obitori e, utilizzando forbici e bisturi, sezionava
cadaveri (almeno trenta, secondo quanto riportano i suoi contemporanei)[132].
La pratica della pittura gli aveva fatto sentire il bisogno prepotente di
conoscere l’uomo nelle sue più intime fibre, non solo nel suo aspetto esteriore
ma fin nelle più piccole particolarità. «La Pittura s’estende nelle superfizie,
colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura, e la Filosofia penetra
dentro alli medesimi corpi, considerando in quelli per le lor proprie
virtù…», scrisse il da Vinci. “Pittura e Filosofia costituiscono dunque la
conoscenza dell’obietto, la prima quanto alla superficie, luce, colori e forma,
la seconda perché ne rivela l’intima struttura e funzione”[133]. Nei suoi
disegni mostra anche gli strumenti allora usati dai chirurghi, seghe e
divaricatori. L’anatomia era ai primordi, le idee sul corpo umano erano molto
confuse. Egli può a buon diritto essere considerato il fondatore di tale
scienza, unitamente almeno con il belga Andrea Vesalio (1514 – 1564), la cui
opera De humani corporis fabrica doveva apparire nel 1543.
È noto l’appunto su una di queste sue esperienze
fiorentine: «questo vecchio, di poche ore innanzi la sua morte, mi disse lui
passare i cento anni, e che non si sentiva alcun mancamento ne la persona,
altro che debolezza; e così standosi a sedere sopra uno letto nello Spedale di
Santa Maria Nova di Firenze, sanza altro movimento o seguito d’alcuno
accidente, passò di questa vita. E io ne feci notomia, per vedere la causa di
sì dolce morte».[134]
Leonardo studiò anatomia in tre distinti periodi: a
Milano, tra il 1480 e il 1490, se ne occupò, interessandosi in particolare dei
muscoli e delle ossa, in funzione della propria attività artistica; successivamente
a Firenze, tra il 1502 e il 1507, si applicò in particolare della meccanica del
corpo, e infine, dal 1508 al 1513, a Milano e a Roma, s’interessò allo studio
degli organi interni e della circolazione del sangue.
Movimento del braccio
Leonardo fu il primo a rappresentare l’interno del corpo
umano con una serie di disegni; si trattava anche di un modo del tutto nuovo
per “guardare dentro” il corpo, rompendo tra l’altro antichi tabù.
Sono centinaia i disegni conservati oggi al Castello di Windsor e di proprietà
della regina d’Inghilterra, che visualizzano quello che prima era soltanto
descritto a parole e in modo poco chiaro. Scrisse Leonardo: «Con quali lettere
descriverai questo core, che tu non empia un libro, e quanto più lungamente
scriverai alla minuta, tanto più confonderai la mente dello uditore, e sempre
avrai bisogno di sponitori o di ritornare alla sperienzia, la quale in voi è
brevissima e dà notizie di poche cose rispetto al tutto del subbietto di che
desideri integrar notizia».[135]
Leonardo inventò l’illustrazione anatomica; inventò anche
un modo di illustrare che ancora oggi viene usato dai moderni disegnatori, la
cosiddetta “immagine esplosa”: un esempio si ha guardando come
Leonardo rappresentava una testa sezionata, disegnando il cranio e il cervello
in sequenza in modo da mostrare come entrano l’uno dentro l’altro. Studiò le
ossa, i muscoli, le arterie, le vene, i capillari; riuscì a capire le
alterazioni senili e persino a intuire l’arteriosclerosi. Gli sfuggì invece il
ruolo del cuore, studiato a Roma fino al 1513: «Tutte le vene e arterie nascano
dal core, e la ragione è che la maggiore grossezza che si trovi in esse vene e
arterie è nella congiunzione che esse hanno col core, e quanto più se removano
dal core, più si assottigliano e si dividano in più minute ramificazioni»[136]
e questa convinzione gli deriva dall’analogia con le piante, le quali hanno le
radici nella loro parte inferiore ingrossata: «è manifesto che tutta la pianta
ha origine da tale grossezza, e per conseguenza le vene hanno origine dal core,
dov’è la lor maggior grossezza».[137]
In Leonardo tuttavia lo studio dell’anatomia non fu mai
disgiunto da quello della fisiologia, in quanto la nozione strutturale si
completava necessariamente con quella funzionale. Egli fu il primo a proporre
di distinguere tra funzione, forma e struttura di un organo[133]. Ciò
nonostante i suoi studi di botanica lo sviarono, facendogli ritenere che la
circolazione sanguigna funzionasse come la linfa delle piante, con una linfa
ascendente e una discendente. Del cuore aveva bensì individuato la natura di
muscolo: «il core è un muscolo principale di forza, ed è potentissimo sopra li
altri muscoli»,[138] ma anche come equivalente di una stufa per dare calore al
corpo: «Il caldo si genera per il moto del core; e questo si manifesta perché,
quando il cor più veloce si move, il caldo più multiplica, come c’insegna il
polso de’ febbricitanti, mosso dal battimento del core».[139]
Tra i suoi disegni anatomici, i più spettacolari e
impressionanti rimangono quelli che mostrano un feto prima della nascita: erano
immagini del tutto nuove per l’epoca e, certamente, sconvolgenti.
Leonardo studiò anche i meccanismi dell’occhio per capire
come funziona la visione tridimensionale, dovuta alla sovrapposizione di due
immagini leggermente sfalsate. Fece bollire un occhio di bue in una chiara
d’uovo, in modo da poterlo sezionare e vedere ciò che si trova all’interno.
Scoprì così la retina e il nervo ottico, e riportò queste osservazioni nei suoi
disegni.
Le tavole anatomiche di Leonardo da Vinci
(L’elenco è tratto dal pregevole lavoro di M. del Gaizo,
Della pratica della anatomia in Italia sino al 1600. Atti della Reale Accademia
medico-chirurgica di Napoli, anno XLVI, nuova serie, n. II, Napoli, 1892, pp.
27-28)
DE MONDEVILLE
ENRICO. Pratica della chirurgia; Parigi 1306: ms. della Biblioteca nazionale di
Parigi n.2030 del fondo francese.
DE KETHAN I.
Fasciculus Medicinae; Venetiis 1491
PELISK I.
Compendiosa capitis physica declaratio, principalium humani corporis membrorum
figuras liquido ostendens; Lipsiae 1499
HUND MAGNUS.
Anthropologium: Lipsiae 1501
CARPI B.
Commentaria cum amplissimis additionibus super anatomiam Mundini; Bononiae 1521
BERENGARII G.
Isagoge Anatomices; Bononiae 1522
L’inventore
Progetto di macchina volante
Il 25 novembre 1796 i manoscritti di Leonardo sottratti
alla Biblioteca Ambrosiana giungevano a Parigi e dalla loro analisi il fisico
italiano Giovanni Battista Venturi, allora in Francia, traeva un Essai sur les
ouvrages physico-mathématiques de Leonard de Vinci, escludendo da questo gli
studi vinciani sul volo, giudicandoli probabilmente solo una bizzarria
chimerica.
Nel 1486 Leonardo aveva espresso la sua fede nella
possibilità del volo umano: «potrai conoscere l’uomo colle sue congegnate e
grandi alie, facendo forza contro alla resistente aria, vincendo, poterla
soggiogare e levarsi sopra di lei». Dal 14 marzo al 15 aprile 1505 scrive parte
di quello che doveva essere un organico Trattato delli uccelli, dal quale
avrebbe voluto estrarre il segreto del volo, estendendo nel 1508 i suoi studi
all’anatomia degli uccelli e alla resistenza dell’aria e, verso il 1515, vi
aggiunge lo studio della caduta dei gravi e i moti dell’aria.
Modello di cannone con 33 canne esposto al Museo
nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano
Chiama moto strumentale il volo umano realizzato con
l’uso di una macchina: individua nel paracadute il mezzo più semplice di volo:
«Se un uomo ha un padiglione di pannolino intasato, che sia di 12 braccia per
faccia e alto 12, potrà gittarsi d’ogni grande altezza sanza danno di sé».
Dall’analogia col peso e l’apertura alare degli uccelli cerca di stabilire
l’apertura alare che la macchina dovrebbe avere e quale forza dovrebbe essere
impiegata per muoverla e sostenerla.
La fede di Leonardo nel volo umano sembra essere rimasta
immutata per tutta la sua vita, malgrado gli insuccessi e l’obiettiva
difficoltà dell’impresa: «Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso
del suo magno Cecero (il monte Ceceri, presso Firenze), empiendo l’universo di
stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture e gloria eterna al loco dove
nacque». Un esperimento in tale senso si svolse veramente e fece da cavia il
suo amico Tommaso Masini.
Durante la sua vita, Leonardo ideò numerose
progettazioni; alcune di esse, come la macchina volante, furono veri e propri
prototipi. I suoi appunti contengono numerose invenzioni in campo militare: gli
scorpioni, una macchina «la quale po’ trarre sassi, dardi, sagitte» che può
anche distruggere la macchine nemiche; i cortaldi, cannoncini da usare contro
le navi; vari tipi di cannoni tra cui il cannone con 33 canne, le serpentine,
adatte contro le «galee sottili, per poter offendere il nimico di lontano. Vole
gittare 4 libre di piombo»; le zepate, zattere per incendiare le navi nemiche
ormeggiate in porto, e progetta navi con spuntoni che rompano le carene nemiche
e bombe incendiarie composte di carbone, salnitro, zolfo, pece, incenso e
canfora, un fuoco che «è di tanto desiderio di brusare, che seguita il legname
sin sotto l’acqua».
Un altro progetto avrebbe compreso il palombaro – vi è
chi ha pensato addirittura al sottomarino – a proposito del quale scrive però
di non volerlo divulgare «per le male nature delli omini, li quali userebbono
li assassinementi ne’ fondi mari col rompere i navili in fondo e sommergerli
insieme colli omini che vi son dentro». Pensa all’attuale bicicletta,
all’elicottero[140] (un modello del quale è stato realizzato nel parco del
castello di Clos-Lucé), al deltaplano,[140] al salvagente,[141], allo
scafandro, a un apparecchio a ruote dentate che è stato interpretato come il
primo calcolatore meccanico, a un’automobile spinta da un meccanismo a molla e
a un telaio automatico, ricostruito dal Museo nazionale della scienza e della
tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, che tesse 2 centimetri di tela al
minuto, progettò la viola organista.
Negli anni trascorsi in Vaticano ideò un uso industriale
dell’energia solare, mediante l’utilizzo di specchi concavi per riscaldare
l’acqua.
Vite aerea
Disegno di un
paracadute
Disegno di un
salvagente
Disegno di uno
scafandro
Modello di una
bicicletta
Disegno di un
cuscinetto a sfere
Sezione di un
modello di distillatore a doppia parete
Carro semovente
di Leonardo
Modello del
carro armato di Leonardo
Balestra
gigante
L’automa
cavaliere
L’ingegneria civile e l’architettura di Leonardo
Progetto di chiesa a pianta centrale, Parigi, Institut de
France
Scrive il Vasari che Leonardo «nell’architettura ancora
fe’ molti disegni così di piante come d’altri edifizii e fu il primo ancora
che, giovanetto, discorresse sopra il fiume Arno per metterlo in canale da Pisa
a Fiorenza», testimonianza che, a parte che nell’occasione del progetto di
deviazione dell’Arno, avvenuto nel 1503, Leonardo non era affatto
“giovanetto”, mostra che gli interessi di Leonardo o le richieste a
lui rivolte riguardavano soprattutto progetti di idraulica o di ingegneria
militare. In compenso, nella nota lettera indirizzata a Ludovico il Moro nel
1492, Leonardo vanta le sue competenze di natura militare ma aggiunge che in
tempo di pace crede di «satisfare benissimo a paragone de omni altro in
architectura, in composizione di edifici pubblici e privati, et in conducer
acqua de uno loco ad un altro».
A Milano avrà in effetti solo il titolo di
“ingegnarius”, mentre nel suo secondo soggiorno fiorentino potrà
fregiarsi del titolo di architetto e pittore.
È certo che per l’approfondimento delle nozioni
ingegneristiche si giovasse della conoscenza personale del senese Francesco di
Giorgio Martini e dei suoi scritti: possiede e postilla una copia del suo
Trattato di architettura militare e civile; progetta fortificazioni con bastioni
spessi e irti di angoli che possano opporsi alle artiglierie nemiche. Tali
studi confluiranno poi nella realizzazione del rivellino di Locarno, tutt’ora
esistente.
Sono noti suoi disegni sia per la cupola del Duomo di
Milano sia per edifici signorili, per i quali pensa a giardini pensili e a
innovative soluzioni interne, come scale doppie e quadruple e per l’interno
delle case ipotizza che «col molino farò generare vento d’ogni tempo della
state; farò elevare l’acqua surgitiva e fresca, la quale passerà pel mezzo
delle tavole divise […] e altra acqua correrà pel giardino, adacquando li
pomeranci e cedri ai lor bisogni […] farassi, mediante il molino, molti
condotti d’acque per casa, e fonti in diversi lochi, e alcuno transito dove,
chi vi passerà, per tutte le parti di sotto salterà l’acque allo insù».
Si occupa anche della ideazione di moderne scuderie,
“una polita stalla”, come quella realizzata a Vigevano da Ludovico il
Moro[142] e immagina una città ideale, strutturata su più livelli stradali,
dove al livello inferiore transitassero i carri e in quello superiore avessero
agio i pedoni.
Nel 1502 Leonardo da Vinci produsse il disegno di un
ponte a campata unica di 300 metri, come parte di un progetto di ingegneria
civile per il sultano ottomano Bayezid II. Era previsto che un pilone del ponte
sarebbe stato collocato su uno degli ingressi alla bocca del Bosforo, il Corno
d’Oro, ma non fu mai costruito. Il governo turco, nei primi anni del XXI
secolo, ha deciso la costruzione di un ponte che segua il progetto leonardesco.
Ponte girevole
Ponte di
circostanza
Chiesa a pianta
centrale (modello ricavato dai disegni di Leonardo, Museo nazionale della
scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci, Milano).
Chiesa a due
livelli
Fortezza con
duplice difesa (modello ricavato dai disegni di Leonardo, Museo della scienza e
della tecnologia Leonardo da Vinci)
Rivellino
triangolare
Torre angolare
Cortina
fortificata con salienti semicircolari
Le opere idrauliche
Studi di acque, circa 1508
Nel Seicento, Francesco Arconati, figlio illegittimo del
nobile Galeazzo Arconati e della sua amante, Caterina Vaghi, trasse dagli
scritti vinciani da questi donati alla Biblioteca Ambrosiana, un trattato che
intitolò Del moto e misura dell’acqua, che tuttavia verrà pubblicato solo nel
1826.
Leonardo si dedicò a studi idraulici a partire dalla sua
permanenza a Milano, già ricca di navigli, e in Lombardia, solcata da un’ampia
rete di canali.
Collaborò con la Repubblica di Venezia per la sistemazione
dell’assetto del fiume Brenta, per evitarne le esondazioni e renderlo
navigabile, ma non si conoscono opere realizzate su suoi progetti, alcuni dei
quali, particolarmente grandiosi, sono attestati dai suoi scritti: un canale
che unisca Firenze con il mare, ottenuto regolando il corso dell’Arno; il
prosciugamento delle Paludi Pontine, nel Lazio, che si sarebbe dovuto
realizzare deviando il corso del fiume Ufente; la canalizzazione della regione
francese della Sologna, con la deviazione del fiume Cher, presso Tours.
Leonardo progettò anche macchine per l’uso dell’energia
idraulica, per il prosciugamento e per l’innalzamento delle acque. Secondo il
suo costume, egli studia la natura dell’acqua: «infra i quattro elementi il
secondo men grieve e di seconda volubilità. Questa non ha mai requie insino che
si congiunge al suo marittimo elemento dove, non essendo molestata dai venti,
si stabilisce e riposa con la sua superfizie equidistante al centro del
mondo»,[143] la sua origine, il movimento, certe caratteristiche, come la
schiuma: «l’acqua che da alto cade nell’altra acqua, rinchiude dentro a sé
certa quantità d’aria, la quale mediante il colpo si sommerge con essa e con
veloce moto resurge in alto, pervenendo a la lasciata superfizie vestita di sottile
umidità in corpo sperico, partendosi circularmente dalla prima
percussione».[144]
Osserva gli effetti ottici sulla superficie dell’acqua e
trova che «il simulacro del sole si dimostrerrà più lucido nell’onde minute che
nelle onde grandi» e che «il razzo del sole, passato per li sonagli [le bolle]
della superfizie dell’acqua, manda al fondo d’essa acqua un simulacro d’esso
sonaglio che ha forma di croce. Non ho ancora investigato la causa, ma stimo
che per cagion d’altri piccoli sonagli che sien congiunti intorno a esso
sonaglio maggiore».[145]
Si occupa dei fossili che si trovano sui monti e ironizza
con coloro che fanno risalire al loro origine al diluvio universale: «Della
stoltizia e semplicità di quelli che vogliono che tali animali fussin in tal lochi
distanti dai mari portati dal diluvio. Come altra setta d’ignoranti affermano
la natura o i celi averli in tali lochi creati per infrussi celesti […] e se
tu dirai che li nichi [le conchiglie] che per li confini d’Italia, lontano da
li mari, in tanta altezza si vegghino alli nostri tempi, sia stato per causa
del diluvio che lì li lasciò, io ti rispondo che credendo che tal diluvio
superassi il più alto monte di 7 cubiti – come scrisse chi ‘l misurò! – tali
nichi, che sempre stanno vicini a’ liti del mare, doveano stare sopra tali
montagne, e non sì poco sopra la radice de’ monti».[146]
È convinto che con il tempo la terra finirà con l’essere
completamente sommersa dall’acqua: «Perpetui son li bassi lochi del fondo del
mare, e il contrario son le cime de’ monti; séguita che la terra si farà
sperica e tutta coperta dall’acque, e sarà inhabitabile».[147]
La pittura
Studio per la testa di Leda, Windsor, Raccolte Reali
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Trattato della pittura.
Copie di scritti di Leonardo sulla pittura circolavano
già nel Cinquecento: il Vasari riferisce di un anonimo pittore milanese che gli
mostrò «alcuni scritti di Lionardo, pur di caratteri scritti con la mancina a
rovescio, che trattano della pittura e de’ modi del disegno e del colorire»;
Benvenuto Cellini possedeva scritti di Leonardo sulla prospettiva.
Grazie all’impegno di Cassiano dal Pozzo, una raccolta di
manoscritti di Leonardo, redazione estremamente abbreviata di quella messa
insieme dall’allievo ed erede Francesco Melzi, fu pubblicata per la prima volta
a Parigi nel 1651, insieme con la traduzione francese, con incisioni tratte da
disegni di Nicolas Poussin; un’altra edizione italiana del Trattato della
pittura fu pubblicata a Napoli nel 1733.
La pittura, per Leonardo, è scienza, rappresentando «al
senso con più verità e certezza le opere di natura», mentre «le lettere
rappresentano con più verità le parole al senso», ma Leonardo aggiunge,
riprendendo un concetto aristotelico, che è «più mirabile quella scienza che
rappresenta le opere di natura, che quella che rappresenta […] le opere degli
uomini, com’è la poesia, e simili, che passano per la umana lingua».[97]
Leonardo utilizzò la tecnica della prospettiva aerea in alcuni suoi capolavori
come la Gioconda e la Vergine delle Rocce. L’artista si rifece anche agli studi
dello scienziato arabo Alhazen secondo il quale da ogni minuscola particella di
un oggetto ipoteticamente osservato, si staccano “scorzettine”, cioè
informazioni luminose che viaggiano nell’aria fino a raggiungere la nostra
retina (dove le immagini si fissano capovolte).[148]
Leonardo studiò anche per primo in Europa la possibilità
di proiettare immagini dal vero su un foglio dove potevano essere facilmente
ricopiate, con la cosiddetta camera oscura leonardiana. Egli inoltre fu tra i
pionieri dell’uso della pittura a olio in Italia, che usava essenzialmente in
tecniche miste, soprattutto per i ritocchi.[149]
Tecniche pittoriche
Leonardo Da Vinci era affascinato dai colori, la cosa che
lo colpiva maggiormente era l’effetto che aveva l’atmosfera sui colori dei
soggetti più distanti. Una delle teorie pittoriche affinate da Leonardo Da
Vinci è l”Inazzurrimento dei lontani” che consiste nell’aumentare la
percentuale di Ciano nei soggetti terzo piano (montagne) per dare una maggiore
illusione di profondità nelle opere. Questo effetto è dato dalla
sovrapposizione dei vari strati dell’atmosfera che dona una colorazione sempre
più azzurrina man mano che l’occhio umano si allontana dai soggetti in primo
piano. Da Vinci non fu il primo ad accorgersi di questo ma fu il primo a
registrare calcoli e spiegare tecniche per rendere questo effetto nella
pittura.
Secondo gli ultimi studi svolti dal neuroscienziato
Christopher W. Tyler della City University di Londra, la profondità che
caratterizza i dipinti di Leonardo sarebbe frutto di una forma intermittente di
strabismo chiamata exotropia che avrebbe consentito all’artista di passare da
una visione bioculare a monoculare tanto da cogliere la tridimensionalità di
volti, oggetti e paesaggi[150].
Leonardo scrittore
La prosa di Leonardo viene giudicata tra le migliori del
Rinascimento italiano; aliena da ogni retorica, artificio e sonorità, è tutta
aderente alle cose: rifacendosi al linguaggio parlato, ha colore, robustezza,
concisione, in modo da dare energia e spigliatezza all’espressione.
Per Francesco Flora,[151] Leonardo si dimostrò inventore
anche nella scrittura, tanto da apparire molto più moderno rispetto tanto ai
suoi predecessori che ai suoi contemporanei: «Non diremo più il Boccaccio padre
della prosa italiana […] nel suo insieme la prosa di Boccaccio tende alla
sintassi lirica […] prosa fu quella del Convivio di Dante e d’alcune cronache
e trattati; ma la prosa grande, la prima prosa grande d’Italia, è da trovare
negli scritti di Leonardo: la prosa più alta del primo Rinascimento, sebbene in
tutto aliena dal modello umanistico e liberamente esemplata sul comune
discorso».
La sua opera più importante è il Trattato della pittura,
raccolta postuma curata da un allievo anonimo.
I manoscritti
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Codici di Leonardo da Vinci.
Nella caratteristica scrittura speculare, svolta da
destra a sinistra, tale da poter esser letta facilmente solo ponendo i fogli
davanti a uno specchio, i manoscritti di Leonardo, dati in eredità a Francesco Melzi,
pervennero dopo la morte di questi allo scultore Pompeo Leoni che, per
commerciarli più facilmente, li suddivise in diversi gruppi, mutandone
l’aspetto originario. Raccolti in gran parte nel XVII secolo dal conte milanese
Galeazzo Arconati, furono donati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano dalla
quale furono trasferiti nel 1796 a Parigi, da dove tornò a Milano, dopo la
caduta di Napoleone, il solo Codice Atlantico, mentre gli altri, per un errore
dell’incaricato austriaco, rimasero all’Institut de France. Altri codici erano
già da tempo finiti in Inghilterra.
Oggi esistono oltre 8.000 fogli di appunti (più di 16.000
pagine) con molte decine di migliaia di disegni lasciati da Leonardo, ma si
ritiene che siano solo una piccola parte di ciò che ha scritto e disegnato.
Alcuni pensano che abbia scritto 60.000, forse 100.000 pagine, ormai perdute.
Ma forse qualcosa ancora esiste, sepolta in qualche antico archivio; nel 1966
per esempio sono stati trovati due nuovi codici a Madrid. Si tratta di pagine
scritte quasi “di getto”, tant’è vero che gli esperti di Leonardo
dicono: “sembra di sentirlo parlare come da un registratore”.
Leonardo e la musica
Il modello funzionante della clavi-viola suonato per la
prima volta alla mostra Leonardo da Vinci’s Workshop a New York nel 2009 e dal
2013 presso il Mondo di Leonardo di Milano[152]
Leonardo teneva in grande stima la disciplina musicale.
Tra le migliaia di pagine pervenuteci i progetti di carattere musicale sono
moltissimi. Non si trovano solo considerazioni di carattere matematico o i
semplici rebus noti ai più, ma articolati progetti di strumenti musicali del
tutto inediti. I più semplici riguardano strumenti per lo più con impiego
militare: tamburi meccanici di vario tipo, trainati da animali o azionati da
leve mosse da suonatori. In questi progetti semplici Leonardo cerca di
automatizzare, come spesso accade, il funzionamento dello strumento rendendone
elementare l’utilizzo. Il più celebre tra questi è sicuramente il tamburo
meccanico disegnato sul foglio 837 del Codice Atlantico.
La Lira a forma di teschio (codice Ashburnham I, f. Cr) è
un altro celebre strumento disegnato da Leonardo. Si racconta che l’avesse
realizzata utilizzando un teschio e, dotatala di corde, l’abbia utilizzata
presentandosi al Duca di Milano. Si tratta tuttavia di testimonianze molto
deboli, che non trovano un reale riscontro. I progetti musicali di Leonardo
interessanti sono altri, e in particolar modo due: la viola organista (Codice
Atlantico f. 586)[153] e la clavi-viola (Codice Atlantico f. 93r).[154] Ancora
oggi esistono decine di progetti di strumenti musicali estremamente complessi
progettati da Leonardo e ancora mai realizzati. Entrambi gli strumenti sono
estremamente complessi e dimostrano come Leonardo non solo fosse un abile ingegnere-inventore,
ma anche un profondo conoscitore dell’arte musicale. Il tentativo di
progettare, inventare e realizzare strumenti completamente inediti testimonia
come Leonardo intendesse contribuire in maniera fondamentale, con il suo genio,
a questa arte.
La personalità di Leonardo
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Vita personale di Leonardo
da Vinci.
Le fattezze di Leonardo
Le fattezze di Leonardo si conoscono grazie ad un
Autoritratto senile a lui attribuito, databile al 1515 circa e conservato nella
Biblioteca Reale di Torino. L’opera, dalla quale derivano altri ritratti
ideali, fa parte ormai dell’immaginario collettivo.
Per le fattezze di Leonardo in età giovane o matura si
hanno alcune ipotesi di identificazione, in opere sue o di altri artisti, come
nel giovane in piedi all’estrema destra dell’Adorazione dei Magi, nel David di
Verrocchio o nella figura di Platone nella Scuola di Atene di Raffaello.
Esistono poi varie fonti che, pur senza descrivere il suo
aspetto fisico in maniera precisa, parlano dei suoi modi e celebrano la sua
bellezza. Ad esempio l’Anonimo Gaddiano scrisse: «[La Natura] non solo della
bellezza del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di molte
rare virtù volse anchora farlo maestro. […] Era di bella persona,
proportionata, gratiata et bello aspetto. portava uno pitocco rosato corto sino
al ginocchio, che allora s’usavano i vestiri lunghi, haveva sino al mezo in
petto una bella capellaia et anellata et ben composta».
Vasari colse invece l’aspetto docile e amorevole del suo
carattere: «Egli con lo splendor dell’aria sua, che bellissima era, rasserenava
ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sì et al no ogni indurata
intenzione. Egli con le forze sue riteneva ogni violenta furia. […] Con la
liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, pur che egli
avesse ingegno e virtù. […] Per il che ebbe veramente Fiorenza grandissimo
dono nel nascere di Lionardo, e perdita più che infinita nella sua morte.»
Presunta omosessualità
Disegno erotico
Ritratto di Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì, di
anonimo, circa 1495, Vaduz, Fondazione Alois
Che Leonardo possa essere stato omosessuale è un’ipotesi
che secondo alcuni studiosi[27] sarebbe avvalorata da alcuni documenti e altri
indizi, a partire dalla doppia denuncia anonima del 1476 in cui veniva accusato
di sodomia assieme ad altri quattro giovani fiorentini, tra cui due di famiglia
patrizia (un Salterelli e un Tornabuoni), che si concluse con un ammonimento.
Secondo altri studiosi, le accuse che portarono al giudizio erano calunniose e
create al solo fine di screditare gli interessati tramite l’accusa del reato di
sodomia.[155]
In ogni caso, non sono note relazioni di Leonardo con
donne, non si sposò mai, non ebbe figli e lo stesso Vasari pubblicò accenni
alla bellezza dei suoi discepoli.[156] Secondo alcuni è controverso il rapporto
con i suoi allievi Melzi e Caprotti (detto il Salaì) molto più giovani di lui e
avvenenti: forse furono semplici garzoni, ma alcuni congetturano che oltre al
discepolato si fosse instaurato un legame pederastico.[27] Per quanto riguarda
il comportamento sessuale di Melzi sappiamo soltanto che dopo la morte di
Leonardo rientrò in patria, si sposò, ebbe otto figli e fu sempre ben considerato
tra i più importanti patrizi milanesi. Alcune supposizioni sulla presunta
omosessualità di Leonardo sembrano essere comprovate dalla esistenza di disegni
erotici privati dell’artista, tra cui in particolare uno nella Royal Collection
in cui un efebo, dalle fattezze tipiche dei suoi modelli, è ritratto in
evidente itifallia.
Dalla nota dello stesso Leonardo, «ne la mia prima
ricordazione della mia infanzia è mi parea che, essendo io in culla, che un
nibbio venissi a me e mi aprissi la bocca colla sua coda, e molte volte mi
percotessi con tal coda dentro alle labbra»,[157] derivò l’interpretazione di
Sigmund Freud, nel suo libro Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci,
pubblicato nel 1910, come fantasia di un atto sessuale orale, mentre il nibbio
rappresenterebbe androginicamente la madre; dalla curiosità sessuale infantile
dell’artista deriverebbe la sua curiosità artistica e scientifica mai
soddisfatta e conclusa.[27]
Da questa interpretazione data da Freud deriva, in
massima parte, la teoria moderna sulla presunta omosessualità di Leonardo
perché fu proprio dal saggio Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci che
diversi episodi della vita di Leonardo furono rianalizzati come
“prove” a favore della sua omosessualità. Tuttavia, tale interpretazione
era basata su una traduzione imprecisa di Marie Herzfeld che tradusse
erroneamente “nibbio” con “geier”, cioè avvoltoio. Lo
stesso Freud, venuto a sapere di questo errore di traduzione, confessò il suo
disappunto a Lou von Salomé perché, come ebbe a dire, considerava il proprio
saggio su Leonardo come la cosa più bella che avesse mai scritto.[158]
Pertanto, l’ipotesi formulata da Freud, basata su alcuni geroglifici egizi che
rappresentavano la madre come “avvoltoio”, non può essere applicata
al racconto di Leonardo.
«Domenedio putto»
Un altro probabile increscioso episodio in cui incappò
Leonardo, ancora giovanissimo allievo nella bottega del Verocchio, fu quello a
cui sembra accennare, con una certa dose di timoroso rimprovero, un oscuro
appunto da lui lasciatoci:
«Quando io feci Domene Dio putto, voi mi mettesti in
prigione: ora s’io lo fo grande, voi mi farete peggio[159]»
Nella officina del Verrocchio si producevano infatti
dipinti e sculture di angeli-bambini che richiamavano il personaggio mitico
pagano di Cupido non solo per ornare fontane di giardini o pareti di ricche
abitazioni ma anche per raffigurazioni sacre come quella per «l’altare di
S.Giovanni»[160]
La vergine delle rocce – Dettaglio, Gesù Bambino
L’apprendista Leonardo si era esercitato dunque non solo
a modellare in creta e poi in gesso teste di donne sorridenti e di putti, già
di grande valore artistico secondo il Vasari, ma anche una scultura
riproducente Gesù bambino[161] come attesta Lomazzo:
«Anch’io mi trovo una testicciuola di terra di un Cristo,
mentre che era fanciullo, di propria mano di Leonardo Vinci; nella quale si
vede la semplicità e purità del fanciullo, accompagnata da un certo che, che
dimostra sapienza, intelletto e maestà, e l’aria che pure è di fanciullo
tenero, e par aver del vecchio savio; cosa veramente eccellente».[162].»
Leonardo quindi, era andato oltre le regole del Libro di
pittura nella raffigurazione di Gesù bambino rappresentandolo come un infante
ma anche come un «vecchio savio». Questo lo esponeva a quelle accuse di
irreligiosità per cui, come riporta il suo appunto, fu messo in prigione ma,
forse, confermano anche quelle più gravi relative alle imputazioni di sodomia
del 1476 poiché il Maestro forse si proponeva di usare il Salai come modello,
come in effetti fece per molti dipinti e schizzi, per raffigurare Gesù adulto
(«grande»)[163][164].
Rimane comunque il dubbio sul significato di
quell’appunto riguardo un’infrazione sofferta come scandalosa confermata da
un’altra annotazione sullo stesso foglio dove Leonardo rimproverava se stesso
di non aver ancora imparato a destreggiarsi prudentemente tra le cose della
vita:
«Quando io crederò imparare a vivere, e io imparerò a
morire[165].»
Irreligiosità
Se l’omosessualità di Leonardo resta incerta, con tutte
le possibili disquisizioni su quanto questo possa aver influito o meno sulla
sua arte,[27] la sua irreligiosità e scetticismo sono indubbi, legati alle
osservazioni del Vasari, per il quale «tanti furono i suoi capricci, che
filosofando de le cose naturali, attese a intendere la proprietà delle erbe,
continuando et osservando il moto del cielo, il corso della luna e gli
andamenti del sole. Per il che fece ne l’animo un concetto sì eretico, che è
non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo
esser filosofo che cristiano».
L’Aretino scrive che «vedendosi vicino alla morte,
disputando de le cose cattoliche, ritornando nella via buona, si ridusse a la
fede cristiana con molti pianti. Laonde confesso e contrito, se bene è non
poteva reggersi in piedi, volse devotamente pigliare il Santissimo Sacramento
fuor de ‘l letto», morendo, sempre secondo il Vasari, poi nelle braccia del re
Francesco I, ciò non poteva accadere in quanto Francesco I si trovava a Saint
Germain en Laye, vicino Parigi, per il battesimo del figlio.
Molte sue note mostrano disprezzo verso gli uomini di
Chiesa: sui preti che dicono messa: «Molti fien quelli che, per esercitare la
loro arte, si vestiran ricchissimamente, e questo parrà esser fatto secondo
l’uso de’ grembiuli»;[166] sulle chiese: «Assai saranno che lasceranno li
esercizi e le fatiche e povertà di vita e di roba, e andranno abitare nelle
ricchezze e trionfanti edifizi, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico
a Dio»;[137] sul vendere il Paradiso: «Infinita moltitudine venderanno pubblica
e pacificamente cose di grandissimo prezzo, senza licenza del padrone di
quelle, e che mai non furon loro, né in lor potestà, e a questo non provvederà
la giustizia umana»[137] o anche «Le invisibili monete [le promesse di vita
eterna] faran trionfare molti spenditori di quelle»;[137] o sui conventi:
«Quelli che saranno morti [i santi], dopo mille anni, fien quelli che daranno
le spese a molti vivi [i frati]»;[167] o ironizza sui riti: «Quelli che con
vestimente bianche andranno con arrogante movimento minacciando con metallo e
foco [il turibolo con l’incenso] chi non faceva lor detrimento alcuno»[168] e
sulla devozione delle immagini: «Parleranno li omini alli omini che non
sentiranno; aran gli occhi aperti e non vedranno; parleranno a quelli e non fie
lor risposto; chiederan grazie a chi arà orecchi e non ode; faran lume a chi è
orbo».[169]
Leonardo “esoterico”
Leonardo è sempre stato un personaggio avvolto da un
certo alone di mistero, sia per la sua singolare personalità, sia per
l’incredibile poliedricità dei suoi interessi, che suscitano ancora oggi
curiosità.[170] Non mancano nel suo personaggio alcuni lati “oscuri”,
che possono suscitare incertezze e perplessità, come i metodi con cui riusciva
a condurre le sue indagini anatomiche, o il suo approccio materiale e
immanente, quasi agnostico, così anticipatore dei tempi.[170] A ciò va aggiunta
la scrittura criptica da destra a sinistra e l’abitudine, per divertimento, di
inventare frasi in codice, anagrammi e rebus.[170]
Questi e altri elementi hanno costituito un immenso
serbatoio da cui attingere per rileggere la sua vicenda umana, oltre che
artistica e intellettuale, secondo nuove interpretazioni, a volte veri e propri
travisamenti o strumentalizzazioni che poco hanno a che fare col senso
autentico della sua complessa personalità.[170] Il caso più eclatante ed
emblematico resta senz’altro il romanzo Il codice da Vinci di Dan Brown, col
suo clamoroso successo editoriale e mediatico in tutto il mondo.[170] In esso,
tra enigmi, omicidi e un fitto intreccio di storia, esoterismo, arte e
teologia, si narra di un segreto sconvolgente per la Cristianità tramandato nei
secoli da una sorta di società segreta, il Priorato di Sion, ma tenuto occulto
dalle gerarchie ecclesiastiche e, negli ultimi tempi, dall’Opus Dei. Tale
segreto riguarderebbe la natura umana di Cristo, il suo matrimonio con Maria
Maddalena (simboleggiata essa stessa dal Graal) e l’esistenza di una loro
progenie. Tra fatti storici realmente avvenuti e altri di pura fantasia, si
sostiene che Leonardo abbia rivestito la carica di Gran Maestro del Priorato,
celando in alcune sue opere, tramite allusioni e messaggi in codice, una serie
di riferimenti alla sua partecipazione attiva e al segreto.[171]
Tra le varie opere scelte da Dan Brown ci sono la
Gioconda e il Cenacolo: il primo nasconderebbe un autoritratto del pittore in
vesti femminili, il secondo sarebbe una rappresentazione del
“segreto”, con san Giovanni che andrebbe identificato come la
Maddalena.[171] Nonostante le infinite polemiche generate dal libro, per le
discutibili ricostruzioni storiche e documentali e per gli ingenui errori
iconografici, la curiosità e l’attenzione quasi maniacale generata su quasi
tutto ciò che riguarda Leonardo ha avuto tutto sommato il merito di portare
sotto i riflettori il genio di Vinci, con mostre, convegni, inchieste e
documentari passati su tutti i media del mondo.[171]
Leonardo e la Sacra Sindone
Secondo alcuni studiosi Leonardo sarebbe l’autore della
Sindone di Torino. Per Vittoria Haziel, sarebbe stata disegnata usando un ferro
arroventato su una tela antica, con un autoritratto per il volto. La tecnica,
sempre secondo la Haziel, ricorda lo sfumato leonardesco.[172] La Haziel ha
anche pubblicato, nel 1998, un libro al riguardo, La Passione Secondo
Leonardo.[173] Anche un’artista americana, Lillian Schwartz, sostiene che la
Sindone sia un autoritratto di Leonardo.[174] La Schwartz ha usato delle
immagini computerizzate per sostenere la somiglianza della Sindone con gli autoritratti
di Leonardo. La Schwartz è la pittrice che negli anni ottanta sostenne essere
anche la Gioconda un autoritratto di Leonardo. Tuttavia, secondo John Jackson,
direttore di un centro studi sulla Sacra Sindone negli Stati Uniti, l’ipotesi
del falso di Leonardo sarebbe infondata: egli sostiene infatti che esiste un
medaglione commemorativo, risalente alla metà del XIV secolo e conservato al
Museo di Cluny, per cui la prima notizia sulla Sindone precederebbe di circa
100 anni la nascita di Leonardo.[175]
Mancinismo
Si sostiene anche che Leonardo da Vinci fosse
probabilmente nato mancino e che, secondo i pregiudizi della sua epoca sull’uso
della mano sinistra, venne corretto. L’utilizzo della mano sinistra non era
visto di buon occhio, anzi: la mano sinistra era considerata la “mano del
diavolo”, e i mancini venivano giudicati come degli “invertiti”
e dei “rovesciati”. I bambini erano costretti, anche con punizioni
corporali, a scrivere con la mano destra[176]. Recenti studi condotti dalla
storica dell’arte Cecilia Frosinini hanno accertato che Leonardo fosse invece
ambidestro e che dipingesse preferibilmente con la mano sinistra ma anche con
la destra:[177]
«La conferma, definitiva, arriva dall’analisi portata
avanti su quello che da molti è considerato il primo disegno dell’artista,
datato 5 agosto 1473. Il dipinto, un paesaggio di proprietà delle Gallerie
degli Uffizi, è inventariato con il numero ‘8 P’[…]Sul dipinto ci sono due
scritte, una sul davanti e una sul retro, […]Per quanto riguarda la calligrafia,
gli studiosi hanno lavorato confrontando le due scritte presenti sul dipinto-
entrambe per certo autografe e tracciate con lo stesso inchiostro- tra di loro
ma anche con altri testi di pugno di Leonardo, e da qui è arrivata la conferma
che l’artista poteva scrivere con entrambe le mani: la scritta sul davanti fu
tracciata appunto ‘a specchio’, presumibilmente con la sinistra, mentre quella
sul retro fu tracciata normalmente con la destra.[178]»
La biblioteca di Leonardo
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: La biblioteca di Leonardo.
Secondo le stime degli studiosi alla morte di Leonardo la
sua biblioteca comprendeva oltre centocinquanta volumi. Nonostante la
progressiva dispersione dei libri (già cominciata in seguito al trasferimento
di Francesco Melzi, a cui il Maestro aveva donato la biblioteca, da Amboise a
Vaprio D’adda nell’agosto 1519 e proseguita dopo che gli eredi del Melzi
vendettero tutto il patrimonio lasciatogli dal padre) è possibile tracciare la
fisionomia della biblioteca vinciana sulla base degli indizi che l’autore
stesso ha lasciato nei propri manoscritti; i copiosi riferimenti riscontrabili
negli appunti del Maestro testimoniano, infatti, un dialogo fitto e costante
coi libri e, più in generale, con la cultura antica, medievale e coeva. A causa
dei suoi numerosi spostamenti Leonardo stilò, inoltre, dei veri e propri
inventari dei volumi da lui posseduti. Tali elenchi sono oggi conservati in tre
manoscritti: il primo, risalente alla fine degli anni ottanta del ‘400, è
contenuto nel Codice Trivulziano (carta 2 recto); il secondo, del 1495, è
contenuto all’interno del Codice Atlantico (carta 559 recto); il terzo, della
fine del 1503, lo si trova all’interno del Codice di Madrid (carte 2 verso e 3
recto).
Altri aspetti
Il Vasari riferisce della sua generosità, della sua
grandezza d’animo e del suo orgoglio: «andando al banco per la provvisione
ch’ogni mese da Pier Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi
cartocci di quattrini, ed egli non li volse pigliare, rispondendogli: “Io
non sono dipintore da quattrini”»; della piacevolezza della sua
conversazione e del suo amore per gli animali: «spesso passando dai luoghi dove
si vendevano uccelli, di sua mano cavandogli di gabbia, e pagatogli a chi li
vendeva il prezzo che n’era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendogli
la perduta libertà». E questa sua compassione e tenerezza nei confronti degli
animali si lega alla notizia, riferita da Andrea Corsali, sul fatto che
Leonardo fosse vegetariano.[179]
Dai suoi scritti traspare, però, l’immagine di un uomo
molto meno socievole di quello che l’agiografia vasariana voglia imporre: «se
tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno,
sarai mezzo tuo, e tanto meno quanto sarà maggiore la indiscrezione della sua
pratica. E se sarai con più, cadrai di più in simile inconveniente» e altrove
scrive ancora che «salvatico è quel che si salva» e in tante parti dei suoi
manoscritti appare la sfiducia e il pessimismo nei confronti della “umana
spezie”. Le sue ricerche e i suoi lavori venivano infatti preferibilmente
espletati in solitudine, come ricorda la vivace descrizione del maestro
all’opera al Cenacolo di Matteo Bandello nella sua novella LVIII.[180] Non era
solito seguire regole rigide o abitudini prefissate, preferendo assecondare
l’estro e l’ispirazione del momento.[70] La sua ricerca quasi maniacale della
perfezione, con infiniti ritocchi e modifiche (come avvenne per la Gioconda)
derivano dalla sua convinzione per cui la pittura, a differenza della musica, è
destinata a restare e non a esaurirsi nella singola esibizione: «la pittura non
muore immediate dopo la sua creazione come fa la musica, ma lungo tempo darà
testimonianza dell’ignoranza tua […] ma se studierai […] tu lascerai opere
che ti daranno più onore che la pecunia».[181]
Ben presto però Leonardo si renderà conto che quella sua
ansia di perfezione lo porterà alla sconfitta e al fallimento che egli non
vorrà mai accettare studiando e “inventando” nuovi metodi di pittura
e colori come quelli usati per la Battaglia di Anghiari, quando il dipinto non
si asciugava e i colori si liquefacevano per il calore dei grandi bracieri
usati allo scopo o per il “nuovo” sistema per la pittura affresco,
che permettesse le correzioni successive dell’artista, sperimentato con
l’Ultima cena, l’opera che appena finita cominciò a creparsi.[182]
Considerato per la vastità dei suoi interessi la massima
e irripetibile manifestazione del Rinascimento, Leonardo, non legato a nessuna
città, Stato o principe, è il primo esempio del cosmopolitismo degli
intellettuali italiani, unico in Europa, espressione di una frattura fra
cultura e popolo destinata a prolungarsi fino ai nostri giorni.
La fortuna critica del pittore
La fortuna critica del pittore è stata immediata e non ha
mai subito oscuramenti. Già per il Vasari[183] «volle la natura tanto
favorirlo, che dovunque è rivolse il pensiero, il cervello e l’animo, mostrò
tanta divinità nelle cose sue che nel dare la perfezione di prontezza,
divinità, bontade, vaghezza e grazia nessun altro mai gli fu pari». Per il
Lomazzo «Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo
troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso
lo scuro, per ritrovar li suoi estremi. Onde con tal arte ha conseguito nelle
facce e corpi, che ha fatto veramente miracoli, tutto quello che può far la
natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola
possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino».[184] Non a caso lo storico
aretino gli ascrisse l’avvio della “Maniera moderna”, ponendolo
all’inizio della terza parte delle Vite.
L’ultima cena (particolare)
Per Goethe,[185] «Leonardo si rivela grande soprattutto
come pittore. Regolarmente e perfettamente formato, appariva, nei confronti
della comune umanità, un esemplare ideale di essa. Come la chiarezza e la
perspicacia dell’occhio si riferiscono più propriamente all’intelletto, così la
chiarezza e l’intelligenza erano proprie dell’artista. Non si abbandonò mai
all’ultimo impulso del proprio originario impareggiabile talento e, frenando
ogni slancio spontaneo e casuale, volle che ogni proprio tratto fosse meditato
e rimeditato».
Per il pittore Delacroix,[186] Leonardo «giunge senza
errori, senza debolezze, senza esagerazioni e quasi di un balzo a quel
naturalismo giudizioso e sapiente, lontano del pari dall’imitazione servile e
da un ideale vuoto e chimerico. Cosa strana! Il più metodico degli uomini,
colui che fra i maestri del suo tempo si è maggiormente occupato dei metodi di
esecuzione, che li ha insegnati con tanta precisione che le opere dei suoi
migliori allievi sono sempre confuse con le sue, quest’uomo, la cui maniera è
così tipica, non ha retorica. Sempre attento alla natura, consultandola senza
tregua, non imita mai sé stesso; il più dotto dei maestri è anche il più
ingenuo e nessuno dei suoi emuli, Michelangelo e Raffaello, merita quanto lui
tale elogio».
Scrive Hippolyte Taine[187] che «non c’è forse al mondo
un esempio di genio così universale, inventivo, incapace di contentarsi, avido
di infinito e naturalmente raffinato, proteso in avanti, al di là del suo
secolo e di quelli successivi. Le sue figure esprimono una sensibilità e uno
spirito incredibili; traboccano di idee e di sensazioni inespresse. Vicino a
esse, i personaggi di Michelangelo non sono che atleti eroici; le vergini di
Raffaello non sono che placide fanciulle, la cui anima addormentata non ha
vissuto. Le sue sentono e pensano con ogni tratto del viso e della fisionomia;
ci vuole un certo tempo per stabilire un dialogo con loro: non che il
sentimento che esse esprimono sia troppo poco definito; al contrario, esso
scaturisce dall’intero aspetto, ma è troppo sottile, troppo complicato, troppo
al fuori e al di là del comune, impenetrabile e inesplicabile. L’immobilità e
il silenzio di esse lasciano indovinare due o tre pensieri sovrapposti, e altri
ancora, celati dietro quello più lontano; s’intravede confusamente questo mondo
intimo e segreto, come una delicata vegetazione sconosciuta sotto la profondità
di un’acqua trasparente».
Per il Wölfflin,[188] «è il primo artista che abbia
studiato sistematicamente le proporzioni nel corpo degli uomini e degli animali
e si sia reso conto dei rapporti meccanici, nell’andare, nel salire, nel
sollevare pesi e nel portare oggetti; ma anche quello che ha scoperto le più
lontane caratteristiche fisionomiche, meditando coordinatamente sopra
l’espressione dei moti dell’animo. Il pittore è per lui il chiaro occhio del
mondo, che domina tutte le cose visibili».
La Vergine delle rocce
Per Octave Sirén[189] Leonardo «fu fiorentino fino al
midollo, benché più sagace, più duttile, più intelligente dei suoi
predecessori. Più tardi s’interessò ai problemi pittorici via via che andava
approfondendo quelli scientifici; dal che deriva la presenza, nella sua arte,
di tendenze nuove e di tratti sconosciuti ai suoi contemporanei. Il passaggio
dai dettagli precisi, dai contorni netti, alle gradazioni del chiaroscuro, alla
corposità dello sfumato, riassume una tendenza generale nella pittura del
Rinascimento; ma ciò che attorno a Leonardo non si attuò prima di due o tre
generazioni, in lui divenne maturo nello spazio di venti o trent’anni».
Per Emilio Cecchi[190] «da lui ebbe origine una pittura
d’intensità insuperata, dove il rude chiaroscuro e luminismo di Masaccio è
genialmente dedotto in una quantità di espressione plastica che, se ancora una
volta dobbiamo richiamarci al ricordo della Grecia, non si può confrontare che
alla grazia misteriosa e sublime della scultura prassitelica».
Per André Chastel,[191] premessa la precarietà e
l’ambiguità della stessa vita umana, il «senso di una posizione ambigua
dell’uomo tra l’orribile e lo squisito, fra il certo e l’illusorio, si è
accentuato in Leonardo con gli anni: c’è nella sua opera pittorica uno sviluppo
parallelo del chiaroscuro. Il principio di esso era anzitutto l’interesse del
contrasto che valorizza i termini opposti […] egli si è dunque compiaciuto di
far scivolare insensibilmente le dolci luci nelle ombre deliziose, risolvendo
in questo modo il conflitto fra disegno e modellato […] Dichiarando che, come
Giotto e Masaccio, si deve essere unicamente figli della natura, egli intende
affermare che tutti i problemi della pittura, a tutti i gradi, devono essere
ripensati integralmente. Lo sfumato risolve le difficoltà del disegno e ottiene
l’unità delle forme entro lo spazio avvolgendole nell’atmosfera».
Per l’Argan,[192] infine, in Leonardo «tutto è immanenza.
L’esperienza della realtà deve essere diretta, non pregiudicata da alcuna
certezza a priori: non l’autorità del dogma e delle scritture, non la logica
dei sistemi filosofici, non la perfezione degli antichi. Ma la realtà è
immensa, possiamo coglierla solo nei fenomeni particolari […] e il fenomeno
vale quando, nel particolare, manifesta la totalità del reale». Se nell’arte di
Michelangelo predomina il sentimento morale, per cui dalla natura occorre
riscattare la nostra esistenza spirituale con la quale siamo legati a Dio, in
Leonardo predomina il sentimento della natura, «quello per cui sentiamo il
ritmo della nostra vita pulsare all’unisono con quello del cosmo».
Elenco delle opere
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Dipinti di Leonardo da
Vinci.
Non vi è certezza sull’attribuzione di tutti i dipinti di
Leonardo. Su una quindicina di essi l’attribuzione è pressoché universale,
altri sono semplicemente stati realizzati a più mani (specie le prime opere di
Leonardo, nel periodo in cui lavorava “a bottega” dal Verrocchio). Di
altre, fino ad ora attribuite ad altri artisti, recentemente gli studiosi
propendono per l’attribuzione al maestro. L’elenco di alcuni disegni nella
lista delle opere è puramente indicativo e incompleto: si basa sulla selezione
di Milena Magnano.
Gioventù a Firenze
Madonna Dreyfus
(Madonna della melagrana), 1469-1470, olio su tavola, 15,7×12,8 cm, Washington,
National Gallery of Art (attribuita anche a Lorenzo di Credi o opera di
collaborazione)
Tobiolo e
l’angelo, 1470-1475 circa, tempera su tavola, 84×66 cm, Londra, National
Gallery (opera di Andrea del Verrocchio con alcune parti attribuite a Leonardo)
Studio di
manica per l’Annunciazione, 1470-1473, disegno a sanguigna su carta, 8,5×9,5
cm, Oxford, Christ Church Picture Gallery
Testa di donna,
1470-1476, disegno a penna, inchiostro e pigmento bianco su carta, 28,2×19,9
cm, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Studio di
drappeggio per una figura seduta, 1470-1484 circa, pennello e tempera grigia su
tela grigia, 26,6×23,3 cm, Parigi, Cabinet des Dessins
Annunciazione,
1472-1475 circa, tempera e olio su tavola, 98×217 cm, Firenze, Galleria degli
Uffizi
Paesaggio con
fiume, 1473, disegno su carta, 19×28,5 cm, Firenze, Gabinetto dei disegni e
delle stampe
Madonna del
Garofano, 1473 circa, olio su tavola, 62×47,5 cm, Monaco di Baviera, Alte
Pinakothek (attribuzione recente, ma “storicamente” assegnata dal
Verrocchio)
Studio di mani,
1474 circa, punta d’argento e lumeggiature di biacca su carta preparata in
tinta rosa, 21,4×15 cm, Windsor, Royal Library
Ritratto di
Ginevra de’ Benci, 1474 circa, olio e tempera su tavola, 38,8×36,7 cm,
Washington, National Gallery of Art
Profilo di
capitano antico, 1475 circa, punta d’argento su carta preparata, 28,5×20,7 cm,
Londra, British Museum
Battesimo di
Cristo, 1475-1478, olio e tempera su tavola, 177×151 cm, Firenze, Galleria
degli Uffizi, (collaborazione col Verrocchio e altri)
Annunciazione,
1475-1478 circa, tempera su tavola, 16×60 cm, Parigi, Museo del Louvre
(attribuzione contesa con Lorenzo di Credi)
Corpo di
Bernardo Baroncelli impiccato, 1478, disegno, Bayonne, Musée Bonnat
Studio,
1478-1480, disegno a penna e inchiostro su carta, Londra, British Museum
Studio per
Madonna con ciotola di frutta, 1478 circa, disegno a punta d’argento, penna e
inchiostro su carta, 35,8×25,2 cm (facsimile), Firenze, Gabinetto dei Disegni e
delle Stampe
Madonna Benois,
1478-1482, olio su tavola trasportata su tela, 48×31 cm, San Pietroburgo,
Ermitage
San Girolamo,
1480 circa, olio su tavola, 103×75 cm, Città del Vaticano, Pinacoteca vaticana
Lorenzo de’
Medici, 1480 circa, disegno a penna e inchiostro su carta, 7,3×4,9 cm, Castello
di Windsor, Royal Library
Studi di
dispositivi di difesa, 1480 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studi di
strumenti idraulici, 1480 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di
fiori, 1480-1481, disegno, Venezia, Galleria dell’Accademia
Schizzo per la
Madonna del gatto, 1480-1481, disegno, Londra, British Museum
Studio
prospettico per l’Adorazione dei Magi, 1481 circa, disegno, Firenze, Gabinetto
dei Disegni e delle Stampe
Studio per
l’Adorazione dei Magi, 1481 circa, disegno, Parigi, Cabinet des Dessins
Adorazione dei
Magi, 1481-1482, olio su tavola, 246×243 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi
Primo soggiorno a Milano
Monumento
equestre a Francesco Sforza, 1482-1493, opera incompiuta di cui esisteva un
modello colossale del cavallo in terracotta, già a Milano, Corte Vecchia,
distrutto
Studio di orso
che cammina, 1483-1485, disegno a punta metallica su carta preparata a tinta
marrone e luce rosa, 10,3×13,4 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Gola rocciosa
con anatre, 1482-1485 circa, disegno a penna e inchiostro su carta, 22×15,8 cm,
Castello di Windsor, Royal Library
Presunto studio
per l’angelo della Vergine delle Rocce, 1483-1485, disegno, Torino, Biblioteca
Reale
Studi per la
Vergine delle Rocce, 1483 circa, disegno, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Vergine delle
Rocce, 1483-1486, olio su tavola trasportato su tela, 199×122 cm, Parigi, Museo
del Louvre
Ritratto di
musico, 1485 circa, olio su tavola, 44,7×32 cm, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Studio per il
monumento a Francesco Sforza, 1485 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal
Library
Vite aerea,
1487 circa, disegno, Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France
Progetto per la
copertura per crociera del Duomo di Milano, 1487-1488, disegno, Milano,
Biblioteca Ambrosiana
Studio per
macchina da guerra (Carri falcati), 1487-1490, disegno, Torino, Biblioteca
Reale
Dama con
l’ermellino, 1488-1490 circa, olio su tavola, 54,8×40,3 cm, Cracovia, Museo
nazionale di Cracovia
Idea per la
figura di san Pietro nell’Ultima Cena, 1488-1490 circa, disegno, Vienna,
Graphische Sammlung Albertina
Studio per il
Cenacolo, 1488-1490 circa, disegno, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Studio per il
Cenacolo, 1488-1490 circa, Parigi, Cabinet des Dessins
Sezione di
cranio, 1489 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Studio di testa
femminile, 1490 circa, punta metallica su carta preparata in tinta verdastra,
18×16,8 cm, Parigi, Cabinet des Dessins
Uomo
vitruviano, 1490 circa, matita e inchiostro su carta, 34×24 cm, Venezia,
Gallerie dell’Accademia
Studio delle
gambe anteriori di un cavallo, 1490 circa, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Figure
geometriche e disegno botanico, 1490 circa, disegno, Parigi, Bibliothèque de
l’Institut de France
Raggi luminosi
attraverso uno spiraglio angolare, 1490-1491, disegno, Parigi, Bibliothèque de
l’Institut de France
Belle
Ferronnière, 1490-1495 circa, olio su tavola, 63×45 cm, Parigi, Museo del
Louvre
Progetto per
l’armatura di fusione della testa del cavallo, 1491-1493 circa, disegno,
Madrid, Biblioteca Nacional de España
Foglio
manoscritto per il monumento Sforza, 1493 circa, disegno a penna e inchiostro
su carta, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Studio di
rapporto sessuale e dell’organo sessuale maschile, 1492 circa, disegno a penna
e inchiostro su carta, 27,3×20,2 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Emblema degli Sforza,
1492-1494, disegno, Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France
Vergine delle
rocce, 1494-1508, olio su tavola, 189,5×120 cm, Londra, National Gallery
Testa di
Cristo, 1494 circa, gessetto e pastello su carta, 40×32 cm, Milano, Pinacoteca
di Brera
Capelli,
nastri, oggetti per mascherare, 1494 circa, disegno, Londra, Victoria and
Albert Museum
Cacciatore di
ermellino, 1494 circa, disegno a penna e inchiostro marrone su tracce di
gessetto nero su carta, 9,1 cm, Cambridge, Fitzwilliam Museum
Studio di testa
virile, 1494 o 1499, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Progetto per un
dispositivo, 1494-1496 circa, disegno, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Ultima Cena,
1494-1498, olio su parete, 460×880 cm, Milano, Refettorio di Santa Maria delle
Grazie
Ritratto di una
Sforza, 1495 circa, gesso e inchiostro su pergamena, 33×23 cm, Canada?,
collezione privata
Schizzo di tre
figure di profilo, 1495 circa, disegno, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle
stampe
Vecchio e giovane
affrontati, 1495 circa, disegno, Milano, Biblioteca Trivulziana
Ritratti dei
duchi di Milano con i figli, 1497, tempera e olio su parete, 90 cm circa di
base ciascuno, Milano, Refettorio di Santa Maria delle Grazie
Schizzo di
borsetta da signora, 1497, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Intrecci
vegetali con frutti e monocromi di radici e rocce, 1498 circa, tempera su
intonaco (ripassata in età moderna), Milano, Castello Sforzesco, Sala delle
Asse
Periodo errabondo
Studio per il
Ritratto d’Isabella d’Este, 1499 circa, disegno, Firenze, Gabinetto dei disegni
e delle stampe
Ritratto di
Isabella d’Este, 1500 circa, 63×46 cm, sanguigna e pastello su carta, Parigi,
Museo del Louvre
Tempesta su un
paesaggio, 1500 circa, disegno a sanguigna su carta, 20×15 cm, Firenze,
Gabinetto dei disegni e delle stampe
Bosco di
betulle, 1500 circa, disegno a sanguigna su carta, 19,3×15,3 cm, Firenze,
Gabinetto dei disegni e delle stampe
Studio per la
Madonna dei Fusi (?), 1501 circa, disegno a sanguigna e punta d’argento su
carta preparata in tinta rosa, 25,7×20,3 cm, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Madonna dei
Fusi, 1501 circa, olio su tavola trasferito su tela e incollato su tavola,
50,2×36,4 cm, New York, collezione privata
Madonna dei
Fusi, 1501 circa, olio su tavola, 48,3×36,9 cm, Edimburgo, deposito del duca di
Buccleuch alla National Gallery of Scotland
Paesaggio
presso Pisa, 1502-1503 circa, disegno a sanguigna su carta, 21,1×15 cm, Madrid,
Biblioteca Nacional de España
Bastione a
stella con indicazione delle troniere rivolte verso un cavedio circolare,
1502-1503, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio per la
Vergine e sant’Anna, 1501 circa, disegno, Venezia, Galleria dell’Accademia
Studio per la
Vergine e sant’Anna, 1501 circa, disegno, Parigi, Cabinet des Dessins
Testa di Leda,
1503-1507 circa, disegno a gessetto nero, penna e inchiostro su carta, Castello
di Windsor, Royal Library
Studi di Leda e
di un cavallo, 1503-1507, disegno a gessetto nero, pennello e inchiostro su
carta, Castello di Windsor, Royal Library
Leda
inginocchiata e il cigno, 1503-1507 circa, disegno a penna e inchiostro e
acquerello su gessetto nero su carta, 16×13,9 cm, Chatsworth, collezioni del
duca di Devonshire
Studio per Leda
inginocchiata, 1503-1507 circa, disegno a gessetto nero, penna e inchiostro su
carta, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen
Studio per
Sant’Anna, la Vergine e il Bambino, 1503-1517 circa, disegno a gessetto nero,
sfumato e biacca su carta, 23×24,5 cm,
Parigi,Museo del Louvre
Studio per il
cartone di Burligton-House, 1503-1510 circa, disegno a carboncino, penna e
pennello su carta, 26×19,7 cm, Londra, British Museum
Cartone di
sant’Anna, 1503-1510 circa, gessetto nero, biacca e sfumino su carta,
141,5×104,6, Londra, National Gallery
Gioconda,
1503-1514, olio su tavola, 77×53 cm, Parigi, Museo del Louvre
Studi
anatomici, 1504-1506, disegno a penna su carta preparata in tinta rossa,
25,3×19,7 cm, Torino, Biblioteca Reale
Cavaliere al
galoppo e altre figure, 1503-1504, disegno a sanguigna su carta, 16,8×24 cm,
Castello di Windsor, Royal Library
Studio di
proporzioni per la Battaglia di Anghiari: fanti e cavalieri, 1503-1504,
disegno, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Studio della
testa di un guerriero per la Battaglia d’Anghiari, 1504 circa, disegno,
Budapest, Museo di belle arti
Battaglia di
Anghiari, 1505 circa, pittura murale, Firenze, Palazzo Vecchio, Salone dei
Cinquecento, perduto
Testa di Leda,
1505-1510 circa, gessetto rosso su carta preparata rossa, 20×15,7 cm, Milano,
Castello Sforzesco
Leda col cigno,
1505-1510 circa (perduto, di esso ne furono fatte diverse copie da altri
artisti)
Gli ultimi anni
Mirtillo
palustre, 1506 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Studio di gambe
d’uomo e di cavallo, 1506-1507, disegno a penna, inchiostro e sanguigna su
carta preparata in tinta rossa, 28,5×20,5 cm, Castello di Windsor, Royal
Library
Studio per il
monumento al Maresciallo Trivulzio, 1507 circa, disegno, Castello di Windsor,
Royal Library
Scapigliata,
1508 circa, ambra inverdita e biacca su tavola, 24,7×21 cm, Parma, Galleria
nazionale
Osservatore che
guarda attraverso un modello vitreo di occhio umano, 1508-1509, disegno,
Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France
San Giovanni
Battista, 1508-1513, olio su tavola, 69×57 cm, Parigi, Museo del Louvre
Studi anatomici
(laringe e gamba), 1510, disegno,[Castello di Windsor, Royal Library
Studi di
bambino, 1510 circa, disegno a gesso su carta, Firenze, Gabinetto dei disegni e
delle stampe
Testa di donna,
1510 circa, disegno a gesso su carta, Castello di Windsor, Royal Library
Sant’Anna, la
Vergine e il Bambino con l’agnellino, 1510-1513, olio su tavola, 168×112 cm,
Parigi, Museo del Louvre
Bacco,
1510-1515, olio su tavola trasportato su tela, 177×115 cm, Parigi, Museo del
Louvre
Caustiche di
riflessione, 1510-1515, disegno, Londra, British Museum
Canale da
navigare tra il lago di Lecco e il Lambro, 1513 circa, disegno, Milano,
Biblioteca Ambrosiana
Studi di
geometria, 1513 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studi di
cavalli, 1513-1515, disegno a penna, inchiostro e gesso nero su carta,
29,8×21,2 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Studi di gatti,
draghi e altri animali, 1513-1515, disegno a penna, inchiostro e gesso nero su
carta, 27,1×20,4 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Studi per
Civitavecchia, 1514 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di tre
figure danzanti, 1515 circa, disegno, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Autoritratto,
1515 circa, sanguigna su carta, 33,5×21,3 cm, Torino, Biblioteca Reale
Allegoria con
volpe e aquila, 1516 circa, sanguigna su carta, 17×28 cm, Castello di Windsor,
Royal Library
Diluvio
universale sopra una città, 1517-1518, disegno a gessetto nero su carta,
16,3×21 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Catastrofe
naturale, 1517-1518, disegno a gessetto nero, penna e inchiostro su carta,
16,2×20,3 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Altri disegni di datazione incerta
Disegno di
Madonna, Parigi, Cabinet des Dessins
Testa di bimbo,
Parigi, Cabinet des Dessins
Giovane uomo,
Parigi, Cabinet des Dessins
Testa di donna,
Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Studio di
Madonna col Bambino, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Testa di
Madonna, Castello di Windsor, Royal Library
Vecchio seduto,
Castello di Windsor, Royal Library
Studio delle
proporzioni della testa e degli occhi, Torino, Biblioteca Reale
Studio di torso
femminile, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Cuore e vasi
sanguigni, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di torso
e braccia, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di
granchi, Colonia, Wallraf-Richartz Museum
Studio di
vecchio, Roma, Istituto centrale per la grafica
Caricature, Venezia,
Gallerie dell’Accademia
Testa di
vecchio, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Copie da originali perduti di Leonardo
Giovanni
Antonio Boltraffio, Madonna Litta, 1490-1491, tempera su tavola, 42×33 cm, San
Pietroburgo, Ermitage
Francesco Melzi?,
Leda col cigno, 1505-1508 circa, olio e resine su tavola, 130×77,5 cm, Firenze,
Galleria degli Uffizi
Cesare da
Sesto, Leda col cigno, 1515-1520 circa, tempera grassa su tavola, 112×86 cm,
Roma, Galleria Borghese
Pieter Paul
Rubens, Battaglia di Anghiari, disegno, Parigi, Museo del Louvre
Opere attribuite
Il 4 ottobre 2013, come riportato da alcuni giornali, è
stato rinvenuto in un caveau svizzero un dipinto che ritrae la marchesa di
Mantova Isabella d’Este attribuito a Leonardo.[193][194]
Albero genealogico (estratto)
Michele
XIII-XIV secolo
Guido
fl. 1339
Piero
*? †1417 Giovanni
*? † ante 1406
Antonio[195]
*1372? †1468
Piero[196]
*1426 †1504 Francesco
*1436 †1506?
LEONARDO
illegittimo
*1452 †1519 3
Antonio
*1476 †? 3
Giuliano
*1479 †? 3
Lorenzo
*1484 †? 3
Domenico
*1486 †? 4
Benedetto
*1492 †? 4
Pandolfo
*1494 †? 4
Guglielmo
*1496 †? 4
Bartolomeo
*1497 †? 4
Giovanni
*1498 †?
Lorenzo
*? †? Benedetto
*? †? Piero[197]
*? †? Alessandro
*? †? Pier Francesco
“Pierino”
*1530 †1553
Antonio
*? †? Piero
*? †? Leonardo
*? †? Guglielmo
*1599 †1629 Jacopo
*? †? Giovanni
*? †? Piero
*? †? Antonio
*? †?
Lorenzo
*1605 †? Bartolomeo
*1608 †?
Piero[198]
*1630 †? Matteo
*? †?
Pier Lorenzo
*? †? Giovanni
Piero[199]
*1687 †? Giuseppe
*? †? Stefano
*? †? Domenico
*1684 †1752 Nicolò
*? †? Lorenzo
*? †?
Domenico
*? †? Antonio
Giuseppe[200]
*1726 †1801 Giovanni
*? †? Pier Matteo
*? †?
Vincenzo Leonardo
*1761 †1793 Giovanni Paolo
*1745 †1765 Valentino
*1750 †1817
Paolo Maria
*1778 †1840 Antonio
Giuseppe
*? †?
Settimo
*? †? Antonio
*1782 †1804 Tommaso
*1820
Leonardo
*1845 †? Raffaello
*1847 †? Emilio
*1850 †? Luigi
*1854 †? Gherardo
*1862 †? Angelo
*1868 †?
Paolo
*1871 †?
Michele (XIII-XIV secolo) – Notaio. Originario di Vinci
(da cui la famiglia prese il cognome) emigrò a Firenze all’inizio del XIV
secolo, ma la famiglia mantenne poi alcuni beni nel paese avito.
Guido
(XIV secolo) – Notaio, attivo nel 1339, visse a Firenze.
Piero
(*? †1417) – Notaio, attivo nel 1381; notaio e cancelliere della Repubblica di
Firenze 1413.
Antonio
(*1372? †1468) – Senza professione, viveva della rendita del podere di
famiglia, a Vinci (Catasto della Repubblica di Firenze, comune di Vinci, 1457);
sposa Lucia (*1392 †1469 ca.) figlia di Ser Piero Zosi da Bachereto.
Piero
(*1426 †1504) – Notaio a Pisa, Pistoia, Firenze. Sposò: (I) nel 1452 Albiera
(*1436 †1464), figlia di Giovanni Amadori; (II) nel 1465 Francesca (†1473),
figlia di Ser Giuliano Lanfredini; (III) nel 1475 circa Margherita (*1458
†1486), figlia di Jacopo di Guglielmo; (IV) nel 1487 circa Lucrezia (*1464
†post 1520), figlia di Guglielmo Cortigiani.
LEONARDO
(*1452 †1519) – illegittimo.
(III)
Antonio (*1476 †?)
(III)
Maddalena (*? †1477)
(III)
Giuliano (*1479 †?) – Capeggiò la causa contro il fratellastro Leonardo per
l’eredità dello zio Francesco, ma perse giacché Leonardo ne ottenne nel 1507
l’usufrutto in vita, ed alla sua morte l’eredità passò ai fratellastri nel
1515.
(III)
Lorenzo (*1484 †?)
(III)
Violante (*1485 †?)
(III)
Domenico (*1486 †?)
(IV)
Margherita (*1491 †?)
(IV)
Benedetto (*1492 †?)
(IV)
Pandolfo (*1494 †?)
(IV)
Guglielmo (*1496 †?)
(IV)
Bartolomeo (*1497 †?)
Pier
Francesco detto Pierino (*1530 †1553) – Scultore.
(IV)
Giovanni (*1498)
Violante
(*1433 †?) – Sposò Simone d’Antonio.
Francesco
(*1436 †1506?) – Senza professione, viveva della rendita del podere di
famiglia, a Vinci; morì senza figli e lasciò la piccola proprietà detta
“il Broto” a Leonardo (e per tal motivo questi ebbe una lunga causa
con i fratellastri); sposò Alessandra.
Giovanni
(XIV-XV secolo) – Notaio. Sposa Lottiera Beccanti.
Caterina, madre di Leonardo, dopo il matrimonio ebbe
altri cinque figli: Piera (1454), Maria (1457), Lisabetta (1459), Francesco
(1461) e Sandra (1463).
In totale i fratellastri di Leonardo erano 21[201].
I discendenti di Piero da Vinci
Secondo uno studio presentato nella città di Vinci e
condotto da Alessandro Vezzosi e Agnese Sabato nel 2016 erano presenti 35
discendenti viventi di Piero da Vinci, padre di Leonardo, tra i quali il
regista Franco Zeffirelli.[202]
Produzioni televisive su Leonardo da Vinci
Cortometraggio
– Un tragico amore di Monna Lisa di Albert Capellani (1912)
Cortometraggio
– Leonardo da Vinci di Giulia Cassini Rizzotto e Mario Corsi (1919)
Documentario –
Portrait of a Genius di Sammy Lee (1943)
Lungometraggio
– L’ultima cena di Luigi Giachino (1949)
Documentario –
Leonardo da Vinci di Luciano Emmer e Enrico Gras (1952)
Film TV – La
vita di Leonardo da Vinci di Renato Castellani (1971)
Film TV – I,
Leonardo: A Journey of the Mind di Chandler Cowles (1983)
Film TV –
Leonardon ikkunat di Pirjo Honkasalo (1986)
Cortometraggio
animato – Leonardo da Vinci di Richard Rich (1996)
Film TV –
Leonardo: A Dream of Flight di Allan King (1998)
Film TV –
Leonardo di Sarah Aspinall (2003)
Cortometraggio
animato – Perpetuum Mobile di Raquel Ajofrin ed Enrique García (2006)
Documentario –
The Secret Life of Leonardo Da Vinci di Michael Bouson (2006)
Lungometraggio
animato – Perpetuum Mobile di Enrique García e Rubén Salazar (2008)
Serie TV – I
Borgia di Tom Fontana (2011)
Serie TV – Da
Vinci’s Demons di David S. Goyer (2013)
Anime – Lupin
III – L’avventura italiana (2015)
Documentario –
Leonardo: l’uomo che anticipò il futuro di Massimo Polidoro (2019)
Serie TV –
Leonardo (2021-)
Note
^ La
definizione di “uomo universale” è stata contestata da Benedetto
Croce, il quale ha rilevato come fosse diffusa presso i contemporanei la fama
di apoliticità di Leonardo per il suo noto disinteresse per gli affari
pubblici. Questo aspetto della personalità di Leonardo non si adatta quindi
alla definizione di “uomo universale” ma piuttosto la «bilateralità
di attitudini, attitudine di pittore e attitudine di scienziato naturalista; e
l’aggettivo “universale” (ecco la conclusione cui volevamo giungere)
esprime enfaticamente e iperbolicamente la maraviglia destata da quella duplice
attitudine, degna certamente di maraviglia» (in B. Croce, Saggio sullo Hegel,
p. 224)
^ Vasari, p.
255.
^ Hyppolite
Taine, Voyage en Italie, 1866.
^ Antonio
Falchi, Leonardo musicista, Società editrice Dante Alighieri, 1902, ISBN non
esistente.
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(EN) Emanuel Winternitz, Leonardo da Vinci as a Musician,
Londra, 1982, ISBN 978-0-300-02631-3.
^ Conosciuta come Buti del Vacca solo dopo il matrimonio,
avvenuto dopo la nascita di Leonardo, con Antonio di Pietro Buti del Vacca.
Magnano, cit. p. 138.
^ Firenze, AdS, Notarile P 389 c, 105 t
^ Firenze, AdS, Catasto n. 795, c. 402-503.
G. Vasari, Vite
Magnano, cit. p. 10.
^ Magnano, cit. p. 12.
Magnano, cit. p. 13.
^ Firenze, Accademia di Belle Arti, Libro Rosso A,
1472-1520, c 93 v
^ Scheda nel sito ufficiale del museo
Magnano, cit. pag. 14.
^ Scheda nel sito ufficiale del museo
Magnano, cit. p. 16.
Magnano, cit. p. 17.
^ Tiziana Conti e Tommaso Sensini, Leonardo e l’aretino
negli studi di Carlo Starnazzi, ISBN 978-88-97644-04-0, CB Edizioni, 2011.
^ Alessandro Parronchi, Nuove proposte per Leonardo
scultore, in “Achademia Leonardi Vinci” 2, 1989.
Magnano, cit., p. 18.
^ Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi
dell’arte, volume 2, Bompiani, Milano 1999, p. 146. ISBN 88-451-7212-0
Magnano, cit., p. 139.
^ Si legge solo la fine di un nome di mese “…
bre”.
^ Si tratta di un disegno di impiccato, con annotazioni,
conservato al Musée Bonnat di Bayonne.
^ Magnano, cit., p. 19.
^ AA.VV., Galleria degli Uffizi, collana I Grandi Musei
del Mondo, Roma 2003.
^ Qui l’Anonimo intende non la lira in uso
nell’antichità, ma lo specifico strumento rinascimentale della lira da braccio,
^ In Codice Atlantico, c 270 r
Magnano, cit., p. 20.
^ A. Ottino Dalla Chiesa in “L’opera completa di
Leonardo da Vinci” CAR Rizzoli, vol. 12, 1967, scheda 15, pp. 92-95
^ Storia dell’arte italiana, Sansoni, Firenze, 1978,
vol.3, pp. 20–22.
^ Rodolfo Papa, San Bonaventura e Leonardo da Vinci
“La Vergine delle Rocce” ed il mistero dell’origine
^ Magnano, cit., p. 21.
^ Magnano, cit., p. 22.
^ Codice C, c 16 v.
Magnano, cit., p. 23.
^ Codice I, c. B, 42 v
Magnano, cit., p. 144.
^ Firenze, Archivio di Stato, Carteggio mediceo.
Magnano, cit., p. 24.
^ Il Salvator Mundi di scuola leonardesca, su
museosandomenicomaggiore.it. URL consultato il 14 febbraio 2019 (archiviato il
14 febbraio 2019).
Magnano, cit., p. 25.
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Magnano, cit., p. 26.
^ Magnano, cit., pp. 146-147.
^ Palazzo, Michela, e Tasso, Francesca, 1965-, Leonardo
da Vinci : la Sala delle asse del Castello sforzesco = the Sala delle Asse of
the Sforza Castle, ISBN 978-88-366-3677-8, OCLC 1012414205. URL consultato il
16 ottobre 2018.
^ La Sala delle Asse è una sala che si trova al piano
terra del torrione nord-orientale, detto anche del Falconiere, del Castello
Sforzesco di Milano. Prende il nome dalle assi di legno che si ritiene un tempo
rivestissero le pareti.
^ Il frutto del gelso (detto anche “morone”), allude
chiaramente a Ludovico il Moro.
^ Sala delle Asse – Castello Sforzesco, su Sala delle
Asse. Il restauro. URL consultato il 16 ottobre 2018 (archiviato dall’url
originale il 16 ottobre 2018).
^ Codice II, c 95 r
Magnano, cit., p. 27.
^ Mirco Riazzoli. Cronologia di Mantova dalla fondazione
ai giorni nostri, su books.google.it. URL consultato il 3 gennaio 2019.
Alessandra Fregolent, Giorgione e Leonardo, in Giorgione,
Electa, Milano 2001, p. 52. ISBN 88-8310-184-7
^ Fregolent, cit., pp. 88-89.
^ Costantino Porcu (a cura di), Dürer, Rizzoli, Milano
2004, p. 59.
^ Magnano, cit., pp. 140-141.
^ Magnano, cit., p. 112.
^ De Vecchi-Cerchiari, cit., p. 183.
Magnano, cit., p. 28.
^ Scoperto negli archivi della famiglia Melzi d’Eril di
Vaprio d’Adda e pubblicato solo nel 1792.
^ Remarques sur la Joconde, cit. in Magnano, p. 30.
^ Codice Atlantico b 71 v
^ Codice Arundel 272 r
^ Cit. in Magnano, p. 144.
Magnano, cit., p. 140.
^ Da Magnano.
^ Magnano, cit., p. 141.
^ Magnano, cit., p. 30.
Magnano, cit., p. 31.
^ Codice Atlantico, c 192 v
^ Quaderno di Anatomia A, 9 v
^ Codice E, 1 r
^ Codice Atlantico, c 90 v, c 170 r, c 45 v
^ Codice Atlantico, c 92 c
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^ Chiesa 1967, p. 86.
Wallace 1972, p. 150.
^ Codice Atlantico, b 103 r
^ A, de Beatis, Relazione del viaggio del cardinale Luigi
d’Aragona
^ Codice Atlantico, a 242 v
^ Giovanni Paolo Lomazzo, cit. in Magnano, p. 144.
^ Mathurine durante la residenza di Leonardo in Francia
fu una donna assunta per la cucina e i lavori domestici. Leonardo la nominò nel
suo testamento lasciandole: «una vesta de bon pan negro foderata de pelle et
doi ducati per una volta solamente pagati» (in Serge Bramly,Leonardo Da Vinci,
Mondadori 2014
Magnano, cit., p. 145.
^ In L. Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita
di Leonardo. L’originale del testamento di Leonardo è andato perduto.
^ Amboise, Registri del Capitolo reale di
Saint-Florentin, in Hardouin, Cabinet de l’amateur
^ Sull’incertezza di questa attribuzione si espresse il
ministro dell’istruzione italiano il 9 maggio 1919, comunicando che il Governo
francese, dopo «ricerche condotte colla massima diligenza» nella località di
Amboise, confermava lo stato di incertezza delle fonti sul luogo di sepoltura
di Leonardo, anche a causa delle «distruzioni causate dalla guerre di religione
del XVI secolo e dalla rivoluzione», con la conseguente scomparsa di «tutti i
segni esteriori che avrebbero potuto permetterne l’identificazione»: v. Senato
della Repubblica, MemoriaWeb (newsletter dell’Archivio storico), n.27 (Nuova
Serie), settembre 2019, Luca Beltrami, un architetto in Senato, p. 8
^ Leonardo da Vinci, su books.google.it. URL consultato
il 13 gennaio 2019.
^ I.Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano 1988, p.
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^ Attesta questa ricerca il più antico libretto di
annotazioni di Leonardo, il codice B, compilato a Milano verso la fine del 1480
Codice Atlantico a 119 v
^ Codice Atlantico b 117 r
Trattato della pittura, I, 3
^ Quaderno d’anatomia IV 10 r
^ Fogli di Anatomia A 31 v
^ Codice A 22 v
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^ P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa,
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^ Libro di pittura (Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, cod. Vaticano Urbinate lat. 1270, 1540 ca.), p. 167, § 44
^ Libro di pittura, op.cit. p.154, § 30
^ Libro di pittura, op.cit. pp. 138-39, § 14, e p. 144, §
19
^ Libro di pittura, op.cit. p. 178, § 68
^ Libro di pittura, op.cit. p. 138, § 14
^ Libro di pittura, op.cit. p. 155, § 31b
^ La scultura ha «obbligo […] col lume»
^ Libro di pittura, op.cit. p. 164, § 40
^ Libro di pittura, op.cit. p. 134, § 7
^ «la poesia pon le sue cose nella imaginazione de le
lettere» (in Libro di pittura, op.cit.p. 132, § 7)
^ P. Galluzzi, Leonardo e i proporzionanti: 28a lettura
vinciana (1988), Firenze 1989, p. 25
^ Libro di pittura, op. cit., p. 164, § 40
^ Tratto dalla conferenza letta da Croce a Firenze
nell’aprile del 1906 presso il “Circolo Leonardo” e pubblicata nel
libro Leonardo. Conferenze fiorentine entrata successivamente a far parte come
Leonardo filosofo nel Saggio sullo Hegel
^ B. Croce, Saggio sullo Hegel seguito da altri
schiarimenti di storia della filosofia, Laterza, Bari 1913.
^ Op.cit. pp. 216-217.
^ Op.cit., pp. 217-218.
^ Op.cit. Ibidem
^ G.Galilei, Il Saggiatore, Cap. VI
^ M. De Miceli (a cura di), Leonardo da Vinci, l’uomo e
la natura, Feltrinelli, Milano 1984, p. 50
^ Op.cit. ibidem
^ A. M. Brizio (a cura di),Scritti scelti di Leonardo da
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^ G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del
Rinascimento, cit., pp. 181-182
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^ Filippo Bottazzi, Leonardo da Vinci anatomico, cit.:
«nel codice della Biblioteca Nazionale di Napoli, che ha per titolo Itinerario
di Monsignor R.mo et Ill.mo il Cardinal da Aragona mio Signore. Incominciato
dalla città di Ferrara nell’anno del Salvatore 1516, del mese di maggio et
descritto per me Dom. Antonio de Beatis Clerico melfictano, si legge: “Questo
gentilhuomo [Leonardo] ha composto di notomia tanto particolarmente con la
demostrazione di la pictura sì de membri come de muscoli nervi vene giunture
d’intestini et di quanto si può ragionare tanto di corpi de huomini come di
donne, de modo non è stato mai anchora facto da altra persona. Il che habbiamo
visto oculatamente et già lui disse haver facta notomia de più de XXX corpi tra
mascoli et femine de ogni età”» (Cfr. G. Uzielli, Ricerche intorno a Leonardo
da Vinci Roma 1884, seconda edizione, serie prima, vol. I, pp. 119 e 128)
F. Bottazzi, Leonardo da Vinci anatomico, in «Archivio di
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Scienza e tecnologia Il segreto di Leonardo: era sia mancino che destro. Ecco
perché
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ritratto fatto a Isabella d’Este.
^ Isabella
d’Este: dopo 500 anni trovato il ritratto di Leonardo.
^ Sposa Lucia
Zosi, figlia di Ser Piero Zosi da Bachereto, *1392 † ca. 1469.
^ 1 sp. Albiera
Amadori *1436 †1464
2 sp. Francesca
Lanfredini *? †1473
3 sp.
Margherita *1458 †1486
4 sp. Lucrezia
Cortigiani *1464 † post 1520
^ Sposa Elisabetta
Cantucci.
^ 1 sp.
Lucrezia
2 sp. Caterina
Martini
^ Sposa
Spinetta Tesi.
^ Sposa Anna
Salomoni.
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genealogico di Leonardo: una madre schiava e 21 fratelli, su LaStampa.it,
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La vita non si incatena in un corpo mortale, ma
è eterna: questo, in sintesi, il significato del Rito appena celebrato. Si può
uccidere una persona fisica, la morte di persone care è esperienza di tutti i
giorni, ma la Vita non può essere uccisa e non conosce corruzione. Così essa
continua sotto nuove forme, arricchita ogni volta di più dalle esperienze umane
di quanti sono stati da essa permeati ed attraversati. L’insegnamento di chi ci
ha preceduto, infatti, è parte del nostro patrimonio genetico e noi siamo la
somma di tutti quelli che sono stati prima di noi. Questo è il senso del Rito
di Hiram: il Maestro non è più fisicamente, ma la sua arte continua nei
fratelli che ne seguono le orme; Hiram è in ognuno di noi, Hiram è ognuno di
noi.
Hiram, perfezionando se stesso, aveva
conosciuto la Parola Perduta. Questa, nella tradizione ebraica, è il Nome
stesso di Dio. Conoscere la Parola Perduta equivale a conoscere Dio, quindi
innalzarsi oltre il limite umano per confondersi nella eternità. II mistero che
noi celebriamo, pertanto, è (essenza della perfezione raggiungibile con la via
iniziatica. Fine di ogni Massone è arrivare a conoscere e comprendere la Parola
Perduta, grado supremo di perfezione, vera illuminazione. In essa il chiarore
terreno si oscura, la grandezza svanisce, fumano si deifica, (ignoto diviene
conosciuto. La Parola Perduta non si acquista con il denaro, non si rapisce con
la violenza, ma si raggiunge con (esercizio interiore, con la conoscenza di sè.
Arricchire al massimo la propria conoscenza è il motivo che ci spinge a
riunirci. Arricchendo al massimo la propria conoscenza si riesce a rendere sinceri
i propri pensieri, dopo di che si arriva a perfezionare la propria persona;
perfezionata la propria persona si riesce a regolare la propria famiglia;
regolata la propria famiglia si riesce a mettere ordine nello Stato; messo in
ordine lo Stato, si arriva a garantire la pace nel mondo. Sono parole di
Confucio, il grande illuminato che non poteva di certo conoscere la Massoneria,
ma proprio perchè illuminato ha mirabilmente compendiato quelli che sono i
Doveri Massonici verso se stessi (la conoscenza di sè per perfezionarsi), verso
gli altri ( (armonia dei rapporti con la famiglia e con la propria comunità
civile), verso la Divinità (il trionfo della pace e della concordia universale,
secondo le leggi del Grande Architetto dell`Universo: Forza, Bellezza,
Armonia). La Rivoluzione Massonica nasce tutta nel Gabinetto di Riflessione:
beato quel Maestro che ha (umiltà di tornare apprendista, perchè tutta fante
moratoria è riuscire con precisione a digrossare la pietra grezza.
Nei suoi viaggi simbolici il caro fratello
…… ha meditato su un quadro: Gli Iniziati.
Che significato ha questa parola, troppo spesso
usata in modo improprio? Cos’è (Iniziazione? Noi diciamo che (iniziato è colui
che viene introdotto ad un mistero che, nel nostro caso, rappresenta il Gran
Segreto della Massoneria. Questa frase, in sè oscura, ha rappresentato nei
secoli la nostra condanna nel mondo profano e noi siamo stati tacciati di
“occultismo” nel senso peggiore del termine. E ancora oggi dire di
uno “è un iniziato” evoca, nell’immaginario collettivo, oscure trame
di magia, potenze nfemali e riti tenebrosi. Noi, che abbiamo avuto anche il
coraggio di non accettare un volgare pregiudizio, sappiamo che le cose stanno
in tutto altro modo. Gli iniziati, per noi, sono coloro che, lavorando
quotidianamente sulla pietra grezza, riescono a formare una pietra cubica, un
elemento utile di costruzione. L’iniziato è un mattone del mondo. E come le
pietre accuratamente lavorate riescono ad innalzare opere architettoniche
stupende, così gli iniziati, uniti insieme, riescono a formare il tempio vivo
dell’umanità. Un personaggio storico di questo secolo t ha detto che
“Occorre trasformare il mondo da Selvatico in Umano, da Umano in
Divino”. In questa frase è racchiuso il lavoro moratorio, che consiste nel
trasformare se stessi per conquistare dapprima una dimensione di uomo e,
successivamente, una dimensione super umana, cosmica: una dimensione, oserei
dire, senza dimensioni, perchè il vero iniziato non ha limitazioni nè di tempo,
nè di spazio, ma resta vivo e palpitante in eterno, patrimonio incorruttibile di
tutta (umanità. In questi termini, all’interno di una società iniziatica non
possono esistere fazioni politiche, religiose o di altra natura, perchè è un
assurdo in quanto esse rappresentano solo un dato contingente, temporale,
finito. Esse appartengono alla storia, non sono (assoluto. L’iniziato, invece,
è (assoluto: oggi, infatti, a distanza di secoli e di millenni parliamo di
Socrate, Pitagora, Platone, Dante, Voltaire, e tanti altri ancora come di
nostri contemporanei, tanto attuale è il loro insegnamento. Al contrario, di
certo il nostro cuore non si infiamma più per questioni che pure hanno
rappresentato fatti storici importanti: il fascismo ed il comunismo, ad
esempio, a noi così storicamente vicini, sono solo un ricordo dalle tinte
attenuate che nulla più ci dice, perchè ormai essi sono privi di qualsiasi
attualità.
Per noi che vogliamo essere iniziati è
necessario compiere ogni giorno i viaggi simbolici dei nostri gradi: in essi è
racchiusa la Chiave Perduta. I nostri riti simbolici ci riconducono tutti ad
una pratica importante, quella di conoscere noi stessi, perchè quanto più
riusciamo a penetrare nel nostro intimo, tanto più ne traiamo (energia capace
di rivoluzionare noi e gli altri. Questa energia è (Amore, che non è
semplicemente bontà di cuore, benevolenza, simpatia, attenzione verso gli
altri, ma è sensibilità ad ogni frammento della realtà, dentro e fuori di noi.
Caro Fratello ……, allora, se vuoi possedere
il mondo, se vuoi pervenire alla Verità, se vuoi tu stesso essere Verità e
Luce, hai un solo strumento nelle tue mani, il Cuore. Comincia ad Amare, non
come un profano lo intende, e ti sarà svelato il Grande Segreto!
Le Piramidi Egizie di Giza, Saqqara, Dahsuhr e Meidum
Piramide a Gradoni di Saqqara
Non esiste un
solo articolo che possa soddisfare tutti gli interrogativi riguardanti le
piramidi. Di seguito troverete un esempio delle domande piú comuni e relative
risposte.
Quante piramidi ci sono ?
Esistono numerose strutture che hanno/avevano forma
piramidale. Le piramidi autentiche, tuttavia, sono quelle costruite con solidi
massi di pietra, e di queste ve ne sono dieci.
Parlami di queste autentiche piramidi in pietra
Queste dieci piramidi sono situate entro 80 chilometri
(50 miglia) l’una dall’altra e sono state tutte costruite durante la Terza e
Quarta Dinastia . In poco piú di un secolo, per la costruzione di questi
monumenti piramidali, sono state utilizzate venticinque milioni di tonnellate
di pietra calcarea. Dopodiché, durante la Quinta Dinastia e quelle che
seguirono, vennero innalzate piramidi prive di tale elemento di autenticitá.
Che materiale veniva quindi utilizzato per la costruzione
delle piramidi non originali?
Queste venivano edificate impiegando pietrisco e sabbia,
compressi tra i muri di pietra. In molti casi , non ne resta che un cumulo di
pietrame, dato il rapido deterioramento che questo tipo di costruzione subisce
in seguito alla perdita o al grave danneggiamento del rivestimento.
Quale é la differenza tra queste piramidi fasulle e di
qualitá scadente e le precedenti piramidi in pietra?
La struttura interna delle piramidi piú recenti
differisce completamente da quella delle grandi costruzioni piramidali
originarie. Le piú recenti ospitavano gli usuali ampi corridoi, le camere per
l’offerte ed altri siti con funzione funeraria comuni ad entrambe le tipologie.
Senza ombra di dubbio le piramidi piú recenti furono costruite come struttura
con la sola ed unica funzione di complesso funerario.
Puoi elencarmi brevemente, in ordine cronologico, i
faraoni per i quali sono state costruite le dieci piramidi ?
L’epoca delle piramidi ebbe inizio con il faraone Zoser,
al quale si puo’ attribuire la costruzione delle camere sotterranee ed il
successivo innalzamento della piramide al di sopra delle stesse. Tuttavia, le
altre nove piramidi sono completamente prive di una qualsiasi iscrizione
ufficiale. Esse sono state attribuite ad alcuni faraoni in particolare
basandosi esclusivamente su alcune costruzioni e tombe collocate nelle aeree
circostanti che godono di un riferimento indiretto ai nomi di questi regnanti,
sebbene non menzionati quali autori di queste piramidi.
Per l’elenco dei diversi faraoni, fare riferimento alla
sezione Interrogativi Comuni sull’Antico Egitto
Come hanno fatto a costruire la piramide a gradoni?
Potete trovare la risposta nella sezione La Risposta
degli Studiosi agli Interrogativi Comuni – Antico Egitto
Potete trovare le risposte alle seguenti quattro domande
nel nostro libro ‘Pyramid Handbook’.
Le piramidi
erano tombe?
Allora, dove
seppellivano gli antichi egizi i propri sovrani? (L’Epoca delle Piramidi
2630-2472 a.C.)
Come seppellivano
i loro re a quei tempi?
Come si
distinguevano le piramidi dalle usuali tombe regali di allora?
Che cosa é la “Sepoltura Doppia”?
Pare che durante le prime dinastie, i re avessero due
‘tombe’; una nel nord a Saqqara ed un’altra nel sud ad Abydos. Piú bizzarro
ancora é il fatto che in molti casi non si é riusciti a trovare alcuna traccia
a testimonianza di un’effettiva sepoltura in nessuna delle due tombe!
Mi sfugge la logica
Alcuni studiosi hanno spiegato questo fenomeno della
sepoltura doppia quale mossa politica atta a conservare l’unitá tra nord e sud
mediante la sepoltura del re in entrambi i luoghi. Altri ricercatori, tuttavia,
ritengono che la separazione tra nord e sud abbia un significato spirituale
piuttosto che politico. Queste tombe separate potrebbero aver voluto
rappresentare il principio del Sole a nord e quello della Luna nel sud. In
termini metafisici, si trattava di una rappresentazione della natura dualistica
dell’universo (potete trovare ulteriori informazioni al proposito nel nostro
libro Egyptian Cosmology: The Animated Universe, di Moustafa Gadalla.
Chi sono coloro che hanno costruito le piramidi?
Non esiste quasi alcuna informazione storica sui
costruttori delle piramidi. La teoria della presunta ‘tirannia di Cheops
(Khufu)’ citata dallo storico greco Erodoto (500 a.C. circa) gode di ampia
popolaritá e, a volte di rinnovate ed elaborate versioni, negli ambienti degli
scrittori non storici.
Innanzitutto, non esiste alcuna prova a sostegno
dell’ipotesi che esistessero persone obbligate a lavorare contro alla propria
volontá. Anzi é addirittura molto piú probabile l’ipotesi contraria. A rigor di
logica, quella del prestazione di manodopera volontaria é una teoria sensata.
Ció non é difficile da comprendere una volta scartata la nozione della piramide
quale mera tomba. Il solo livello qualitativo riconoscibile nel lavoro prestato
per l’edificazione di queste strutture suggerisce la partecipazione di
lavoratori orgogliosi della propria opera.
In secondo luogo, alcuni studiosi, hanno messo in dubbio,
con ragione, la nozione del lavoro forzato alla luce del potenziale pericolo
esplosivo costituito dal tentativo di controllo, in un’area circoscritta, di un
sí vasto numero di schiavi scontenti.
In terza istanza, Erodoto stesso scrisse che, secondo
quanto raccontatogli dalla propria guida egizia, Snefru, predecessore di Khufh,
era un buon sovrano. Ebbene, le tre maestose piramidi di Dahsuhr e Meidum,
attribuite a Snefru, richiesero molti piú massi di pietra e lavoro di quelli
necessari per la costruzione della stessa Grande Piramide. Ci troviamo dinnanzi
ad un’esplicita contraddizione relativamente al racconto di Erodoto e la
distinzione tra regnanti ‘buoni’ e sovrani ‘tirannici’.
E a proposito di quelle rampe temporanee che si dice gli
antichi egizi usassero per costruire le piramidi ?
Non si tratta che di un’invenzione che, peró, é stata
ribadita con insistenza tale da divenire realtá per molti.
Erodoto non hai mai menzionato queste rampe. I suoi
resoconti storici descrivono la tipica rampa processionale in pietra situata
tra la base della piramide ed il Tempio a Valle. Tale rampa rappresentava un
elemento fisso che, come descritto da Erodoto, misurava 1006 metri in
lunghezza, 18 metri in larghezza e 15 metri in altezza.
Molti studiosi preferiscono credere che l’unico modo in
cui le piramidi possano essere state costruite fosse mediante l’impiego una
rampa provvisoria allungata ed allargata, man mano che si procedeva ai livelli
successivi della struttura piramidale.
E’ perlomeno possibile considerare questa ipotesi
veritiera ?
No.
Coloro che continuano a credere nella teoria della rampe,
fanno riferimento alla rampa di fango trovata presso la piramide di Sekhemket a
Saqqara. La lunghezza di questa rampa non era che di 7 metri, e vi caricavano
blocchi di 25 x 15 x 10 cm del peso di 22-45 kg ciascuno. Non esiste paragone
con l’altezza della piramide di Khufu (147 metri) e massi che pesano da un
minimo di 2 tonnellate e mezzo ad addirittura 70 tonnellate cadauno.
L’ingegnere civile danese P. Garde-Hanson, ha calcolato
che una rampa costruita sino a raggiungere la cima della piramide avrebbe
richiesto piú di 13.3 milioni di metri cubi di materiale ( un quantitativo di
sette volte superiore a quello richiesto per la costruzione della piramide
stessa). Ai fini della costruzione di un rampa simile, sarebbe stato necessario
reperire, all’interno del regno di Khufu, una manodopera complessiva di 240.000
lavoratori.
Per smontare la rampa, a completamento della piramide,
sarebbero stati necessari 300.000 lavoratori ed altri otto anni. Un
quantitativo di rimanenze di tale dimensioni non é riscontrabile in nessun
luogo nelle vicinanze e non é mai stato denunciato da nessun ricercatore
storico; privando quindi questa teoria di un qualsiasi fondamento di
credibilitá.
Avendo raggiunto queste cifre inverosimili, Garde-Hanson
valutó l’ipotesi dell’utilizzo contemporaneo di una rampa e di un meccanismo di
innalzamento. Egli teorizzó l’esistenza di una rampa che arrivava a metá
dell’altezza della piramide. Al raggiungimento di tale livello il 90% di tutto
il materiale necessario all’edificazione della piramide sarebbe giá stato
utilizzato. Il secondo elemento innovativo di quest’altra teoria, ovvero il
misterioso meccanismo di innalzamento, rimaneva ed é tuttora una questione
irrisolta.
Ipoteticamente e in linea con le teorie avanzate da
Garde-Hanson, provate ad immaginare queste cifre gastronomiche: 4.000 scavatori
di pietra impiegati dodici mesi all’anno con una produzione giornaliera di 330
blocchi. Durante la stagione delle inondazioni, 4.000 blocchi vengono
trasportati quotidianamente sino al Nilo, che attraversano caricati su chiatte,
e poi trasportati sulla rampa sino all’altopiano di Giza e poi collocate nel
cantiere – ad una velocitá di 6.67 blocchi a minuto! Provate ad immaginare:
6.67 blocchi in 60 secondi ! Ció é impossibile. Questa é un’ulteriore
considerazione a scapito della credibilitá delle teorie dell’estrazione ed
utilizzo della rampa.
Ancor piú inverosimile é il caso di Snefru (padre di
Khufu). Se si vogliono attribuire le due principali piramidi di Dahshur a
Snefru, ed eventualmente una terza situata a Meidum, ne conseguirebbe che
Snefru, durante i suoi ventiquattro anni di regno, deve essere considerato responsabile
per l’estrazione, il trasporto, ed il rivestimento di quantitativi di materiale
di diverse volte superiori a quelli impiegati per la costruzione della Grande
Piramide. Pur tentando di indagare i dettagli logistici di una tale opera in
termini moderni, si tratta di un impresa irrealizzabile.
Allora come furono costruite le piramidi ?
Trova la risposta, sorprendentemente semplice, nel nostro
libro Pyramid Handbook.
Qual’e’ la verita’ relativamente all’ipotesi in base alla
quale gli antichi egizi cambiavano idea e quindi abbandonavano le loro opere
precedenti ?
La teoria dell’abbandono rappresenta il mezzo di fuga
usualmente adottato da coloro che hanno votato per un’opzione senza prima aver
valutato tutte i fatti. Una volta giunti alla conclusione in base alla quale le
piramidi non rivestivano altra funzione se non quella di tombe, si sono visti
costretti a contorcere il significato delle prove affinché esse potessero
adeguarsi in modo coerente alle proprie teorie insistenti. Nel processo, la fabbricazione
di risposte fittizie non ha creato loro alcun problema. Queste particolari
deviazioni di pensiero hanno riguardato entrambe le principale piramidi di Giza
e Dahshur, completamente prive di alcuna prova di sepoltura, e quasi tutte le
altri piramidi.
Quale logica puó esserci, alla luce del fatto che le
piramidi di Giza e Dahsuhr sono superiori alle strutture di forma piramidale
costruite nei periodi successivi sotto ogni punto di vista; per dimensioni,
fattura e particolari.
Quale ricca fonte di informazioni, con risposte a piú di
250 domande sulle piramidi, vi invitiamo a leggere Pyramid Handbook, di
Moustafa Gadallla.
In seguito alla lettura di questo libro, potete inviarci
i vostri messaggi in posta elettronica per eventuali domande o pareri. Le
vostre opinioni / commenti devono essere sostenute da prove concrete e non
riferirsi a mere intuizioni.
Piramide di Khufu, si possono vedere entrambe le entrate
(originale e forzata)
Dal pianto per
Hiram al trionfo dell’Uomo VeroI
GRADI INTERMEDI DEL RITO SCOZZESE
Parrà strano che soltanto sette
dei trenta gradi del RSAA – che peraltro giunge al 33° grado, cominciando
la numerazione dal quarto – siano effettivamente praticati, ovvero
esercitati mediante una costante pratica rituale nelle rispettive officine,
che rispondono alla denominazione di Loggia di perfezione per i gradi 4° e
9° (Maestro segreto e Cavaliere eletto dei Nove), Capitolo
per il 18° (Sovrano principe Rosa+Croce, Cavaliere dell’Aquila e del
Pellicano), Areopago per il 30° (Grande Eletto Cavaliere Kadosh,
Cavaliere dell’Aquila Bianca e Nera), Tribunale, Concistoro e Supremo
Consiglio per i tre gradi al vertice della piramide scozzese (Grande
Ispettore Inquisitore Commendatore, Sublime Principe del Real
Segreto, Sovrano Grande Ispettore Generale).
Per capirne le ragioni basterà
tenere conto della natura composita del RSAA, scaturito nel XVIII secolo
dall’esigenza di sovrapporre ai tre gradi simbolici originari della
Massoneria (Apprendista, Compagno e Maestro, numerati
da 1 a 3) una serie ulteriore di esperienze tendenti a esprimere in un
comune disegno iniziatico una ritualità proveniente dalle maggiori correnti
di pensiero della tradizione occidentale, quali la cabala, l’alchimia, il
rosacrocianesimo, il templarismo, l’ermetismo e il cristianesimo stesso
nella sua complessità.
E’ stato già spiegato e torniamo a sottolinearlo che i gradi al di fuori di quelli
regolarmente praticati non devono considerarsi una pura virtualità. Al
contrario, pur essendo comunemente definiti “dissueti”, questi
gradi intermedi rappresentano con il loro patrimonio di simboli e di storia
una continuità indispensabile alla coerenza filosofica dell’itinerario
iniziatico scozzese. La loro conoscenza anche rituale è dunque
richiesta per l’accesso ai gradi successivi. E’ per questo che l’iniziazione
al 9° grado, al 18° e al 30° presuppone in concreto una investitura
propedeutica di titoli e dignità dei gradi antecedenti, che si traduce nel
dovere sostanziale di studiarne la ritualità approfondendone il significato
storico e leggendario.
Ed ecco qui di seguito una
sintesi essenziale di tali significati:
5° Maestro perfetto.
Dopo laffidamento in custodia ai Maestri segreti della tomba di Hiram (4°
grado) si procede alla costruzione in un luogo nascosto e inaccessibile del
mausoleo dedicato al Maestro assassinato. Il lavoro viene svolto dai
Maestri perfetti, che con la loro attività simboleggiano l’intento di
superare il lutto e il dolore mediante la rigenerazione iniziatica. E’
un lavoro che richiede saggezza, potenza interiore, propensione al bene.
6° Segretario Intimo,
Maestro di Curiosità. Il Re Salomone viene affrontato dal Re
Tiro, che arrogantemente gli contesta il prezzo pattuito per l’acquisto dei
cedri del Libano necessari alla costruzione del Tempio. Il segretario di
Salomone interviene in difesa del suo re, violando in tal modo il
protocollo. In realtà non avrebbe dovuto ascoltare quello che si dicevano i
due re, né tanto meno interloquire, ma Salomone lo premia ugualmente per la
sua fedeltà, nominandolo Segretario intimo. E’ un apprezzamento per
stimoli talvolta negativi, come la curiosità e liniziativa impulsiva, che
in determinati casi sortiscono effetti positivi.
7° Prevosto o Giudice.
Re Salomone sceglie tra gli operai addetti alla costruzione del Tempio
i più saggi, perché siano preposti al controllo dellopera e
allamministrazione della giustizia tra i lavoranti. La doppia
responsabilità di guida tecnica dei lavori e garante del giusto implicano un
approccio diretto con le leggi della natura, nelle quali si riconoscono
sia la scienza che il diritto.
8° Intendente agli
Edifici. Salomone fonda la scuola di Architettura per formare i
grandi dignitari del regno, ma liniziativa fallisce perché non si tiene
nel dovuto conto leguaglianza umana. La ritualità del grado insegna che
non bastano il censo e lappartenenza a una classe dominante per conseguire
la saggezza. E neanche lo studio appare risolutivo se non si hanno doti
proprie. Il cenno alluguaglianza va interpretato come preambolo di
fratellanza: di un accordo, cioè, che consenta una distribuzione dei
ruoli commisurata alle capacità di ciascuno.
10° Illustre Eletto dei
Quindici.
E il momento della giustizia incompiuta. Dopo la caccia ai tre
assassini di Hiram e luccisione del primo di essi ad opera del cavaliere
Jhaobert (9° grado) ne restano liberi due, rifugiati nel regno di Geth. Re
Salomone invia quindici maestri a cercarli. Questi ne ottengono
lestradizione e li consegnano a Salomone, che li condanna a morte. E
unoperazione di polizia internazionale, nel segno del diritto e della
rigenerazione. Il lutto per la morte di Hiram acquista un nuovo
significato in questottica di riscatto. La morte dei compagni che
tradirono segna la fine delluomo terrestre con i suoi limiti.
11° Sublime Cavaliere
Eletto. Salomone sceglie dodici eletti tra i quindici maestri
che portarono a compimento la missione precedente per affidare loro il
governo delle dodici tribù dIsraele. E una lezione sulla ricompensa
per i giusti e sulla garanzia che essi offrono come tutori dei destini
di un popolo. La leggenda acquista ora, dopo la rigenerazione, una corda in
più: quella del sociale.
12° Gran Maestro Architetto.
Lamministrazione dei fondi destinati alla costruzione del Tempio è carente
dopo la morte di Hiram. Ne consegue che i lavori debbano essere sospesi, ma
riprendono dopo che le dodici tribù eleggono dodici architetti mediante un
concorso che prevede lelaborazione di un nuovo piano finanziario.
Lobbiettivo è determinazione di equi tributi e possibilità di sgravio. Ne
deriva una lezione di democrazia sulle prerogative che una libera
elezione
conferisce.
13° Cavaliere dellArco
Reale. E il grado che simbolizza la ricerca esoterica dei
costruttori: Salomone affida a tre architetti il compito di ritrovare il
sacro Delta e altri simboli dellArte reale sotto i nove archi del Tempio.
La ricerca premia la scienza e lintuizione dei maestri, che recuperano insieme
al Delta la Colonna di Bronzo, emblema di progresso umano. Qui linsegnamento
filosofico si distacca dalle contingenze operative per volgere verso la
trascendenza, lintuizione metafisica, il sogno rivelatore. E il grado
che conclude la prima fase della via iniziatica scozzese, perfezionando un
nuovo apprendistato.
14° Grande Eletto della
Volta Sacra o Grande Eletto Perfetto e Sublime Muratore. Un
leone difende lArca sacra del Tempio mettendo in fuga i guerrieri assiri,
che dopo avere sconfitto lesercito dIsraele tentavano dimpossessarsene.
Il leone rimane a guardia dellArca tenendo la chiave tra le fauci per poi
restituirla al Gran Sacerdote Mosé, detentore della parola sacra che
corrisponde al “nome indicibile” di Dio. E il grado che segna il
raccordo tra la prima e la seconda fase dellitinerario
scozzese affermando una filosofia che tende al superamento dei limiti
metafisici connessi allincapacità profana di pronunciare il nome della
divinità. Liniziato è ora un Uomo Vero, in grado di divenire Uomo
Trascendente.
15° Cavaliere dOriente
o della Spada. Iniziano a questo livello i gradi capitolari,
che ripropongono lesperienza muratoria di compagno darte (2° grado) a più
elevati livelli di conoscenza, così come i gradi di perfezionamento (dal 4°
al 14°) avevano riproposto quella di apprendistato. Il grado sispira alla
schiavitù in Babilonia del popolo ebraico, alla sua liberazione e alla
ripresa dei lavori del Tempio. Difficoltà e continue aggressioni da parte
dei Samaritani inducono gli operai a farsi anche guerrieri, e a
destreggiarsi nelluso della spada oltre che della cazzuola. E una
verifica dura, che liniziato deve affrontare mediante un esame di
coscienza volto ad accertare quanto sia in grado dintraprendere i lavori
per la costruzione del Tempio. Il superamento della prova segna il
trionfo di unidea pura e meravigliosa attraverso le virtù massoniche di
volontà e perseveranza.
16° Principe di
Gerusalemme. Per poter continuare la costruzione del Tempio il
re Zarobabel, che ha guidato il popolo dIsraele verso la liberazione,
invia una delegazione al re Dario per chiedergli aiuto contro gli assalti
dei Samaritani. E una scelta di giustizia ed umiltà, che insegna come
si debba ricorrere a ogni aiuto in difesa della propria libertà. Il
capo della delegazione è insignito del titolo di Principe di Gerusalemme.
Allo scenario biblico si sovrappone così una connotazione cavalleresca:
linvestitura sul campo del combattente intervenuto in difesa di una giusta
causa. Alcuni esegeti linterpretano come unallusione alla nascita
dellOrdine templare, che però sarà più evidente nel grado successivo.
17° Cavaliere dOriente
e dOccidente. Un nuovo dramma interrompe la costruzione del
Tempio: Gerusalemme è conquistata dai romani. Gli ebrei si rifugiano nel
deserto, dove fondano le società dei Terapeutici e dei Giovanniti. E un
chiaro riferimento al templarismo e ai rapporti intercorsi tra i cavalieri
del tempio e gli eremiti del deserto, depositari dellinsegnamento di
Giovanni di Patmos, da intendersi come pura fede nel GADU. E il grado
della rigenerazione dopo la catastrofe. La denominazione richiama la
possibilità che lOrdine del Tempio possa essere scaturito dallincontro
tra Cavalieri dOccidente e Cavalieri dOriente. Sarebbe tuttavia un errore
dedurne che la Massoneria possa considerarsi una derivazione dellOrdine
templare. Semmai è il contrario: è lOrdine del Tempio che nasce dalla
rivelazione giovannita.
19° Gran Pontefice
della Gerusalemme Celeste o Sublime Scozzese. Inizia dopo
lesperienza rosacrociana (18° grado) il cammino dei gradi filosofici, nel
corso dei quali si compie levoluzione della maestria fino alla soglia
della suprema iniziazione Kadosh (30° grado). La leggenda cui sispira è
quella di Orazio Coclite, che per salvare Roma dallinvasione di Porsenna
si attesta sullunico ponte praticabile, ordinando ai soldati di tagliarlo
alle sue spalle. In questo sacrificio è la metafora del coraggio
consapevole. I simboli del grado (una donna velata con la fiamma
in testa e lo specchio in una mano, il Delta nellaltra) illustrano la
necessità di scoprire in se stessi la verità occultata.
20° Venerabile Gran
Maestro a vita, Maestro di tutte le Logge. Prosegue la ricerca
della verità velata, estendendosi però dallinteriorità delluomo al mondo
esterno. I savi caldei scelgono nel deserto gli oratori in grado di
scoprire il vero. E presente la medesima statua velata del grado precedente,
ma per poterla scoprire si devono compiere dei viaggi, che simbolizzano la
necessità di una proiezione universale della conoscenza.
21° Noachita o Cavaliere
Prussiano. Vè una strana commistione di leggende allorigine di
questo grado, la cui tematica spazia dalla tradizione biblica alle
crociate. La società dei Noachiti (discendenti di Noè) accoglie i
discendenti di Adonhiram, costituendo allepoca delle crociate un Ordine
dei cavalieri prussiani. Uno di questi cavalieri è ingiustamente privato dei
suoi beni tramite un documento falso, ma otterrà giustizia dal tribunale
dei Franchi Giudici. Il significato è da collegare allantecedente ricerca:
non basta trovare la Verità, bisogna sconfiggere il Falso.
22° Cavaliere
dellAscia Reale, Principe del Libano. Lo scenario è ancora
quello delle crociate, dispirazione palesemente templare: i cavalieri
cristiani dellAscia si incontrano con i drusi ismaeliti per uno scambio di
conoscenze esoteriche. Seggono a una Tavola Rotonda, simbolo darmonia
universale, e insieme abbattono alla radice lalbero dellignoranza. Lincontro
Occidente-Oriente è tra i temi essenziali della tradizione templare.
23° Capo del
Tabernacolo.
Ritorno alla leggenda di Hiram:
il figlio del maestro assassinato dal pregiudizio e dallignoranza
distrugge lidolo del dio Coccodrillo (egizio) e lara sacrificale del dio
Moloch (ammonita), cui venivano sacrificati bambini. La leggenda
rappresenta unaltra angolazione della ricerca della Verità:
labbattimento degli idoli.
24° Principe del Tabernacolo.
Un maestro viene ammesso in un luogo sacro per essere elevato a
Sacerdote (illuminato). E anche questa una rappresentazione della ricerca
della Verità: dopo la distruzione degli idoli dentro se stesso luomo è
pronto a essere istruito alla conoscenza dellimmutabile libro della
natura. E un richiamo di stampo illuminista alla necessità di cercare
attraverso la Ragione un corretto approccio con la Natura.
25° Cavaliere del
Serpente di Bronzo. E un grado che fonde nei suoi simboli tradizione
biblica e moderno anelito al progresso scientifico. Mosè fa porre un
Serpente di Bronzo su unantenna di rame perché guardandola si possa
guarire dal morso dei serpenti ardenti, mandati come flagello dal Signore.
Vè un nesso con le crociate, con riferimento a una confraternita
cavalleresca del Bronzo con finalità ospitaliere. Ma il significato di
fondo è da ricercare nello sforzo intellettivo di chi ricorrendo alla
scienza (bronzo su antenna di rame) produce una energia radiante (la
scossa elettromagnetica provocata dallantenna). Non è da sottovalutare lallegoria
libertaria della lotta contro i serpenti, emblema di tirannide.
26° Principe di
Compassione o di Grazia, Scozzese Trinitario. E il trionfo
dellUomo di Verità (Ameth) che si riconosce nellarmonia tra
lintelligenza e il potere orientato verso un giusto fine. E lanima che
si esprime nellequilibrio tra principio di vita e potere intellettuale.
La sua ritualità prevede una simbologia apocalittica orientata in chiave
rigeneratrice: il Mistico Agnello è disteso sul Libro di Vera Luce o dei
Sette sigilli.
27° Gran Commendatore
del Tempio. Per il suo intento di commemorare la tragedia dei
Templari è il grado che con maggiore evidenza anticipa lo spirito del 30°.
Ritorna tra gli altri simboli la statua velata con lo specchio. Il
velo è rosso, bianco e verde. Il che potrebbe voler costituire una variante
risorgimentale (ma non è provato) sulla ispirazione templare. Liniziazione
avviene mediante lo scioglimento di corde che avvincono il neofita, perché
comprenda la differenza tra schiavo ed uomo libero.
28° Cavaliere del Sole
o Principe Adepto. Nel santuario governato da Adamo e custodito
da un sorvegliante chiamato Fratello Verità siedono sette dignitari dai
nomi angelici: Gabriele, Michele, Auriele, Raffaele, Aracchiele, Zachiele,
Amaliele. Ognuno ha la propria corrispondenza coi pianeti, coi minerali, i
colori e gli animali. Il rito evoca la presenza del dio solare Mitra
che sacrifica un toro facendo germogliare spighe di grano dal suo sangue.
29° Grande Scozzese di
SantAndrea. E il grande preambolo alla suprema iniziazione
templare, che avrà luogo nellareopago del 30° grado: vi compare il
Bafometto, simbolo bifronte di sapienza e sincretismo tra le grandi
civiltà contrapposte. Lazione rituale comporta il ritrovamento, durante i
lavori di scavo nel Tempio, delle tre pietre che compongono la Grande
Parola. Ladepto è alla soglia dellimmortalità, raffigurata dalla
croce di SantAndrea. Quattro tau ai lati del Tempio indicano
lassenza di orizzonti, ovvero lapertura universale.
Finiscono con lelevazione al
grado di Grande Eletto Cavaliere Kadosh i gradi “dissueti”, nei
quali ricorrono come si è potuto constatare leggende di origine diversa
ed eterogenea. Figurano nella loro ritualità, accanto agli elementi propri
della leggenda di Hiram, riferimenti allimmaginario templare o
cavalleresco, alle storie vetero-testamentarie ma anche allApocalisse di
Giovanni, a remote forme didolatria e a testimonianze di luce nelle
tenebre di una paganità declinante, come nel caso del culto mitriaco. Non
vè però mai nulla di casuale in tutto questo. Si tratta di storie
da leggere nel loro insieme, ricercando il senso di quellunità che le
indirizza verso un comune fine di conoscenza.
Il puzzle da ricomporre corrisponde
a un preciso disegno nel quale convergono elementi dintrospezione
profonda, dai quali dedurre circostanziate indicazioni sulle chiavi
interpretative da adottare – anche laddove la trama parrebbe, a una
prima lettura superficiale, sconnessa.
(F.C.)