PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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LA SACRA ARTE DLL’ALCHIMIA

La Sacra Arte dell’Alchimia – Paolo Galiano (Edizioni Simmetria)

 

 

 

Nella sua impresa di rivalutazione della figura di Frate Elia, Generale dell’Ordine Francescano ed uno dei primi alchimisti occidentali, Galiano con questo terzo lavoro, dopo la traduzione dello Speculum alchemiae nella sua forma abbreviata da un manoscritto del XVI sec. e del Pretiosum donum Dei nella redazione del XV sec., offre la traduzione dello Speculum alchimiae in forma integrale trascritto da un codice del XV sec. della Biblioteca Nazionale di Firenze, un’opera cospicua che si potrebbe per diversi motivi attribuire a Frate Elia ed invece quasi sconosciuta ai lettori interessati come agli specialisti di storia dell’Alchimia, i quali quasi ignorano questo autore e che solo negli ultimi anni, grazie soprattutto a studiosi italiani come Partini, Capitanucci,  Pereira e Rossetti, ha cominciato ad essere conosciuto.

 

Questo testo, ampiamente citato in manoscritti ben più noti come il Pretiosum donum Dei e i Rosarium philosophorum, ha la peculiarità di essere un’opera di Alchimia “teorica” più che “tecnica”: pochissime le cosiddette ricette presenti nel testo, nel quale sono esposti i sette gradi dell’Opera alchemica con la precisazione dei tempi, dal Solstizio d’Inverno al Solstizio d’Estate, in cui attuare le operazioni che devono essere eseguite da chi vuole giungere all’Oro alchemico, non oro materiale, come spesso specifica l’autore dello Speculum, ma Oro trascendente, fusione del corpo, dell’anima e dello spirito in una sola entità in cui il corporeo è spiritualizzato e lo spirito è corporeificato nella realizzazione del “corpo di gloria” o Androgine perfetto.

 

 

 

Paolo Galiano – La sacra arte dell’Alchimia

 

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SCOPERTO IL PERSONAGGIO CHE ISPIOO ITALO CALVINO

Scoperto il personaggio che ispirò Italo Calvino

di

Aldo Alessandro Mola

“Credo molto nell’individuo, proprio perché mi preoccupo della storia collettiva”. Così scriveva Italo Calvino nell’agosto 1957. Dieci mesi prima i carri armati sovietici avevano schiacciato l’Ungheria insorta contro il totalitarismo comunista, incompatibile con la sua anima di popolo libero, mai piegato neppure dagli Asburgo. Kruscev – proprio l’uomo che aveva denunziato i crimini di Stalin – si comportava da stalinista. Repressione nel sangue d’ogni anelito alla libertà. Dopo mesi di attesa un segnale da parte del PCI di Togliatti e compagni contro il liberticidio sovietico ai danni degli “Stati satelliti”, Italo Calvino ruppe col partito. “Comunista”, del resto, non era mai stato davvero: era entrato nel PCI durante la lotta di liberazione, convinto di trovarvi un più alto livello di rispetto per l’uomo. Scoprì invece.- anche nel famoso viaggio in URSS che lo vide cronista autocensurato – che il totalitarismo rosso era la tromba della libertà, il disprezzo dell’uomo praticato nei gulag non per caso allestiti prima ancora che Hitler impiantasse i lager per concentrarvi e sterminarvi gli oppositori e le “razze inferiori”.

Diffidente, e con buone ragioni, nei confronti dell’altra forma di totalitarismo contemporaneo, la massificazione del puro e semplice “consumo”, una sorta di neomarxismo da grande magazzino, Calvino si tuffò allora nelle radici illuministiche dei principi di libertà. E s’imbatté nella massoneria.

Non fu affatto un incontro casuale. Suo padre, Mario, il celebre agronomo e creatore della moderna floricoltura del Ponente Ligure, così come lo zio, Quirino, era stato tra i fondatori della Loggia “Giuseppe Mazzini”, sorta a San Remo nel 1900. Lì Mario fu “fratello” di suo padre, Gio. Bernardo e di uno zio, entrambi già affiliati a una loggia di Napoli e ora attivi in quella sanremasca. Di più: prima di trasferirsi in Messico e a Cuba (ove nacque Italo), Mario Calvino fu anche affiliato alla “Garibaldi” di Porto Maurizio, a sua volta fondata nel 1900. Per i Calvino Massoneria significava unificazione nazionale, laicismo, utopia riformatrice, emancipazione delle plebi dall’ignoranza e dalla miseria, libera circolazione di uomini e idee e lotta contro ogni forma di tirannide. Non erano solo “parole”. Mario Calvino dette il suo passaporto a un giovane russo che rientrava nei confini dell’Impero zarista per combattervi l’intolleranza (era l’epoca dei pogrom contro gli ebrei) e finì impiccato. I giornali riferirono che l’orrenda fine era toccata proprio all’agronomo sanremasco. Motivo in più, per lui, di accettare l’invito del governo messicano a organizzare l’agricoltura nel Paese di Pancho Villa.

Italo aveva sempre avuto un rapporto difficile col padre: due mentalità, due mondi, due stili di vita. Però sentiva la suggestione dei simboli che i Calvino ponevano sull’ingresso delle loro case, dalla Pigna a San Giovanni, sul fianco della collina di San Remo. Liberatosi dal partito “padre” ideologico e artificioso, come un Guerin Meschino dell’èra atomica Italo andò quindi in cerca dei suoi veri antenati. E s’immerse nello studio dei simboli liberomuratori e di quanti li avevano praticati. Una ricerca fruttuosissima. In parte riversata nel Barone rampante, primo fortunatissimo romanzo della trilogia completata con Il Visconte dimezzato e Il Cavaliere inesistente, pubblicato nel 1957.

Come ora documenta Luca Fucini in Il Barone dell’Impero Tomaso Bd’Olmo (Sorbello editore, via Paleocapa 16/ B, Savona), Cosimo Piovasco di Rondò, il “barone” calviniano, non fu affatto parto di fantasia. Era nientemeno che il maire di San Remo dal 1805: un nobile (creato marchese da Vittorio Amedeo III) apprezzato da Napoleone sin da quand’era generale dell’Armata d’Italia e poi creato barone dell’Impero “con maggiorascato”. Abilissimo – narra Fucini, sulla scorta di documenti inoppugnabili – nel traghettare il Ponente Ligure, e soprattutto la “sua” San remo, dall’esoso dominio di Genova (che nel 1753 gli arrestò il padre e gli impose una pesantisSima “taglia”) all’ingresso nell’Impero di Francia, dal crollo napoleonico al Piemonte in attesa di libertà costituzionali. Non per caso il figlio di Giobatta Borea d’Olmo, Tomaso Pietro Francesco, fu a fianco di Santorre di Santa Rosa ad Alessandria nel moto del 1821. Rampante a sua volta: e sempre verso la libertà. Carbonaro, il giovane cospiratore del 1821 aveva per padre un massone. Tomaso Giobatta, infatti, venne “iniziato” nella loggia di Nizza, “I Veri Amici Riuniti”. Vietata e perseguitata dai giacobini, la Massoneria stava rinascendo sotto la protezione di Napoleone, celebrato come “primo massone” e del resto fratello di “grandi

). e il cui figliastro, Eugenio Beauharnais, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, creato a Milano nel 1805.

Quella massoneria – emerge dal bel lavoro di Fucini – non era però affatto irreligiosa. Fautrice dell’ordine e della legge, essa rispettava la libertà di coscienza dei suoi adepti. Non per caso proprio Giobatta Borea d’Olmo, nel sontuoso palazzo di San Remo (ove ora vive il suo discendente, il duca Guido Orazio, e in cui si trova l’interessante Museo, zeppo di simboli massonici) ospitò papa Pio VII che rientrava dalla Francia verso Roma, per riprenderne il governo temporale.

Il Borea d’Olmo scovato da Fucini nacque 1’8 marzo 1767 e morì il 10 maggio 1838. Calvino fa nascere il suo Barone rampante alla nuova e vera vita – gli spazi celesti sui boschi di Ombrosa, cioè San Remo – il 15 giugno 1767. Il Barone vero e quello apparentemente “fantastico” furono dunque una stessa persona. Nella cappella gentilizia dei Borea d’Olmo, nella chiesa di Santo Stefano a San Remo, ormai bene addentro nella lettura dei “simboli”, Calvino colse l’intreccio degli elementi primigeni: acqua, terra, aria e fuoco, raccolti nello stemma del Barone dell’Impero, sovrastato dall’elmo senza volto del Cavaliere inesistente.

Abilissimo nel ri-velare, cioè nascondere nuovamente, le sue scoperte, i suoi sogni, le sue scorribande nei liberi spazi della fantasia (così remote dallo stalinista Zdanov e dal Togliatti che liquidò senza tanti complimenti l”‘intellettuale” Elio Vittorini), quando approntò di persona un’edizione “scolastica” del Barone rampante e ne scrisse la prefazione col nome anagrammato di Tonio Cavilla, Italo sforbiciò del tutto i capitoli sulle riunioni notturne dei massoni sui boschi d’Ombrosa a cospetto di Cosimo Piovasco di Rondò. L”‘ambiente” torinese in cui lavorava rimaneva succubo della tetra egemonia marx-comunista. Di massoneria – tutt’uno con la nascita della borghesia liberale moderna – non si doveva parlare. E così il Barone rampante continuò a svolazzare per i cieli, lontano dalle miserie della Torino degli anni della contestazione e del sangue. “Andrà sempre peggio”, scrisse ancora Calvino in una lettera che ora compare a cura di Luca Baranelli per IMeridiani di Mondadori. “Più le cose del mondo vanno male, meglio si scrive”. Fedele, insomma, alla sua “missione”: inventare simboli e contrapporre al materialismo incombente il piacere della libertà. Partendo dalla storia, compreso, finalmente, il rapporto con i suoi “Antenati”: il Barone rampante (o dell’Impero) Borea d’Olmo e quelli “di casa”: Mario, Quirino, Gio. Bernardo…recuperati di nascosto nella

 

loro dignità di “liberi muratori”.•

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ASTROLOGIA E MASSONERIA

 

 

 

ASTROLOGIA E MASSONERIA

Harmonia Macrocosmica, Amsterdam, 1660

Autorevoli FF\ LL\ MM\ indicano in modo preciso ed inequivocabile che, perché ci si possa considerare massoni, è tra l’altro indispensabile acquisire una specifica cultura massonica. Niente di più vero ed apparentemente ovvio. Quanti di noi, Fratelli, in tutta obiettività possono affermare di possederla ? Eppure, nei rituali di iniziazione ai tre gradi dell’Ordine, sono contenuti chiarissimi riferimenti ad una cultura che non è profana; i simboli ridondanti che appaiono sia nel Gabinetto di Riflessione che nel Tempio ai vari gradi, sono propri di una cultura di tipo Tradizionale che si perde nella notte dei tempi.

 

Tutto questo è, o dovrebbe essere, stimolo ai Liberi Muratori per studiare, approfondire ed impadronirsi di una messe di nozioni e di una forma mentis tale da appaiarsi a tutti i Fratelli Liberi Muratori che li hanno preceduti nel cammino massonico, per conquistare gradualmente un tipo di conoscenza altrimenti non raggiungibile.

 

Devo concludere che, per quanto riguarda la mia esperienza, non sono molti i Massoni che, con estremo atto di umiltà intellettuale, si rimboccano le maniche e si rimettono a studiare. Richiami in tal senso rimangono, per lo più, inascoltati.

 

Conclusa questa doverosa premessa, della quale chiedo scusa ai Fratelli presenti anche perché anch’io, per un certo periodo, mi sono considerato pago dell’erudizione profana, passo ad esporre il tema di questa tavola: “Astrologia e Massoneria”.

 

Nel Tempio che ci ospita, così come in tutti i templi massonici, sono rappresentati sul soffitto i segni dello zodiaco, che fanno da contorno alla volta stellata; esso zodiaco è il percorso apparente dei sole nell’anno e splende all’Oriente anche per contraddistinguere il nostro tipo di ritualità, che è essenzialmente solare, cioè maschile. È una inequivocabile indicazione che il massone dovrà conoscere i movimenti dei sole, dei pianeti e delle stelle, le leggi che li governano in quantità (astronomia) ed in qualità (astrologia). Niente a che vedere, comunque, con l’astrologia che inonda i mass media e che costituisce il “mestiere” della maggioranza degli astrologi e delle astrologhe moderni.

 

Per entrare nel vivo della materia, e fornire così ai Fratelli che volessero comprendere la vera natura dell’Astrologia ed il suo concreto utilizzo, dico subito che il rituale dei secondo grado, ad esempio, pone in evidenza cinque Grandi dei passato, utili a questo scopo, ed in particolare uno: Paracelso. Si studino attentamente due sue opere fondamentali, il Paragranum ed il Paramirum, con l’accortezza di scegliere le traduzioni più fedeli all’originale. A questi si aggiunga il De umbris idearum dei grande fratello Giordano Bruno, e per incominciare mi sembra che basti.

 

Premessa fondamentale allo studio di questi temi rimane, come pietra miliare, la Tabula Smaragdina o Tavola di Smeraldo, che specifica come tutto ciò che è scienza della natura si riconduca al concetto di unicità dell’Universo esistente:

 

“Così è in alto, così come è in basso, per fare il miracolo della Cosa Unica”.

 

Un’ultima raccomandazione: questi testi antichi, così come gli altri della medesima natura, vanno letti con acume. Cosa significa? Vuol dire introdurre, nel nostro sistema di approccio, di conoscenza, un elemento affatto nuovo nel nostro modo di ragionare. E qui sta la difficoltà. Elemento che il cerebralismo basato non sul vero sperimentalismo, ma sull’empirismo, ha cancellato dal nostro sistema di ragionamento, precludendoci ogni possibilità di approfondimento e di legame tra una realtà fenomenica ed una noumenica, tra una realtà visibile ed una trascendente. O meglio, di una realtà, unica nel suo essere, di cui solo una parte cade sotto i nostri sensi ed è misurabile ed oggettivabile, perché i nostri sensi ce la riflettono contro lo specchio del cervello, ed una seconda che si sfugge perché al di là dei nostri sensi, ma che fa da supporto alla realtà visibile. Questo elemento si chiama “analogia”.

 

Con l’analogia noi stabiliamo dei nessi tra cose disparate, apparentemente lontane fra loro, ma che possono essere rese simili con il procedimento analogico. Per analogia possiamo dire che il cervello, in determinate circostanze, può comportarsi come un apparecchio radio, capace di ricevere e di emettere determinate onde. In questo sistema di ragionamento noi avviciniamo due realtà esteriori, apparentemente lontane fra loro. In ultima analisi potremmo definire l’analogia come un’identità occulta. Questo modo di pensare ci permette di passare da un piano bidimensionale, e quindi di superficie, basato sul sistema induttivo – deduttivo, ad un sistema tridimensionale, deduzione – induzione – analogia.

 

Noi percepiamo una realtà volumetrica. Paracelso ad esempio, quando parla di Geni Planetari, si badi bene, e non di pianeti, non si riferisce ai corpi celesti, bensì alle funzioni fondamentali che si appoggiano, per così dire, a precisi organi dei corpo umano che funzionano, per analogia, come i pianeti che si muovono nello spazio. Conoscendo le leggi che governano questi ultimi, si può risalire alla identità occulta dei nostri organi.

 

Quando Giordano Bruno parla di ombre delle idee, indica le leggi che governano i nostri organi di senso a similitudine degli astri che stano in cielo.

 

La simbologia massonica, quando indica come fondamentale per i lavori di Loggia la compresenza di sette maestri, si attiene strettamente alle leggi di analogia, né più né meno come Paracelso e Giordano Bruno intendevano le funzioni fondamentali del corpo umano.

 

I Liberi Muratori, nel corso dei secoli, hanno conosciuto ed applicato queste leggi in tutte le edificazioni, ed in particolare nella costruzione dei Templi, la cui funzione doveva essere quella di cassa di risonanza per l’uomo, atti a risvegliare quelle funzioni che si trovano nel nostro corpo, per potenziarle nel cammino della “Palingenesi”. Ho ritenuto utile riportare in questa tavola, a titolo d’esempio, l’oroscopo che è sito a San Miniato al Monte edificato dai Benedettini Liberi Muratori e che, tra l’altro, nega la tradizione storica secondo cui, in quel periodo, nel 1207, non esisteva l’Astrologia a Firenze (fig. 1).

 

Sappiamo che molte chiese sono orientate verso Est, come i templi massonici, ma alcune di queste non sono orientate lungo l’asse Est-Ovest e San Miniato ne è un esempio, ne vedremo adesso il motivo.

 

 

 

Figura 1

 

 

 

Questa chiesa è orientata sull’asse dei solstizi, più precisamente sul sorgere eliaco di qualche stella, e molto probabilmente questa stella è Sirio. La parte notevole è che quando il sole si alza, all’equinozio di primavera o di autunno, il primo segno ad essere illuminato è il Toro, così come riporta la più pura tradizione astrologica egizia (1). Il Toro rappresenta il Verbo, le nostre corde vocali, ciò che esce dalla bocca, il Logos. E non è forse vero che il Libero Muratore è costantemente alla ricerca della “parola perduta”?

 

Questo zodiaco è comunque rappresentato in senso antiorario, a significare, per analogia, che le funzioni celesti influiscono specularmente su quelle fisiche. Nel Gabinetto di Riflessione lo specchio dà una precisa indicazione in tal senso.

 

Per concludere, e perché questo mio limitato intervento sia d’ausilio operativo ai Fratelli, devo costatare con piacere che all’Oriente di Milano, tra di noi, ci sono Fratelli che si dedicano all’Alchimia e alla Spagiria, scienze queste ormai neglette e ridicolizzate dalla scienza profana, ma che sono un incommensurabile dono dei Fratelli Liberi Muratori che ci hanno preceduto.

 

Ebbene, la profonda conoscenza dell’Astrologia è essenziale all’operatività alchemica e spagirica. Paracelso lo afferma più volte sia nel Paragranum che nel Paramirum. Tutto ciò potrebbe essere falso e potrebbe essere vero. È dei Liberi Muratori in generale, e dei MM\ AA\ in particolare, l’impegno autoassunto di verificarne la consistenza.

 

Comunque si rammenti che uno dei titoli distintivi degli iniziati di ogni tempo era ‘terapeuta’. Si deve diventare prima terapeuti di se stessi per poi operare “al bene ed al progresso dell’umanità”, così come all’inizio dei nostri lavori sempre ci proponiamo.

 

 

Carlo Paredi

 

 

Manoscritto zodiacale, XVI sec.

 

 

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NOTE A MARGINE DELL’DITORIALE DE”LA CIVILTA’ CATTOLICA “

Note a margine         dll’editoriale de “La Civiltà Cattolica” del 19 giugno 1999

di don Franco Rasi

a rivista di Gesuiti “La Civiltà Cattolica” nell’editoriale del n. 3576 del 19 giugno 1999, prendendo lo spunto da una relazione letta nel settembre 1998 a Rovereto dall’allora Gran Maestro Gaito dal titolo “Spiritualità massonica nella Illusica di Mozart”, non perde l’occasione di riproporre ancora una volta tutto il bagaglio di argomentazioni negative nei confronti della Massoneria. Che lo faccia con maggiore o minore garbo, poco importa. Dipende dalla sensibilità della capacità nello scrivere dell’estensore, che in questo caso si identifica con il direttore del periodico.

Ma la sostanza è sempre la solita: Massoneria e Chiesa percorrono due binari paralleli, destinati a non incontrarsi. Dialogo sì, ma di doppia appartenenza neanche a parlare. Da Clemente XII, passando attraverso Leone XIII, particolarmente astioso nei confronti della Libera Muratoria, sino ad oggi con Giovanni Paolo II, il problema rimane irrisolto. Per quanto il nuovo Codice di Diritto Canonico abbia abolito la scomunica ai cattolici iscritti alla Massoneria, la Chiesa rimane ancorata ai sei nwtivi di condanna che Clemente XII nel 1738 indicò nella sua lettera apostolica “In eminenti” Tutti i sei motivi sono stati studiati e confutati da storici di entrambe le parti. Religiosi come il Gesuita spagnolo Josè A. Ferrer Benimeli o gli italiani Padre Giovanni Caprile o il paolino Padre Rosario Esposito, hanno speso parte della loro vita a studiare e comprendere il “fenomeno” Massoneria. L’ultitno motivo dei sei elencati da Clemente XII appare totalmente assurdo, oggi più di ieri. Rileggiamolo insieme”…(i Massoni sono inoltre colpiti) per altri giusti ragionevoli motivi a Noi noti, abbiamo stabilito e decretato di condannare e proibire detta società di framassoni’

Scrive Don Franco Molinzu-i in un puntuale volume del 1985 dal significativo titolo “Massoneria: cattedrale laica della fraternità”: “…fiumi di inchiostro sono stati versati da storici illustri per inseguire i giusti e ragionevoli motivi, noti solo al Papa. Ma si tratta di andare a caccia di fantasmi’ .

La Chiesa cattolica non ha ancora capito, o le fa comodo non capire, che “La Massoneria non è una religione, nè un sostituto della religione. Essa richiede ai suoi adepti di credere in un Essere Supremo del quale tuttavia non offre una propria dottrina di fede”. (Dichiarazione approvata dalia Gran Loggia Unita d’Inghilterra ne! 1985).

Aggiunge il Grall(le Oriente d’Italia in una dichiarazione d’ identità approvata dalla Gran Loggia nella primavera del 1988: “Essa (Massoneria) lascia a ciascuno dei suoi membri la responsabilità delle proprie opinioni religiose, ma nessuno può essere ammesso in Massoneria se prima non abbia dichiarato esplicitamente di credere nell’Essere Supremo”

Il discorso è talmente chiaro nella sua semplicità che appaiono difficili da comprendere le polemiche al proposito. Quei religiosi che hanno tentato di spiegare l’inutilità delle polemiche non sono stati compresi. La gerarchia non ha voluto ascoltarli. Certo, in passato torti, accuse ed eccessi ci sono stati da una parte e dall’altra. La Massoneria ha sempre dovuto difendersi. A volte poche in verità — l’ha fatto con intelligenza, ma troppo spesso con toni di becero anticlericalismo o con modeste argomentazioni storiche. Per difendersi ha poi compiuto vere e proprie invasioni nel terreno della teologia. accreditando la tesi di una religione massonica altemativa alla cattolica, con tutti i guai che tale falsa ed errata proposizione comporta. La Chiesa ha saputo approfittarne. collocando la Massoneria in un contesto che non le appartiene, ha potuto attaccarla, negandole di tatto il diritto umano fondamentale, quello della libertà di pensiero.

I Massoni non sono i soli ad aver subito questa persecuzione. Anche Galileo. Savonarola, Giordano Bruno, Tomaso Campanella e con loro Ugonotti, Ebrei, Valdesi e via dicendo hanno pagato, anche con la vita, il desiderio naturale di libertà di pensiero. Per molti di loro il Papa polacco si è profuso in mea culpa. Anzi, il Papa intende compiere l’ 8 marzo prossimo, il mercoledì delle Ceneri, durante una celebrazione al Circo MasSimo in Roma, un atto penitenziale con richiesta di perdono all’umanità, un “mea culpa” millenario riguardo i “peccati storici dei cristiani”: la fede imposta con la forza, la lotta fra Chiese. e la mancata difesa dei diritti umani fondamentali. Tale atto penitenziale non ha il consenso di tutti all’interno del Vaticano. I Cardinali Ratzinger, Ruini, Biffi invitano all ‘estrema cautela, come pure autorevoli storici cattolici come Franco Cardini e Vittorio Messori. Tutti costoro sono critici davanti a questo revisionismo religioso di fine millennio. A nostro giudizio, questa iniziativa del Pontefice Romano appare come la più originale del suo pontificato.

In questo contesto alla Massoneria si presenta una grande opportunità, visto anche il grande lavoro svolto negli ultimi anni dal Gran Maestro Gaito. Essa può ristabilire la verità storica, riproponendo la pluralità delle conoscenze e dei valori laici sulle soluzioni “definitive”, sugellate da verita e valori assoluti.

Per noi uomini laici e liberi non è per nulla chiaro che il concetto di trascendenza sia necessariamente in grado di dare un senso alla vita

 

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PER UNA DOSSOLOGIA MASSONICA

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DI Raffaele K. Salina

Illustrazione del mito della Caverna di Platone in un ‘incisione del 7604 di Jan Saenredanì. I prigionieri immobilizzati davanti al muto, incapacitati nel guardare indietro, fissano la parete e vedendo delle ombre, in realtà ombre di manichini proiettate dalla luce di una torcia, credono che esse siano vere figure umane

 

 

In questo articolo ci si propone di tracciare le coordinate per una possibile dossologia massonica. L’obiettivo fondo è quello di valorizzare in questo senso alcune formule rituali usate nei lavori di Loggia per metterne ulteriormente in evidenza la profondità simbolica. Qui ci limitiamo al rituale attualmente in uso presso il GO’ ben sapendo che altri rituali, come quello Emulation, utilizzano formule che possono essere ricomprese in questo ambito.

La dossologia cattolica

A questo scopo dobbiamo necessariamente partire dalla sua definizione in ambito cristiano-cattolico. Secondo l’Enciclopedia cattolica la dossologia è il corpus di alcune specifiche formule di lode a Dio usate nel contesto della liturgia, Il termine deriva dal greco ôoioÀovia, composto dalle parole 564a che significa «opinione» ma anche «lode» e Aovia «discorso» quindi, nel nostro caso, «formula di lode». ln specifico per dossologia si intende, sempre secondo l’Enciclopedia cattolica: «Una formula liturgica o scrittura usata per lodare, glorificare o rivelare Dio uno e trino o distintamente te tre Persone della Trinità. La formula presente nel passo evangelico del battesimo di Gesù in Matteo 28,1 9 [Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo N.d.A.] presenta un esempio del nominare le tre persone in ordine parallelo».

Doxa e Episteme

Partendo da questa etimologia possiamo già avanzare alcune analisi sulla natura della dossologia cattolica e cominciare a tracciare possibili analogie con alcune formula usate in Massoneria. Per farlo dobbiamo richiamare l’affermazione di Platone per il quale la conoscenza si muove tra due livelli principali: la déxa, nella sua accezione di «opinione», che pertiene dunque al campo del sensibile, e l’epistéme, il sapere fondato sui principi intelligibili, le essenze eterne della Realtà. A loro volta, queste due forme si suddividono in altre, sino a formare un complesso schema gnoseologico, nel quale si parte dalla percezione delle immagini riflesse, la d6xa appunto, per arrivare all’intuizione delle idee pure. Qui è già evidente il nesso che lega le due forme della conoscenza ed anche il possibile passaggio dall’una all’altra.

Per illustrare questi passaggi, e chiarire come la maggior parte dell’umanità percepisca solo le parvenze della realtà intellegibile – la mâyâ dei fenomeni direbbero gli induisti – Platone introduce il mito della caverna (La Repubblica 514 b 520 a), descrivendola come un luogo in cui i soggetti sono incatenati e possono così vedere unicamente le ombre riflesse sulla parete davanti a loro, percependo anche suoni o movimenti generati da qualcosa o qualcuno che muove o anima oggetti posti su un muretto alle loro spalle, illuminati da una luce proveniente dall’esterno. Quando infine qualcuno riuscirà a liberarsi dalla prigionia, arriverà a vedere prima gli oggetti reali che producono le ombre, e poi la luce originaria che tutto illumina ed anima.

La complessità del mito e le sue interpretazioni esulano da questo breve articolo, ma il riferimento è opportuno, perché la caverna platonica ha rappresentato, sin dalla nascita della fiIosofia Greca, l’apologo più coerente ed esemplificativo della relazione tra opinione e conoscenza, illusione e consapevolezza, vedere e visione (epopteia).

Ciò che a noi interessa è, allora, evidenziare il nesso che esiste tra un vedere all’inizio falsato da una percezione puramente sensibile, ed il suo progressivo spostamento verso la visione nella luce della Verità intelligibile. M. Cacciari sintetizza questa relazione in un passaggio del suo Metafisica concreta: «Anatogia si darebbe tra vista e mente, ed è quella ‘classica’: la vista sta alle cose visibili, come il noûs sta alle cose intelligibili. In questo caso la relazione si direbbe intrinseca, poiché posso realmente attribuire ai due termini un carattere comune: come la vista fa vedere le cose sensibili, così il noûs rende chiaro, illumina, permette di conoscere ciò che i sensi consentono solo di toccare. Come senza vista le cose visibili resterebbero ignote, o meri percepta, così, se il noûs non agisse, ci resterebbero oscure le verità intelligibili. L’organo della vista e l’intelletto• noûs si riferiscono entrambe, substantialiter, al vedere. [ . .

L’indicibilità del Principio rende impervia la ricerca di quelle forme in grado di connettere i fenomeni, ovvero quelle con• nessioni tra gli eide che ci mette in grado di cogliere i fenomeni stessi come un Tutto e non solo come u n mucchio di apparenze. Certo, con le apparenze, tutti noi abbiamo a che fare all’inizio della nostra esperienza. La luce, tuttavia, penetra sino in fondo al pozzo in cui siamo gettati dalla nascita, altrimenti mai avremmo potuto neppure iniziare il cammino».

Non a caso, affinché il soggetto possa cominciare ad uscire da questo stato di “minorità percettiva”, qualcosa deve aiutarlo. La passività dell’incatenamento va rotta con un passaggio ad un altro piano: un percorso iniziatico che sarà doloroso e rischioso. La rete dell tabitudine, Io sgomento nel comprendere il vecchio stato illusorio ma il non aver ancora piena contezza delle implicazioni esistenziali del nuovo, le responsabilità che nascono dal possedere una conoscenza più lucida, ebbene tutto questo configura una condizione difficile da affrontare e  Forte è, allora, fa tentazione di tornare sui propri passi, al mondo riflesso ma rassicurante delle ombre, della comune déxa: per molti è meglio restare alla catena insieme agli altri che rischiare l’isolamento nella luce della verità. E dunque, come dicono tutte le tradizioni sapienziali, ogni transito da un livello ad un altro di consapevolezza richiede adeguamenti sostanziali, una vera e propria trasmutazione del proprio essere; questo, testimoniato in sommo grado da Socrate con la sua morte, è il prezzo da pagare per essere realmente liberi?

Immediata l’analogia con la morte iniziatica ed il mito di Hiram che caratterizza il passaggio al grado di Maestro. Ma qui ci preme evidenziare come sia in qualche modo necessario proprio partire dalla déxa per arrivare all’epistéme: nel nostro caso percorrere il cammino che, muovendo dal simbolo fonico delle formule rituali, indica la strada verso la luce della verità iniziatica. Ecco perché possiamo, in questa prospettiva, parlare di una dossologia massonica in quanto alcune formule utilizzate durante i rituali dei tre gradi, rappresentano proprio questo possibile percorso verso verità più profonde. Concludendo la parte teorica possiamo dire, dunque, che esiste un progressivo passaggio analogjco-anagogico, dal vedere alla visione, cioè dallo sguardo sui percepta sensibili alle verità intellegibili.

Questo significa che la dossologia cristiano-cattolica mira evidentemente, con le sue «formule di lode», prima a “fissare” l’attenzione del fedele sulle verità dogmatiche, che dal nostro punto di vista possiamo paragonare ai percepta platonici, per poi preparare, mercé l’accettazione di questi stessi dogmi, l’animo alla fede nella potenza trascendentale di Dio in vista della Salvezza. Nel caso della Libera Muratoria, invece, attraverso le sue formule dossologiche, si tende ad un risultato diverso: prima attivare l’attenzione dell’iniziato verso fa sua ricerca esoterica, per poi lasciarlo libero di percorrerne la valenza simbolica sino alla Liberazione. Utile, a questo punto, richiamare brevemente la differenza tra Salvezza e Liberazione, che rappresenta il vero piano di distinzione tra la via del credente religioso e quella dell’iniziato. La prima è per così dire

 

 

 

 

discendente e tende alla purificazione dell’anima concessa da parte della divinità in vista di un trapasso verso la vita eterna al Suo cospetto; la seconda è invece ascensionale ed ha come scopo Io scioglimento dell’essere dai vincoli delle passioni ter rene in vista di una riunificazione del sé individuale con quello Universale.3 ln sintesi possiamo dire che le formule dossologiche sono, sia nella liturgia ecclesiale sia in quella massonica, espressioni che si inseriscono appieno nella successione anagogica dei simboli nei rispettivi percorsi rituali.

Formule dossologiche cristiano-cattoliche.

E’ interessante, anche ai fini della nostra trasposizione massonica, capire come e perché nasce fa dossologia cristiano-cattolica. I primi esempi di dossologia risalgono al IV secolo con lo scopo di contrastare l’eresia ariana.

L’arianesimo è una dottrina trinitaria di tipo subordinazionista, elaborata dal monaco e teologo Ario (256-336), condannata come eretica. Tale dottrina sostiene che il Figlio sia un essere che partecipa della natura del Padre, ma in modo inferiore e derivato (subordinazionismo), negandone così quella consustanzialità che sarà poi dogmatizzata nel Concilio di Nicea (325) attraverso il Credo niceno-costantinopolitano: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio ]

Alla base della tesi di Ario, permeata di neoplatonismo, vi era invece la convinzione che Dio, principio unico, indivisibile, eterno e quindi ingenerato, non potesse condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria essenza divina. Per questo le prime formule dossologiche sono rivolte solo a Dio Padre, o a Lui attraverso il Figlio e «nello» o «con lo» Spirito Santo. La cosiddetta dossologia finale o conclusiva è usata nella preghiera eucaristica, che costituisce il momento centrale della Messa, con la formula: «Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen».

A partire da questo periodo viene elaborata una dossologia finale inerente alla celebrazione eucaristica. Un esempio è la formula: «Ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen» oppure, derivata dalla consuetudine ebraica «È tua è la gloria nei secoli dei secoli. Amen». Altre forme finali significative si trovano nel Nuovo Testamento in Romani 1 1 ,36: «Poiché da fui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen» come pure nell’introduzione di Saluto e augurio e in Efesini 321 : «A lui sia la gloria nella chiesa in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen». Qui è l’Amen che sigilla per cosi dire la formula ed il suo significato per il credente.

Per una dossologia massonica

Date queste premesse è interessante cercare di delineare i primi rudimenti di una dossologia massonica, coerente con la ritualità Libero Muratoria, a partire dalle formule comuni che troviamo nei rituali dei vari gradi.

La prima formula dossologica maggiore, analoga per intento a quella «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» che apre il rito eucaristico, è certamente «Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo». Da qui l’orientamento del rito massonico svela in pieno il suo intento, ponendo l’iniziato in una posizione di rispetto e di ascesi, ma non di subordinazione, nei confronti del Principio creatore universale al quale vengono dedicati i lavori. Il G.A.D.U., in effetto, è un principio descrittivo e non prescrittivo.

E dunque, va sottolineato che il legame tra la formula Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo e la tradizione Massonica va ritrovato ed apprezzato nel nesso simbolico tra il mestiere in oggetto ed il Principio universale del quale essa è espressione. In altre parole, sperando di essere chiaro in un passaggio

 

fondamentale: la formula dossologia rivolta al Grande Architetto deve essere assunta come «supporto» del percorso iniziatico di modo che esso risulti, per così dire, una applicazione contingente dei principi stessi, immutabili ed eterni, meta-umani, ai quali si riferisce e dai quali trae la sua ispirazione.

La formula viene ripresa anche alla chiusura dei lavori per sancire che tutto il rituale, ed anche la parola circolata tra le colonne, è stata dedicata alla Gloria dell’Uno. La seconda serie di formule dossologiche maggiori possono essere considerate le invocazioni pro. nunciate dalle tre luci all’accensione ed allo spegnimento delle stesse in relazione al ruolo della Sapienza della Bellezza e della Forza. Qui è la Luce stessa della conoscenza prima emessa, irradiata e sostenuta dai tre principi che viene prima evocata, solve, poi, per così dire, fissata, coagula, nel cuore dell’iniziato. Un analogo intento nel panorama dossologico cristiano-cattolico è certo reperibile nel: «Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose».

Altra formula dossologica massonica che può essere considerata alla stregua dell’Amen, è il «Tutto è giusto e perfetto» pronunciato dal Primo Sorvegliante alla fine del giro dei Diaconi o dall’Oratore come conclusione del suo intervento. Stessa valenza ha il «Ho detto» alla fine delle parole pronunciate dai Fratelli.

Conclusioni

Come detto in apertura, non vi è, in queste brevi riflessioni, nessuna pretesa di esaurire un argomento che, però, abbiamo perlomeno voluto proporre come ulteriore arricchimento dei significati simbolici delle nostre formule rituali. II parallelo, che individua sia le convergenze sia le differenze, con la dossologia cristiano-cattolica, ci è parso interessante non solo dal punto di vista storico, quanto per evidenziare ancora una volta le apparenti similitudini che intercorrono tra due vie che, in realtà, viaggiano su binari paralleli. Certo dalla ritualità cristiano-cattolica c’è molto da imparare, noi pensiamo, introducendo appropriatamente certe analogie, nei debiti distinguo che le differenziano, anche perché, spesso, studiando il simile si capisce meglio la natura dell’uguale.

 

 

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VITA AVVENTUROSA Dl LACLOS E SUA FINE A TARANTO

trad. Amicizie pericolose) e generale d’artiglieria, che non può essere sepolto in chiesa, avendo rifiutato i conforti religiosi. La tomba gli è stata allestita nella piazza d’arme  da un mesto corteo di barche piene di armati” (C. Speziale, Storia Militare di Taranto, Bari 1930 p. 160). Tanto si conosceva del generale e letterato Pierre Ambroise François Choderlos de Laclos, e tanto è bastato per meritargli la titolazione di una strada a Taranto. Nessuno in questa città è a conoscenza che Choderlos de Laclos era massone, né che fu uno dei comprimari dietro le quinte nella Rivoluzione Francese.

P.A.F. Choderlos de Laclos nacque il 18 ottobre 1741 ad Amiens da Jean-Ambroise, segretario dell’ Intendenza di Picardie e Artois (un’ odierna Prefettura) appartenente alla piccola nobiltà, e da Marie Catherine Galois. All’ età di 18 anni fu avviato alla carriera militare nel corpo dell’ artiglieria, considerato luogo di rifugio alla moda per i figli della borghesia e della piccola nobiltà. La sua carriera militare scorse senza intoppi sino all’ età di quarant’ anni. E uno stimato ufficiale specializzato in fortificazioni.

Dopo aver tentato invano di accreditarsi il pubblico come poeta negli anni giovanili, tra il 1779 ed il 1782 Laclos scrisse il romanzo che lo rese inaspettatamente famoso ai contemporanei e felicemente ai posteri: “Le amicizie pericolose “. Ebbe immediatamente un enorme successo di critica e di pubblico per lo scandalo che suscitò. Esso, in pratica, metteva in piazza i vizi privati e le pubbliche virtù dell’epoca. Pertanto tutta la società parigina si scervellava nelle ipotesi più svariate nell’ individuare quali altissime personalità pubbliche si celassero dietro i personaggi del romanzo. Fu proprio lapruderie a far la fortuna del romanzo all’ epoca. Ma successivamente la critica letteraria lo ha considerato il predecessore del romanzo ottocentesco ancora prima di Sthendal.

Qualche anno dopo nel 1786 compose la “Lettera sull’elogio del Maresciallo Vauban”, che gli causò invece di rinnovato successo una serie di guai. Aveva, infatti, preso di mira canzonandolo “una specie d’ eroe nazionale”, il creatore del sistema di fortificazione che proteggeva le frontiere francesi “adulato da Voltaire che lo aveva definito “il primo degli ingegneri ed il migliore dei cittadini”, invece Laclos, semplice capitano d’ artiglieria, ardiva a prenderlo in giro sminuendone i meriti.

A seguito delle polemiche Laclos subì un trasferimento punitivo. Nel frattempo, però, si era sposato con Marie-Solange Duperré, dopo aver avuto da questa il primogenito Etienne-Fargeau.

Se da una parte la polemica della Lettera aveva procurato un rallentamento della carriera, dall’ altro fu l’ occasione per introdurre Laclos in un nuovo ambiente. Da Metz il reggimento di Laclos fu mandato a Le Fère ove Laclos conobbe due importanti massoni, il Visconte di Noailles e suo cugino e genero il duca d’ Ayen, che lo introdusse nei salotti parigini. Congedatosi dall’ impiego militare fu raccomandato dal conte di Segur al duca Luigi Filippo d’Orleans per un posto da segretario nel suo entourage. Nel 1788 Laclos inizia la sua nuova attività e probabilmente in questo periodo viene affiliato alla Loggia “La Candeur” di Parigi, ove era iscritto dal 1781 il duca d’Orleans.

Laclos aveva un carattere ambizioso e tentava di farsi notare ad ogni costo. Evidentemente tale atteggiamento trovava fieri oppositori nel suo ambiente militare, legato molto al vecchio establishment, per tanto viene agevole comprendere la scelta di campo di Laclos verso Luigi Filippo, il quale non perdeva occasione per scandalizzare l’ opinione pubblica e irritare la corte.

Il duca d’ Orleans era moralmente corrotto, ma sportivo e filoinglese, anche se questo non gli impedì successivamente di esultare all’indipendenza americana, e come costume familiare portava avanti una politica di opposizione alla Corte. Partecipò in prima fila alla Rivoluzione solo per un motivo: prendere il posto del cugino Luigi XVI, ma non aveva affatto idee repubblicane né democratiche né può dirsi che fosse un philosophe. Laclos non se la cavò male in questo ambiente se appena entrato cominciò a scalzare l’influenza di Madame de Genlis, l’ amante del duca (e di suo figlio). Laclos invece era estremamente morigerato, conducendo una semplice e soddisfacente vita familiare con la moglie ed i due figli. Dallo studio della sua figura si desume che Laclos aveva una doppia vita, tanto intrigante e spregiudicato fuori, e tanto semplice, amorevole, ed amabile in casa.

Nel 1789 si verifica una violenta rottura tra il Gran Maestro Filippo d’ Orleans e l’ amministratore generale il duca di Montmorecy-Luxembourg, diametralmente opposti sul fronte politico. Il G. M. cospira per scalzare il re e prenderne il posto, l’ amministratore generale ha invece giurato fedeltà anche a costo della vita. Due diversi modi di intendere la Massoneria si scontrarono frontalmente producendo conseguenze infauste per entrambi. Così il massone Lafayette si contrappose al massone Murat. Laclos dal suo giornale attaccava duramente il Circolo Sociale per la Federazione degli Amici della Verità, composto da massoni, quali Condorcet, Camillo Desmonlins, indicandoli quali nemici della rivoluzione.

Venne accusato di essere stato l’ istigatore dell’ assalto delle donne a Versailles il 5 ottobre 1789 che causò come conseguenza il trasferimento della famiglia reale alle Tuileries. Ancora, sempre nel 1789 Laclos elaborò il programma elettorale nato come: “Instrutions aux Bailliages”, ove erano racchiusi in 17 articoli tutti i desideri di gran parte dei francesi: libertà di stampa, libertà individuale, segreto della corrispondenza, rispetto della proprietà, responsabilità dei ministri, divorzio. Questo documento è la base su cui si costruirono le successive rivendicazioni rivoluzionarie.

Nel momento di massimo successo il duca fu convinto a partire per l’Inghilterra. A fine 1789 Laclos era a Londra col duca, e in quel soggiorno della durata di un anno circa condusse attività di spionaggio per conto dell’ Orleans, ebbe comunque l’ occasione di incontrare il poeta massone Andrea Chenier, e frequentare le logge. Andrea Chenier, lo sfortunato poeta vittima del Terrore rivoluzionario compose la “Giovane Tarantina”, “la ragazza che, in viaggio sul mare di Taranto, muore prima d’aver raggiunto ilfidanzato presagio profetico della sorte di Laclos.

 

 

Tornato a Parigi col duca d’Orleans, che nel frattempo era ridotto finanziariamente sul lastrico, Laclos si inserì nella Società degli Amici della Costituzione, che si riuniva nella sala della biblioteca del convento dei Giacobini (da cui il nome), e si inserì così bene che redasse il Giornale dei Giacobini, ovvero il “Giornale degli Amici della Costituzione”, ove si dilettava a commentare fatti e personaggi. Tale giornale ebbe un’ influenza non secondaria nella Rivoluzione, in quanto era tribuna politica da cui partivano gli attacchi contro gli altri clubs rivoluzionari o invettive contro ministri, e funzionari. Laclos su detta rivista si ergeva a difensore della proprietà e contro la legge agraria. Nell’ aprile del 1791 lancia una proposta che portò notevoli conseguenze sulle sorti della Rivoluzione e della stessa sua vita: il diritto di petizione. L’Assemblea degli Stati Generali aveva bocciato la proposta che tale diritto potesse essere esercitato collettivamente, ma aveva fatto salvo il caso individuale. Al diritto di petizione si affiancava la libertà di stampa. Per quest’ultima elaborazione di pensiero politico Laclos lavorò a stretto contatto con Robespierre. La sua battaglia comprendeva l’ allargamento della base elettorale, la sovranità popolare da cui doveva dipendere la scelta dei Ministri e degli Ambasciatori, il diritto di grazia che doveva successivamente essere solo formulato dal re, ma rimaneva monarchico convinto: voleva abbattere il re Luigi XVI per sostituirlo con l’Orleans, non abolire l’istituto della monarchia. Questa, infatti, è la chiave d’interpretazione per comprendere il giacobinismo di Laclos. Tramite il giornale Laclos diventò una specie di ministro della propaganda dei Giacobini, ed oltre la redazione della rivista fu capo dell’Ufficio Corrispondenza della Società. Dopo l’arresto del re a Varennes, Laclos tentò di far nominare reggente l’ Orleans, ma con sorpresa lo stesso Orleans rinunziò a causa dell’intervento della sua amante madame de Genlis, la quale da acerrima nemica di Laclos pensava più opportuna l’ investitura del figlio, duca di Chartres. Ciononostante Laclos insistette per questa strada. La battuta d’arresto a tale progetto la oppose l’Assemblea Costituente che, nonostante l’ ignobile fuga del re ne decretava l’ inviolabilità. A questo punto Laclos ricorse al diritto di petizione, a mezzo di una lettera circolare a tutte le società di provincia sulla questione sorta dalla fuga del re. La petizione per chiedere la sua decadenza fu approvata, ma in sede di redazione del testo definitivo Laclos aggiunse artatamente una frase che né modificò la portata perché includeva velatamente la validità del principio monarchico. Resasi conto del trucco l’ Assemblea Costituente decretò Luigi XVI re dei francesi. Laclos aveva fallito.

A seguito della petizione il club dei Giacobini subì la scissione di un gruppo che fondò nel convento dei Foglianti un club dall’ omonimo nome. (In tale club fu attivo il massone Deodato

Dolomieu, che conobbe Taranto attraverso il carcere del Castello nel 1799).Era infatti la fazione moderata dei giacobini che prendeva le distanze dagli estremisti. Dopo il fallimento della sua politica Laclos uscì dalla scena politica, non gli interessavano né Foglianti né Giacobini perché ormai il piano del duca di Orleans era irrimediabilmente fallito.

Rientrato nell’ esercito Laclos si distinse per l’ impegno manifestato nella battaglia di Valmy.

 

 

 

 

 

 

 

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Fu una sua mossa strategica a far sì che la battaglia di Valmy si risolse con un successo per i francesi. Laclos, da generale d’ artiglieria, dettò le disposizioni e poi tornò subito a Parigi senza constatare l’esito della battaglia. Dopo Valmy Laclos fu inviato a Tolosa per un quadro strategico dei Pirenei, ed anche lì seppe impostare tatticamente la difesa, che successivamente si rivelò efficace, e partì senza aver assaporato la meritata gloria.

Con l’avvento della Convenzione, il 20 settembre 1792, la Massoneria viene dichiarata nemica della Rivoluzione e le logge vennero chiuse. Filippo d’ Orleans, che nel frattempo aveva modificato snobisticamente il nome in Filippo Egalité, rivelava la sua statura d’ animo quando, temendo per la propria vita, giunse il 22 febbraio 1793 a rinnegare i Fratelli: “Siccome non mi è dato di conoscere in qual modo il Grande Oriente sia composto è poiché ritengo che, d’ altra parte non deve esservi nessun mistero, né alcuna assemblea segreta in una repubblica, soprattutto quando essa è agli esordi della sua esistenza, io non mi voglio più mischiare in nulla del Grande Oriente, né delle assemblee monarchiche”. E quando lo spettro della ghigliottina si avvicinava sempre più tale “uomo libero e di buoni costumi” giunse a negare persino la nobiltà di nascita affermando di “non essere vero nobile ma il figlio di un cocchiere divenuto I ‘ amante della madre”. Il 7 novembre 1793 la ghigliottina fece giustizia anche di tanta codardia.

In quel tristissimo periodo che va sotto il nome del Terrore, il 3 1 marzo 1793, Laclos fu arrestato con molti altri orleanisti su istanza del Comitato di salute pubblica. Era ormai tempo di faide e regolamenti di conti all’interno del variegato mondo dei gruppi rivoluzionari.

Fu incarcerato alla prigione dell’Abbaye ove rimase sino al 10 maggio, data in cui ottenne gli arresti domiciliari. Era riuscito, tramite la moglie, a contattare l’ amico Alquier, avvocato, componente del Comitato di Sicurezza Generale, che provvede a farlo scarcerare. Della fama sinistra di Laclos se ne ha esempio dalla reazione che avevano i sorveglianti del suo arresto domiciliare. Più volte il suo guardiano tentò di farsi sostituire per la paura che aveva del suo sorvegliato, il quale, invero, approfittava del tempo a disposizione per studiare. Ottenne la libertà su cauzione per provare una sua tecnica balistica, l’uso degli obici sull’ artiglieria da marina, ritenuta interessante per la guerra contro l’ Inghilterra. Purtroppo i risultati non dovettero entusiasmare il Comitato di Salute Pubblica se il 5 novembre fu nuovamente arrestato e incarcerato nella prigione di Picpus. Laclos si trovò ad un passo dalla ghigliottina, il 7 novembre fu ghigliottinato il duca d’Orleans, e il nostro sentiva presagire la sua ora al punto tale che come estremo saluto inviò all’ amata moglie il suo portafortuna, consistente in una treccia di capelli della mogliee dei figli. Nonostante il macello del Terrore, che ghigliottinò nel mese di novembre 58 teste e in dicembre 68, Laclos scampò alla morte. Non è molto chiaro il motivo di questa fortuna, al riguardo si sono avanzate varie ipotesi. La risposta più semplice potrebbe essere che l’ accusa di orleanismo aveva perduto vigore con il susseguirsi degli eventi e Laclos, comunque, non aveva cospirato contro il Comitato di Salute Pubblica.

Il 3 dicembre 1794 Laclos fu finalmente liberato, dopo aver trascorso un anno ed un mese in prigione. Data fatidica perché solo sei mesi dopo la moglie Marie-Solange dà alla luce Charles.

E’ stato ipotizzato da Solaroli che questo evento avesse acuito in Laclos un’attenzione morbosa verso la moglie, dalla quale lo distanziava una differenza d’età di circa sedici anni, cercando sempre di accontentarla in mille modi e di farsi accettare da lei, come se fosse perseguitato da un senso di inadeguatezza nei suoi confronti.

La situazione non era affatto rosea, in quanto, a cinquantaquattro anni e con una famiglia a carico, in un momento di incertezza sociale, non c’ era da stare allegri. Tentato vanamente di rientrare in esercito, riuscì ad ottenere dal Direttorio il posto di segretario generale delle Ipoteche e per cinque anni visse tranquillo con la sua famiglia e curandosi la salute, duramente provata in prigione.

Ma siccome Laclos aveva ormai consolidato una robusta fama di intrigante pericoloso, vi fu chi ipotizzò una sua partecipazione occulta nel colpo di stato di Napoleone.

Nominato d’ autorità generale di brigata da Napoleone Laclos fu comandato nel 1800 all’Armata del Reno e successivamente al Corpo di riserva dell’ Armata in Italia. Francamente, a sessant’ anni Laclos non aveva più entusiasmo nella vita militare, ma la sua unica preoccupazione era l’ amore per la moglie ed i figli, cui inviava ogni compenso guadagnato. Entrato in Italia dopo aver attraversato tutta la pianura padana tornò a Milano ove soggiornò qualche mese. Dalle sue lettere alla moglie è evidente che non amasse né l’Italia né gli italiani.

Rientrato a Parigi fu inviato qualche mese nel Comitato d’ Artiglieria presso la Rochelle quando per un pelo rischiò di essere mandato il 31 ottobre 1802 e San Domingo nelle Antille, destinazione considerata punitiva essendovi mandati gli ufficiali invisi al Ministero o sospetti. Riuscì comunque a farsi raccomandare dall’ amico generale Marmont, e la sua destinazione fu cambiata col Corpo di Osservazione di Ancona, divenuto successivamente l’ Armata di Napoli, con la nomina di comandante dell’ Artiglieria con sede in Taranto. Il compito dell’ Armata era quello di sorvegliare le isole dello Jonio, San Pietro e San Paolo, in caso di guerra con l’Inghilterra. Laclos dovette sobbarcarsi, ormai sessantenne un massacrante viaggio di seicento miglia d’estate giungendo a Taranto il 14 luglio 1803. Appena entrato in città, senza nemmeno riposarsi dalle fatiche del viaggio preferì prendere visione delle fortificazioni sulla costa. Dopo 54 giorni di malattia, secondo i medici dell’ epoca si trattava di dissenteria, Laclos spirò il 5 settembre. C’è da dire che Laclos non amava la città né i suoi abitanti, come risulta dalla corrispondenza con la moglie. Attualmente sussiste qualche dubbio sulla reale natura della malattia. Tutti.i biografi concordano che si trattasse di dissenteria contratta a Taranto, ma nell ‘ epistolario con la moglie, si scopre che già a Milano qualche mese precedente il generale aveva avuto vari episodi di malessere, dai quali si era temporaneamente ripreso.

Quei cinquantaquattro giorni di malattia furono il calvario di Laclos. Le forze lo abbandonarono sempre di più, i medici che si alternavano al suo capezzale perdevano tempo nell’ipotizzare percorsi di trasporto dell’ ammalato in altre città, come Napoli o Genova, tanto che Laclos ebbe ormai il chiaro presentimento di essere giunto al termine della sua umana vicenda. Le ultime lettere alla moglie manifestano la malinconia di chi sa che non potrà più riabbracciare i propri cari e non potrà far più nulla per loro e se ne va con l’ amarezza di lasciarli senza assistenza affettiva e materiale.

Laclos infatti era povero, aveva speso tutti i suoi fondi durante il viaggio, lo stipendio tardava ad arrivare da alcuni mesi, chiedeva prestiti al generale Marmont suo amico. Ma I ‘ attaccamento alla famiglia era comunque saldo sino alla fine. L’ultima lettera, ormai dettata tre giorni prima di morire al fedele attendente capitano Lespagnol, volle indirizzarla al Primo Console, generale Napoleone Bonaparte, merita di essere riportata integralmente: “Generale Primo Console, approfitto di qualche istante che ancora mi resta da vivere per dettare gli ultimi voti del mio cuore. Desidero, Generale, che vi siano noti. La felicità della mia patria, il successo delle vostre armi, la sorte della mia sfortunata famiglia, di questo mi occupo nel momento in cui tutto sta finendo per me. La triste posizione della mia sposa e dei miei tre figli, che lascio assolutamente senza risorse mi addolora, ma la speranza, in cui vivo, che li aiuterete mi fa morire più tranquillo. Questa idea consolatrice che mi rianima un attimo in questa situazione, mi dà ancora la forza di assicurarvi tutta la sincerità, la dedizione e l’ ammirazione che ho avuto e che conserverò per voi sino all’ultimo respiro. Ho l’onore di salutarvi con molto rispetto.”

Avendo rifiutato i conforti religiosi, in quanto ateo, la sua salma fu composta nella caserma Rossarol, per essere quindi traslata, su suo espresso desiderio, nel forte appena costituito sull’isola di S. Paolo. La notizia della morte di Laclos in città destò scalpore, tanto che la nobiltà del posto andò a rendergli omaggio, ed il Comando organizzò il funerale per mare,con una nutrita scorta di uomini armati su varie barche.Giunta al forte la salma fu inumata al centro della piazzad’ armi. Per quella tomba fu progettato poco dopo tempo unmonumento in carparo con questo epitaffio: “Qui riposaLaclos, che le armi ed il suo spirito hanno dato lustro. Degno delle lacrime della sua sposa, dei suoi compagni e del nemico, scandagliò il vizio con tenacia, coltivò la virtù con dolcezza e, come scrittore e come uomo, fu la gloria e l’ anima critica del suo paese.”

Tali versi furono inviati dalla vedova Laclos, e composti probabilmente dal poeta Pariset, suo amico. Dopo la morte i suoi scarsi beni furono venduti all’asta, ricavando una somma non molto rilevante (1613 franchi) che fu inviata alla famiglia. Laclos non ebbe fortuna nemmeno da morto.

Già alla sua morte sorsero difficoltà per la titolazione del Forte alla sua memoria. Infatti se da un lato un gruppo di ufficiali premette per l’erezione di un monumento e la titolazione del forte, dall’ altro il Ministro della guerra, generale Berthier, sollevò una polemica col capo del genio a Taranto per tale iniziativa a lui parsa inopportuna.

Berthier nutriva rancore personale verso Laclos, forse perché conosceva i suoi intrighi rivoluzionari, un suo familiare fu infatti vittima della violenza del popolo che lo impiccò in piazza.

Di conseguenza, si archiviò il proposito del monumento e dell ‘epitaffio nel forte. Infatti quando il re delle due Sicilie, il massone Giuseppe Bonaparte, venne a Taranto, visitando il Forte di San Paolo, pur constatando che la tomba di Laclos era priva di epitaffio, non la degnò di alcun interesse.

Successivamente nel 1813, in un periodo di ristrettezze economiche che doveva colpire anche le fortificazioni di San Paolo, un commissario di guerra, il francese Stefano Morgue propose al comandante del Genio di realizzare un fienile accanto alla tomba di Laclos, confermando l’aSsoluta indifferenza per quel personaggio. Invece, durante la restaurazione borbonica, un aristocratico tarantino, Cataldo Galeota, in funzione di commissario di guerra, preventivò lavori di accomodamento della tomba del generale. Da allora nessuna notizia certa si ha della tomba di Laclos. Pare, comunque, che in periodo borbonico la tomba fu distrutta “per odio ai francesi e le misere ceneri disperse in mare. Nel 1844 un visitatore dell’ isola constatò che la tomba era vuota”.

La vicenda di Laclos si inserisce in una delle pagine più dolorose della storia della Massoneria.

Fiumi di inchiostro sono stati versati per accertare ruoli e responsabilità dell ‘ Istituzione nella RivoIuzione Francese, ed ancora non è finita (da ultimo, Charles Porset, docente di storia moderna alla Sorbona, massimo storico francese sulla massoneria settecentesca, ha pubblicato in questi giorni il saggio “Hiram Sans-Culotte”). E’ da allora che venne a consolidarsi la fama sinistra di setta cospiratrice dei legittimi poteri, è in quel periodo che divampò in tutta l’Europa il più famoso libello antimassonico dell’ abate ex massone Agostino Barruel, “Memorie per servire la storia del Giacobinismo”.

La figura di Laclos sembrerebbe portare acqua al mulino dell ‘ antimassoneria se, ad onore dell ‘Istituzione non si annoverassero anche massoni come Lafayette, Desmoulins, Montmorecy-luxembourg, Andrea Chenier , solo per ricordare quelli citati innanzi, fedeli al giuramento di lealtà secondo gli Antichi Doveri di Anderson, che consentono di guardare la storia come un pavimento a scacchi.

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VLORI ED ATTUALITA’DELLA MASSONERIA UNIVERSALE

Valori ed attualità della Massoneria universale

 

 

 

Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani

Divenire uomo è un’arte, affermava con convinzione Novalis nei suoi Frammenti antropologici. La Massoneria Universale, scuola che inizia ai grandi misteri della vita, lo sa bene. E da almeno tre secoli lavora instancabilmente a testimoniare la pratica di quest’arte, che nessuno è in grado di insegnare poiché si può imparare solo individualmente. Osservando, intuendo, seguendo negli altri, nel mondo, i segni di una misteriosa orditura che, come faceva dall’alba al tramonto la mitica Penelope, va pazientemente ricostruita come una mappa in grado di condurci a battere, senza timore di perdervisi, i difficili ed accidentati sentieri della vita. Proprio per sviluppare quest’arte il massone ha bisogno, non solo di penetrare nella propria, ma anche nella altrui dimensione interiore. Ha bisogno, come l’aria, del dialogo con gli altri, per apprendere ma anche per contribuire, col proprio bagaglio di esperienze, di conoscenze, di saperi, maturato appunto in una vita illuminata dalla luce della Tradizione, al loro benessere. In questo modo, da muratore esperto nell’arte della edificazione, concorre, recando il proprio simbolico mattone, a costruire il grande Tempio sotto la cui volta celeste si riunirà l’umanità tutta. Ovviamente le modalità di questo lavoro cambiano coi tempi.

Ed in tempi di comunicazione di massa, di villaggio globale, di incontri e di scontri di culture anche la Massoneria non poteva fare a meno di scegliere strade nuove per attualizzare la propria naturale vocazione al dialogo. Il Forum dedicato alla complessa e delicata tematica dei Valori Universali si inquadra esattamente in questo ambito. E la chiamata al lavoro di tutti i Fratelli non solo perché esibiscano, con la propria testimonianza, la profondità dei valori di cui sempre la Massoneria si è fatta portatrice, come la tolleranza, la comprensione dell ‘altro da sé, la difesa intransigente della dignità dell’uomo, ma perché facciano molto di più. Si confrontino, a viso aperto, e senza alcuna reticenza o timore, col così detto mondo profano, sviluppando coram populo quella loro propensione al dialogo con lo stesso metodo del confronto, aperto e leale, tipico del lavoro di Loggia. Tanto più importante appare questa operazione dal momento che il tema affrontato si presenta, considerati i travagli che affliggono la nostra vecchia e cara Terra, sicuramente utile, oltre che, sul piano intellettuale ed umano, straordinariamente stimolante.

E mi fa particolarmente piacere che tutto questo sia maturato in una terra, la Toscana, nella quale è sorta la prima Loggia massonica — che vide la luce nella, per l’epoca, tollerante Firenze nel 1731, lo stesso anno in cui a L’Aja veniva iniziato Francesco Stefano di Lorena, futuro Granduca di Toscana — e dove tuttora opera, nel senso massonico che questa parola possiede, la più numerosa famiglia di liberi muratori del nostro Paese. Per di più questo Forum sui valori, che non si limiterà alle sole problematiche delle Nazioni Unite e della loro (possibile ed auspicabile) Riforma ma toccherà anche, in successive fasi, le identità religiose e culturali, nonché l’identità terrestre, cade in concomitanza con una ricorrenza quanto mai carica di significati per noi Liberi Muratori. Si celebra, infatti, quest’anno il secondo centenario della fondazione del Grande Oriente d’Italia, che ebbe come suo Gran Maestro Eugenio de

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Beauharnais, viceré d’Italia e sodale di Napoleone Bonaparte. Una occasione imperdibile per mostrare il vero volto di una Massoneria che, ancora una volta, sa stare al passo coi tempi, una Massoneria che è, ieri come oggi, progettualità e azione al servizio dell’uomo, al di là di ogni frontiera, oltre ogni angusta limitazione. Proprio per questo, proprio nella consapevolezza dello straordinario “facere ” al quale le Logge ed ogni singolo Fratello vengono ora chiamati, sarebbe oltremodo significativo se, al termine della sessione di questo primo Forum, scaturisse, per mano di coloro che parteciperanno ai lavori, massoni o profani, ma comunque tutti uomini animati dalla buona volontà del bene operare, un documento di intenti da mettere a disposizione di altri uomini di buona volontà che, come noi, intendono agire molto semplicemente per la costruzione di un mondo migliore. Uomini che non possiedono ovviamente la verità, uomini come noi “dalle granitiche incertezze”, ma proprio per questo più autentici e credibili.

Si tratterà di un primo contributo che, auspichevolmente, potrà, dovrà innescare un dialogo aperto a tutte le voci diverse, secondo il tradizionale metodo massonico della ricerca condotta, come recita il nostro rituale, in piena libertà di pensiero da uomini di fede religiosa, di credo politico, di condizione sociale diversa, ma animati dal forte spirito dei costruttori. Il nostro è un piccolo ma non unico passo. Altri ne seguiranno, perché il cammino da percorrere è lungo e la meta, come sanno bene gli iniziati, sfugge di continuo, specialmente quando sembra più che mai a portata di mano. Ci piacerebbe comunque che, iniziative come queste, ed altre che lievitano e stanno lievitando sotto l’azione potente della fiamma di una antica e nobile Tradizione, contribuissero alla realizzazione di un grande sogno che cova nel cuore dei liberi muratori: quello di consentire alla Massoneria universale, di testimoniare, all’interno delle Nazioni Unite, nel consesso dei popoli della terra, nato e formato dalla volontà di grandi liberi muratori quali furono il Fratello Winston Churchill ed il Fratello Franklin Delano Roosevelt, i suoi grandi valori quali la liberazione dal flagello della guerra; la fede nei diritti fondamentali di ogni individuo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne; la giustizia, il progresso sociale, la libertà di tutti; la tolleranza e la pace. E questa per noi l’arte della vita, o Arte Reale, che esprime la nostra condizione di uomini di desiderio impegnati a lavorare senza sosta per onorare l’impegno preso quando varcammo, per la prima volta, le soglie del Tempio.

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COMPITI

Compiti.

 

Egli non è un sacerdote, ma qualcosa di molto differente, è l’interprete degli dei, colui che può viaggiare nell’Oltromondo per unirsi agli Spiriti e portare di lì informazioni e consigli per se stesso e la comunità. E’ un esperto in trance estatica e conosce il linguaggio degli Spiriti.

 

Se dovessimo riassumere, le caratteristiche principali dello sciamano sono

 

Capacità di viaggiare nell’Oltremondo o in Altri Mondi

Conoscenza delle danze rituali e di mimesi naturale

Conoscenza delle Erbe e delle loro proprietà

Essere maestro di animali selvatici e delle iniziazioni

Funzioni di psicopompo.

 

 

 

Sembrano proprio le funzioni del Druido o almeno del neo Druido.

 

Se dunque la figura del Druido, ma anche del Bardo e dell’Ovate, sembra avere molti punti di contatto con quella dello sciamano, almeno dal punto di vista delle mansioni, cerchiamo di approfondire l’esistenza di uno Sciamanesimo celtico. Approfondiamo per ora le informazioni storiche presenti nel grado Bardo.

 

Il Druidismo moderno nasce nel 1700 con l’apporto di William Blake associato alla cultura Massonica e Rotariana e al rinato interesse per la storia delle antiche origini e per l’arte antiquaria inglese. Da sempre infatti i siti megalitici come Stonehenge o Avebury avevano attratto la curiosità di vari studiosi, ma fu con l’avvento del Romanticismo che tali costruzioni iniziarono ad interessare direttamente gli storici che cercavano di capirne le origini.

 

In realtà il metodo della ricerca storico-scientifica non era ancora perfezionato. Molti di costoro, trattandosi di costruzioni pre-romane, le associarono, sbagliando, direttamente ai celti ed ai loro sacerdoti, i druidi. Nasceva così l’accostamento tra Druidi e il Megalitismo.

 

Il primo ad associare tali siti alle popolazioni celtiche fu un antiquario inglese, John Aubrey, nel suo saggio Templa Druidum, e successivamente un dottore di Lincolnshire, William Stukeley. Stukeley si definì lui stesso un Druido, prendendo il nome di Chyndonax, inciso su una antica stele ritrovata nel 1623 a Digione e realizzò nella propria abitazione un vero e proprio boschetto druidico, un grove, dove svolgeva alcune cerimonie pagane. Creando una sorta di “lignaggio”, Stukeley affermò che i druidi arrivarono in Bretagna dopo il Diluvio universale e sarebbero stati proprio Noè ed Abramo i primi druidi nonché costruttori  dei templi megalitici per il mondo. Sarà sempre Stukeley a definire, in realtà riprendendolo dal famoso testo secentesco Britannia Antiqua Illustrata del 1676, l’archetipo figurativo del druido, caratterizzato da un mantello con cappuccio, un bastone, una tunica corta e una lunga barba bianca. I luoghi di riunione e culto druidici non saranno però solo i nemeton megalitici. Una tradizione orale vuole che nel 1717 nel pub “Apple Tree Tavern” Jhon Toland, una figura chiave per i movimenti neodruidici moderni, avesse radunato i più importanti esponenti dei circoli druidici inglesi, in quello che poi sarà il primo grove ufficiale denominato “Mother grove” di cui Toland divenne Arcidruido, e che fu ufficialmente inaugurato  nell’equinozio di autunno del 1717 a Primrose Hill, una collina situata nella parte nord di Regent’s Park, a nord di Londra. Sarà da questo luogo a divenire sacro successivamente per molteplici organizzazioni druidiche. Nel 1747 Edward Williams diede vita al primo movimento druidico gallese, “Gorsedd Beirdd Ynys Prydain”, autoproclamandosi druido con il nome di Iolo Morgannwg. Ancora una volta il luogo scelto per la prima cerimonia avvenuta nel 1792 fu Pilmrose Hill. Fu la prima volta che si ebbe un Eisteddfodau, ovvero una riunione della durata di tre giorni. A Iolo inoltre si devono molti dei rituali druidici moderni tra cui l’importante Invocazione alla Pace che oggi caratterizza la maggior parte dei gruppi neodruidici, nonchè l’utilizzo di particolari oggetti cerimoniali quali la spada, il bastone, la corona, la cornucopia e il famoso corno Gwalad. E’ l’inizio del Revival druidico, nascono i primi groove, letteralmente “boschetti”, ed ordini druidici, in realtà all’inizio più società paramassoniche. Nel 1781 viene fondato l’Ancient Order of Druids, noto con la sigla AOD, nel 1833 The United Ancient Order of Druids e nel 1964 l’OBOD, il moderno Ordine dei Bardi, Ovati e Druidi. Successivamente, negli Anni ’60, anche grazie all’accostamento della pratica druidica con i nuovi movimenti eco-ambientalisti ed hippies, si riscopre il forte contatto naturale e la sua interconnessione con il mondo sciamanico ed infatti  la maggior parte di coloro che praticano oggi il neo Druidismo utilizzano tecniche sciamaniche. E’ in questo periodo dunque che neo Druidismo e Sciamanesimo iniziano il loro percorso intrecciandosi

 

Caitlin e John Matthews, membri dell’OBOD dal 1989 al 1992, sono stati i pionieri dell’applicazione di tecniche sciamaniche al celtismo. Un testo davvero molto ben approfondito, di tali autori a cui rimando è Sciamanesimo Celtico.

 

Successivamente Tom Cowan, nei suoi testi, Sciamanismo: una pratica spirituale per la vita quotidiana e di Il Fuoco nella Testa, cerca di far trasparire dal Druidismo “storico”, di cui effettivamente si conosce poco o nulla a causa della scarsità di documenti e della tradizione di trasmissione orale, la sua primigenia forma sciamanica, cercando anche paralleli con le tradizioni dei nativi americani.

 

Ma c’è qualcosa che permette di associare ”storicamente” il Druidismo allo Sciamanesimo?

 

I Celti, durante le loro migrazioni verso Occidente entrarono sicuramente in contatto con le popolazioni proto uraliche assorbendone i sostrati magico-religiosi di stampo sciamanico.

 

Evidenze sciamaniche riaffiorano nelle saghe irlandesi di Cu Chullinn, nei racconti gallesi del Mabinogion, fino ai più recenti romanzi di Chretien de Troyes.

 

Alcune di queste letture si trovano nei Gwersu, non solo momenti di lettura ma “indizi” su questo legame spesso celato.

 

Si narra così di veggenti chiamati offydd, gli Ovati, che avevano l’abilità di entrare in trance e viaggiare nel mondo degli Antenati. Individui con abilità di channeling li ritroviamo anche nei racconti gallesi con il nome di  awenyddion, ovvero posseduti. Non mancano poi i rituali estatici.

 

John Matthews in Taliesin: The Last Celtic Shaman, descrive rituali trance-estatici per raggiungere l’illuminazione attraverso l’uso di veri e propri mantra come “Dichetal do chennaib“, (si pronuncia “Diketal de Kenna”).

 

Questa sorta di stato alterato di coscienza, era anche noto come Imbas forosnai, ovvero il dono di veggenza. Si trattava di una sorta di tecnica di deprivazione sensoriale, per entrare in trance e di ricevere risposte o profezie. Danu Forest nel suo testo Shaman pathways e Robert Wallis in Shamans/Neo-Shamans: Ecstasies, Alternative Archaeologies and Contemporary descrivono approfonditamente questo rituale.

 

Il druido che doveva entrare in trance, rimaneva al buio assoluto, sotto una pelle di toro per nove giorni o fino a quando non aveva la visione. Mircea Eliade chiama questa cerimonia “bull dream” ovvero Tarbfeis.

 

Secondo alcuni studiosi oltre al buio il druido era costretto a cibarsi esclusivamente di carne di toro e a bere il suo sangue favorendo così una sorta di ipervitaminosi da vitamina A che a sua volta favoriva vomito, diarrea e dunque una sorta di alterazione fisica che favoriva così la visione. Tracce di questa cerimonia le troviamo nell’archeologia e nel folklore. Alcune divinità celtiche sono raffigurate come antropomorfe dai caratteri taurini, come la testa del dio-toro Taranis ritrovata a Lezoux, in Francia, e datata I sec. a.C. Sono immagini che enfatizzano il legame tra gli Spiriti animali e l’uomo che, fondendosi con essi, diviene druido e sciamano.

 

Nelle tradizioni celtico-druidiche appare poi il culto dell’albero universale.

 

Quando si studiano le religioni di stampo sciamanico in quasi tutte si incontra un riferimento più o meno esplicito al culto dell’Albero: L’Asse Cosmico, il pilastro centrale attorno a cui si organizza l’Universo. Con il passare del tempo ha acquisito molteplici nomi, Albero Cosmico, Asse del Mondo, Albero Rovesciato, Albero della Vita, Albero della Conoscenza, Albero Alchemico, Albero Mistico, Albero della Libertà e molti altro ancora.

 

Nella tradizione nordica troviamo il frassino Yggdrasill, l’asse del Mondo, ma anche cavallo ad otto zampe la cui scalata dona ad Odino il potere della Conoscenza. Tra i Sassoni l’universalis columna quasi sustinens omnia è chiamata Irminsul, mentre in Mesopotamia l’albero della vita era noto con il nome di Kiskadu. Buddha raggiunge l’Illuminazione sotto un albero di Ficus, mentre Adamo vuole la conoscenza del Dio Monoteista sotto l’albero piantato da Jahveh che nel giudaismo diviene poi la Menorah, il candeliere a sette bracci che riproduce l’Albero dei Sette Cieli mesopotamico. Nella tradizione araba l’abero universale è la Palma, l’albero con la testa nel fuoco del cielo e i piedi nell’acqua. Per gli Altaici sull’ombelico della Terra spunta un gigantesco albero i cui rami si allungano fino alla dimora di Bai-Ulgan, il Dio Progenitore, mentre tra gli Jacuti l’asse-albero primordiale è Yjyk-Mar che si innalza fino al nono cielo dove dimorano le anime degli sciamani. Nell’Asia settentrionale l’albero cosmico è una betulla detta Udeshi Burkjan, ovvero “il guardiano della Porta”, mentre in Cina l’albero dei “nove Cieli” è chiamato Quian mù. Nella sua opera Storia delle idee e delle credenze religiose, Eliade scrive:

 

“L’asse del mondo si rappresenta concretamente, a volte attraverso i pali che sostengono le abitazioni e altre volte come aste isolate, chiamate “colonne del mondo”. Quando la forma dell’abitazione subisce delle modificazioni (come il passaggio dalla capanna dal tetto conico alla yurta), la funzione mitico religiosa del palo viene trasferita all’apertura

 

Superiore da cui esce il fumo. Questo simbolismo è molto diffuso. Ad esso è condizionata la credenza nella possibilità di una comunicazione diretta con il Cielo. Nel piano macrocosmico, questa comunicazione è rappresentata da un asse (colonna, montagna, albero, etc.); nel piano microcosmico è raffigurata dal palo centrale dell’abitazione o dall’apertura Superiore della tenda, volendo significare che ogni insediamento umano si proietta sul “centro del mondo” e che ogni altare, negozio o casa offre la possibilità di una rottura di livello e come risultato quella di mettersi in contatto con gli dèi o compreso, nel caso degli sciamani, di ascendere al cielo…..In quanto all’albero del mondo, ve ne è testimonianza in tutta l’Asia e svolge un ruolo importante nello Sciamanesimo. Cosmologicamente, l’albero del mondo si trova al centro della terra, nel suo stesso “ombelico”, contemporaneamente i suoi rami superiori toccano le regioni celesti. L’albero unisce le tre regioni cosmiche, poiché le sue radici affondano nella profondità della terra. Secondo i mongoli e i buriati, gli dèi (tengri) si nutrono dei frutti di questo albero. Si presume che lo sciamano fabbrichi i suoi tamburi con il legno dell’albero del mondo. Davanti la sua yurta e all’interno della stessa si trovano alcune riproduzioni di alberi, la cui immagine si rappresenta anche sul tamburo. Inoltre lo sciamano, nella sua scalata alla betulla rituale, non fa altro che arrampicarsi sull’albero cosmico…”.

 

L’albero universale è presente dunque anche nella tradizione druidica.

 

Più volte esso è richiamato all’interno dei Gwersu, dal richiamo al Craeb, il sacro palo che sorregge le abitazioni circolari dei druidi, alla Bacchetta.

 

Richard Gordon, esoterista e neosciamano afferma: “The wand as used in many modern day esoteric practices is in fact a symbolic drum stick, directionally beating our concentrated willed intent against the energetic surface of creational reality”. Utilizzata come estensione del dito, essa è anche simbolo e rappresentazione dell’Axis Mundi miniaturizzato, ma anche rappresentazione dell’energie maschili e falliche. Tornando al “Macro”, ovvero all’albero, lo stesso Merlino raggiunge il potere della Conoscenza, della Veggenza, della Metamorfosi e del Linguaggio solo dopo aver scalato il sacro Pino di Barenton: l’albero cosmico. I suoi rami si protendono radiosi verso il cielo, e le sue radici affondano nella terra scura, nella quale scorrono le acque della fonte.  Per chi volesse vedere questo sacro albero, nella cittadina gallese di Carmarthen esiste una quercia risalente al XVII secolo, conosciuta come appunto come Merlin’s Tree.

 

Non mancano poi i riferimenti ai “mondi” che comporrebbero l’Universo del Druido-Sciamano, presenti nel folklore celtico. Si sprecano i racconti sul popolo delle fate, in molti casi noto come “piccolo popolo”, e su ignare persone che, attraversando anche involontariamente un “cancello” si trovavano in questa terra che potremmo definire un onirico “Mondo di Sotto” popolato da creature meravigliose e, in alcuni casi, anche pericolose. Non manca poi il metamorfismo sciamanico.

 

La figura che più di tutte può essere evocativa, in questo caso, è quella di Kernunnos, il dio-signore degli animali raffigurato con un palco di corna sulla testa. La sua più nota raffigurazione è quella presente sul calderone di Gundestrup. In realtà per molti studiosi la figura rappresentata sul calderone rappresenterebbe non un dio ma uno sciamano.

 

La capacità dei druidi di trasformarsi in animali e/o di essere con essi interconnessi è diffusissima. Nella saga di Talielsin, Gwyrhyr è noto per conoscere il linguaggio degli animali, nonché per le sue molteplici trasformazioni e esperienze di trasmutazione. Mutazioni animali le troviamo anche nei racconti di Oisin e Amergin che non solo si trasformano in animali ma trascorrono un lungo periodo sotto tali sembianze riportando nel mondo reale, una volta terminata l’esperienza della trasformazione, tutte le conoscenze acquisite in questo stato di realtà non ordinaria.

 

Lo stretto legame con l’animale sacro, che dunque poi nel tempo muterà da Spirito Guida ad elemento totemico caratterizzante del clan, è fortemente diffuso in tutta la cultura celtica. Lo stesso nome delle tribù esprime il legame con il mondo naturale e con l’animale che diviene simbolo del sacro.

 

L’usanza dei sacerdoti celtici di adornarsi con corna di cervo è descritta ancora nel 300 da Sant’Agostino che scrive dell’ “orribile usanza di travestirsi da stallone o da cervo”.

 

Altri elementi comuni tra la figura del druido e dello sciamano sono i poteri sugli agenti atmosferici, la capacità di chiamare tempeste e piogge, nebbia e sole, ma anche la loro attitudine alla divinazione. Ad esempio Diodoro Siculo e Tacito ci descrivono l’intervento di bardi sul tempo meteorologico in una famosa battaglia contro i romani sull’isola di Mona. Forte è anche il legame con la tradizione degli Antenati, i Celti utilizzarono spesso per i loro rituali luoghi megalitici costruiti da popolazioni precedenti, che seguivano particolari percorsi energetici o leys.

 

La Letteratura celtica è poi ricca di descrizioni di territori e mondi che si sviluppano in una realtà non ordinaria. Molte sono le storie e i racconti che narrano di viaggi in terre e reami presenti in un mondo assolutamente onirico o comunque non reale, come nelle avventure di San Brendano. La sua leggenda è raccontata nella Navigatio sancti Brendani, dove per l’appunto vengono descritti luoghi e mitici animali in quello che può essere considerato un viaggio interiore. In alcuni casi, come nella descrizione della vita del druido MacRuith, si narra proprio di “voli” a cavallo di fiamme che avrebbero portato il sacerdote in non meglio precisato un “mondo di sopra”. Non mancano le descrizioni di druidi vestiti con le piume di uccelli proprio ad indicare il volo spirituale, abitudine diffusissima nella tradizione sciamanica.

 

Altre esperienze non ordinarie sono descritte nelle saghe di Peredur ab Efrawg, poi trasformato nel Percival, o nelle avventure epiche irlandesi di Maelduin che narrano le imprese di questo personaggio durante un viaggio per vendicare la morte del padre ucciso da un pirata. Infine un ultimo esempio potrebbe essere la permanenza di Oisin a Tir-na-Nog. Dopo l’incontro con Niamh, una bellissima fata, Oisin fu portato nella terra dell’eterna giovinezza, Tir-Na-Nog appunto, un Oltremondo ove il tempo non esiste. Quando egli, proprio come uno sciamano immerso nel suo viaggio, si risveglierà nella realtà ordinaria, si ritroverà tremendamente invecchiato proprio come spesso accadeva ai mistici orientali in meditazione. Anche il concetto che si nasconde dietro l’Awen, o imbas in irlandese, l’ispirazione divina, l’energia che pervade le cose, che dona la capacità di poter dialogare e prender forma di animale è tipicamente sciamanica.

 

In aggiunta le narrazioni del Calderone di Cerdiwen e della nascita di Taliesin, attraverso il mistico fluido dell’Awen preparato dalla dea in persona per donare saggezza al figlio Afagddu, rimanderebbero ad antiche tecniche di apertura della “porta percettiva” attraverso sostanze allucinogene e psicotrope, come ad esempio l’Amanita Muscaria che effettivamente erano utilizzate dagli sciamani.

 

Il Druido dunque   è uno sciamano, come afferma anche Patricia Monaghan in The Encyclopedia of Celtic Mythology and Folklore, nella sua funzione di colui che diviene intermediario con il mondo magico, colui che gestisce la driudheachd, ovvero l’arte magica.

 

 

Maggiori informazioni https://www.duepassinelmistero2.com/studi-e-ricerche/filosofia-e-religioni/sciamanesimo-e-druidismo-un-unico-percors

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COMPITI

Compiti.

 

 

Egli non è un sacerdote, ma qualcosa di molto differente, è l’interprete degli dei, colui che può viaggiare nell’Oltromondo per unirsi agli Spiriti e portare di lì informazioni e consigli per se stesso e la comunità. E’ un esperto in trance estatica e conosce il linguaggio degli Spiriti.

 

Se dovessimo riassumere, le caratteristiche principali dello sciamano sono

 

Capacità di viaggiare nell’Oltremondo o in Altri Mondi

Conoscenza delle danze rituali e di mimesi naturale

Conoscenza delle Erbe e delle loro proprietà

Essere maestro di animali selvatici e delle iniziazioni

Funzioni di psicopompo.

 

 

 

Sembrano proprio le funzioni del Druido o almeno del neo Druido.

 

Se dunque la figura del Druido, ma anche del Bardo e dell’Ovate, sembra avere molti punti di contatto con quella dello sciamano, almeno dal punto di vista delle mansioni, cerchiamo di approfondire l’esistenza di uno Sciamanesimo celtico. Approfondiamo per ora le informazioni storiche presenti nel grado Bardo.

 

Il Druidismo moderno nasce nel 1700 con l’apporto di William Blake associato alla cultura Massonica e Rotariana e al rinato interesse per la storia delle antiche origini e per l’arte antiquaria inglese. Da sempre infatti i siti megalitici come Stonehenge o Avebury avevano attratto la curiosità di vari studiosi, ma fu con l’avvento del Romanticismo che tali costruzioni iniziarono ad interessare direttamente gli storici che cercavano di capirne le origini.

 

In realtà il metodo della ricerca storico-scientifica non era ancora perfezionato. Molti di costoro, trattandosi di costruzioni pre-romane, le associarono, sbagliando, direttamente ai celti ed ai loro sacerdoti, i druidi. Nasceva così l’accostamento tra Druidi e il Megalitismo.

 

Il primo ad associare tali siti alle popolazioni celtiche fu un antiquario inglese, John Aubrey, nel suo saggio Templa Druidum, e successivamente un dottore di Lincolnshire, William Stukeley. Stukeley si definì lui stesso un Druido, prendendo il nome di Chyndonax, inciso su una antica stele ritrovata nel 1623 a Digione e realizzò nella propria abitazione un vero e proprio boschetto druidico, un grove, dove svolgeva alcune cerimonie pagane. Creando una sorta di “lignaggio”, Stukeley affermò che i druidi arrivarono in Bretagna dopo il Diluvio universale e sarebbero stati proprio Noè ed Abramo i primi druidi nonché costruttori  dei templi megalitici per il mondo. Sarà sempre Stukeley a definire, in realtà riprendendolo dal famoso testo secentesco Britannia Antiqua Illustrata del 1676, l’archetipo figurativo del druido, caratterizzato da un mantello con cappuccio, un bastone, una tunica corta e una lunga barba bianca. I luoghi di riunione e culto druidici non saranno però solo i nemeton megalitici. Una tradizione orale vuole che nel 1717 nel pub “Apple Tree Tavern” Jhon Toland, una figura chiave per i movimenti neodruidici moderni, avesse radunato i più importanti esponenti dei circoli druidici inglesi, in quello che poi sarà il primo grove ufficiale denominato “Mother grove” di cui Toland divenne Arcidruido, e che fu ufficialmente inaugurato  nell’equinozio di autunno del 1717 a Primrose Hill, una collina situata nella parte nord di Regent’s Park, a nord di Londra. Sarà da questo luogo a divenire sacro successivamente per molteplici organizzazioni druidiche. Nel 1747 Edward Williams diede vita al primo movimento druidico gallese, “Gorsedd Beirdd Ynys Prydain”, autoproclamandosi druido con il nome di Iolo Morgannwg. Ancora una volta il luogo scelto per la prima cerimonia avvenuta nel 1792 fu Pilmrose Hill. Fu la prima volta che si ebbe un Eisteddfodau, ovvero una riunione della durata di tre giorni. A Iolo inoltre si devono molti dei rituali druidici moderni tra cui l’importante Invocazione alla Pace che oggi caratterizza la maggior parte dei gruppi neodruidici, nonchè l’utilizzo di particolari oggetti cerimoniali quali la spada, il bastone, la corona, la cornucopia e il famoso corno Gwalad. E’ l’inizio del Revival druidico, nascono i primi groove, letteralmente “boschetti”, ed ordini druidici, in realtà all’inizio più società paramassoniche. Nel 1781 viene fondato l’Ancient Order of Druids, noto con la sigla AOD, nel 1833 The United Ancient Order of Druids e nel 1964 l’OBOD, il moderno Ordine dei Bardi, Ovati e Druidi. Successivamente, negli Anni ’60, anche grazie all’accostamento della pratica druidica con i nuovi movimenti eco-ambientalisti ed hippies, si riscopre il forte contatto naturale e la sua interconnessione con il mondo sciamanico ed infatti  la maggior parte di coloro che praticano oggi il neo Druidismo utilizzano tecniche sciamaniche. E’ in questo periodo dunque che neo Druidismo e Sciamanesimo iniziano il loro percorso intrecciandosi

 

Caitlin e John Matthews, membri dell’OBOD dal 1989 al 1992, sono stati i pionieri dell’applicazione di tecniche sciamaniche al celtismo. Un testo davvero molto ben approfondito, di tali autori a cui rimando è Sciamanesimo Celtico.

 

Successivamente Tom Cowan, nei suoi testi, Sciamanismo: una pratica spirituale per la vita quotidiana e di Il Fuoco nella Testa, cerca di far trasparire dal Druidismo “storico”, di cui effettivamente si conosce poco o nulla a causa della scarsità di documenti e della tradizione di trasmissione orale, la sua primigenia forma sciamanica, cercando anche paralleli con le tradizioni dei nativi americani.

 

Ma c’è qualcosa che permette di associare ”storicamente” il Druidismo allo Sciamanesimo?

 

I Celti, durante le loro migrazioni verso Occidente entrarono sicuramente in contatto con le popolazioni proto uraliche assorbendone i sostrati magico-religiosi di stampo sciamanico.

 

Evidenze sciamaniche riaffiorano nelle saghe irlandesi di Cu Chullinn, nei racconti gallesi del Mabinogion, fino ai più recenti romanzi di Chretien de Troyes.

 

Alcune di queste letture si trovano nei Gwersu, non solo momenti di lettura ma “indizi” su questo legame spesso celato.

 

Si narra così di veggenti chiamati offydd, gli Ovati, che avevano l’abilità di entrare in trance e viaggiare nel mondo degli Antenati. Individui con abilità di channeling li ritroviamo anche nei racconti gallesi con il nome di  awenyddion, ovvero posseduti. Non mancano poi i rituali estatici.

 

John Matthews in Taliesin: The Last Celtic Shaman, descrive rituali trance-estatici per raggiungere l’illuminazione attraverso l’uso di veri e propri mantra come “Dichetal do chennaib“, (si pronuncia “Diketal de Kenna”).

 

Questa sorta di stato alterato di coscienza, era anche noto come Imbas forosnai, ovvero il dono di veggenza. Si trattava di una sorta di tecnica di deprivazione sensoriale, per entrare in trance e di ricevere risposte o profezie. Danu Forest nel suo testo Shaman pathways e Robert Wallis in Shamans/Neo-Shamans: Ecstasies, Alternative Archaeologies and Contemporary descrivono approfonditamente questo rituale.

 

Il druido che doveva entrare in trance, rimaneva al buio assoluto, sotto una pelle di toro per nove giorni o fino a quando non aveva la visione. Mircea Eliade chiama questa cerimonia “bull dream” ovvero Tarbfeis.

 

Secondo alcuni studiosi oltre al buio il druido era costretto a cibarsi esclusivamente di carne di toro e a bere il suo sangue favorendo così una sorta di ipervitaminosi da vitamina A che a sua volta favoriva vomito, diarrea e dunque una sorta di alterazione fisica che favoriva così la visione. Tracce di questa cerimonia le troviamo nell’archeologia e nel folklore. Alcune divinità celtiche sono raffigurate come antropomorfe dai caratteri taurini, come la testa del dio-toro Taranis ritrovata a Lezoux, in Francia, e datata I sec. a.C. Sono immagini che enfatizzano il legame tra gli Spiriti animali e l’uomo che, fondendosi con essi, diviene druido e sciamano.

 

Nelle tradizioni celtico-druidiche appare poi il culto dell’albero universale.

 

Quando si studiano le religioni di stampo sciamanico in quasi tutte si incontra un riferimento più o meno esplicito al culto dell’Albero: L’Asse Cosmico, il pilastro centrale attorno a cui si organizza l’Universo. Con il passare del tempo ha acquisito molteplici nomi, Albero Cosmico, Asse del Mondo, Albero Rovesciato, Albero della Vita, Albero della Conoscenza, Albero Alchemico, Albero Mistico, Albero della Libertà e molti altro ancora.

 

Nella tradizione nordica troviamo il frassino Yggdrasill, l’asse del Mondo, ma anche cavallo ad otto zampe la cui scalata dona ad Odino il potere della Conoscenza. Tra i Sassoni l’universalis columna quasi sustinens omnia è chiamata Irminsul, mentre in Mesopotamia l’albero della vita era noto con il nome di Kiskadu. Buddha raggiunge l’Illuminazione sotto un albero di Ficus, mentre Adamo vuole la conoscenza del Dio Monoteista sotto l’albero piantato da Jahveh che nel giudaismo diviene poi la Menorah, il candeliere a sette bracci che riproduce l’Albero dei Sette Cieli mesopotamico. Nella tradizione araba l’abero universale è la Palma, l’albero con la testa nel fuoco del cielo e i piedi nell’acqua. Per gli Altaici sull’ombelico della Terra spunta un gigantesco albero i cui rami si allungano fino alla dimora di Bai-Ulgan, il Dio Progenitore, mentre tra gli Jacuti l’asse-albero primordiale è Yjyk-Mar che si innalza fino al nono cielo dove dimorano le anime degli sciamani. Nell’Asia settentrionale l’albero cosmico è una betulla detta Udeshi Burkjan, ovvero “il guardiano della Porta”, mentre in Cina l’albero dei “nove Cieli” è chiamato Quian mù. Nella sua opera Storia delle idee e delle credenze religiose, Eliade scrive:

 

“L’asse del mondo si rappresenta concretamente, a volte attraverso i pali che sostengono le abitazioni e altre volte come aste isolate, chiamate “colonne del mondo”. Quando la forma dell’abitazione subisce delle modificazioni (come il passaggio dalla capanna dal tetto conico alla yurta), la funzione mitico religiosa del palo viene trasferita all’apertura

 

Superiore da cui esce il fumo. Questo simbolismo è molto diffuso. Ad esso è condizionata la credenza nella possibilità di una comunicazione diretta con il Cielo. Nel piano macrocosmico, questa comunicazione è rappresentata da un asse (colonna, montagna, albero, etc.); nel piano microcosmico è raffigurata dal palo centrale dell’abitazione o dall’apertura Superiore della tenda, volendo significare che ogni insediamento umano si proietta sul “centro del mondo” e che ogni altare, negozio o casa offre la possibilità di una rottura di livello e come risultato quella di mettersi in contatto con gli dèi o compreso, nel caso degli sciamani, di ascendere al cielo…..In quanto all’albero del mondo, ve ne è testimonianza in tutta l’Asia e svolge un ruolo importante nello Sciamanesimo. Cosmologicamente, l’albero del mondo si trova al centro della terra, nel suo stesso “ombelico”, contemporaneamente i suoi rami superiori toccano le regioni celesti. L’albero unisce le tre regioni cosmiche, poiché le sue radici affondano nella profondità della terra. Secondo i mongoli e i buriati, gli dèi (tengri) si nutrono dei frutti di questo albero. Si presume che lo sciamano fabbrichi i suoi tamburi con il legno dell’albero del mondo. Davanti la sua yurta e all’interno della stessa si trovano alcune riproduzioni di alberi, la cui immagine si rappresenta anche sul tamburo. Inoltre lo sciamano, nella sua scalata alla betulla rituale, non fa altro che arrampicarsi sull’albero cosmico…”.

 

L’albero universale è presente dunque anche nella tradizione druidica.

 

Più volte esso è richiamato all’interno dei Gwersu, dal richiamo al Craeb, il sacro palo che sorregge le abitazioni circolari dei druidi, alla Bacchetta.

 

Richard Gordon, esoterista e neosciamano afferma: “The wand as used in many modern day esoteric practices is in fact a symbolic drum stick, directionally beating our concentrated willed intent against the energetic surface of creational reality”. Utilizzata come estensione del dito, essa è anche simbolo e rappresentazione dell’Axis Mundi miniaturizzato, ma anche rappresentazione dell’energie maschili e falliche. Tornando al “Macro”, ovvero all’albero, lo stesso Merlino raggiunge il potere della Conoscenza, della Veggenza, della Metamorfosi e del Linguaggio solo dopo aver scalato il sacro Pino di Barenton: l’albero cosmico. I suoi rami si protendono radiosi verso il cielo, e le sue radici affondano nella terra scura, nella quale scorrono le acque della fonte.  Per chi volesse vedere questo sacro albero, nella cittadina gallese di Carmarthen esiste una quercia risalente al XVII secolo, conosciuta come appunto come Merlin’s Tree.

 

Non mancano poi i riferimenti ai “mondi” che comporrebbero l’Universo del Druido-Sciamano, presenti nel folklore celtico. Si sprecano i racconti sul popolo delle fate, in molti casi noto come “piccolo popolo”, e su ignare persone che, attraversando anche involontariamente un “cancello” si trovavano in questa terra che potremmo definire un onirico “Mondo di Sotto” popolato da creature meravigliose e, in alcuni casi, anche pericolose. Non manca poi il metamorfismo sciamanico.

 

La figura che più di tutte può essere evocativa, in questo caso, è quella di Kernunnos, il dio-signore degli animali raffigurato con un palco di corna sulla testa. La sua più nota raffigurazione è quella presente sul calderone di Gundestrup. In realtà per molti studiosi la figura rappresentata sul calderone rappresenterebbe non un dio ma uno sciamano.

 

La capacità dei druidi di trasformarsi in animali e/o di essere con essi interconnessi è diffusissima. Nella saga di Talielsin, Gwyrhyr è noto per conoscere il linguaggio degli animali, nonché per le sue molteplici trasformazioni e esperienze di trasmutazione. Mutazioni animali le troviamo anche nei racconti di Oisin e Amergin che non solo si trasformano in animali ma trascorrono un lungo periodo sotto tali sembianze riportando nel mondo reale, una volta terminata l’esperienza della trasformazione, tutte le conoscenze acquisite in questo stato di realtà non ordinaria.

 

Lo stretto legame con l’animale sacro, che dunque poi nel tempo muterà da Spirito Guida ad elemento totemico caratterizzante del clan, è fortemente diffuso in tutta la cultura celtica. Lo stesso nome delle tribù esprime il legame con il mondo naturale e con l’animale che diviene simbolo del sacro.

 

L’usanza dei sacerdoti celtici di adornarsi con corna di cervo è descritta ancora nel 300 da Sant’Agostino che scrive dell’ “orribile usanza di travestirsi da stallone o da cervo”.

 

Altri elementi comuni tra la figura del druido e dello sciamano sono i poteri sugli agenti atmosferici, la capacità di chiamare tempeste e piogge, nebbia e sole, ma anche la loro attitudine alla divinazione. Ad esempio Diodoro Siculo e Tacito ci descrivono l’intervento di bardi sul tempo meteorologico in una famosa battaglia contro i romani sull’isola di Mona. Forte è anche il legame con la tradizione degli Antenati, i Celti utilizzarono spesso per i loro rituali luoghi megalitici costruiti da popolazioni precedenti, che seguivano particolari percorsi energetici o leys.

 

La Letteratura celtica è poi ricca di descrizioni di territori e mondi che si sviluppano in una realtà non ordinaria. Molte sono le storie e i racconti che narrano di viaggi in terre e reami presenti in un mondo assolutamente onirico o comunque non reale, come nelle avventure di San Brendano. La sua leggenda è raccontata nella Navigatio sancti Brendani, dove per l’appunto vengono descritti luoghi e mitici animali in quello che può essere considerato un viaggio interiore. In alcuni casi, come nella descrizione della vita del druido MacRuith, si narra proprio di “voli” a cavallo di fiamme che avrebbero portato il sacerdote in non meglio precisato un “mondo di sopra”. Non mancano le descrizioni di druidi vestiti con le piume di uccelli proprio ad indicare il volo spirituale, abitudine diffusissima nella tradizione sciamanica.

 

Altre esperienze non ordinarie sono descritte nelle saghe di Peredur ab Efrawg, poi trasformato nel Percival, o nelle avventure epiche irlandesi di Maelduin che narrano le imprese di questo personaggio durante un viaggio per vendicare la morte del padre ucciso da un pirata. Infine un ultimo esempio potrebbe essere la permanenza di Oisin a Tir-na-Nog. Dopo l’incontro con Niamh, una bellissima fata, Oisin fu portato nella terra dell’eterna giovinezza, Tir-Na-Nog appunto, un Oltremondo ove il tempo non esiste. Quando egli, proprio come uno sciamano immerso nel suo viaggio, si risveglierà nella realtà ordinaria, si ritroverà tremendamente invecchiato proprio come spesso accadeva ai mistici orientali in meditazione. Anche il concetto che si nasconde dietro l’Awen, o imbas in irlandese, l’ispirazione divina, l’energia che pervade le cose, che dona la capacità di poter dialogare e prender forma di animale è tipicamente sciamanica.

 

In aggiunta le narrazioni del Calderone di Cerdiwen e della nascita di Taliesin, attraverso il mistico fluido dell’Awen preparato dalla dea in persona per donare saggezza al figlio Afagddu, rimanderebbero ad antiche tecniche di apertura della “porta percettiva” attraverso sostanze allucinogene e psicotrope, come ad esempio l’Amanita Muscaria che effettivamente erano utilizzate dagli sciamani.

 

Il Druido dunque   è uno sciamano, come afferma anche Patricia Monaghan in The Encyclopedia of Celtic Mythology and Folklore, nella sua funzione di colui che diviene intermediario con il mondo magico, colui che gestisce la driudheachd, ovvero l’arte magica.

 

 

Maggiori informazioni https://www.duepassinelmistero2.com/studi-e-ricerche/filosofia-e-religioni/sciamanesimo-e-druidismo-un-unico-percors

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CORPO E TEMPIO

Corpo e tempo

 

 

 

Gran Loggia d’Italia |

di Antonio Binni

La libera muratoria regola, in termini minuziosi e tassativi, la posizione che deve assumere il corpo tanto quando l’iniziato entra nel Tempio, tanto quando ne esce, sia quest’ultimo una Loggia o una Camera di perfezionamento. Per incidens, osservo che non esistono riti che si possono eseguire senza il corpo. La massoneria ignora però completamente la nozione di corpo in sé, nel senso di oggettivamente considerato e così inteso, pur, ovviamente, presupponendolo. Affermazione, per altro, non smentita né contraddetta neppure quando in un grado, che, per doverosa discrezione non nomino, il Rituale pone l’accento sulla importanza dei sensi intesi come altrettante fonti mediate di conoscenza, autentiche finestre sul mondo circostante. In quest’ottica il corpo non viene infatti considerato nella sua complessa unicità, quanto invece, all’opposto, come un organismo, vale a dire, come una summa di elementi conoscitivi indiretti. Con questo scritto intendiamo, al contrario, spostare l’attenzione proprio sul corpo fisico unitariamente considerato quale si manifesta nel mondo reale. Per corpo così assunto intendiamo un corpo fisico soggetto a nascita e morte, percepito nella sua unicità e globalità con i normali organi di senso simultaneamente operanti. Nella definizione proposta è fin troppo evidente l’eco dell’uso che della parola faceva Omero. Nel cantore greco quel vocabolo indica infatti sempre il corpo di un morto, come corpse nella lingua inglese. La nozione di corpo va per altro completata con alcune ulteriori osservazioni. Fra le parti – fisiche, mentali, spirituali – che compongono il corpo va notato che non v’è alcuna competizione, ma cooperazione solidale, perché nessuna parte del corpo è orientata a se stessa, ma tutte alla armonia vitale dell’insieme. L’«intero» inoltre è complesso, aperto, in continuo movimento e mutamento, secondo «un equilibrio instabile» tendente alla salute. Il corpo è silenzioso perché opera in silenzio, libero perché agisce spontaneamente. La vita dell’uomo si realizza nel corpo. Senza corpo, non esistono homini viatores. È nel mondo classico – non in quello biblico – che si deve cercare la stima e l’amore per il corpo sensibile. In estrema sintesi, la sua valenza positiva. Da questo profilo, decisivo, ancora una volta, risulta l’insegnamento di Platone che, nel Timeo (29 d – 30 c), ne esalta la perfezione, l’armonia, la nobiltà frutto dell’opera di un divino Artefice capace solo di opere belle, microcosmo specchio, perciò, del macrocosmo. Il che, peraltro, è completamente in linea con ciò che accadeva nell’ universo greco a tutti i livelli, a partire dal concreto. Sono infatti i greci che hanno inventato i ginnasi (la parola deriva da gymnòs che in greco significa «nudo»), le palestre, le terme, in generale la cura del corpo, per non invocare a ulteriore conforto la statuaria greca, prova inoppugnabile dell’ attenzione partecipata riservata al corpo, alla sua bellezza, alla sua nobiltà. È tuttavia sempre Platone che, sotto l’impulso della dottrina pitagorica, parla del corpo come di un carcere e di una tomba per l’anima (soma – sema – Gorgia 493 a; Cratilo 400 c), dal quale fuggire per raggiungere la «pianura della verità» (Fedro, 248 a – c). Col che, non solo si istituisce un rapporto fra corpo e anima, ma, nel contempo, si afferma la superiorità dell’anima sul corpo. La dimensione del corpo infatti è quella del tempo e della molteplicità, per definizione opposta alla dimensione dello spirito, che è quella dell’eterno. Opposizione e superiorità che costituirà poi il cardine della dottrina cattolica e, in particolare, della sua mistica, che, dalla bellezza del corpo, insegna a risalire di gradino in gradino fino alla sfera dello spirituale. Senza però svalutare o addirittura demonizzare il corpo, dal momento che, senza conoscenza e amore del corpo sensibile – salvo poi distaccarsene – non è possibile né conoscere né amare l’anima che è e vale di più. Il che non è dunque rifiuto, né tanto meno condanna del corpo, ma motivo di crescita. Come a dire che la dimensione corporea, per quanto subordinata a quella spirituale, è comunque un dato reale, oltre che di nobile natura. L’uomo è stato infatti creato dal Sommo Fattore anche come corpo. Se questo fosse poi stato privo di Logos, in esso non si sarebbe mai incarnato il Figlio. In conclusione, proprio nella fragilità del corpo e nel suo rapido corrompersi e perire si deve cogliere e riconoscere la sua divinità. Il corpo e i sensi non sono dunque né un legame, né un ostacolo allo spirito, come taluni predicano, visto che nell’uomo autenticamente spirituale corpo e anima, anima e corpo, vivono all’opposto fra loro in perfetta armonia. Il mondo reale è un mondo corporeo. Il che motiva e giustifica ampiamente l’attenzione prestata al tema e la sua analisi razionale da completarsi tuttavia anche da un altro versante significativo, invero assai poco considerato, mentre è del tutto meritevole di essere approfondito. Il tempo soggettivo – quello acutamente messo in luce da Agostino – quello, per intenderci, che rinviene il suo punto di apprensione e di valutazione all’interno della coscienza di ciascuno, ai fini della nostra indagine non rileva. All’opposto, a questo scopo assume invece valore decisivo il «numerato» platonico, ossia la considerazione oggettiva del tempo, con tutta la sua forza ordinatrice fonte di emersione di momenti decisivi e tali da imprimere comunque una svolta significativa. Si vuol dire altrimenti che il tempo della vita viene articolato attraverso tagli, conclusioni, soglie e tradizioni. Ma per i moderni consumatori, infantili e adolescenti ritardati, mai diventati adulti, il tempo altro non è che un semplice passo da un presente a un altro presente. Anche se poi il tempo, senza curarsi di alcunché, si vendica su chi invecchia senza volere diventare vecchio. Il tempo, con tutto il suo potere devastante, lascia infatti tracce indelebili e segni visibili su tutto ciò che è materia e dunque anche sullo stesso corpo umano. A ben considerare, non è allora soltanto vero ciò che si insegna comunemente, ossia che l’uomo vive nel tempo, ma forse non è neppure meno vero che il tempo vive nell’uomo fino a diventare sua misura. Il corpo umano, per dirla altrimenti, testimonia il trascorrere del tempo. Con una immagine – ardita – si potrebbe sostenere che il corpo umano è un segna-tempo, un puntualissimo orologio proprio perché, attraverso il tempo, è possibile ricostruire la vita di ciascuno, oltre che rileggerla in profondità. Concludendo, ci pare legittimo sostenere che il corpo umano, fra tutte le altre, espleta pure la incontestabile funzione di calendario. Nelle meridiane, di solito, si legge: sine sole, sileo. Parimenti, senza un esame della evoluzione del tempo non è possibile cogliere la reale trasformazione del corpo. Per abbracciare il fenomeno in tutta la sua dinamicità, occorre però un esercizio di attenzione. Come dire che per «guardare diverso» occorre prestare attenzione a tutto ciò che non si vede, a tutto ciò che è nascosto, ma che esiste realmente: Sua Maestà il Tempo! Altro che non esiste!

 

 

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