PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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APPUNTI PER UNA TEORIA ED ETICA. . .

APPUNTI PER UNA

TEORIA ED ETICA DELLA CONOSCENZA MASSONICA

di

Giuseppe Schiavone

La conoscenza, il suo senso

La conoscenza, unitamente alla conazione e all’affezione , è uno dei tre aspetti o funzioni fondamentali della vita dell’uomo. La conoscenza intellettiva — raccogliendo ed elaborando i dati provenienti dall’attività materiale dei sensi — consiste nell’appercezione di essi, nella loro complessa catalogazione e rielaborazione mentale; quindi nella loro trasformazione in concetti e nel definitivo

Il possesso cosciente dei concetti medesimi; infine nell’archiviazione mnemonica degli stessi, per essere poi utilizzati al momento del bisogno. Pertanto, il concetto coscientemente posseduto dalla mente può dirsi essere il verbum mentis : la formazione specifica di un’idea nel corso del processo conoscitivo  dell’uomo.

La conoscenza è la facoltà attraverso la quale la realtà esterna al soggetto viene assimilata o, meglio, ri-assimilata e ricreata in simboli mentali (le idee), quindi posseduta dal soggetto medesimo, costituendo un patrimonio interiore disponibile per ogni utilizzo, sempre, perennemente (anche nell’arco di tutte le vite possibili). Quanto più ampio è siffatto patrimonio, tanto più ampia è la possibilità del soggetto di dare risposte adeguate ai problemi che l’esperienza quotidiana gli pone.

Individuiamo, quindi, innanzi tutto, nel processo conoscitivo:

1) un’attività di apprensione, dall’esterno all’interno, attraverso l’utilizzo dei sensi e della mente (e di tutti gli strumenti che cultura e scienza mettono a disposizione);

2) ed un’attività evocatoria, dall’interno all’esterno, che attinge all’intimo patrimonio di conoscenze personali accumulato nel corso del tempo.

L’esperienza umana non si disperde (come invece accade negli animali), proprio perché, secondo quanto s’è già detto, è rielaborata e conservata per mezzo del processo d’apprendimento e d’acculturamento, costituendo così una memoria storica che non si disperde mai, radicandosi organicamente nell’essere d’uomo. In tal modo si struttura una memoria profonda (al di là di quella riguardante il passato prossimo, al di là della mneme: la semplice ricordanza) che si colloca permanentemente alla radice della vita. Dagli antichi greci fu personificata in Mnemòsine: la Memoria dei tempi che furono e delle opere degli Dei e degli uomini, colei che è il principio del ricordo, che contiene e custodisce l’intero passato; dalla quale, per impulso di Zeus, che giacque con lei per nove notti, sono nate le Muse ispiratrici di tutte le arti. Per cui, la radice della memoria ci porta alla radice dell’umanità (e viceversa) e dell’intenzionalità originaria. La memoria primigenia, così, si pone come archetipo e come fondazione storica della razionalità e del processo conoscitivo, dal quale è comunque alimentata e sollecitata, interagendo in un rapporto dialettico.

Globalmente, tale processo evolve continuamente e stimola, com’è evidente, la crescita storicoculturale dell’uomo, cioè la sua trasformazione (o trasmutazione) attraverso l’ampliamento progressivo dei suoi poteri conoscitivi e, quindi, operativi. Per il tramite del processo conoscitivo la ragione tappropria “idealmente” della cosa conosciuta, delle sue qualità e dei suoi poteri. Sussumendo  intellettivamente la cosa, acquisisce (se non totalmente, almeno in parte) la capacità di riprodurla, di ricrearla. L’idea della cosa complessivamente conosciuta si fissa in mente hominis; e così la mente può, con un atto di volontà produttiva (poiesis) dispiegato nella prassi (praxis), attuarla in concreto, riprovocarla.

La ragione, nell’atto conoscitivo, non è mera ricezione passiva dell’oggetto che sta conoscendo; essa esplica un comprendere, cioè un afferrare e penetrare intelligendo. Conosce e capisce, da cui la scienza e la coscienza.

Le proprietà della cosa, acquisite conoscitivamente, diventano proprietà della mente, perciò del soggetto conoscente. Il conosciuto arricchisce il conoscente, gli conferisce poteri. Quando ciò non avviene è perché la cosa non è ancora adeguatamente conosciuta, in quanto qualcosa ancora si nasconde al conoscente, poiché evidentemente permane un deficit di conoscenza che dev’essere colmato. In ogni caso la mente è capace di contenere l’archetipo della res (della cosa).

In linguaggio iniziatico, potremmo dire che il soggetto (cioè l’adepto) è in grado di possedere l’Arte o Scienza reale (cioè l’Arte o Scienza della cosa). La mente assume in sé, attraverso la conoscenza, le proprietà dell’oggetto conosciuto, ampliandosi progressivamente. La mens è l’ente-ragione-uomo: è la potenzialità divina nell’uomo, l’espressione della sua intrinseca spiritualità. Nel processo totalmente dispiegato è la Ragione-Dio. E la ragione totalmente dispiegata (o anche sino al livello storico in cui è dispiegata) non è più solo ricerca e conoscenza, ma è conoscenza e potere, potere ri-creativo.

Emerge qui, dunque, il concetto della mente come facoltà umana che riflette più d’ogni altra la «somiglianza» divina indicata in Genesi (1, 26-27; 5, 1)5 . Per cui, sulla base di queste premesse, l’uomo — come insegna il metodo iniziatico — sviluppando il processo conoscitivo, integrato da una contestuale rigorosa purificazione fisica ed etica, può pervenire alla divinità, può diventare come Cristo, procedendo per gradi, esperienza dopo esperienza, stato di coscienza dopo stato di coscienza, vita dopo vita, sino alla “perfezione”; che certamente non si conquista in modo “improvviso”, ma in un lungo divenire, in cui si sperimenta la perfettibilità umana.

Secondo il principio metodologico della conoscenza libero-muratoria, non basta l’intelligenza per comprendere concettualmente, ma occorre in modo previo un livello coscienziale (cioè morale) adeguato. E necessaria, propedeuticamente, una maturazione etico-spirituale che consenta lo sviluppo della capacità cognitiva. Il Verbum, o Logos, si disvela per gradi ai buoni. E così progressivamente s’ incarna, diventa storia, parola universale, messaggio che s’ annunzia (che può annunziarsi) a tutti gli uomini. Diventa conoscenza e coscienza, quindi cultura e norma etica.

Il nascondimento della Ragione nella natura inconscia è il mysterium magnum (per usare l’espressione di Bôhme) che dev’essere svelato dall’uomo medesimo; cioè da quell’essere che ha in sé la capacità di riscattare la materia portandola allo stato di coscienza .

La conoscenza, quindi, passando attraverso l’intellezione dei fenomeni di natura (con l’ausilio della ragione scientifica e dell’illuminazione intuitiva), costituisce un’esperienza di compenetrazione, parziale ma progressiva, nella divinità, che avvolge e pervade intimamente tutte le forme dell’esistente, visibile ed invisibile, come in basso così in alto. Pertanto, è nel contempo indagine scientifico-sperimentale, indagine teologica e indagine iniziatico-misterosofica. In questa prospettiva l’esperienza globale (estesa anche alle forme di vita precedenti del soggetto), razionalmente e coscientemente vissuta, è la conoscenza autentica del vero secondo il grado di maturità etica e cognitiva raggiunto dalla creatura.

La scienza dell’evoluzione umana (che passa, come già detto, attraverso lo sviluppo della conoscenza e della coscienza) conferisce all’uomo la chiave della propria essenza e l’arché del mondo, sino alla comprensione di Dio, il Grande Architetto dell’Universo, la Ragione di tutto. Perciò, essendo Egli in modo così pieno in ognuno, ogni singolo lo può conoscere per “via interiore” e per “via esterna”, combinando insieme le due vie e assumendo l’una come prova dell’altra, e viceversa. La via interiore consiste nell’analisi del proprio io profondo, esplorandone le radici, sino alla Luce ch’è alla base dell’essere; mentre la via esterna, partendo dal presupposto che il G.A.D.U. — come s’è visto — è pure in tutte le cose di natura, oltre che nell’uomo, consiste nella possibilità di conoscerlo anche indagando “sulle” e “nelle” cose stesse, con metodo scientifico-sperimentale.

In questa complementarità, il termine unificante, il G.A.D.U., dalla Massoneria è significativamente pensato come Ragione di tutto l’universo: Ragione immanente e, nel contempo, trascendente. Ed essa, proprio perché Ragione, è decodificabile dalla scienza, come strumento per penetrare nella sua intima luce. E attingibile, perciò, attraverso il suo analogo, la ragione dell’uomo. Inoltre, può essere sviluppata da parte dell’iniziato (ma anche da parte d’ogni individuo) in un processo di progressiva attuazione della propria genetica «somiglianza» a Dio . Un processo non simbolico, non virtuale, ma che realmente trasforma il corpo e lo spirito del singolo, rendendo possibile ad ognuno di nascere due volte, ovvero di ri-nascere, cioè di trasformarsi radicalmente come Cristo e d’essere pienamente figlio di Dio .

 

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L’ANTICO E PRIMITIVO RITO Dl MEMPHIS E MISRAIM

L’ANTICO E PRIMITIVO RITO Dl MEMPHIS E MISRAIM

di Giancarlo Seri

I  Contenuti

La Tradizione Muratoria propone ai Fratelli Massoni una Operatività di natura strettamente interiore e spirituale. Questa si può esprimere solo attraverso dinamiche che tendono prima alla scoperta e quindi allo studio del “profondo” esistente al centro della coscienza di ogni essere intelligente.

Solamente attraverso l’osservazione intensa, accurata e silenziosa, si può procedere a quel lavoro di sgrossatura della “pietra” che pone, in definitiva, il Massone al servizio dell’evoluzione umana ed universale, passando, quindi, da un’opera strettamente personale ad un’opera trans-personale; tutto ciò consente all’Uomo di crescere da un piccolo ed egocentrico “io” ad un “Sé” vibrante e splendente nel glorioso ed eterno lavoro trasmutatorio dell’Essere.

L’Operatività, intesa quindi come insieme di “passaggi” attraverso i quali, per gradi, si effettuano molteplici rettificazioni, perfezionamenti – veri e propri salti di qualità – , è il lavoro che propone l’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraim attraverso un percorso muratorio-illuministico che racchiude in sé il sistema iniziatico occidentale.

Esso parte dalla base, la Libera Muratoria Azzurra, per giungere alle vette rosicruciane della Gnosi, includendovi i sistemi ermetici, filosofici ed esoterici degli antichi Hyerophanti egiziani e dei sacerdoti di Mithra. Il Rito, a causa del suo riferimento a Misraim (da “mizr”, parola questa che deriva dall’antica lingua ebraica e che indica l’Egitto), è denominato anche “Rito Egiziano”, cosa questa che non ha  mancato, in passato, di causare confusione con il Rito Egiziano – o Muratoria Egiziana – di Cagliostro che, pur ricollegandosi idealmente con l’Antico e Primitivo Rito Di Memphis e Misraim, almeno per ciò che riguarda lo studio delle pratiche mistiche e teurgiche, è, nella sostanza, profondamente differente.

L’antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraim è un vero e proprio Ordine e non un semplice Rito, dato il senso che comunemente viene attribuito a questa parola. Esso è stato concepito allo scopo di raccogliere in un unico organismo (che accomunasse nei suoi gradi la saggezza di cui il Sistema Iniziatico Occidentale è depositario), gli iniziati sparsi negli Corpi Rituali Muratori superiori e negli Ordini Illuministici e Cavallereschi che operavano agli inizi del 700 e potesse quindi trasmettere la conoscenza in grado di soddisfare il desiderio di crescita interiore.

Il Rito di Memphis e Misraim

Il Rito, come lo conosciamo oggi, è il frutto della fusione di due Riti ben distinti:

Il rito di Misraim o Egiziano

Il rito di Memphis o Orientale

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Per capire meglio il tutto diamo una brevissima occhiata a questi due Riti, alla loro storia ed ai loro contenuti.

1) Il Rito di Misraim

Diversi autori concordano sulle origini del Rito in Italia, sulla sua diffusione a Venezia e nell’Italia del Sud.

Gastone Ventura dice: “…il Rito di Misraim, o Egiziano, sorto a Venezia nel 1801 ad opera di Filatele Abraham e subito diffusosi in Italia e Francia … è un sistema massonico-illuministico che racchiude in sé il Gran Sistema Iniziatico occidentale che il Rito Scozzese Antico ed Accettato, nella rielaborazione in trentatré gradi dei principali riti professati, non riuscì a realizzare, avendo escluso dalla sua nomenclatura i gradi cabalistici e quelli martinisti e martinezisti…” .

Altre fonti dicono che non fu il FilaleteAbraham – che sarebbe in effetti il Barone Tassoni di Modena – a portare il Rito a Venezia ma che bensì fu Cagliostro. Al di là, comunque, di queste controversie del tutto marginali, restano appurati i seguenti fatti fondamentali:

Dall’Egitto a Malta, intorno al 1750, attraverso l’opera iniziatica di illustri personaggi – tra i quali spicca Raimondo di Sangro, Principe di S. Severo – confluisce a Napoli una intensa attività di studio e ricerca, che ha per oggetto temi alchemici ed ermetici, veicolata principalmente attraverso la Tradizione Massonica.

A Venezia nasce, nel 1 788/1801 , grazie all’attività delle Logge Egiziane in parte promosse da Cagliostro ed in parte da Ananiah il Saggio e dal Filalete Abraham, l’ordine Egizio di Misraim; alcuni anni dopo il Rito si diffonde in Lombardia ove viene fondato il Supremo Consiglio del Rito avente giurisdizione sui 90 gradi.

Nel 1856 il Rito, dopo alterne vicende, viene definitivamente assorbito dal rito di Memphis anche se rimangono, ancora per alcuni anni, attive poche obbedienze nazionali – costituenti il deposito iniziatico denominato “Arcana Arcanorum”.

2) 11 Rito di Memphis

Sulle origini di questo Rito esistono molte leggende che si perdono nella notte dei tempi. Lo stesso fondatore, Jean Etienne Marconis, racconta che suo padre, Gabriel, ufficiale italiano dell’armata napoleonica, fu iniziato durante la campagna d’Egitto alla loggia Egiziana “Isis” e che, al suo ritorno in patria, fondò insieme ai suoi compagni d’arme e Fratelli, nel 1788, una loggia dal titolo distintivo “I Discepoli di Memphis”, con spiccate caratteristiche rituali egiziane.

Per dare un’idea del messaggio iniziatiche che il Rito offre ai Liberi Muratori, leggiamo cosa dice lo stesso Marconis      Il Rito massonico di Memphis è l’eredità dei misteri dell’antichità:

esso educa gli uomini a rendere omaggio alla divinità  i suoi dogmi riposano sui principi dell’umanità  la sua missione è la conquista della saggezza che serve a discernere la verità

è l’aurora benefica dello sviluppo della ragione e dell’intelligenza; è il culto delle qualità del cuore umano e la condanna dei suoi vizi  è l’eco della tolleranza religiosa, il legame tra tutti gli uomini

Il Rito ha diffusione praticamente in tutto il mondo: già nel 1849 apre i lavori in Romania, nel 1 851 in Inghilterra, nel 1856 in Australia; nello stesso anno viene costituito ad Alessandria d’Egitto unSublime Consiglio ed a New York viene fondato un Sovrano Gran Consiglio del 94 grado. Nel 1960 Giuseppe Garibaldi viene iniziato al Rito, a Palermo.

La fusione tra i due Riti

Il 1865 è un anno cruciale per il l’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraim: in quell’anno, infatti, il Fr. Giuseppe Garibaldi ed il Fr. Francesco de Luca – G.M. del G.O.I – vengono eletti membri onorari del Supremo Gran Consiglio di Alessandria d’Egitto premessa questa che ha portato, dieci anni dopo, nel 1875, a proclamare il Fr. G. Garibaldi Gran Maestro Onorario ad Vitam del Gran Santuario del Rito di Memphis. Pochi anni dopo, e più precisamente nel 1881 , Garibaldi viene nominato Gran Hyerophante del Rito ed unifica i due Riti, di Memphis e di Misraim, in un unico Corpo Rituale.

ln merito agli avvenimenti relativi a questi ultimi periodi, occorre subito rilevare che i venti anni di clandestinità in cui è stata costretta la Massoneria tutta ed i noti eventi bellici hanno notevolmente confuso le acque in merito alla realizzazione di una totale certezza che la tabulazione cronologica degli atti e delle successioni sia perfettamente rispondente alle rigide esigenze di una completa ricerca storica.

In estrema sintesi si può dire che nell’immediato dopoguerra, nel 1947, a Venezia avviene il risveglio dei Riti Uniti e che nel 1973 il Fr. Francesco Brunelli, in virtù dei poteri magistrali ricevuti – nel 1973 viene insignito dei poteri sovrani dall’erede della filiazione francese del Rito di Memphis e Misraim, il Fr. Robert Ambelain – risveglia l’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraim in seno al G.O.I. d’Italia

Struttura Operativa dell’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraim

a struttura rituale operativa del Rito si sviluppa in 4 sezioni; ogni sezione, a sua volta, oltre ad avere una sua specifica caratteristica e funzione particolare, è composta da uno o più Corpi Rituali che sono in parte praticati ritualmente ed in parte studiati e conferiti per comunicazione; queste sono le sezioni:

  1. Simbolica – gradi I – 3 : è composta dai Corpi rituali denominati Logge. Compito di questa sezione è lo studio e la pratica dei primi tre gradi della Libera Muratoria Universale
  2. Filosofico-Cabalistica- gradi 4 -33 : è composta da 30 camere rituali di cui sette vengono ritualmente praticate. La docetica di questa sezione riguarda la conoscenza e la pratica dell’insegnamento Rosa Croce, l’inizio della conoscenza ermetica e l’inizio della pratica Alchemica.
  3. Gnostico-Ermetica – questa sezione è composta da 38 camere rituali. Viene praticato solamente il 660 grado, dei Patriarchi Grandi Consacratori. La docetica di questa sezione fonda il suo studio e la sua ricerca sulla Gnosi Classica e sulle sue derivazioni.
  4. Ermetica – rappresenta la conclusione dell’iter iniziatico che i Fratelli Maestri hanno compiuto. In questa sezione – quale operaio dell’Arte Regia – si raggiunge la comprensione del deposito immemorabile e misterioso che il Rito possiede da sempre; si intuisce la Parola Perduta.

Come si può quindi rilevare il Rito, utilizzando una simbologia di chiara ed inconfondibile derivazione egiziana, affronta con metodo e precisione tutte le problematiche connesse allo sviluppo interiore del Massone; lo accompagna attraverso il lungo cammino della propria trasmutazione, aiutandolo nella difficile operazione di cercare, trovare ed infine a far emergere, il proprio “oro” interiore.

 

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PER ESSERE FELICI

PER ESSERE FELICI

 

carissimi,

Nei fascicoli 1 e 5 del c.a. di Erasmo Notizie, si parla di “Diritto alla Felicità”.

L’argomento è stato programmato dal G.O.I. in occasione del tradizionale appuntamento

annuale svoltosi, come è noto, a Rimini nei giorni 4/6 aprile scorso. Non tengo alcun conto di

quanto programmato e discusso dal G.O.I. nelle giornate riminesi in quanto quello che espongo è

solo frutto dei miei pensieri.

Da parte mia il diritto alla felicità è il tema di oggi, permettetemi di cambiare un termine

dell’argomento e cioè io parlerei di “dovere” alla felicità, ciò in virtù di quella dicotomia che non

vede un diritto senza un dovere, e ora spiegherò perché vorrei parlare di “dovere” alla felicità.

A differenza di quanto sostenuto dagli antichi filosofi, i moderni parlano di felicità non come

di sentimento appartenente all’uomo nella sua singolarità, ma all’uomo in quanto è membro di un

mondo sociale. Per gli antichi la felicità è un concetto umano e mondano dove felice è “colui che ha

un corpo sano, buona fortuna ed un’ anima ben educata” (Plotino); la felicità è anche connessa con

il piacere perché esso è desiderato di per sé stesso e quindi è il fine in sé; la felicità è anche possesso

della giustizia e della temperanza (Platone), la felicità, in fine, per Aristotele è “una certa attività

dell’anima svolta conformemente a virtù” che include la soddisfazione dei bisogni e delle

aspirazioni mondane.

Dagli umanisti in poi la nozione di felicità comincia ad essere legata, come per gli epicurei, a

quella del piacere, poi però comincia ad acquisire un significato sociale, la felicità diventa quasi un

piacere “diffusionale”, il piacere di un numero sempre maggiore. Infine, nasce la consapevolezza

che la felicità dipende da condizioni e da circostanze non legate alla nostra volontà ed è anche

dipendente dall’atteggiamento che ciascuno di noi può assumersi di fronte ai fatti della vita: essa,

quindi, appartiene all’uomo in quanto membro di una società. S’instaura quindi il concetto della

massima felicità come base del liberalismo moderno; non dimentichiamo che T. Jefferson nello

stilare la costituzione americana ha incluso fra i diritti inalienabili dell’uomo “la ricerca della

felicità”.

Sono, però, titubante nell’accogliere tutte queste nozioni, felicità per me è “lo star bene”,

prima di tutto con me stesso e poi con gli altri. Con me stesso, nella certezza di aver agito nella mia

vita in moda da raggiungere una certa tranquillità e la serenità che nasce dall’aver fatto il proprio

dovere e dall’aver dato a tutti ciò che potevo; con gli altri nella certezza di aver saputo offrire

amicizia ed aiuto a chi ne aveva bisogno, di aver aperto il mio animo a chi sentivo poteva

comprendermi, di aver agito come cittadino e membro della comunità in modo da contribuire ad

accrescere il bene comune.

Oggi, però, se mi guardo intorno, mi rendo conto che la parola felicità è spesso un contenitore

vuoto: si è felici se vengono soddisfatte certe esigenze (avere un figlio, avere una parte in un film,

avere una moglie, etc. ) o se si ottengono determinate cose. In questo caso è da ricordare che molti

“bisogni” sono indotti o fittizi o, comunque generati dalle esigenze di vendere determinati prodotti.

Queste “felicità”, quindi, appaiono assolutamente effimere e, certamente, non soddisfano, se non

momentaneamente il desiderio dell’uomo di essere felice. A volta qualche persona dice che è felice

quando non lavora, quando non ha obblighi o, come diceva mia moglie, quando il dolore n on si fa

sentire: la felicità è quindi una negazione, un’assenza ?

Non credo. Personalmente ritengo che la felicità sia prima uno stato d’animo e poi una realtà

vissuta. Ovviamente sto dando alla felicità una dimensione limitata e personale, una dimensione in

“divenire” quasi progettuale: per essere felice progetto la mia vita, la proietto nel futuro e poi cerco

di costruirla. Non so, però, fino a che punto posso raggiungere la felicità; quanto incidono, infatti,

gli errori? Quante volte sono costretto a dire: “ho sbagliato”. Oppure : “non avrei dovuto fare così”.

Nonostante gli errori, però, ritengo che, nell’aver costruito qualcosa di mio, nel aver realizzato il

mio progetto di vita, ci sia felicità.

Vi è però anche un altro elemento che contribuisce alla felicità che, per l’appunto è costituita

da vari fattori. Questo elemento è più difficile da determinare; il progresso e lo sviluppo industriale

hanno eliminato uno dei cardini della società del passato: la famiglia patriarcale che costituiva il

microcosmo all’interno del quale l’individuo si muoveva.

Alla famiglia patriarcale erano demandate funzioni sociali indispensabili: allevava gli orfani,

assisteva gli anziani, provvedeva al sostentamento dei più deboli.

Oggi si parla di famiglia nucleare e di “single” sempre più supportati dalla società dei

consumi che si adopera per risolvere facilmente eventuali problemi inerenti il quotidiano. Orbene:

costoro sono soli; questa solitudine può essere frutto di una scelta, ma per lo più è una sorta di

obbligo dettato da vari fattori; di qui la necessità per costoro di ricercare il sociale: cioè ricercare il

vivere con gli altri. Questo implica che con gli altri si debba vivere, se non bene, almeno

serenamente: ciò spiega tutte le iniziative che hanno successo e cioè quelle in cui gli individui si

incontrano, festeggiano, ascoltano musica o mangiano insieme. C’è anche un altro “sociale” e

quello implica, da parte di tutti, il provvedere a chi è meno fortunato; è, insomma, il concetto del

“Welfare State”: la necessità di dare a tutti un minimo di benessere chiedendo a chi più ha di aiutare

chi è meno fortunato.

È felicità condividere con gli altri l’eccitazione di una festa di paese, una ricorrenza o la vista

dei fuochi d’artificio sul Po? È felicità sapere che chi è più bisognoso può ricevere aiuto? Secondo

me, si: è felicità perché condivido, cioè: divido con gli altri ciò che ho, compresa la mia solitudine.

È difficile, per me, a questo punto tornare all’inizio della mia riflessione e cioè a quella famosa

voce della Costituzione Americana: il diritto alla ricerca della felicità…

Secondo me però, è questo il punto: se c’è un diritto, deve esserci anche un dovere; ciò

significa bandire l’egocentrismo e proiettarsi sulle cose e sul mondo, significa agire nel mondo e

impegnarsi nel rapporto con gli altri: quale maggior gioia e soddisfazione di quella che deriva dal

aver dato il proprio appoggio, l’amore, l’interesse ad un altro ed aver contribuito a renderlo più

sereno o più soddisfatto e felice?

Felicità, quindi, lontana dalla autosufficienza e dalla solitudine, lontana dalla frustrazione e

dalla insoddisfazione, lontana anche dal masochismo imperante di certe correnti che si ispirano al

dolore ed alla infelicità; quale felicità, dunque, possiamo aspettarci? Quella derivante da due

possibili fattori: interni ed esterni: la famiglia, gli amici, il lavoro, gli altri; tutto ciò, è vero, può

essere anche fonte di tristezza e dolori, ma è solo lì che potremo attingere alle gioie della vita.

Non dimentichiamo, inoltre, che sono le piccole cose a dare felicità: nella mia lunga vita io ne

ho avute alcune e sono quelle che mi hanno aiutato nell’ora del dolore e delle delusioni, infatti ci è

stato dato un grande dono: il dolore, con il trascorrere del tempo, illanguidisce e si consuma, la

felicità invece, nel ricordo, si alimenta e continua ad operare i suoi benefici effetti.

Permettete un’ultima osservazione, anzi un augurio: vorrei che tutti potessimo più volte dire,

come il Faust di Goethe: “attimo, arrestati: sei bello”.

 

 

 

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LA GIUSTIZIA: UNA VIRTÙ SCOMODA

 

di Antonio Binni

 

Dike – figlia mitologica di Giove e Temi – era la dea delle leggi e dei tribunali. Veniva abitualmente raffigurata con una spada e una bilancia. Immagine con la quale ancora oggi si rappresenta la giustizia. È sufficiente questo pur brevissimo accenno per rendersi perfettamente conto di un dato incontestabile, quanto dire della impossibilità di riflettere sulla giustizia senza un puntuale riferimento alla filosofia greca che, sulla giustizia, com’è noto, si è interrogata a lungo, e a fondo, offrendo contributi preziosi che, ancor oggi, costituiscono insegnamenti fondamentali per riempire di contenuto il concetto di giustizia. Parola emotiva dal significato oscuro. Tanto che diversi sono stati i tentativi di circoscriverla in una definizione comunemente accettata. Nella irripetibile Atene democratica del V sec. a. C. dominano la scena i sofisti. Ai nobili giovani che aspirano ad una carriera politica, oltre all’arte della parola necessaria per primeggiare nella agorà, costoro insegnano che la giustizia altro non è che l’imposizione del volere del più forte: tesi che, dopo moltissimi secoli, sarà ripresa, e portata fino alle sue estreme conseguenze, da un filosofo morto pazzo (… o solo finto pazzo!). Nella Repubblica, Platone, fra gli altri temi affrontati, sull’argomento giustizia, ipotizza un confronto tra Socrate e Trasimaco. Questi, coerentemente a ciò che insegna, si pronuncia a favore della tesi che ravvisa nel potere la fonte unica ed esclusiva della giustizia. Socrate, per contro, obietta al sofista che la giustizia si attua solo quando si dà priorità ai beni dell’anima. Nel contempo, denunzia la natura nociva della veduta criticata per la società e, prima ancora, per il bene del singolo (Repubblica IV, 443c – 444a; I, 353). Ancor più profonda è la definizione della giustizia proposta da Platone, sempre nella Repubblica (433b), là dove afferma che la stessa consiste in questo: che “ciascuno faccia quello che gli spetta”. Trattasi, infatti, di un profilo fondamentale in quanto collega strettamente il concetto di giustizia individuale a quello di ordine generale, posto che è compito della giustizia evitare che le parti sociali, anziché collaborare alla vita armonica e felice della comunità, lottino invece per sopraffarsi a vicenda. A Aristotele si deve la distinzione fra giustizia commutativa e giustizia distributiva. Mentre la prima (commutativa) si applica nei rapporti contrattuali nei quali ciascuno dà ciò che riceve, la seconda (distributiva) rinviene invece il suo campo d’azione nella distribuzione dei beni in base al rango, ossia al posto da ciascuno occupato nella società (Etica Nicomachea 1131 a10 – 1132 b9). I più noti criteri che discendono dalla cennata distinzione, di ordine relativo, possono essere elevati a valori assoluti. Così, “a ciascuno secondo il merito” diventa il principio cardine al quale si conforma la ideologia liberale (donde la concezione democratica della società), mentre il criterio “a ciascuno secondo il bisogno” diventa il principio al quale si ispira la ideologia comunista. È importante ricordare che, secondo lo Stagirita, c’è un senso di giustizia in ogni uomo. Questa osservazione costituirà il nucleo di ciò che verrà poi denominata “legge naturale”: un giusto e un ingiusto per natura di cui tutti hanno come una intuizione. La legge, per definizione astratta, viene imparzialmente applicata. La regola di giustizia può però finire in contrasto con l’esigenza della giustizia sostanziale. Secondo Aristotele, per essere giusti, occorre pertanto applicare la giustizia del caso concreto. Il che equivale a sostenere che l’equo è superiore al giusto perché possiede la capacità di giudicare la situazione concreta (Etica cit. 1137 b12 – 14.27 -32). Il contributo degli autori latini all’approfondimento del tema è volto soprattutto a precisare la dimensione giuridica della giustizia. Qui si impone allora di citare la celebre definizione di Ulpiano (170ca – 228 d. C.) “a ciascuno il suo diritto” (Digesto 3.1.1.1) che diviene successivamente l’incipit del Corpus Juris Civilis) di Giustiniano: definizione poi pedissequamente ripresa dalla maggior parte dei trattati medioevali. A Tommaso spetta altresì il merito di avere affrontato il punto centrale della definizione di Ulpiano, quanto dire cosa significhi il “suo diritto”, visto che, se c’è un diritto, qualcuno lo deve avere concesso. Al difficile quesito Tommaso risponde che è la creazione ad attribuire “qualcosa di proprio” (Summa contra Gentiles II, 28). Quanto dire altrimenti che, per il solo fatto di nascere, si è portatori di diritti. Dunque, il “suo diritto” è “suo” perché nasce con l’aprire gli occhi al mondo. Diritto innato che, dunque, da tutto prescinde, compreso in particolare il riconoscimento statale. Non v’è poi niuno che non veda come questa geniale soluzione abbia aperto, anzi spalancato, la porta all’argomento dei diritti naturali, il tema per certo più controverso fra i cultori della materia, siano essi giuristi o filosofi del diritto. Sempre a Tommaso si deve inoltre la configurazione della giustizia come una virtus ad alterum posto che la sua materia concerne le relazioni. La giustizia – osserva sempre Tommaso – prescrive un obbligo verso ciò che è dovuto: atto vitale indipendente dai sentimenti che si possono provare al riguardo. Per questo è una virtù scomoda perché, nell’adempimento della giustizia, c’è una dimensione di sofferenza. Specie quando è in gioco la propria vita. Comportando l’obbligo della sua osservanza, Tommaso ha inoltre cura di separare la giustizia dalla generosità, semplice complemento della prima. La giustizia – annota ancora Tommaso – investe tutta la sfera della vita attiva. Per questo la giustizia diventa il fondamento della civiltà e del vivere comune. Con un ardito salto storico, esaminiamo ora il concetto di giustizia nella concezione positivistica del diritto: concezione secondo la quale l’unico diritto realmente esistente sarebbe quello in civitate positum. Il che, com’è lapalissiano, è in netta antitesi alla dottrina del “diritto naturale” nell’ottica positivistica assolutamente inesistente. Pure perché in natura è inesistente il soggetto chiamato a irrogare la sanzione e nel caso che il comando venga trasgredito. Secondo i positivisti, il concetto di giustizia si risolve così in quello della puntuale conformità alla legge. In quest’ottica, infatti, è giusto solo ciò che la legge dichiara come tale. Il criterio supremo finisce perciò per divenire, e al postutto essere, la correttezza procedurale. Non v’è tuttavia niuno che non veda come un siffatto punto di vista finisca per esporre a gravi aporie, che rendono estremamente problematico, e soprattutto pericoloso, il vivere comune. Sull’altare della legge vengono infatti sacrificati non solo la verità, ma pure l’umanità dei destinatari del comando. Com’è avvenuto, ad esempio, con le infami leggi razziali italiane del 1938 che, di quella veduta, sono state le figlie dirette e consequenziali. Da questa sommaria e per certo lacunosa presentazione che ha avuto ad oggetto il retroterra teorico del concetto di giustizia dal profilo storico, è emerso, con chiarezza, che la sua nozione è connotata da diversi aspetti per essere collegata a quella di verità, di uguaglianza e di ordine. Di verità, perché non v’è giustizia senza verità. Di uguaglianza, perché senza uguaglianza non può esservi giustizia. Di ordine, perché la disuguaglianza crea disordine, quando, invece, proprio dikaiosynē consente di assegnare all’uomo e alle cose il loro posto “giusto” nell’armonia del creato. Sembra a noi sommessamente che, se si vuole, come pur si deve, ancorarsi ad un pilastro, tutti codesti profili debbono allora essere ricondotti ad unità, ad un principio che non può che essere metafisico. Per il religioso sarà la giustizia propria del suo Dio. Per il laico sarà quella dell’uomo viator e della sua umanità, che riconosce all’uomo la titolarità di diritti, situazione che precede – e appunto perciò fonda – l’ambito giuridico. L’aspetto positivo di questa veduta è che fa salva quella legge naturale che consente di discernere ciò che è bene e giusto da ciò che non lo è, legge iscritta nella coscienza di ogni essere umano come ci ricorda la vicenda di Antigone e, con essa, l’esigenza di riconoscere la legge non scritta che tanto infiammava l’anima di Hegel. In particolare, sono così salvi i diritti umani, nucleo di quello jus che la giustizia è tenuta a garantire in ogni luogo e in ogni tempo. Il mero ambito procedurale non è, infatti, sufficiente a elevare a “valori ultimi” quei valori che non si giustificano, ma si assumono. Nel contempo, rimane escluso dalla giustizia che possa essere la maggioranza a stabilire che gli uomini sono tutti liberi e uguali. Così come non sarà mai giusta la maggioranza che potrà stabilire il contrario. Tutto questo può rinvenire il suo fondamento solo in un principio incondizionato. Assoluto. Il solo che può tutto fondare. A diversamente argomentare non resterebbe infatti più nulla, a parte la volontà dell’uomo e i suoi desideri protetti dallo Stato. Nell’epoca contemporanea, la trattazione dell’argomento giustizia non di rado risulta carente nella visione d’insieme, irrinunciabile invece per chi avverte la necessità logica di ancorarsi ad un terreno sicuro. Ne discende conclusivamente che, come si impone di ripetere, solo il ricorso ad un principio metafisico, proprio perché irriducibile alla puntuale situazione storica, può garantire la giustizia “vera” e, con essa, la dignità umana di fronte agli interessi di parte o alle brutali contrapposizioni etniche, doloroso presente. L’amore per la giustizia e la sua pratica costante e ininterrotta fanno parte dello statuto costitutivo del massone che, con la sua vita retta, ne fa irrinunciabile quotidiana testimonianza. Anche se spesso risulta emarginato perché la sua voce è soffocata da mille altre che la contraddicono. Testimonianza invero sempre sgradita perché – correttamente! – letta come un severo giudizio di ingiustizia e di oppressione che sovente regna purtroppo sulla storia. Quando poi non si trasforma addirittura in sopruso personale, privazione della libertà e perfino della vita nei casi più gravi. L’ottava ultima beatitudine del Vangelo secondo Matteo può allora ben dirsi appropriata anche a chi segue la via muratoria.

 

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴

Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettat

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MASSONERIA EINTOLLERANZA RELIGIOSA

Massoneria e Intolleranza Religiosa

 

Gli annosi problemi connessi al processi di globalizzazione hanno sensibilmente mutato il nostro mondo; dopo un lungo periodo in cui la dimensione spirituale e religiosa sembrava declinare, anche l’illusione semplicistica che, con il collasso dell’Unione Sovietica, l’evoluzione tecnologica avrebbe superato ogni problema e conflitto umano appare oggi definitivamente svanita.

Noi dobbiamo attualmente fronteggiare un mondo molto più complesso che in passato, dove i confini nazionali non possono più separare culture e tradizioni, ma anche dove le differenze tra “interno” ed “esterno” stanno diventando via via senza senso. Anche l’attuale conflitto è globalizzato e nessuno può considerarsi fuori da questo grande e tragico gioco; gli eventi spagnoli lo dimostrano in modo inappellabile. In tale contesto, nuove forme di intolleranza religiosa stanno assumendo un forte significato politico che appare in continua crescita; alcuni dogmi religiosi, formulati in modo rude, schematico e acritico sono utilizzati come un bastone, talora contro la stessa tradizione religiosa e legale avita, ma semplicemente come un più efficiente e politicamente convincente strumento di propaganda ideologica e ovviamente, per queste stesse ragioni, anche di estrema pericolosità.

Un Mondo Occidentale, banalmente dipinto e presentato come “giudeo-cristiano” sta infatti diventando l’obiettivo di un Est “islamico”, secondo il disegno di alcuni movimenti religiosi fondamentalisti, che cercano così di assumere un nuovo tipo di leadership spirituale, in modo particolare, nel Nord Africa, nel Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico, e in Asia centrale.

Dal canto opposto noi possiamo notare il radicarsi di alcune reazioni, psicologicamente negative, emerse nell’opinione pubblica europea, tali per cui molte persone, già da tempo impressionate dal fenomeno dell’immigrazione, sono ora fortemente scioccate dalla violenza delle azioni terroristiche; di fatto, molti dei nostri concittadini mostrano la tendenza a considerare unilateralmente tutti i Musulmani come intolleranti, potenzialmente terroristi o peggio. In questa situazione, la nostra Comunione non può restare in silenzio e guardare all’evolversi di questa tragedia come se si trattasse di qualcosa di esterno o semplicemente di “profano” per le nostre menti e i nostri animi “esoterici”.

La prima ragione che ci impone una chiara risposta è dovuta alla circostanza drammatica che la Massoneria è oggi l’obiettivo di una propaganda violentissima ed insultante da parte di alcuni gruppi fondamentalisti, che propongono un recente revival di alcune vecchie mitologie concernenti un famigerato piano massonico di “dominio mondiale”.

Si tratta del ciarpame contenuto in un clamoroso falso storico, noto come I Protocolli dei Savi di Sion , grazie al quale un gruppo di anti-semiti russi cercò di mostrare l’esistenza di un tremendo progetto imperialistico guidato da Ebrei e Massoni; in questi anni, tale opera viene frequentemente ristampata e promossa come un’assoluta fonte originale presso molti paesi orientali. Ma ciò sarebbe solo un problema di carattere semplicemente culturale, da affrontare con una ben organizzata campagna di informazione in Oriente riguardo ai valori della Massoneria. Il problema reale invece concerne – come il nostro caro Fratello Thomas W. Jackson ci ha ricordato nella lettera a tutti i Grandi Maestri – il diretto e violento attacco contro le nostre Logge, come è accaduto in Turchia pochi mesi or sono.

Cari Fratelli, non penso infatti che da parte nostra si possa semplicemente esprimere un dispiacere profondo o le nostre più sincere condoglianza al Gran Maestro della Turchia. Questo cambio di strategia tra i terroristi fondamentalisti deve essere attentamente vagliato e non possiamo abbandonare i Fratelli turchi soli ad affrontare questa battaglia e la loro sorte. La Turchia, infatti, è un paese a maggioranza islamica che da molti anni – nonostante alcuni inevitabili contrasti e problemi (che peraltro possiamo avere anche nelle società occidentali grazie ai nostri fondamentalisti locali) – sta vivendo un’esperienza di democrazia parlamentare, con leggi sociali e codici indipendenti da concezioni strettamente religiose, ma che rappresentano piuttosto un’immagine laica di uno Stato che non segue la sharî’a . Tale paese sta anche cercando di unirsi alla Comunità Europea; queste tendenze sono in contrasto con il sogno terroristico di intolleranza religiosa.

 

 

Noi non possiamo dimenticare che anche in molti paesi europei la Massoneria è stata severamente aggredita, perseguitata, vietata e continuamente condannata per pregiudizi religiosi e politici; fin quando le idee di tolleranza, di democrazia parlamentare, di Stato laico, di libertà religiosa e di mutuo rispetto, oppure i concetti fondamentali contenuti nella Carta dei Diritti dell’Uomo, non sono divenuti valori normali e condivisi, le nostre Comunioni, soprattutto nei paesi meno illuminati, sono state bersaglio di molte forme di violenza; in Italia, abbiamo attraversato le nostre tristi esperienze a partire dal XVIII secolo, poiché la Chiesa Cattolica non accettava la presenza delle prime Logge di origine britannica, sorte in Toscana, dove Cristiani (Protestanti e Cattolici) ed Ebrei, ma anche nobili, borghesi e normali cittadini potessero lavorare insieme. Il Fascismo fece a sua volta del suo meglio contro la nostra Comunione.

Il contesto multiculturale che la Libera Muratoria ha offerto ed ancor oggi offre, il suo legame culturale con la diffusione di idee democratiche e umanitarie, fondamentali per le moderne società occidentali, rappresentano una tradizione imprescindibile, capace di proporre un modello positivo e costruttivo per molti popoli orientali. Non possiamo nasconderci che, al contrario, proprio tali stesse idee costituiscono un serio e reale pericolo per tutti quei movimenti intolleranti che mirano all’esplosione di un definitivo conflitto di civiltà. Dal punto di vista di questi popoli, infatti, la nostra stessa esistenza, la nostra cultura, la nostra filosofia, la nostra storia, dovrebbero essere completamente sradicate e condannate all’oblio.

Abbiamo il dovere di ricordare che giustamente le nostre Comunioni non si sono rifiutate di iniziare Musulmani, Parsi, Hindu, Sikh e molti altri cittadini di diverse religioni del mondo, poiché tutte queste genti condividono con noi il credo comune nell’idea del Grande Architetto dell’Universo, che è il primo ed essenziale Landmark che noi dobbiamo rispettare. Grazie alla Massoneria, molti concetti culturali positivi concernenti gli ideali di tolleranza, fratellanza, libertà, democrazia, eguaglianza sono cresciuti in Europa ed America, ma anche in diverse regioni dell’Oriente e dell’Africa.

Se, da una parte, è chiaro che noi non ci occupiamo di “politica”, dall’altra non possiamo pensare che la nostra “filosofia” – così come essa è stata opportunamente chiamata dal nostro Fratello Jackson – non abbia un suo impatto sociale e culturale sulla vita di molti popoli ed in particolare tra i loro opinionisti e presso le loro élite più aperte. Ciò significa chiaramente che lo spazio esoterico e rituale offerto dalle nostre Comunioni rappresenta un mezzo di educazione spirituale e sociale, che propone a persone di differenti paesi, tradizioni e religioni l’opportunità di condividere grandissimi ideali ed altrettanto profondi concetti etici. Tale forma di educazione è pertanto un pericolo per i terroristi, per i fondamentalisti, per i figli dell’intolleranza.

Noi dobbiamo resistere, non semplicemente chiusi nei nostri bellissimi Templi, ma dobbiamo offrire una chiara testimonianza nelle nostre società, dove la necessità delle nostre idee profonde e della nostra tradizione sta crescendo sempre più, così come era già stato nel periodo dell’Illuminismo.

 

 

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ALCHIMIA E PROTOCHIMICA: IL “CAPUT MORTUUM”

ALCHIMIA E PROTOCHIMICA: IL “CAPUT MORTUUM

(Paolo Galiano)

 

 

 

L’Alchimia è arte complessa e di difficile comprensione per chi vi si accosta da un angolo di interpretazione errato: l’errore più diffuso è quello di ritenere tutte le forme di Alchimia solo una sorta di ingenua e primitiva lavorazione dei metalli e dei vegetali, una prechimica o protochimica dalla quale nascerà dopo molteplici tentativi l’attuale scienza della Chimica. Ad opporsi a tale identificazione, che mette sullo stesso piano l’Alchimia spagirica con l’Alchimia anagogica o spirituale, è il particolare utilizzo che viene descritto in certi trattati degli scarti dei metalli che ogni buon fonditore o chimico butterebbe via senza esitazione: il caput mortuum.

 

La discussione tra chi considera l’attuale Chimica la vera essenza dell’Alchimia e chi invece ritiene l’Alchimia un’arte anagogica da cui solo secondariamente derivano applicazione scientifiche è di antica data. Per i primi le preparazioni alchemiche sono tentativi di ottenere preparati chimici sempre più puri da sostanze minerali, vegetali e animali con tecniche che nel corso dei secoli si sono andate affinando fino a ottenere quei risultati che costituiscono la base della moderna Chimica. In definitiva l’Alchimia non sarebbe altro che una prechimica o protochimica che man mano si purifica da orpelli religiosi e superstiziosi fino a compiere il definitivo passaggio a scienza esatta. Con questo non si vuol dire che tutti i trattati di Alchimia nascondano un significato spirituale e vadano letti in tal modo, ma non è possibile generalizzare e applicare il concetto di «alchimia eguale protochimica» a tutta l’Alchimia, generalizzazione superficiale causata dall’imperfetta preparazione di certi storici, anche perché in virtù di una tale concezione si giunge a distorsioni nell’interpretazione degli scritti alchemici: uno degli esempi più evidenti è nella trasformazione del termine sal armoniacum in sal ammoniacum o sale di ammonio operata da tanti studiosi contemporanei dei processi metallurgici.

 

Il sal armoniacum è così chiamato nei trattati alchemici almeno fino al XX secolo, esso è così chiamato sia in Alchimia anagogica sia in Alchimia spagirica per la sua capacità di mettere «armonia» tra le sostanze alle quali viene aggiunto consentendone l’unione e la transmutazione, come spiega alla fine del XVII secolo Le Doux[1]: «Il sale armoniaco dei Filosofi è il loro mercurio perché è ciò che dà armonia agli elementi e lo spirito che produce tutte le cose».

 

In epoca più recente, all’inizio del ‘900, Fulcanelli[2] spiega il nome «sale armoniaco» con parole simili a quelle scritte da Le Doux: «Il sale ammoniaco dei saggi, o sale d’Ammone (αμμωνιακος) cioè dell’Ariete, un tempo veniva scritto, con maggior veridicità, harmoniac, perché realizza l’armonia (ἁρμονία, riunione), l’accordo tra l’acqua ed il fuoco, e perché è il mediatore per eccellenza tra il cielo e la terra, lo spirito e il corpo, il volatile e il fisso».

 

Quanto detto mette in luce uno degli abusi interpretativi commessi da taluni studiosi nelle loro trattazioni sull’Alchimia, ma ciò che è ancora più grave è la limitatezza delle loro conoscenze delle opere alchemiche, delle quali probabilmente conoscono solo quelle utili alla conferma delle loro tesi, mentre non hanno posto alcuna attenzione a testi fondamentali nella formazione del pensiero alchemico occidentale, quali il Pretiosum donum Dei, lo Speculum alchimiae, il De leone viridi e altri trattati attribuiti ad Avicenna (il De alchimia) e a Frate Elia (il Vademecum).

 

Se li avessero letti avrebbero rilevato certe curiose (per loro) considerazioni riferentisi al significato del cosiddetto caput mortuum, faeces o «cenere», i residui che restano sul fondo dei vasi dopo le operazioni di distillazione.

 

Il metallurgo che con pazienza e fatica ha sminuzzato il materiale originario da cui estrarre il minerale che gli interessa, lo ha distillato negli alambicchi più e più volte e poi lo ha messo nel forno per calcinarlo per ottenere l’oro, o quale sia la sostanza che cerca di ottenere, nella sua forma più pura possibile alla fine cosa fa? Mescola il prodotto purificato con le scorie che sono avanzate rovinando in tal modo tutto il lavoro fatto per settimane o per mesi! Un comportamento che non è compatibile con l’idea di un’Alchimia protochimica. Eppure nessuno tra gli studiosi rileva un tale intervento, che chiaramente è contrario a ogni lavorazione di carattere scientifico.

 

Quest’ultimo passaggio necessario a completare l’Opera è descritto in modo chiaro e inequivocabile nei trattati fin dal tempo degli alchimisti greci, se la citazione attribuita da Frate Elia nel Vademecum[3] ad Archelao è estratta in modo corretto da uno dei suoi lavori:

 

E così afferma il detto dei filosofi che dice che l’argento vivo è il servo fuggitivo e poi rubicondo, e in questa forma il servo rubicondo sposò una moglie nera, e posti nella fossa e portati agli inferi generarono un figlio biondo. Appare chiaro che il servo rubicondo è la Pietra sopradetta, la moglie nera è il piombo, la fossa è il vaso, l’inferno è il fuoco, il figlio biondo è il sole generato dagli elementi predetti[4].

 

Anche l’alchimista Ibn ‘Umayl[5], vissuto in Spagna o in Egitto nel X secolo, nella Tabula chymica sottolinea la necessità della «cenere» per portare a compimento l’operazione alchemica: «Ha detto Hermes: ‘L’acqua è il fermento per realizzare l’oro e i corpi sono la loro terra e il fermento dell’acqua divina è la cenere, che è il fermento dei fermenti’»[6].

 

Nell’Alchimia di lingua latina già vi si accenna nell’opera a nome di Morieno Romano, il Dialogo di Morieno con il re Khalid, della fine del XII secolo (che sia un’opera araba tradotta il latino o viceversa un’opera latina tradotta in arabo), là dove l’autore del trattato scrive che «l’endica è il segreto di tutti questi (sapienti), ed è chiamata mozath thimia, cioè feci e quindi immondizia»[7].

 

Il ruolo delle faeces è descritto nel Tractatulus dello pseudo Avicenna con le parole «non disprezzare la cenere», frase ripetuta da altri autori:

 

Non devi disprezzare la cenere, perché Dio le restituisce la liquefacibilità e alla fine il Re sarà incoronato per volontà divina con la corona rossa … Infatti il composto non si ha senza matrimonio e putrefazione, e il matrimonio è unire il sottile allo spesso, e putrefare, tritare, assare e irrigare finché non siano insieme mescolati e fin quando divengano una sola cosa[8].

 

Nel Pretiosissimum donum Dei l’importanza delle faeces è ugualmente sottolineata con le parole dell’anonimo Filosofo nel commento alla Figura 10: «Calcinare non è altro che togliere l’umidità e trasformare in cenere. Si bruci dunque senza timore finché sia fatta la cenere. Perché quando sia stata ottenuta la cenere avrai unito in modo ottimale (le sostanze). Quindi non disprezzare questa cenere ma restituiscile l’umidità [lett. il sudore[9]] che ne è uscita … Ciò che uscì da esso [l’acqua della distillazione] riconduci sopra di esso [il corpo ridotto in cenere], finché sia fissato e non se ne separi per mezzo del fuoco, cioè quella nigredo che (è stata) separata dal corpo sia ricondotta sopra il suo proprio corpo da cui è uscita e diventi un solo corpo» [10].

 

Questa cenere è ciò che rimane dalla calcinazione della materia prima nell’Opera al Nero, come scrive lo Speculum alchimiae attribuito a Fate Elia:

 

Il calore, agendo sulla (materia) umida, genera in primo luogo la nigredo, e l’albedo si opera nella citrinitas, e invero aspettati questo nella decozione del piombo, poiché in primo luogo il nero si trasforma in cenere, poi in bianco, quindi in citrino, da ultimo in minio rosso[11].

 

L’autore che nel XIII secolo ha più a fondo esaminato il riutilizzo del residuo delle operazioni alchemiche è stato Raymundus Gaufredi, tredicesimo Ministro generale dei Frati minori, nel trattato De leone viridi[12] a lui attribuito. L’autore raccomanda più volte di conservare i residui (faeces) delle operazioni che via via si stanno compiendo (ad esempio si veda c. 214v: semper faeces quas faciet reserva cum aliis faecibus), perché le «feci»  sono «fuoco», quindi non materiale da scartare e gettar via ma da conservare con cura per sottoporle, come si legge nella seconda parte del trattato, a un’accurata distillazione per estrarre da esse un «olio» che è anch’esso «fuoco», in quanto contengono il sulphur occultum contenuto nella materia prima, il piombo o Saturno che è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum attribuito a Frate Elia: «I predetti filosofi testimoniano che l’oro perfetto non può esser fatto se non con il piombo … è il vero segreto dell’oro e chiamano quest’oro oro dei filosofi»[13].

 

Il segreto della preparazione dell’oro-Sole è quindi nella sua riunione finale con gli scarti, i residui della lavorazione del piombo-Saturno: in essi si trova un materiale che unisce la terra e il fuoco, i due elementi di segno opposto rappresentati dagli apici della stella a sei punte formata dall’incrocio di due triangoli, il cosiddetto sigillo di Salomone.

 

Scrive Raimondo: «Occorre notare che i residui che sono rimasti in luogo del fuoco è il fuoco, come sopra si è detto, racchiudente in sé due elementi, cioè la terra che nasconde e il fuoco, questi sono due elementi fissi che non fuggono il fuoco» (c. 215v).

 

Da notare che faeces est ignis, «i residui è il fuoco», non è un errore di stampa. Si tratta di una particolare regola grammaticale del latino che l’autore del trattato segue (il che evidenzia come si trattasse di persona colta ed esperta della lingua in cui scriveva), costituente un esempio di plurale singolativo[14].

 

Le faeces, dopo la separazione dell’aqua clara che è il «mercurio dei filosofi» (c. 214v), vanno essiccate, tritate e distillate con l’aceto (cioè un solvente forte) fino a espellere ogni impurità e divenire una sostanza di colore rosso o citrino, da cui si estrae un olio rosso che è il sulphur occultum (c. 215r), il principio maschile contenuto nei residui dopo che da essi è stato separato il mercurio, principio femminile.

 

Le faeces sono la materia riportata al suo stato elementare, ciò che rimane del corporeo dopo l’estrazione dell’anima mercuriale che lo vivifica, e che deve essere disgregato (“l’inimico … che tutto si disfaccia” si legge nel sonetto Solvete i corpi in acqua) per liberare le forze di pura potenza di cui è sostanziato, raffigurate dai “vermi” della Figura VI del Pretiosum donum Dei, forze che non devono essere disperse ma vanno reintegrate nell’unità finale dell’Opera. Questo perché in Alchimia minerale il piombo o Saturno è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum: «Se preparato in altro modo [cioè non dal saturno-piombo] è malato»[15].

 

Con le sue parole Raymundus indica il segreto dell’Opera alchemica: le operazioni sui metalli sono metafora della via che l’alchimista deve seguire se vuole giungere alla perfezione completa delle tre componenti dell’essere umano, corpo fisico, animico e spirituale, e nulla va eliminato se non le impurità che costituiscono un impedimento in quanto legate alla sua individualità. Si riporta in questo modo una parte di ciò che è stato creato dalla Natura alla sua forma principiale originaria operando quella che si potrebbe definire una «redenzione» della materia, senza dare alla parola un significato religioso ma solo quello etimologico di «riscatto, recupero», in quanto scopo dell’alchimista è quello di portare a compimento il lavoro che Dio stesso ha lasciato incompleto:

 

Il Creatore creò i quattro Elementi in germe [lett.: nello sperma], dette ad essi un periodo stabilito nel quale si perfezionassero e dopo il quale fossero compiuti per mezzo della Sua sapienza e forza, e quest’opera non è altro che il segreto dei segreti di Dio, che Egli stesso offrì ai filosofi.[16]

 

Nell’Alchimia metallurgica il paziente lavoro sui metalli che sono imperfetti, «malati», li transmuta in oro, unico metallo perfetto e senza alcuna «malattia», da cui l’uso della parola «medicina» per indicare sia il risultato dell’operazione finale, sia il medicamento spagirico che può curare le infermità umane. L’azione concreta di perfezionamento, o meglio di compimento, della creazione della Natura (per questo l’Alchimia fu anche definita philosophia manualis) è possibile per le corrispondenze tra il microcosmo che è l’uomo e il macrocosmo nella sua interezza, come Mirca Eliade nel trattare dell’Alchimia indiana:

 

L’alchimia indiana non è una prechimica ma una tecnica solidale con gli altri metodi della ‘fisiologia sottile’ elaborati dall’Hatha-yoga e dal tantrismo … Nessun dubbio sulla realtà delle operazioni alchemiche non si tratta di speculazioni ma di esperienze concrete effettuate nei laboratori sulle diverse sostanze minerali e vegetali … Piante, pietre e metalli, proprio come il corpo dell’uomo, la sua fisiologia e la sua vita psico-mentale, costituivano i diversi momenti di uno stesso processo cosmico[17].

 

Lungi dall’essere solamente una tecnica per l’elaborazione di nuove sostanze chimiche, l’Alchimia nel suo aspetto anagogico si rivela al lettore attento come un mezzo sottile per raggiungere uno stato di perfezione non solo dell’anima e dello spirito ma anche del corpo stesso.

 

 

 

[1] Gaston Le Doux de Claves, Dictionnaire hermetique, contenant l’explication des termes, fables, enigmes, emblemes et manieres de parler des vrais philosophes. Accompagné de deux traitez singuliers … par un amateur de la Science, a Paris, chez Antoine D’Houry, rue Saint Jacques, devant la fontaine Saint Severin, au Saint Esprit, MDCXCV, s. v. Il testo, che nell’edizione del 1695 non ha il nome dell’autore, è anche citato come Gaston Le Doux de Claves e William Salmon.

 

[2] Fulcanelli, Le dimore filosofali, Roma 1973, vol. I, p, 205. Nella prefazione alla prima edizione dell’Ottobre 1925, scritta dal discepolo Eugene Canseliet, Fulcanelli è detto «già da molto tempo non più tra noi».

 

[3] Il Vademecum è un trattato di Alchimia spagirico-sapienziale di cui sono conosciuti venti manoscritti, sedici dei quali riportano nell’introduzione come autore il nome di Frate Elia, secondo Ministro generale dell’Ordine dei Frati minori.

 

[4] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Pal. Lat. 1267 c. 17v; per la traduzione e il commento del manoscritto si veda Paolo Galiano (a cura di), Frate Elia: il Vademecum, Roma 2019. Il nome di Archelao, alchimista bizantino vissuto tra il Vi e il VII secolo, viene esplicitamente riportato in altri codici del Vademecum, quale il ms Vat. Lat. 4092 della stessa Biblioteca, c. CLXXXIIIIr.

 

[5] Muhammed Ibn ‘Umayl al-Tamîmî, alchimista di lingua araba noto nel mondo latino con il nome di Senior Zadith (latinizzazione del suo titolo Sheik al-Sadik) o di Zadith filius Hamuel, la cui opera, Kitāb al-Mā’ al-Waraqī wa’lr dar an-najmiah (Libro dell’acqua d’argento e della terra stellata), venne tradotta in latino nei codici e poi stampata in numerosi testi, tra cui ricordiamo in particolare Philosophiae chymicae IV vetustissima scripta, Francoforte, 1605 (consultato 06/11/2017 in: Stiftung der Werke von C.G.Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7153). A volte sia nei mss sia nei testi a stampa si trova solo una parte di quest’opera con il titolo Epistola solis ad lunam crescentem.

 

[6] Vetustissima scripta p. 31.

 

[7] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 23.19 Aug. 4°, c. 18r (traduzione integrale e commento in Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, a cura di Paolo Galiano, Roma 2021). Il monaco bizantino Morieno, a cui è attribuito il trattato, sarebbe vissuto nell’VIII secolo e, dopo aver studiato l’Alchimia con Stefano, uno dei primi alchimisti greco-bizantini, ad Alessandria d’Egitto, avrebbe scelto di ritirarsi sui monti vicino Gerusalemme, secondo quanto scritto nel Dialogo. Nel coevo ms Latin 7158 della Bibliothèque Nationale di Parigi c. 201va è specificato che endika id est faeces ignis, nome che sarà ripreso nel De leone viridi di Raymundus Gaufredi. Morieno spiega che l’endica «è l’aria … essa conviene in modo adatto a tutti i corpi, perché li vivifica e li predispone a non essere confusi dalla combustione ma trasferisce qualcosa di loro ad altri corpi e impedisce il calore del fuoco» (c. 16v), cioè possiede la funzione intermediatrice propria del sal armoniacum.

 

[8] Pseudo Avicenna, Tractatulus … in octo capitula (inc.: In primo capitulum dicam de Mercurio), cap. V De Fundatione seu etiam Fusione Aquae super terram suam, in Jean Jacques Manget, Bibliotheca chemica curiosa, seu rerum ad alchemiam pertinentium thesaurus instructissimus, Coloniae Allobrogum (Ginevra) 1702 (Stiftung der Werke von C.G. Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7378), p. 630a.

 

[9] L’utilizzo del termine sudor per indicare l’umidità estratta dal corpo durante il trattamento si trova in molti testi alchemici come, per esempio, nella canzone Est fons in limis (Nam bene mundatum / proprio sudore lavatum), un breve trattato in versi di autore anonimo che si legge in un grande numero di codici e di incunaboli (testo e commento in Paolo Galiano (a cura di), Lo Speculum alchimiae di Frate Elia, Roma 2016, pp. 75-80).

 

[10] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 77.2 Aug. 8° del XV secolo, c. 10r (traduzione integrale e commento in Paolo Galiano, Il Pretiosum donum Dei, pp. 101-102).

 

[11] Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms C.2.567 c. 7r, in Paolo Galiano (a cura di), La arte dell’Alchimia, Roma 2018, p. 197 (traduzione e commento del ms di Firenze del 1491). Lo Speculum è di sicuro anteriore al Donum Dei, il quale lo cita più volte e in modo così ampio che circa un quinto del trattato è costituito da frasi tratte da esso.

 

[12] Il trattato è attribuito a Raymundus Gaufredi, e se sua fosse l’opera sarebbe stata scritta prima del 1310, data della scomparsa dell’autore; il De leone viridi ci è pervenuto in manoscritti databili fin dal XIV secolo (London, British Library, ms Sloane 2327 e Oxford, Bodleian Library, ms 119). Rimandiamo per l’argomento delle faeces a Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, a cura di Paolo Galiano, Roma 2020 (traduzione e commento del ms Guelf. 433 Helmst. della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel), in particolare sulla tradizione manoscritta e a stampa pp. 37-51.

 

[13] Vaticano, Biblioteca Apostolica, ms Pal. Lat. 1267, XIV sec., cc. 17rb-17va, traduzione e commento in Paolo Galiano (a cura di), Il Vademecum di Frate Elia, Roma 2019, pp. 50-51.

 

[14] Si veda Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, pp. 96-97.

 

[15] Bologna, Biblioteca Universitaria, ms 104, datato 1476-1484, c. 243r (Il Vademecum di Frate Elia, p. 70).

 

[16] Ms Guelf. 23.19 Aug. 4° di Wolfenbüttel, c. 15r (Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, pp. 149-150).

 

[17] Mircea Eliade, Arti del metallo e dell’alchimia (trad. italiana Torino 1980 e 2018 di Forgerons et alchimistes, Parigi 1977), pp. 120 e 122-123.

 

 

 

(Autore: Paolo Galiano. L’articolo originale si trova a questo URL. Si pubblica in questo portale per gentile concessione il 27/07/2022)

 

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L’ALCHIMIA È ARTE COMPLESSA E DI DIFFICILE

L’ALCHIMIA È ARTE COMPLESSA E DI DIFFICILE

 

’Alchimia è arte complessa e di difficile comprensione per chi vi si accosta da un angolo di interpretazione errato: l’errore più diffuso è quello di ritenere tutte le forme di Alchimia solo una sorta di ingenua e primitiva lavorazione dei metalli e dei vegetali, una prechimica o protochimica dalla quale nascerà dopo molteplici tentativi l’attuale scienza della Chimica. Ad opporsi a tale identificazione, che mette sullo stesso piano l’Alchimia spagirica con l’Alchimia anagogica o spirituale, è il particolare utilizzo che viene descritto in certi trattati degli scarti dei metalli che ogni buon fonditore o chimico butterebbe via senza esitazione: il caput mortuum.

 

Fig. 1: Johannes de Sacrobosco, Sphaerae coelestis et planetarum descriptio,  ms alfa.x.2.14 della Biblioteca Estense di Modena [[licenza per uso non commerciale: https://www.bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-alfa.x.2.14.html), immagine modificata]

 

La discussione tra chi considera l’attuale Chimica la vera essenza dell’Alchimia e chi invece ritiene l’Alchimia un’arte anagogica da cui solo secondariamente derivano applicazione scientifiche è di antica data. Per i primi le preparazioni alchemiche sono tentativi di ottenere preparati chimici sempre più puri da sostanze minerali, vegetali e animali con tecniche che nel corso dei secoli si sono andate affinando fino a ottenere quei risultati che costituiscono la base della moderna Chimica. In definitiva l’Alchimia non sarebbe altro che una prechimica o protochimica che man mano si purifica da orpelli religiosi e superstiziosi fino a compiere il definitivo passaggio a scienza esatta. Con questo non si vuol dire che tutti i trattati di Alchimia nascondano un significato spirituale e vadano letti in tal modo, ma non è possibile generalizzare e applicare il concetto di «alchimia eguale protochimica» a tutta l’Alchimia, generalizzazione superficiale causata dall’imperfetta preparazione di certi storici, anche perché in virtù di una tale concezione si giunge a distorsioni nell’interpretazione degli scritti alchemici: uno degli esempi più evidenti è nella trasformazione del termine sal armoniacum in sal ammoniacum o sale di ammonio operata da tanti studiosi contemporanei dei processi metallurgici.

 

Il sal armoniacum è così chiamato nei trattati alchemici almeno fino al XX secolo, esso è così chiamato sia in Alchimia anagogica sia in Alchimia spagirica per la sua capacità di mettere «armonia» tra le sostanze alle quali viene aggiunto consentendone l’unione e la transmutazione, come spiega alla fine del XVII secolo Le Doux[1]: «Il sale armoniaco dei Filosofi è il loro mercurio perché è ciò che dà armonia agli elementi e lo spirito che produce tutte le cose».

 

In epoca più recente, all’inizio del ‘900, Fulcanelli[2] spiega il nome «sale armoniaco» con parole simili a quelle scritte da Le Doux: «Il sale ammoniaco dei saggi, o sale d’Ammone (αμμωνιακος) cioè dell’Ariete, un tempo veniva scritto, con maggior veridicità, harmoniac, perché realizza l’armonia (ἁρμονία, riunione), l’accordo tra l’acqua ed il fuoco, e perché è il mediatore per eccellenza tra il cielo e la terra, lo spirito e il corpo, il volatile e il fisso».

 

Quanto detto mette in luce uno degli abusi interpretativi commessi da taluni studiosi nelle loro trattazioni sull’Alchimia, ma ciò che è ancora più grave è la limitatezza delle loro conoscenze delle opere alchemiche, delle quali probabilmente conoscono solo quelle utili alla conferma delle loro tesi, mentre non hanno posto alcuna attenzione a testi fondamentali nella formazione del pensiero alchemico occidentale, quali il Pretiosum donum Dei, lo Speculum alchimiae, il De leone viridi e altri trattati attribuiti ad Avicenna (il De alchimia) e a Frate Elia (il Vademecum).

 

Se li avessero letti avrebbero rilevato certe curiose (per loro) considerazioni riferentisi al significato del cosiddetto caput mortuum, faeces o «cenere», i residui che restano sul fondo dei vasi dopo le operazioni di distillazione.

 

Il metallurgo che con pazienza e fatica ha sminuzzato il materiale originario da cui estrarre il minerale che gli interessa, lo ha distillato negli alambicchi più e più volte e poi lo ha messo nel forno per calcinarlo per ottenere l’oro, o quale sia la sostanza che cerca di ottenere, nella sua forma più pura possibile alla fine cosa fa? Mescola il prodotto purificato con le scorie che sono avanzate rovinando in tal modo tutto il lavoro fatto per settimane o per mesi! Un comportamento che non è compatibile con l’idea di un’Alchimia protochimica. Eppure nessuno tra gli studiosi rileva un tale intervento, che chiaramente è contrario a ogni lavorazione di carattere scientifico.

 

Quest’ultimo passaggio necessario a completare l’Opera è descritto in modo chiaro e inequivocabile nei trattati fin dal tempo degli alchimisti greci, se la citazione attribuita da Frate Elia nel Vademecum[3] ad Archelao è estratta in modo corretto da uno dei suoi lavori:

 

E così afferma il detto dei filosofi che dice che l’argento vivo è il servo fuggitivo e poi rubicondo, e in questa forma il servo rubicondo sposò una moglie nera, e posti nella fossa e portati agli inferi generarono un figlio biondo. Appare chiaro che il servo rubicondo è la Pietra sopradetta, la moglie nera è il piombo, la fossa è il vaso, l’inferno è il fuoco, il figlio biondo è il sole generato dagli elementi predetti[4].

 

Anche l’alchimista Ibn ‘Umayl[5], vissuto in Spagna o in Egitto nel X secolo, nella Tabula chymica sottolinea la necessità della «cenere» per portare a compimento l’operazione alchemica: «Ha detto Hermes: ‘L’acqua è il fermento per realizzare l’oro e i corpi sono la loro terra e il fermento dell’acqua divina è la cenere, che è il fermento dei fermenti’»[6].

 

Nell’Alchimia di lingua latina già vi si accenna nell’opera a nome di Morieno Romano, il Dialogo di Morieno con il re Khalid, della fine del XII secolo (che sia un’opera araba tradotta il latino o viceversa un’opera latina tradotta in arabo), là dove l’autore del trattato scrive che «l’endica è il segreto di tutti questi (sapienti), ed è chiamata mozath thimia, cioè feci e quindi immondizia»[7].

 

Il ruolo delle faeces è descritto nel Tractatulus dello pseudo Avicenna con le parole «non disprezzare la cenere», frase ripetuta da altri autori:

 

Non devi disprezzare la cenere, perché Dio le restituisce la liquefacibilità e alla fine il Re sarà incoronato per volontà divina con la corona rossa … Infatti il composto non si ha senza matrimonio e putrefazione, e il matrimonio è unire il sottile allo spesso, e putrefare, tritare, assare e irrigare finché non siano insieme mescolati e fin quando divengano una sola cosa[8].

 

Nel Pretiosissimum donum Dei l’importanza delle faeces è ugualmente sottolineata con le parole dell’anonimo Filosofo nel commento alla Figura 10: «Calcinare non è altro che togliere l’umidità e trasformare in cenere. Si bruci dunque senza timore finché sia fatta la cenere. Perché quando sia stata ottenuta la cenere avrai unito in modo ottimale (le sostanze). Quindi non disprezzare questa cenere ma restituiscile l’umidità [lett. il sudore[9]] che ne è uscita … Ciò che uscì da esso [l’acqua della distillazione] riconduci sopra di esso [il corpo ridotto in cenere], finché sia fissato e non se ne separi per mezzo del fuoco, cioè quella nigredo che (è stata) separata dal corpo sia ricondotta sopra il suo proprio corpo da cui è uscita e diventi un solo corpo» [10].

 

Questa cenere è ciò che rimane dalla calcinazione della materia prima nell’Opera al Nero, come scrive lo Speculum alchimiae attribuito a Fate Elia:

 

Il calore, agendo sulla (materia) umida, genera in primo luogo la nigredo, e l’albedo si opera nella citrinitas, e invero aspettati questo nella decozione del piombo, poiché in primo luogo il nero si trasforma in cenere, poi in bianco, quindi in citrino, da ultimo in minio rosso[11].

 

L’autore che nel XIII secolo ha più a fondo esaminato il riutilizzo del residuo delle operazioni alchemiche è stato Raymundus Gaufredi, tredicesimo Ministro generale dei Frati minori, nel trattato De leone viridi[12] a lui attribuito. L’autore raccomanda più volte di conservare i residui (faeces) delle operazioni che via via si stanno compiendo (ad esempio si veda c. 214v: semper faeces quas faciet reserva cum aliis faecibus), perché le «feci»  sono «fuoco», quindi non materiale da scartare e gettar via ma da conservare con cura per sottoporle, come si legge nella seconda parte del trattato, a un’accurata distillazione per estrarre da esse un «olio» che è anch’esso «fuoco», in quanto contengono il sulphur occultum contenuto nella materia prima, il piombo o Saturno che è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum attribuito a Frate Elia: «I predetti filosofi testimoniano che l’oro perfetto non può esser fatto se non con il piombo … è il vero segreto dell’oro e chiamano quest’oro oro dei filosofi»[13].

 

Il segreto della preparazione dell’oro-Sole è quindi nella sua riunione finale con gli scarti, i residui della lavorazione del piombo-Saturno: in essi si trova un materiale che unisce la terra e il fuoco, i due elementi di segno opposto rappresentati dagli apici della stella a sei punte formata dall’incrocio di due triangoli, il cosiddetto sigillo di Salomone.

 

Scrive Raimondo: «Occorre notare che i residui che sono rimasti in luogo del fuoco è il fuoco, come sopra si è detto, racchiudente in sé due elementi, cioè la terra che nasconde e il fuoco, questi sono due elementi fissi che non fuggono il fuoco» (c. 215v).

 

Da notare che faeces est ignis, «i residui è il fuoco», non è un errore di stampa. Si tratta di una particolare regola grammaticale del latino che l’autore del trattato segue (il che evidenzia come si trattasse di persona colta ed esperta della lingua in cui scriveva), costituente un esempio di plurale singolativo[14].

 

Le faeces, dopo la separazione dell’aqua clara che è il «mercurio dei filosofi» (c. 214v), vanno essiccate, tritate e distillate con l’aceto (cioè un solvente forte) fino a espellere ogni impurità e divenire una sostanza di colore rosso o citrino, da cui si estrae un olio rosso che è il sulphur occultum (c. 215r), il principio maschile contenuto nei residui dopo che da essi è stato separato il mercurio, principio femminile.

 

Le faeces sono la materia riportata al suo stato elementare, ciò che rimane del corporeo dopo l’estrazione dell’anima mercuriale che lo vivifica, e che deve essere disgregato (“l’inimico … che tutto si disfaccia” si legge nel sonetto Solvete i corpi in acqua) per liberare le forze di pura potenza di cui è sostanziato, raffigurate dai “vermi” della Figura VI del Pretiosum donum Dei, forze che non devono essere disperse ma vanno reintegrate nell’unità finale dell’Opera. Questo perché in Alchimia minerale il piombo o Saturno è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum: «Se preparato in altro modo [cioè non dal saturno-piombo] è malato»[15].

 

Con le sue parole Raymundus indica il segreto dell’Opera alchemica: le operazioni sui metalli sono metafora della via che l’alchimista deve seguire se vuole giungere alla perfezione completa delle tre componenti dell’essere umano, corpo fisico, animico e spirituale, e nulla va eliminato se non le impurità che costituiscono un impedimento in quanto legate alla sua individualità. Si riporta in questo modo una parte di ciò che è stato creato dalla Natura alla sua forma principiale originaria operando quella che si potrebbe definire una «redenzione» della materia, senza dare alla parola un significato religioso ma solo quello etimologico di «riscatto, recupero», in quanto scopo dell’alchimista è quello di portare a compimento il lavoro che Dio stesso ha lasciato incompleto:

 

Il Creatore creò i quattro Elementi in germe [lett.: nello sperma], dette ad essi un periodo stabilito nel quale si perfezionassero e dopo il quale fossero compiuti per mezzo della Sua sapienza e forza, e quest’opera non è altro che il segreto dei segreti di Dio, che Egli stesso offrì ai filosofi.[16]

 

Nell’Alchimia metallurgica il paziente lavoro sui metalli che sono imperfetti, «malati», li transmuta in oro, unico metallo perfetto e senza alcuna «malattia», da cui l’uso della parola «medicina» per indicare sia il risultato dell’operazione finale, sia il medicamento spagirico che può curare le infermità umane. L’azione concreta di perfezionamento, o meglio di compimento, della creazione della Natura (per questo l’Alchimia fu anche definita philosophia manualis) è possibile per le corrispondenze tra il microcosmo che è l’uomo e il macrocosmo nella sua interezza, come Mirca Eliade nel trattare dell’Alchimia indiana:

 

L’alchimia indiana non è una prechimica ma una tecnica solidale con gli altri metodi della ‘fisiologia sottile’ elaborati dall’Hatha-yoga e dal tantrismo … Nessun dubbio sulla realtà delle operazioni alchemiche non si tratta di speculazioni ma di esperienze concrete effettuate nei laboratori sulle diverse sostanze minerali e vegetali … Piante, pietre e metalli, proprio come il corpo dell’uomo, la sua fisiologia e la sua vita psico-mentale, costituivano i diversi momenti di uno stesso processo cosmico[17].

 

Lungi dall’essere solamente una tecnica per l’elaborazione di nuove sostanze chimiche, l’Alchimia nel suo aspetto anagogico si rivela al lettore attento come un mezzo sottile per raggiungere uno stato di perfezione non solo dell’anima e dello spirito ma anche del corpo stesso.

 

 

 

[1] Gaston Le Doux de Claves, Dictionnaire hermetique, contenant l’explication des termes, fables, enigmes, emblemes et manieres de parler des vrais philosophes. Accompagné de deux traitez singuliers … par un amateur de la Science, a Paris, chez Antoine D’Houry, rue Saint Jacques, devant la fontaine Saint Severin, au Saint Esprit, MDCXCV, s. v. Il testo, che nell’edizione del 1695 non ha il nome dell’autore, è anche citato come Gaston Le Doux de Claves e William Salmon.

 

[2] Fulcanelli, Le dimore filosofali, Roma 1973, vol. I, p, 205. Nella prefazione alla prima edizione dell’Ottobre 1925, scritta dal discepolo Eugene Canseliet, Fulcanelli è detto «già da molto tempo non più tra noi».

 

[3] Il Vademecum è un trattato di Alchimia spagirico-sapienziale di cui sono conosciuti venti manoscritti, sedici dei quali riportano nell’introduzione come autore il nome di Frate Elia, secondo Ministro generale dell’Ordine dei Frati minori.

 

[4] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Pal. Lat. 1267 c. 17v; per la traduzione e il commento del manoscritto si veda Paolo Galiano (a cura di), Frate Elia: il Vademecum, Roma 2019. Il nome di Archelao, alchimista bizantino vissuto tra il Vi e il VII secolo, viene esplicitamente riportato in altri codici del Vademecum, quale il ms Vat. Lat. 4092 della stessa Biblioteca, c. CLXXXIIIIr.

 

[5] Muhammed Ibn ‘Umayl al-Tamîmî, alchimista di lingua araba noto nel mondo latino con il nome di Senior Zadith (latinizzazione del suo titolo Sheik al-Sadik) o di Zadith filius Hamuel, la cui opera, Kitāb al-Mā’ al-Waraqī wa’lr dar an-najmiah (Libro dell’acqua d’argento e della terra stellata), venne tradotta in latino nei codici e poi stampata in numerosi testi, tra cui ricordiamo in particolare Philosophiae chymicae IV vetustissima scripta, Francoforte, 1605 (consultato 06/11/2017 in: Stiftung der Werke von C.G.Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7153). A volte sia nei mss sia nei testi a stampa si trova solo una parte di quest’opera con il titolo Epistola solis ad lunam crescentem.

 

[6] Vetustissima scripta p. 31.

 

[7] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 23.19 Aug. 4°, c. 18r (traduzione integrale e commento in Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, a cura di Paolo Galiano, Roma 2021). Il monaco bizantino Morieno, a cui è attribuito il trattato, sarebbe vissuto nell’VIII secolo e, dopo aver studiato l’Alchimia con Stefano, uno dei primi alchimisti greco-bizantini, ad Alessandria d’Egitto, avrebbe scelto di ritirarsi sui monti vicino Gerusalemme, secondo quanto scritto nel Dialogo. Nel coevo ms Latin 7158 della Bibliothèque Nationale di Parigi c. 201va è specificato che endika id est faeces ignis, nome che sarà ripreso nel De leone viridi di Raymundus Gaufredi. Morieno spiega che l’endica «è l’aria … essa conviene in modo adatto a tutti i corpi, perché li vivifica e li predispone a non essere confusi dalla combustione ma trasferisce qualcosa di loro ad altri corpi e impedisce il calore del fuoco» (c. 16v), cioè possiede la funzione intermediatrice propria del sal armoniacum.

 

[8] Pseudo Avicenna, Tractatulus … in octo capitula (inc.: In primo capitulum dicam de Mercurio), cap. V De Fundatione seu etiam Fusione Aquae super terram suam, in Jean Jacques Manget, Bibliotheca chemica curiosa, seu rerum ad alchemiam pertinentium thesaurus instructissimus, Coloniae Allobrogum (Ginevra) 1702 (Stiftung der Werke von C.G. Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7378), p. 630a.

 

[9] L’utilizzo del termine sudor per indicare l’umidità estratta dal corpo durante il trattamento si trova in molti testi alchemici come, per esempio, nella canzone Est fons in limis (Nam bene mundatum / proprio sudore lavatum), un breve trattato in versi di autore anonimo che si legge in un grande numero di codici e di incunaboli (testo e commento in Paolo Galiano (a cura di), Lo Speculum alchimiae di Frate Elia, Roma 2016, pp. 75-80).

 

[10] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 77.2 Aug. 8° del XV secolo, c. 10r (traduzione integrale e commento in Paolo Galiano, Il Pretiosum donum Dei, pp. 101-102).

 

[11] Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms C.2.567 c. 7r, in Paolo Galiano (a cura di), La arte dell’Alchimia, Roma 2018, p. 197 (traduzione e commento del ms di Firenze del 1491). Lo Speculum è di sicuro anteriore al Donum Dei, il quale lo cita più volte e in modo così ampio che circa un quinto del trattato è costituito da frasi tratte da esso.

 

[12] Il trattato è attribuito a Raymundus Gaufredi, e se sua fosse l’opera sarebbe stata scritta prima del 1310, data della scomparsa dell’autore; il De leone viridi ci è pervenuto in manoscritti databili fin dal XIV secolo (London, British Library, ms Sloane 2327 e Oxford, Bodleian Library, ms 119). Rimandiamo per l’argomento delle faeces a Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, a cura di Paolo Galiano, Roma 2020 (traduzione e commento del ms Guelf. 433 Helmst. della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel), in particolare sulla tradizione manoscritta e a stampa pp. 37-51.

 

[13] Vaticano, Biblioteca Apostolica, ms Pal. Lat. 1267, XIV sec., cc. 17rb-17va, traduzione e commento in Paolo Galiano (a cura di), Il Vademecum di Frate Elia, Roma 2019, pp. 50-51.

 

[14] Si veda Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, pp. 96-97.

 

[15] Bologna, Biblioteca Universitaria, ms 104, datato 1476-1484, c. 243r (Il Vademecum di Frate Elia, p. 70).

 

[16] Ms Guelf. 23.19 Aug. 4° di Wolfenbüttel, c. 15r (Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, pp. 149-150).

 

[17] Mircea Eliade, Arti del metallo e dell’alchimia (trad. italiana Torino 1980 e 2018 di Forgerons et alchimistes, Parigi 1977), pp. 120 e 122-123.

 

 

 

(Autore: Paolo Galiano. L’articolo originale si trova a questo URL. Si pubblica in questo portale per gentile concessione il 27/07/2022)

 

 

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LA SACRA ARTE DELL’ALCHIMIA

 

LA SACRA ARTE DELL’ALCHIMIA

– Paolo Galiano (Edizioni Simmetria

Nella sua impresa di rivalutazione della figura di Frate Elia, Generale dell’Ordine Francescano ed uno dei primi alchimisti occidentali, Galiano con questo terzo lavoro, dopo la traduzione dello Speculum alchemiae nella sua forma abbreviata da un manoscritto del XVI sec. e del Pretiosum donum Dei nella redazione del XV sec., offre la traduzione dello Speculum alchimiae in forma integrale trascritto da un codice del XV sec. della Biblioteca Nazionale di Firenze, un’opera cospicua che si potrebbe per diversi motivi attribuire a Frate Elia ed invece quasi sconosciuta ai lettori interessati come agli specialisti di storia dell’Alchimia, i quali quasi ignorano questo autore e che solo negli ultimi anni, grazie soprattutto a studiosi italiani come Partini, Capitanucci,  Pereira e Rossetti, ha cominciato ad essere conosciuto.

 

Questo testo, ampiamente citato in manoscritti ben più noti come il Pretiosum donum Dei e i Rosarium philosophorum, ha la peculiarità di essere un’opera di Alchimia “teorica” più che “tecnica”: pochissime le cosiddette ricette presenti nel testo, nel quale sono esposti i sette gradi dell’Opera alchemica con la precisazione dei tempi, dal Solstizio d’Inverno al Solstizio d’Estate, in cui attuare le operazioni che devono essere eseguite da chi vuole giungere all’Oro alchemico, non oro materiale, come spesso specifica l’autore dello Speculum, ma Oro trascendente, fusione del corpo, dell’anima e dello spirito in una sola entità in cui il corporeo è spiritualizzato e lo spirito è corporeificato nella realizzazione del “corpo di gloria” o Androgine perfetto.

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L’ALCHIMIA  SI  FONDA. . .

L’ALCHIMIA  SI  FONDA…

 

[L’Alchimia si fonda] “…sulla permutazione della forma da parte della luce, fuoco o spirito.”

(DP I, 71)

“La chimica è incontestabilmente la scienza dei fatti, mentre l’alchimia è quella delle cause… [questa] tenta di penetrare il misterioso dinamismo che presiede alle loro trasformazioni… ci permette di intravedere Dio attraverso le tenebre della sostanza.”

(DP I, 79)

“…L’agente elementare fuoco senza il quale non si può realizzare nessuna combinazione…”

(DP I, 81)

[Il fuoco] “..nella sua essenza spirituale… s’introduce nei corpi nell’istante stesso in cui appaiono sul piano fisico.”

(DP I, 83)

“Questo principio universale… anima la sostanza, quale che sia il regno cui appartiene. Quindi si manifesta intorno a noi, sotto i nostri occhi, sia con le proprietà nuove che la materia ne deriva, sia con i fenomeni che ne accompagnano le emanazioni. La luce – fuoco rarefatto e spiritualizzato – possiede le stesse virtù e lo stesso potere chimico del fuoco elementare e grossolano.”

(DP I, 84)

(N.B. I richiami sono: DP 1, Les Demeures Philosophales, Tome I. DP 2, ibidem, Tome 2. Il numero di pagina fa riferimento all’edizione del 1965. MC, Le Mystère des Cathédrales, edizione del 1964. Le citazioni derivano tutte da traduzioni fatte «ex novo» sui testi originali).

 

Ricreazione

 

La parola “fuoco”, in francese feu, racchiude nel greco phúo tutti i significati di produzione, procreazione e generazione delle cose. Il fuoco è eminentemente ciò che fa nascere, che mette al mondo, che porta alla luce. Non si ha nascita senza fuoco generatore. Quindi giustamente gli è molto simile phôs, luce, lume, splendore, gloria, ma anche fiamma, che del fuoco è la manifestazione più evidente. Il fuoco è ciò che illumina per eccellenza. Non si ha illuminazione senza fuoco. È lui che inizia ai misteri, il vero Maestro. L’alchimista è philosophus per ignem, filosofo per mezzo del – o grazie al – fuoco.

Phós è uomo, talvolta eroe, ma sempre uomo mortale. In nulla al mondo si cela tanta luce quanta negli esseri umani. Montfaucon de Villars nel Conte di Gabalis riassume così tutta l’Opera:

…dobbiamo purificare ed esaltare l’elemento del fuoco che sta in noi e rialzare il tono di questa corda allentata. Basta concentrare il fuoco del mondo con specchi concavi in un globo di vetro; questo è l’artifizio che tutti gli Antichi hanno nascosto religiosamente e che il divino Teofrasto (cioè Paracelso) ha scoperto.

Se ora ci spostiamo sul vocabolo greco, scopriamo nuovi percorsi anagogici. Pûr, fuoco, si collega a puráme, messa, mietitura: ecco il vaglio, van in francese, cioè il vento che separa il grano dal loglio, il sottile dallo spesso (la terribile mietitura della fine del ciclo).

Un’altra assonanza getta nuova luce sull’iconografia esoterica, per esempio su certe immagini del Mutus Liber: púrgos, torre, recinto, baluardo, muro con torri, e anche purgóo, fortifico, e púrgoma, mura turrite, fortezza.

Sulla facciata della chiesa cattedrale di Amiens si vuole che una formella rappresenti Cristo mentre attraversa Gerusalemme. In effetti si vede un uomo di una certa età, rivestito di toga, che passa tra una fortezza turrita e una chiesa tenendo in ciascuna mano quelle che potrebbero sembrare due lampade. Passeggiata notturna di Gesù in una città che, massimo anacronismo, avrebbe già avuto chiese cristiane: gli eruditi non ci dicono da quale misterioso e apocrifo vangelo sia stato ripreso questo episodio. Resta per noi il fatto,  molto più interessante, che se quelle due lampade sono interpretate come pesi di bilancia, come in effetti appaiono, sono tenute come se si volesse indicare una proporzione, che potremmo facilmente immaginare di più parti a una (tuttavia, si noti, i due pesi sono stati rappresentati dal lapicida assolutamente identici).

Incuriosisce pûros, tufo calcareo, concrezione stalattica, ma anche concrezione pietrosa della vescica, come se il frequente riferimento nei testi ermetici al dolore dei calcoli biliari – si veda ad esempio l’inizio del testo di Basilio Valentino – volesse in qualche modo ricondurci al tema igneo. Certo, qui viene più facilmente alla mente Eudosso che nel dotto trattatello di Limojon de Saint-Didier ci insegna che il fuoco dei Filosofi è della natura della calce.

La sarabanda cabalistica potrebbe continuare, perché ha qui uno dei suoi terreni più fecondi. Ci torneremo nei passi appropriati, ma vogliamo ancora accennare al francese pur, puro, e a pur-gation, pur-ger, purge, così simili peraltro all’italiano, con tutti i significati connessi all’azione pur-ificante del fuoco e alle sue capacità di eliminare le feci in eccesso.

Eppure pourri (pronuncia “puri”) vuol dire corrotto: il fuoco è anche l’agente che provoca la putrefazione, ma questa è, in un certo senso, una corruzione benefica e necessaria per una purificazione successiva, quindi non si ha contraddizione.

Vedremo altrove i legami col fimo, per ora concludiamo col fuoco del fuoco, in greco pûr purós, la porpora, fuoco per eccellenza, conclusione definitiva dell’Opera Fisica. Resta il fatto che nell’Opera i Fuochi sono più di uno, come ci dice per esempio Ripley nei suoi Assiomi Filosofici:

Sono quattro i tipi di fuoco che devi conoscere: il Naturale, l’Innaturale, quello Contro Natura e quello Elementale che infiamma il legno. Noi ci serviamo di questi fuochi e non di altri. Il Fuoco di Natura sta in tutte le cose ed è il terzo menstruo. Quello Innaturale, detto imperfetto, è il fuoco di ceneri e dei bagni per la putrefazione, e senza di lui non si porta nulla sino alla putrefazione. Il Fuoco Contro Natura deve tormentare i corpi, è il drago che brucia con violenza, come il fuoco dell’inferno. Fai un fuoco nel tuo vetro, che bruci i corpi più efficacemente del fuoco Elementale.

Di questi quattro fuochi parla Maier nel XVII Emblema dell’Atalanta Fugiens. Il titolo dice “Una quadruplice ruota regge quest’opera di fuoco”, che nell’epigramma così è descritta:

Tu, che vuoi imitare l’opera di Natura, quattro sfere devi cercare, che agita all’interno un fuoco lieve. La più bassa ricordi Vulcano, la seconda indichi bene Mercurio, la terza abbia la Luna, la quarta, Apollo, sia anche intesa come fuoco di natura. Quell’incatenamento guidi nell’arte le tue mani.

Nel commento, riprendendo Ripley, Maier afferma che il fuoco naturale coagula, quello innaturale dissolve, il fuoco contro natura corrompe e quello elementale fornisce il calore e il primo movimento. Aggiunge che si concatenano secondo un ordine invariabile per cui il secondo è spinto all’azione dal primo, il terzo dal secondo, il quarto dal terzo e dal primo insieme, per cui ognuno di loro è di volta in volta attivo e passivo. I Maestri si divertono a dare mille nomi ai loro fuochi, nomi che sarebbe davvero ingenuo prendere alla lettera, mentre in realtà sono descrizioni delle diverse manifestazioni di un unico agente. Alcuni elenca Dorn nelle sue Congeries Paracelsicae, e può essere interessante, e curioso, leggerli:

Il fuoco in Alchimia si manifesta su diverse materie e con diversi effetti. Ci sono le fiamme di legna, che chiamano fuoco vivo, e con cui si calcinano o riverberano i corpi di tutti i metalli e delle altre cose. C’è il calore continuo della candela o della lucerna, con cui si fissano le cose volatili. C’è il fuoco di carboni, con cui si cementano (calcinano), colorano e purgano dai loro escrementi i corpi (questo inoltre porta oro e argento al massimo grado di qualità, imbianca Venere e insomma rinnova tutti i metalli). C’è, per un’altra operazione, la lamina infuocata di ferro, su cui si esaminano le tinture. C’è il calore eccitato col fuoco in mezzo alla limatura di ferro. C’è quello nelle ceneri. C’è quello nella sabbia. C’è quello nel bagno del Mare o di Maria (come si dice), con cui si fanno diverse distillazioni, sublimazioni e coagulazioni. C’è il bagno di rugiada, che si chiama anche vaporoso, con cui si fanno molte soluzioni di cose corporee. C’è il ventre equino, in cui si fanno specialmente putrefazioni e digestioni. Poi, oltre a tutti questi, c’è il fuoco invisibile, cioè quello dei raggi del Sole, che si manifesta con i suoi effetti mediante un cristallo o uno specchio, e che gli antichi non hanno menzionato…

Non possiamo infine non citare Artefio che nel suo preziosissimo Libro Segreto riprende più volte questo tema igneo. Uno dei paragrafi più importanti dice:

Abbiamo propriamente tre fuochi, senza i quali l’arte non si può compiere. Colui che lavorasse senza quelli si affaticherebbe invano. Il primo è di lampada. È continuo, umido, vaporoso, aereo e artificioso da trovare, perché la lampada deve essere proporzionata alla chiusura, e in questa lampada va usato molto ingegno, cui non arrivano coloro che hanno dura cervice, perché se la lampada non è geometricamente e adeguatamente adattata al forno, o per difetto di calore non vedrai i segni attesi al momento giusto, e partendo perderai ogni speranza in un’attesa troppo lunga, o se è troppo veemente brucerai i fiori dell’oro e ti lamenterai tristemente delle tue fatiche. Il secondo fuoco è di ceneri, dove è posto il vaso sigillato ermeticamente, o piuttosto è quel calore dolcissimo che circonda il vaso che proviene dal vapore temperato della lampada. Questo fuoco non è violento se non è troppo eccitato, è digerente, alterante, si prende altrove che dalla materia, è unico, è anche umido e secco. Il terzo è il fuoco naturale della nostra acqua. Perciò è chiamato fuoco contro natura, perché è acqua e tuttavia essa fa sì che l’oro diventi vero spirito, ciò che il fuoco comune non potrebbe fare. Questo è minerale, uguale, partecipa dello zolfo, rompe, congela, dissolve e calcina tutto, è penetrante, sottile, non bruciante, è la fontana in cui si lavano il Re e la Regina, di cui abbiamo sempre bisogno, all’inizio, nel mezzo e alla fine. Degli altri due fuochi invece non abbiamo sempre bisogno, ma solo talvolta…

Si sarà notato che Artefio non parla del quarto fuoco, quello elementale, che descrivevano gli altri, Maier in particolare. Questo è alla base stessa della nostra manifestazione. Proprio per questo motivo la maggior parte degli autori lo dà per scontato. Ora, da qui partono considerazioni che toccano il grande arcano del Fuoco Segreto o Filosofico, su cui Fulcanelli torna così spesso nelle sue opere. Non mancherà perciò l’occasione di riprendere l’argomento, e allora, tra gli altri Maestri, leggeremo anche il famoso Pontano che gli ha dedicato un apposito libretto.

 

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QUEI TANTI MERITI DELL’OCCIDENTE SOTTO ATTACCO DESC IMG

QUEI TANTI MERITI DELL’OCCIDENTE SOTTO ATTACCO DESC IMG

di Antonio Polito

 

Nel suo nuovo saggio Federico Rampini dimostra che il progresso del nostro mondo si è rivelato un grande vantaggio anche per l’altro mondo

Quei tanti meriti dell’Occidente sotto attacco.

 

 

Si può ancora dire «Grazie, Occidente»? Si può ancora riconoscere «tutto il bene che abbiamo fatto»? Possiamo ancora «dirci superiori» per ciò che abbiamo inventato, prodotto e diffuso nel mondo, per la nostra medicina, tecnologia, scienza? Per i nostri sistemi istituzionali, per la nostra libertà?

 

Federico Rampini crede che si possa, e anzi si debba dire. Nel suo ultimo libro, che prosegue in una preziosa opera pedagogica, nega che la storia degli ultimi secoli dalla Rivoluzione industriale in poi possa essere letta «come un lungo romanzo criminale, fatto di sfruttamento abietto, sofferenze, guerre coloniali, saccheggio delle risorse naturali». E dimostra, con il supporto di un’ampia mole di studi e di autori, che al contrario il progresso del nostro mondo si è rivelato un grande vantaggio anche per l’altro mondo, perché ha determinato ovunque, seppure in gradi e tempi diversi, un miglioramento senza precedenti di condizioni di vita, livelli di istruzione e di benessere, diritti e libertà.

 

L’idea del titolo — racconta l’autore nell’incipit — gli è venuta in Tanzania, quando ha visto un pastorello masai a guardia del gregge di capre con l’occhio fisso sul suo cellulare: «Non può certo supplire a un’istruzione ancora spaventosamente carente, ma è uno strumento per spezzare l’isolamento e aprire una finestra sul mondo. Qualcuno nel suo Paese usa lo smartphone per conoscere le previsioni meteo e pianificare meglio i raccolti; o per gestire qualche piccola attività commerciale. Ecco: quel pezzo di tecnologia l’abbiamo portata noi al pastorello masai. Insieme a tutto il male che abbiamo fatto all’Africa e agli africani, vuoi vedere che c’è un’altra faccia della medaglia?».

Quei tanti meriti dell’Occidente sotto attacco

 

La copertina del libro

 

Ovviamente c’è. Oggi scriviamo «energia fossile» accostandola inevitabilmente a uno scenario di disastro climatico. Ma aver trovato il modo di trasformare il calore in movimento ha reso possibile l’impossibile. Per milioni di anni quasi tutta l’energia necessaria a muovere le cose veniva dai muscoli di uomini e animali. Di conseguenza, anche nelle società più sviluppate, al massimo il 10/15% della popolazione poteva passare il tempo a leggere e scrivere. L’istruzione di massa, l’adolescenza come età dello studio, è dunque un’invenzione occidentale. Oppure prendiamo la meccanizzazione dell’agricoltura, accusata dell’impoverimento di massa dei contadini. È grazie all’aumento senza precedenti di produttività agricola se «un adulto medio del 2000 era del 50% superiore per statura e peso di un suo antenato del 1900. In gran parte del resto del mondo, inclusi Cina e Giappone, l’arco di vita si è allungato di quasi quarant’anni. Anche in Africa, nonostante malaria e Aids, la longevità media era di vent’anni superiore nel 2019 rispetto al 1900».

 

Durante la maggior parte della storia umana le donne sono state macchine per la riproduzione. La medicina moderna, la profilassi e le campagne di vaccinazione, la raccolta dell’immondizia e la distribuzione di acqua potabile, tutte invenzioni occidentali, hanno abbattuto la mortalità infantile, così che le donne non devono più avere in media cinque parti e passare la vita adulta in gravidanza o in allattamento. Insieme con i frigoriferi e le lavatrici, i preservativi e la pillola, l’Occidente ha introdotto un po’ alla volta in tutto il mondo un formidabile progresso nella vita delle donne e nella loro libertà. Tranne, guarda caso, nei Paesi retti da regimi dichiaratamente anti occidentali, come l’Iran degli ayatollah e la Gaza di Hamas. Ci sarà del resto una ragione per cui il sistema occidentale ha avuto tanti imitatori (primo tra i quali il Giappone alla fine dell’Ottocento), e nessun governo occidentale «ha mai cercato di amministrare il proprio Paese in base al confucianesimo o al taoismo?».

 

Ciò nonostante, la cosiddetta Generazione Z, educata nelle nostre istituzioni culturali e dai nostri libri al catastrofismo e al pessimismo sulle sorti dell’umanità (il che deve avere qualcosa a che fare con il dilagare di disagi e sindromi psicologiche), è convinta che siamo ricchi perché abbiamo derubato i poveri. Caricatura un po’ grottesca del marxismo.

 

Speriamo che i giovani di questa «generazione ansiosa» leggano questo libro. «Non date retta ai catastrofisti, il mondo non sta andando a pezzi. La verità è questa: se doveste scegliere in tutta la storia dell’umanità il periodo migliore in cui essere vivi, scegliereste quello attuale»; e questo non lo ha detto Rampini ma Barack Obama appena otto anni fa. Criticare il nostro modello di sviluppo è giusto, a patto di sapere ciò che ne ha scritto un suo insospettabile critico, il pensatore di lingua madre araba Amin Maalouf: «Tutti quelli che combattono l’Occidente e contestano la sua supremazia, per delle buone o cattive ragioni, vanno incontro a un fallimento ancora più grave del suo».

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