PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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CONSIDERAZIONI SULLA HUMANITAS

i Antonio Binni

Sotto quella ciotola piena di stelle che gli uomini chiamano cielo, l’universo è gravido di mistero. L’uomo si fa querens e il querere si fa dovere, necessità, felicità. Dovere, in quanto tributo che l’uomo deve pagare al suo essere razionale. Necessità, quale unica forma di consolazione concessa al suo fragile essere mutevole. Al postutto, fonte di autentica felicità per essere l’uomo nato al fine di conseguire una conoscenza stabile e certa del vero, non desumibile dalle tare delle res obscurae del sensibile regno della mutevolezza. Il nostro pensiero interrogante oggi ha come oggetto un tema fra i più complessi e delicati, seppure per certo fra i più affascinanti. Si insegna che il compito e il fine dell’Arte regia sono costituiti dal rendere l’uomo umano, sempre più umano, sempre più pienamente umano. È la nota lezione di Fichte (che può leggersi in Filosofia della Massoneria, nella seconda edizione italiana pubblicata nel 2019 da Mursia editore. Su questo tema cfr. amplius il nostro scritto Fichte. Filosofia della Massoneria comparso nel numero di Officinae del mese di Novembre 2021). Il significato profondo di questo assunto esige però preliminarmente di appurare in che cosa si risolva l’umanità, che cosa la sostanzia, che cosa l’alimenta. All’approfondimento di tutti questi temi saranno pertanto dedicate tutte le successive considerazioni. A questo fine aiuta sicuramente un approccio all’argomento dal profilo storico, sia pure circoscritto all’essenziale. I primi che alla problematica hanno dedicato una specifica attenzione sono stati sicuramente i Greci. Nella loro grande epoca hanno infatti posto l’accento sulla necessità di dare un significato e un senso alla parola umanità, che hanno poi inteso come il punto di arrivo di una educazione necessaria per superare la naturale animalitas dell’uomo. L’uomo, unità di corpo, anima e spirito, sebbene essere razionale è infatti, e rimane pur sempre, un essere animale. Animalità che può essere tuttavia corretta, e perfino completamente eliminata, con la παιδεία, non essendo a questo fine sufficiente la semplice attribuzione all’uomo di una anima immortale o della facoltà della ragione. Troppo noti, per essere elencati singulatim, sono poi gli strumenti dei quali si avvale la παιδεία per contrastare l’arbitrio degli istinti e la barbara brutalità. Valga piuttosto ricordare che la virtus romana altro non è che la incorporazione della παιδεία elaborata dai Greci, pur restando vero che la humanitas viene per la prima volta pensata ed esplicitata con questo nome solo al tempo della Repubblica romana. La parola παιδεία viene infatti tradotta con la parola humanitas. Nella sua essenza, il primo umanesimo resta quindi un fenomeno specificatamente romano che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cristianesimo ravvisa invece la humanitas dell’homo nella sua limitazione rispetto alla deitas. L’uomo, in questa prospettiva, non è infatti di questo mondo, inteso invece come un semplice luogo di passaggio transitorio verso l’al di là. È noto che il Rinascimento – tra il XIV e il XVI secolo – celebra la humanitas nella sua latitudine più vasta. L’aforisma del drammaturgo latino Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (“Sono uomo, nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo”) era infatti il più amato e il più citato dagli umanisti della renascentia romanitatis, nonostante poi che, nel suo contenuto, si continui a intravedere ancora la pratica del vizio come prova di una umanità non ancora del tutto raggiunta. Salda comunque rimane ancora la convinzione che il destino della persona umana sia non soltanto l’autotrascendenza, ma addirittura la divinazione. In questa prospettiva, il modello diventa allora il Salvatore, vero uomo e vero essere divino. Da ultimo, ma non per ultimo, non è inutile ricordare che l’umanesimo rinascimentale ha costituito il movimento culturale e educativo più influente in Europa in tutto quel periodo. Nella funzione educativa si riconosce poi un’importanza decisiva alla cultura, intesa come il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. Alla cultura sottostanno infatti sistemi di valori, significati e visioni del mondo che possono risultare determinanti fino al punto di divenire fonte di divisione sociale. Come accade, ad esempio, nella cultura contemporanea dominante in Occidente, che esclude ogni forma religiosa dai valori riconosciuti perché degradata a mera superstizione o, addirittura, a oscurantismo. Per concludere sul punto, la cultura è come una lente che può chiarire o distorcere convinzioni in apparenza, e non solo, innate. Proprio perché pervasiva – le sue idee riempiono le nostre teste – può essere sana o tossica. Per questo – la ripetizione si impone – costituisce un fattore educativo di portata determinante. (Per un approfondimento di questo argomento ci permettiamo di rinviare al nostro precedente scritto dal titolo Massoneria e cultura pubblicato sul numero di questa Rivista uscito il 23 maggio 2021). Per esaurire questo sommario excursus dell’Umanesimo storicamente considerato, corretto è infine affermare che il fenomeno de quo, considerato nelle sue varie forme, attinge in modo determinato alla antichità, spingendosi talvolta fino a farne un calco integrale. Fatta eccezione per l’umanesimo di Sartre che lo concepisce invece come esistenzialismo. Ciò doverosamente seppur sinteticamente ricordato, al fine di delineare il nostro pensiero sull’argomento va precisato innanzitutto che tutte le forme di umanesimo che si sono via via affermate fino ad oggi presuppongono – come è evidente – l’“essenza” universale dell’uomo. È dunque a questa “essenza” che si deve far capo se s’intende dare, come ci si è proposti, un sicuro fondamento e un preciso contenuto a quella umanità che si vuole costituisca la cifra caratteristica e la peculiarità distintiva dell’uomo UOMO. Secondo l’insegnamento tradizionale inaugurato da Platone, l’essenza dell’uomo deve essere ravvisata nel suo essere una possibilità. Quando si afferma che la humanitas è l’essenza dell’uomo si vuole pertanto dire che l’uomo è arbitro delle sue scelte, potendo diventare umano o in-umano. In-umano, in quanto figlio dell’arbitrio e della sopraffazione, autentico inferno per il tormento di non amare nessuno. Umano perché agli antipodi del negativo, che, in quanto rifiuto della ragione, merita il marchio della riprovazione. Il che, se non andiamo errati, autorizza legittimamente a sostenere che l’umano esiste nell’uomo soltanto in nuce. Infatti, è solo quando da potenza si trasforma in atto che l’umano si dispiega in tutta la sua latitudine per divenire ciò che autenticamente è. Il che postula allora la domanda su cosa consista il contenuto dell’umano, quale sia cioè la sua cifra, ossia la peculiarità che lo caratterizza. A chi scrive queste note l’umano, quale sintesi di valori inalienabili e inespropriabili, va colto essenzialmente nella cura dell’altro come dono da offrire e mettere in comunione con quello di cui ciascun altro è portatore. Una cura aperta in termini universali, perché estesa a livello non solo umano, ma pure sociale, planetario, cosmico. Anche se, in primis, indirizzato all’uomo con la diffusione di semi di verità, di bontà, di bellezza, ma pure di sostegno materiale nei confronti dei più bisognosi, degli umili, dei diseredati, a questi ultimi uniti nel loro rispettivo dolore. Il che – sia detto per incidens – è tanto più urgente in questa attualità connotata dalla indifferenza. Si tratta poi di una cura, dove la sottolineatura è perfino superflua, non nel senso astratto di un impegno generico ma in un senso concreto, indirizzata nei confronti di una persona specifica: impegno duraturo che non deve passare rapido come il soffio di un vento di montagna. Il che postula una generosità coltivata giorno per giorno, come avviene per una piantina a primavera, e nel contempo la forza eterna del bene che si custodisce nel tempo, con radicale esclusione di ciò che soffoca. Altrimenti il negativo strangolerebbe e ucciderebbe lo slancio generoso. Prendersi cura dell’uomo vuol dire, in sintesi, insegnare all’uomo germogli vivi di tenerezza che, una volta coltivati dall’apprendista-uomo, gli consentiranno di donare agli altri la propria autentica essenza, come dire la ricchezza più preziosa del proprio essere, sostanza composita perché in quel contenitore confluiscono logica, generosità, tradizione, valori e, più in generale, lo stesso inconscio collettivo.
Da qui una responsabilità educativa di carattere generale che comporta la messa in atto di una delicata e risoluta paideia secondo la regola pedagogica della gradualità. In ogni caso, una educazione al difficile, tanto per l’educando quanto per l’educatore, posto che un’azione educativa coerente implica l’indicazione di sentieri di vita orientati al bene: un richiamo energico a vivere la vita in pienezza e responsabilità, trasformandola creativamente ogni giorno nell’arte del dono. Fare di se stessi gli artefici del miracolo di trasformare l’altro in una immagine di virtù è la realizzazione del sogno che nutre l’uomo-uomo, l’uomo umano. La non umanità coincide allora con il porsi fuori dell’essenza dell’uomo. Come a dire vittime del dominio dell’istinto, dell’arbitrio, del sopruso, della sopraffazione, della forza e della violenza (purtroppo così attuali mentre scrivo!). Stare dalla parte dell’umano e servirlo con scrupolo e costanza significa conclusivamente contrastare, con ferma determinazione, tutto ciò che anche soltanto appanna la luce che scaturisce dalla ricchezza della cura dell’altrui. Nella nostra società contemporanea significa, in specifico, contrastare tutto ciò che c’è di insidiosamente distruttivo, quali le pressioni competitive, la seduzione del consumismo, l’invadenza della pubblicità e tutti gli altri influssi che modellano negativamente l’attuale modo di vivere. Sul piano intellettuale l’opposizione e il contrasto vanno poi indirizzati a quella corrente culturale, oggi dominante nel mondo occidentale, chiamata postmodernismo, perché filosofia essenzialmente scettica. Il suo principio basilare è infatti questo: la verità è soltanto tutto ciò che è vero “per me”. Con la conseguenza che l’assenza di una verità oggettiva finisce per impoverire l’umano perché, a questa stregua, viene meno un punto di riferimento sicuro nella vita di ciascuno di noi, gioia e guida che tengono lontano dall’insensato vagare tra incertezze e rischi oltremodo pericolosi. Dunque, se si vuole rendere l’abitante di questo mondo, tanto complesso e difficile, sempre più uomo, sempre più umano, sempre più pienamente umano, non solo nella sfera dell’esercizio individuale della speculazione ma proprio nella concretezza del sensibile, occorre, a ben vedere, compiere ogni sforzo nella divulgazione della paideia, posto che quest’ultima fornisce tutti gli strumenti necessari per affinare l’uomo fino a trasformarlo in un uomo autentico. Impresa da compiersi senza posa, perché in questa costruzione lenta, faticosa, sempre soggettivamente appagante, oltre che collettivamente arricchente, non v’è in verità mai fine.

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴
Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato
Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi

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LA MASSONERIA, I SOCIALISTI E MUSSOLINI

LA MASSONERIA, I SOCIALISTI E MUSSOLINI

Carlo Felici del 12 Marzo 2019 Cultura

Dalla Grande Guerra alla guerra civile. 

Il rapporto tra Mussolini e la Massoneria fu cruciale ed andrebbe studiato nei dettagli, qui, ovviamente, non possiamo che accennarvi sottolineando però alcuni passaggi emblematici. Mussolini, è bene chiarirlo subito, non fu mai massone né chiese di esserlo. E’ una leggenda il fatto che avesse chiesto di essere iniziato ma venne rifiutato per i suoi precedenti penali o perché troppo irrequieto, non vi sono prove, e le dicerie restano alquanto prive di fondamento. La sua avversione per la Massoneria, invece, fu tanto palese, quanto evidente fu il fatto che se ne servì per raggiungere il potere.

Le origini dello spirito antimassonico di Mussolini risalgono al contrasto tra socialisti e repubblicani all’inizio del XX secolo, i primi di tendenza anarchica e i secondi repubblicani perché massoni. Mussolini si adoperò alacremente per fare espellere i massoni dal Partito Socialista già dal 1914, nel Congresso di Ancona, prima di capire come, però sarà bene ripercorre un po’ le tappe del rapporto tra massoni e socialisti fino al 1914. La Massoneria aveva contribuito validamente alla nascita di un partito socialista in Italia, le sue prime sezioni erano piene dei ritratti del primo Gran Maestro della Massoneria italiana: Giuseppe Garibaldi.

Già alla vigilia della sua morte, nell’autunno del 1881 la massoneria milanese organizzò un congresso fondamentale. Tra i sei temi in discussione, due erano più propriamente “politici”. E il secondo aveva come titolo il seguente: “Dell’atteggiamento della Massoneria di fronte alla questione sociale”. I massoni milanesi erano convinti allora che fosse necessario un forte impegno sociale per affrontare seriamente i problemi del cosiddetto quarto stato, sottraendo alla borghesia il cerchio ristretto dell’influenza massonica, si diceva a chiare lettere: “Il mondo cammina, il quarto stato chiede alla sua volta di entrare. Che la massoneria italiana si ponga quindi all’opera e presto. Bisogna dare al popolo, ai lavoratori delle città e delle campagne, con la scienza, la coscienza di sé stessi. Bisogna educare il legittimo successore al quale i fati destinano la sovranità della terra”.

Come è evidente, questo è un linguaggio che va ben oltre il concetto di democrazia, allora ancora più ristretto da un limitato suffragio, ma che si identifica con la nascente ideologia socialista, teorizzando la nascita di una serie di logge “operaie e campagnole”, che dipendessero dalle logge madri. Non vi era nemmeno discriminazione culturale in tale intento, poiché il fatto che i fratelli fossero analfabeti, non ne inficiava l’appartenenza, anzi la loggia stessa si incaricava di dare loro gli strumenti di emancipazione culturale necessari: “precipuo fine di queste logge massoniche sarebbe quello d’istituire una scuola per insegnare a leggere, a scrivere e far conto non solo ai fratelli ma alle loro famiglie, ai loro amici ed attinenti”. Nessuna tassa o capitazione sarebbe stata prevista per queste logge, avendo esse soltanto “intendimenti progressivi ed umanitari” dell’istituzione massonica.

L’obiettivo era quello di sottrarre, mediante l’istruzione, alla influenza clericale un certo numero di persone che sarebbero state protagoniste a loro volta di una propaganda laica. I rapporti tra Massoneria e Socialismo, dall’inizio del XX secolo, sono improntati a rispetto e collaborazione anche se restano su piani distinti, dato che la prima lavora per il perfezionamento individuale ed il secondo per quello collettivo, non poche però sono le occasioni di convergenza.

Quando la corrente riformista riesce a prevalere, dal 1900 al 1911, il rapporto di reciproca convivenza si rafforza, in particolare con l’emanazione delle Costituzioni massoniche nel 1906, le quali riaffermano che “la Comunione italiana, non discostandosi nei principi e nel fine da quanto l’Ordine mondiale professa e si propone, propugna il principio democratico nell’ordine politico e sociale”. Tale assunto favorisce notevolmente il connubio tra partiti laici e socialisti che hanno modo di affermarsi dal 1907 nei blocchi popolari delle grandi città e nelle loro amministrazioni, contendendo validamente l’egemonia al blocco moderato. Uno degli esempi più eclatanti di questi intenti è il Comune di Roma, amministrato con grande impegno civico e perizia amministrativa dal sindaco Ernesto Nathan, che era stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, il quale allargò notevolmente con la sua iniziativa laica la base del consenso.

Tra il 1904 e il 1907 però all’interno dello stesso schieramento socialista le divergenze sulla compatibilità con il percorso massonico si fanno più forti e sono sempre più consustanziali a quelle tra i massimalisti e rivoluzionari che considerano la Massoneria come un retaggio borghese, e i riformisti che, invece, rilevano sempre maggiori compatibilità di intenti con essa nel processo di emancipazione umanitaria.

Nel 1905 la Massoneria venne tacciata di essere, sulle colonne dell’ ”Avanti!” dal sindacalista-rivoluzionario Guido Marangoni, una “quinta colonna” del riformismo piccolo-borghese, e di essere piuttosto accondiscendente verso moderati e clericali. Ci fu una forte reazione del compagno massone Alfredo Poggi e di un Fratello X che replicò testualmente: “Perché dunque combatterla? O non è combattere una forza viva, un ausilio valevole all’opera continua di svolgimento della legge indefinita del progresso umano? I socialisti, più che combattere la Massoneria, dovrebbero conquistarla e trasformarla, e sarebbe una nuova e grande forza al servizio della moderna civiltà”, previa epurazione delle Logge dai massoni filo-clericali e moderati, “trescatori illeciti, profanatori del tempio”.

La Massoneria, d’altro canto, ripudiava i metodi di lotta socialisti basati sulla violenza, ribadendo di essere favorevole ad “un’azione inoltre diretta ad infrenare possibilmente gli eccessi e le violenze, in cui talora quel partito, od almeno una notevole parte di esso, si è abbandonato ed ai quali ci si proclama pure disposti come a metodo di lotta”. Nell’ottobre del 1905 fu lo stesso Turati a prendere posizione, con una intervista rilasciata al Corriere, ribadendo che lui ed il suo partito restavano estranei alla Massoneria; ci furono forti reazioni e prese di posizione e fu deciso pertanto di convocare un referendum tra gli iscritti per stabilire una eventuale compatibilità tra l’essere massoni e l’appartenere al Partito Socialista.

La partecipazione fu scarsa ma significativa, solo il 25% del totale delle sezioni, per una percentuale di iscritti di circa il 30% . Ciò nonostante, la maggioranza che risultò in quelle condizioni per l’incompatibilità fu netta ed arrivò all’85% di quanti si erano espressi. E la proposta di espulsione dei massoni dal partito raccolse il 78% dei consensi. La rappresentatività di tale referendum però risultava troppo scarsa per legittimare un qualsiasi provvedimento.

Il GOI replicò, come nella tradizione massonica, con estrema apertura e tolleranza rimarcando il fatto che si dovevano considerare dimissionari dalle Logge Massoniche solo coloro che avevano già detto che avrebbero accettato l’esito referendario, adeguandosi ad esso. Furono così ritenuti “definitivamente dimissionari dall’Ordine quei Fratelli, i quali, interpellati dai loro Venerabili, risposero che se l’esito del referendum avesse stabilito la incompatibilità tra le qualità di massone e di socialista, si sarebbero ritirati dalla Massoneria; dato che per tutti gli altri non crede doversi prendere qualsiasi risoluzione, lasciando loro giudici e liberi di rimanere o di andarsene, perché la Massoneria che deve accogliere ed accoglie uomini onesti di qualunque fede, scuola o partito, purché sinceramente devoti alla libertà, alla civiltà ed alla patria, non può, senza rinnegare le sue dottrine fondamentali, formulare ostracismi, né assumere atteggiamento d’intolleranza”. Non era una sorpresa, la Massoneria infatti non ha mai imposto alcuna incompatibilità con nessun ambito politico o religioso, dato che per sua tradizione secolare di Loggia, in ogni tornata, non si parla né di politica e né di religione.

Nel febbraio del 1906 l’assemblea costituente massonica ribadì di volere mantenere buoni rapporti con i socialisti. Fu solo stigmatizzato il fatto che “la Santa Inquisizione socialista seguì il suo procedimento, e 9 mila proletari su 37 mila iscritti deliberarono l’indegnità dei socialisti-massoni” Ma, in conseguenza di ciò, pochissimi furono quelli che lasciarono il Partito o la Massoneria, per la maggioranza il referendum non ebbe alcun effetto. Nel 1910 una convergenza sembrava tornare possibile, soprattutto sul piano della laicità dello Stato e delle riforme sociali, ma le diffidenze restavano e ci si limitò «a voler tenere presente che l’opera loro di educazione e disciplinamento e soprattutto quella di opposizione a gretti criteri corporativistici» poteva «essere seriamente compromessa per i dubbi e le diffidenze facilmente suscitabili nei lavoratori dal sospetto che, appartenendo essi ad una associazione segreta, di cui sconosciute sono le regole vincolatrici, la loro azione, anziché dal vero ed unico interesse dei lavoratori, potesse essere ispirata e determinata da quei vincoli segreti ».

Come già detto, l’antagonismo era in gran parte datato e riferito a quello preesistente tra repubblicani e socialisti, soprattutto sul terreno della lotta di classe, non adottata dai primi ed invece ritenuta indispensabile per i secondi. Lo ribadì lo stesso Turati, invitando i socialisti “ogni qualvolta siano chiamati a decidere di tattica elettorale locale, a ricordarsi dell’opera reazionaria e crumira dei repubblicani di Romagna sul terreno economico, non sconfessata né dalla direzione né da una sola Sezione del Partito Repubblicano Italiano, e a regolarsi di conseguenza”. Si tornò a parlare di referendum e di voto di condanna per appello nominale ma le posizioni furono varie e divergenti, tra le altre, ricordiamo quella di Merloni che fu molto applaudita “l’opera singola dei socialisti massoni non ha mai dato occasione a rilievi di sorta in tutto il partito … Donde la proposta della scheda bianca: che non significa disinteresse dal problema massonico, il quale può sempre utilmente discutersi, ma disinteresse dal fatto che ci siano dei socialisti i quali credano utile e benefico di associare anche le loro singole energie a quelle di un’istituzione che si propone di dissodare e di preparare nel campo della cultura, della educazione e delle rivendicazioni laiche, il terreno alle conquiste democratiche e socialiste” Qualcuno chiese se gli esempi personali di Merloni o di singoli altri bastassero a giustificare la penetrazione della Massoneria nel Partito, ma, obiettivamente, almeno sul piano del buon senso e della razionalità, esse apparivano ineccepibili.

Ancora una volta il referendum riscontrò una minoranza di partecipanti. Ancora nessun effetto, anzi uscì anche un opuscolo a firma “Il Socialista massone” in cui si affermava che “la Massoneria, lasciando, come sempre, totalmente liberi i suoi iscritti di propugnare quella tattica che essi credano migliore, si astiene dall’intervenire nelle lotte elettorali. Insomma, individualmente, i socialisti massoni non contraggono alcun impegno, che possa in qualsiasi modo o misura contrastare coi loro doveri di partito. L’unico impegno che essi assumono, in quanto massoni, è di dare opera attiva all’apostolato anticlericale e laico” La guerra di Libia aprì in seguito contraddizioni e lacerazioni nell’ambito del mondo massonico italiano, scosso tra le rivendicazioni nazionalistiche, sia pure considerate nell’ambito di una missione civilizzatrice e di progresso dell’Italia contro un impero turco autoritario, arretrato e liberticida, e l’impegno per la pace e il disarmo universale, unito al principio dell’autodeterminazione dei popoli.

Tra il 1911 e il 1914 la questione dell’appartenenza alla Massoneria nel Partito Socialista divenne una sorta di terreno di lotta sempre più accesa tra componenti massimaliste e altre riformiste, si andò così delineando una tendenza sempre più antimassonica. non per convinzione particolare ma per convenienza, per esigenza di allineamento con le componenti massimaliste sempre più maggioritarie. Questa sintesi dei rapporti tra socialisti e massoni, grazie anche all’analisi che ne fa Giovanni Artero, consente di capire meglio e a ragione veduta, il Congresso di Ancona nel 1914, quando Mussolini chiese l’espulsione dei massoni dal Partito Socialista, e di inquadrare il suo rapporto particolare con i massoni anche nel suo stesso movimento, dall’inizio alla fine. Mussolini infatti, sarà bene ribadirlo a chiare lettere, fu messo in condizioni di prendere il potere grazie anche alla Massoneria e fu liquidato alla fine, il 25 luglio del 1943, da un gruppo di massoni largamente presenti nel suo stesso Gran Consiglio del Fascismo.

Quando si aprì il Congresso di Ancona dell’aprile del 1914 non aveva la questione della compatibilità tra l’essere massoni ed essere socialisti ai primi punti all’ordine del giorno, ma quella che sembrava dovesse restare una questione marginale ben presto risultò avere un notevole spessore. Fu Bordiga a volerla mettere in primo piano, adducendo la seguente motivazione: “perché non si deve continuare a sospettare che il Partito socialista italiano sia più inquinato di massoneria, o meglio ancora di massonismo, di quello che effettivamente lo sia”.

Si confrontarono così posizioni favorevoli e contrarie a tale compatibilità, Zibordi pose la questione della incompatibilità su vari piani: la Massoneria non era tanto deprecabile per i suoi principi filosofici, quanto piuttosto per la sua azione corruttrice del proletariato che veniva messo sullo stesso piano della classe che lo opprimeva, inoltre i socialisti non potevano sottostare a principi religiosi come quello che imponeva la fede in un Grande Architetto dell’Universo. In conclusione, quindi, i socialisti iscritti alla Massoneria avrebbero dovuto uscire dal Partito e l’incompatibilità avrebbe dovuto essere netta. Seguì l’intervento di Poggi che sottolineò invece come la questione non fosse di particolare rilevanza e che dovesse pertanto essere trascurata dal Congresso, rilevando in particolare che “Nessun vero massone può essere antisocialista perché tende a quella liberazione spirituale che solo sarà possibile col trionfo del socialismo! Nessun vero socialista può essere antimassone perché contraddirebbe ad ideali che sono anche suoi!” Se dunque, aggiunse, vi erano debolezze, esse riguardavano la fede e la tenuta morale di ciascuno, non certo l’appartenenza alla Massoneria, ma erano strettamente inerenti ad una mancata piena coscienza socialista, e quindi se qualcuno doveva essere espulso, ciò si sarebbe reso necessario non in quanto massone, ma piuttosto perché rivelatosi cattivo socialista.

Si decise pertanto di impostare la discussione e i successivi interventi partendo da queste due mozioni, quella di Zibordi e quella di Poggi. Esordì l’onorevole Raimondo che non esitò a definirsi massone di lunga data, per lo meno dai moti di Milano soffocati nel sangue nel 1898, quando tutte le organizzazioni politiche erano state sciolte e ai socialisti non restava che essere massoni per avere scampo, inoltre riaffermò il ruolo internazionalista della Massoneria indispensabile “alla creazione di un’atmosfera pacifica utile alla conciliazione dei contrasti tra i popoli”. Concluse sottolineando come questa doppia appartenenza andava avanti da più di quindici anni e che molto socialisti-massoni avevano nel frattempo acquisito cariche di rilievo e responsabilità istituzionali, chiedendo se a quel punto anche quelle stesse fossero destinate a risultare incompatibili con la linea del Partito.

Seguì l’intervento di Mussolini che fu il più deciso e veemente contro la doppia appartenenza, invitando le sezioni ad espellere immediatamente coloro che non si fossero adeguati alla incompatibilità tra essere socialisti ed essere massoni. A chi replicava che, in tal modo, si sarebbero perse non poche teste pensanti, egli disse con una certa sfacciataggine: «Si è detto che se il Partito provoca un altro esodo dalle sue file, forse rimarrà senza teste pensanti. Questa è una preoccupazione che non deve menomamente turbarci, perché anche la morte a poco a poco ci toglie le teste pensanti». Come a dire che considerava morta e sepolta una intera storia e con essa gli stessi massoni che ne erano stati protagonisti, forse compreso un personaggio che egli disse sempre di ammirare molto: Giuseppe Garibaldi, il cui ritratto riempiva le prime sezioni del Partito Socialista con il suo Sol dell’Avvenire.

Mussolini pose la questione della incompatibilità proprio sul terreno della lotta di classe, specificando che l’umanitarismo massonico era in pieno contrasto con essa, proprio lui che diverrà uno dei più accesi nemici del concetto di lotta di classe, una volta generata la sua “creatura fascista”. La sua conclusione fu quindi che non si dovesse solo considerare l’incompatibilità, ma passare direttamente all’espulsione, per chi ammettesse di essere massone. Matteotti aderì alla tesi di Zibordi ma rifiutò di sostenere la tesi di Mussolini rilevando che ci si dovesse limitare ad una dichiarazione generica di incompatibilità, senza passare però a misure repressive di espulsione come esigeva Mussolini. Disse testualmente che era indegno che fosse chiesto “alle sezioni di prendere per la schiena i massoni e cacciarli fuori…Noi ritorneremo in questo modo alle liste di proscrizione”, e rivolgendosi a Mussolini non esitò a ricordargli che: “Dovunque tu andrai porterai rovina”.

Seguirono poi la dichiarazione di Bedeschi che riaffermava di essere massone e di volere agire secondo coscienza e quella di De Angelis, contrario a Zibordi, non tanto perché massone, ma perché convinto che il Partito Socialista dovesse riconoscere ai suoi iscritti la libertà di appartenere a qualsiasi associazione. Ci furono infine le votazioni e anche questa volta la maggioranza andò a coloro che avrebbero voluto disinteressarsi della questione, uscì seconda la posizione di Zibordi, aggravata da Mussolini che stabiliva l’incompatibilità e l’espulsione, di poco avanti a quella di Matteotti che ribadiva l’incompatibilità senza espulsione e infine quella di Poggi che ribadiva la compatibilità ma che risultò minoritaria.

Tutto questa storia è interessante soprattutto per capire come a tale ribaltamento di posizioni, corrispondesse quello politico, mentre infatti a prevalere, fino ad allora, nel Partito Socialista era stata la corrente riformista filomassonica, da allora in poi, seguita anche dal sindacato, fu la componente massimalista ad essere maggioritaria, proprio in nome non solo del ripudio della Massoneria, ma anche della piena accoglienza delle tesi sulla necessità della lotta di classe. La CGL allora molto contigua al Partito Socialista, nel suo Congresso celebrato a stretto giro rispetto a quello socialista, anche se adottò formalmente una tesi più morbida, nella buona sostanza ribadì i principi che erano già stati già espressi nell’assise socialista, mettendo in guardia gli operai che «non dall’opera di società segrete più o meno filosofiche e filantropiche [poteva]venirne vantaggio all’opera loro di emancipazione, ma solo dalla più forte e cosciente organizzazione loro di classe»

Come reagì a quel punto il Grande Oriente? Subito dopo il Congresso socialista venne diramata una circolare che specificava testualmente: “Dopo il voto del congresso di Ancona non vi può essere dubbio sulla condotta che debbono tenere i massoni iscritti al Partito socialista ufficiale. Se vi è qualcuno fra essi disposto a piegarsi al novissimo dogma del partito, esca senz’altro dalle nostre file. Dove noi vogliamo uomini di fede sicura, coscienze salde e dignitose, volontà libere e forti. Attendo da voi, non oltre i quindici giorni da oggi, l’assicurazione che il pensiero del governo dell’ordine è stato da tutti sentito.” In buona sostanza, si confermava il fatto che non poteva restare in Massoneria solo chi aveva votato la mozione rivolta all’espulsione dei massoni da quel partito, il minimo indispensabile per un po’ di credibilità e coerenza.

Giovanni Lerda che si era dimesso dal partito e Orazio Raimondo che era stato espulso, i quali avevano entrambi difeso a spada tratta la compatibilità e la doppia appartenenza vennero largamente applauditi nell’assemblea generale del GOI che si tenne nel 1914, anche se la situazione non portò per la maggior parte dei massoni socialisti ad esodi di massa dalle logge. Molti socialisti, anzi, protestarono in maniera ferma e decisa contro la posizione antimassonica del Congresso di Ancona, ci furono infatti lettere di protesta di massoni socialisti al segretario del PSI Lazzari, e persino una conferenza che si svolse nella Loggia Italia di Parigi il 15 giugno, da parte del socialista Pietro Mazzini, di ferma condanna di quell’operato liberticida.

Pochi mesi dopo, alla vigilia della guerra, nel luglio 1914, lo stesso Mussolini scriveva come direttore dell’Avanti che “Se non vuole cadere in rovina, l’Italia può adottare solamente un atteggiamento di assoluta neutralità”, dopo soli cinque giorni dall’inizio delle ostilità, Mussolini dichiarava in un manifesto che la guerra era utile soltanto ad aumentare il potere dell’esercito, dello Stato e delle dinastie al potere: tutte istituzioni da combattere. Arrivò addirittura a teorizzare una insurrezione contro la guerra, avvisando i suoi lettori che “Se l’Italia dovesse rompere la neutralità appoggiando gli imperi centrali, tutti i proletari italiani avrebbero il dovere di sollevarsi in rivolta”. Fu persino messo in galera insieme al suo compagno Pietro Nenni perché trovato a sabotare le rotaie dei treni destinati al fronte.

Se Mussolini cambiò nel giro di poco tempo repentinamente idea fu grazie ad un massone: Pietro Naldi, direttore del quotidiano Il Resto del Carlino di Bologna; c’è una testimonianza particolarmente eloquente proprio di un redattore dell’Avanti di allora, Eugenio Guarino che dice: “Pippo Naldi si presentò alla redazione milanese dell’Avanti e chiese di parlare in privato con Mussolini. Poco dopo Mussolini abbandonò il suo classico abbigliamento da persona di sinistra con cappello floscio nero, cravatta lisa e abito logoro, e cominciò a presentarsi con abiti di lusso all’ultima moda” La Massoneria era notoriamente interventista e, come è noto, lo divenne immediatamente anche Mussolini, che si dichiarò ben presto favorevole ad un accordo con l’Intesa e per un intervento dell’Italia in guerra.

Nuovi abiti, nuovo atteggiamento verso la Massoneria, nuovo giornale, perché egli fu evidentemente espulso dalla direzione dell’Avanti e dal Partito Socialista e fondò Il Popolo d’Italia. Mussolini diventava così il terminale di fiducia in Italia della Massoneria internazionale, quella che arrivava a Naldi tramite un altro grande massone come Antonio di San Giuliano e mediante la Massoneria francese la quale, anche passando per la Svizzera, cominciò a finanziarlo a getto continuo, insieme ad industriali italiani, fabbricanti di armi ed equipaggiamenti militari. Il più feroce avversario della Massoneria in Italia ne era diventato, in pochi mesi, il più fedele fiduciario.

La Massoneria che, in ogni caso sostenne ampiamente anche l’impresa fiumana e anche D’Annunzio, pure lui massone, puntavano alla realizzazione di una “democrazia del lavoro” che fosse al contempo anticattolica ed antibolscevica. Lo disse a chiare lettere il Gran maestro Torrigiani nel suo discorso di insediamento nel 1919 : “..noi dobbiamo promuovere in Italia il concetto di una Democrazia del lavoro. Integrare il riconoscimento dei diritti del lavoro con la devozione alla Patria, che è per noi gradino all’Umanità; tale sia il nostro dovere”. Questa divenne la base con cui Mussolini cercò poi anche con la CGL, negli anni successivi e durante la sua affermazione iniziale, una prospettiva di “laburismo” nazionale.

Quando finì la guerra Mussolini stava per emigrare in America, ma il 23 marzo del 1919 con un gruppo di Arditi, compagnia per altro fondata da un generale massone di palazzo Giustiniani, di nome Luigi Capello, in una sala convegni di piazza S. Sepolcro, messa a loro disposizione da un massone ebreo di nome Cesare Goldmann, con una assemblea formata al 70% da massoni, fondò i Fasci di Combattimento. Il programma rivoluzionario di tale movimento era palesemente in linea con le istanze che trovarono risalto a Fiume e di tendenza repubblicana; se lo leggiamo, nei suoi vari punti, poi variamente rinnegati una volta che Mussolini realizzò il suo regime con il sostegno della Monarchia e del Vaticano, esso si può assimilare pienamente alle dichiarazioni che lo stesso Torregiani fece poi nel suo discorso già menzionato nel giugno del 1919 e che proseguivano in tal modo: “Ma la borghesia italiana non deve e non dovrà porsi come nemica di contro al Popolo lavoratore: ella deve fondersi a lui e illuminare generosamente e saggiamente la impreparazione di lui alla gestione della cosa pubblica in una collaborazione che deve essere sincera e piena a qualunque costo. Deve essa avviare tutto il popolo lavoratore alla conquista dello Stato, che a lui spetta e che da lui sarebbe spezzato e travolto se s’intendesse di arrestare o frodare il corso della evoluzione sociale. Soltanto così si difende lo Stato e con lo Stato si difendono i più preziosi beni. Si difende lo Stato liberandolo dal predominio di quei ceti i quali hanno cercato di ridurlo ad uno strumento di protezione dei loro interessi particolari; si difende aprendolo al popolo lavoratore; si difende contrastandone la conquista ad ogni dittatura di classe, più fieramente ed in ogni modo a quella delle classi più impreparate (palese allusione alla dittatura bolscevica n.d.r.), come si difende affermandone nel pensiero e nell’azione il concetto ed i diritti contro l’antica pretesa sopraffattrice della Chiesa, che non disarma”

Allora la Massoneria era divisa in due grandi istituzioni, quella di Piazza del Gesù, più filocattolica e di rito scozzese, e quella di Palazzo Giustiniani, liberale e anticlericale, legata alla Massoneria rivoluzionaria francese ed americana. Mussolini non si fece scrupolo di utilizzarle entrambe per raggiungere il potere.

Si può dire che tra le due la Massoneria Giustinianea aveva adottato seriamente prospettive rivoluzionarie che animarono l’impresa fiumana, la quale non si saldò con il movimento operaio di occupazione delle fabbriche in un esito insurrezionale solo perché il Consiglio nazionale della CGL bocciò nettamente la soluzione rivoluzionaria. Ma che la Massoneria considerasse la nascita dei Fasci di Combattimento come un serio programma per attuare una rivoluzione repubblicana in Italia è fatto acclarato. In special modo dalle dichiarazioni del generale Capello, in un suo articolo pubblicato sulla “Patria” di Roma dove l’alto dignitario massonico, rivolgendosi ai Fasci scrive: “I Fasci di Combattimento non ebbero affatto in origine carattere conservatore e meno ancora reazionario. Furono fondati nel marzo del 1919 per raccogliere le forze superstiti che fecero il movimento interventista rivoluzionario del maggio 1915, allo scopo di opporre un argine alla tracotanza del neutralismo socialista, imbaldanzito dalla timidezza del governo e dalla passività della borghesia che credeva di conservare più agevolmente i profitti realizzati durante la guerra concedendo largamente sugli allora larghissimi margini di lucro delle industrie; ed allo scopo pure di offrire al popolo lavoratore un programma di oneste rivendicazioni economiche, sulla base nazionale, valorizzando la vittoria, invece di demolirla. Il programma politico-sociale dei Fasci fu inizialmente audace: affermava la necessità della Repubblica e prospettava profonde trasformazioni nel campo della proprietà, giungendo perfino a riconoscere la necessità della espropriazione parziale.”

Questa è una ulteriore prova che il movimento fascista nacque e fu ispirato da istanze massoniche, le quali non avevano alcuna velleità reazionaria, ma teorizzavano altresì uno sbocco rivoluzionario di tipo sindacalista e nazionale. Lo conferma lo stesso Capello, dicendo che “Con tutto questo sarebbe un grosso sbaglio interpretare il movimento fascista, pur qual è oggi, come un movimento di “reazione bianca”, fatta nell’interesse del capitalismo. […] Intimamente il Fascismo è una forza rivoluzionaria, forse la sola forza veramente ed attivamente rivoluzionaria che vi sia in Italia – appunto perché combatte la forma “utopistica” della rivoluzione rappresentata dal così detto bolscevismo, per far strada alla forma realistica della rivoluzione che si va concentrando in una sorta di sindacalismo nazionale, non ancora esattamente precisato nei suoi lineamenti, ma già animato da un poderoso soffio di vita”

Fu quindi la Massoneria a far risaltare Mussolini e a spingerlo verso una prospettiva rivoluzionaria, dando ispirazione ed impulso ai suoi Fasci di Combattimento, in una dinamica che va inquadrata nel netto dissidio tra repubblicani contrapposti ai socialisti, sia a quelli che avevano adottato i programmi bolscevichi definiti “utopistici” sia a quelli di orientamento “riformista” ritenuti “neutralisti e passivi”. Era una dialettica che aveva antiche origini, in particolare nella stessa terra di Mussolini: la Romagna. L’obiettivo della Massoneria, come già rilevato, era quello di servirsi di Mussolini per realizzare un programma di attuazione di una “democrazia del lavoro” che avrebbe dovuto tagliare fuori da ogni combinazione di potere gli estremi antimassonici del bolscevismo e dell’Associazione Nazionalistica.

Ma Mussolini era un giocatore d’azzardo abituato a giocare e a puntare su più tavoli, per ottenerne il massimo del vantaggio personale. Da una parte si mostrava pronto a realizzare il programma massonico, dall’altra cercava la “pacificazione” con gli ex compagni socialisti, e infine da un’altra ancora sondava il terreno con il Vaticano per usare anche la Chiesa come strumento di propaganda per i suoi fini.

Egli restò di conseguenza il fiduciario della Massoneria soprattutto durante il biennio rosso, come migliore argine al dilagare del bolscevismo, fino ad essere aiutato da massoni, durante Marcia su Roma, ad avere le porte spalancate dal Re. Fu un grande errore massonico, perché Mussolini non esiterà, dopo essersi impadronito del potere, a fare la sua ennesima giravolta preferendo alla Massoneria gli accordi con il Vaticano e finendo per liquidarla del tutto, mettendola fuori legge, devastando le sue Logge e perseguitando i suoi membri. Contro la Massoneria, dal suo punto di vista, giocarono due fattori essenziali: il primo rappresentato dal fatto che Mussolini era “geloso” di quella che egli considerava una sua creatura politica, di cui intendeva essere il capo assoluto e il secondo un certo disgusto per un anticlericalismo di stampo risorgimentale, da lui ritenuto troppo grossolano e logoro, e in definitiva controproducente per l’obiettivo della conquista e del mantenimento del potere in un paese con masse ancora largamente cattoliche.

Ad onor del vero, se il Gran Maestro Torrigiani si illuse sulla possibilità che Mussolini non andasse verso la dittatura e fu quindi disposto ad aiutarlo e ad incontrarlo, in una misura che potremmo definire “attendista”, non pochi furono i “fratelli” che contestarono questa scelta, il Gran Maestro aggiunto di palazzo Giustiniani, Guido Francocci scrisse in un suo libro “La Massoneria”: “Tale atteggiamento verso il fascismo staccò non pochi spiritualmente dal Gran Maestro. Pareva allora impossibile che egli non comprendesse come una situazione politica, di cui era centro e fulcro un solo uomo – e l’uomo che già aveva dichiarato guerra aperta all’Ordine Massonico quando aveva fatto proclamare l’incompatibilità ideologica e pratica tra Socialismo e Massoneria – rappresentava un pericolo imminente e immanente contro le democratiche libertà. Purtroppo i massoni intransigenti furono facilissimi profeti, e il Gran Maestro dovette subito accorgersi quanto le sue previsioni fossero state fallaci. Un colloquio segreto tenutosi a Roma tra lui e Mussolini, a brevissima distanza dalla “Marcia su Roma”, non poteva che profondamente deluderlo: accettare il fascismo equivaleva a consentire l’esperimento dittatoriale, asservire cioè l’Italia al tiranno, sopprimere le libertà, rinnegare il Risorgimento italiano, far ludibrio dei principi fondamentali, unica ragion d’essere della Libera Muratoria…”

I massoni che puntarono su di lui, in effetti, avrebbero dovuto ricordare bene le sue posizioni nel Congresso socialista di Ancona del 1914.

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TOTO’, MASSONE DAL 1° MAGGIO 1925

TOTO’, MASSONE DAL 1° MAGGIO 1925

Totò, massone dal 1° maggio 1925

Certo la “notizia” non mette sottosopra l’universo, però è significativa e merita spazio. Il 1° maggio 1925 Antonio De Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898-Roma, 15 aprile 1967), solennizzò a modo suo la festa del lavoro: cinse il grembiule di muratore, anzi di libero muratore, e venne registrato massone nella loggia “Nazionale” di Roma, all’obbedienza diretta di Raoul Vittorio Palermi (1864-1948), sovrano e stratega della Gran Loggia d’Italia. Si sapeva da anni del suo ingresso nella “Fulgor” di Napoli nel 1945. La novità sulla sua iniziazione di vent’anni prima è emersa nell’affollato convegno su “L’impresa di Fiume, 1919 1920. Tra leggenda e realtà”, organizzato dalla Delegazione Magistrale friulana della Gran Loggia d’Italia al castello di Villalta (Udine), con la partecipazione del sovrano e gran maestro Antonio Binni e degli storici Enrico Folisi, Lijubinka Toseva Karpowicz e Valerio Perna, presenti “fratelli” di diverse Comunità e molti “profani”. Durante il “Ventennio” Totò conservò sotto la bombetta quel segreto che aiuta a comprenderne meglio la tetragona libertà di pensiero e la distanza siderale dal “regime”. Ma, poiché si parla di un Ordine iniziatico, andiamo per ordine…

Primavera di bellezza?

Roma, primavera 1925. Il 3 gennaio da Capo del governo, Benito Mussolini, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del Re”), con un infuocato discorso alla Camera respinge l’accusa di complicità nel “delitto Matteotti” e sfida il Parlamento a denunciarlo e a tradurlo in giudizio dinnanzi al Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia in forza dell’art. 36 della Carta Albertina “per giudicare dei crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato, i ministri accusati dalla Camera dei Deputati”. Nessuno fiata. La maggior parte dei deputati d’opposizione (socialisti, repubblicani, seguaci di Giovanni Amendola e ala sinistra del cattolico partito popolare italiano) dall’estate precedente non partecipano alle sedute, arroccati in un immaginario “Aventino”. Re rigorosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III (1869-1947, sul trono dal 1900) a chi gli chiede di revocare Mussolini risponde che i due rami del Parlamento sono i suoi occhi e le sue orecchie. Chi ne vuole la caduta deve farlo alla Camera, ove i deputati iscritti al Partito nazionale fascista sono ancora una minoranza (227 su 545).

Ma tra diserzioni e accelerazioni, il Paese sta rapidamente precipitando dalla democrazia parlamentare, fondata sui collegi uninominali a doppio turno, al governo di partito unico. La svolta ha una premessa strategica: dal 1914-1915 due forze si contendono la primogenitura del Risorgimento e della completa unificazione con la vittoria nella Grande Guerra. Da una parte i nazionalisti (nati intorno al 1908, nel clima rovente dell’annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Vienna), irrobustiti dalla confluenza nel Partito Nazionale Fascista (febbraio 1923), gonfio di voti ma ancor privo di un progetto politico univoco. Dall’altra la massoneria che non a torto vanta un secolo di lotte per unità, indipendenza e libertà, dalle cospirazioni nel 1820-1848 sino ai governi che in Italia avevano introdotto elettività delle cariche, istruzione obbligatoria e codici d’avanguardia.

Tira vento di tempesta. Il 12 gennaio Mussolini deposita alla Camera la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni. Il 14 “L’Idea Nazionale”, organo dei nazionalisti, pubblica un estratto della relazione della “Commissione dei Quindici” distillata dai deputati Gioacchino Volpe e Francesco Ercole. L’obiettivo è esplicito: “Qualsiasi specie di società occulta, anche se per ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alla legge”. Di lì a poco lo slogan sarà: tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato. Poi diverrà: tutto nel partito, niente al di fuori né contro il partito, cioè l’unico consentito: il Partito nazionale fascista. Il Partito imporrà il colore della camicia, l’ingresso nel lavoro (tramite i sindacati fascistizzati) e intrupperà milioni di italiani nel Dopolavoro per controllare corpo e anime dei cittadini. Una nuova “chiesa”, non meno opprimente dell’altra, con la quale l’11 febbraio 1929 il regime “concorderà”, salvo poi scontrarsi come fatalmente accade tra dogmatismi.

In quel maggio 1925 le due principali Comunità massoniche italiane (Grande Oriente d’Italia, con sede a Palazzo Giustiniani, oggi popolato di uffici del Senato; e Gran Loggia, a Piazza del Gesù 47, nel sontuoso Palazzo Artieri) ormai navigano a vista. Il dibattito sulla legge viene calendarizzato alla Camera dal 16 maggio. Si chiuderà il 19 con approvazione pressoché unanime e alcune significative assenze non giustificate, a cominciare da Italo Balbo, “quadrumviro” della mai avvenuta “marcia su Roma” ma antico “oratore” della loggia Girolamo Savonarola della sua Ferrara e già astenutosi nella dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo che il 23 febbraio 1923 aveva dichiarato l’incompatibilità tra fasci e logge.

L’iniziazione massonica di un “uomo di mondo”

Malgrado tutto, mentre la massoneria è sotto assedio e le libertà individuali stanno per essere soffocate, qualcuno nuota impavido controcorrente. È il caso di Totò. È un uomo sofferente. Mentre il Tempio sta per crollare decide di passare tra le sue colonne e di sedere in silenzio fra gli apprendisti, proprio lui, parlatore forbito, mago della parola, principe dello scilinguagnolo. È tempo di guardare all’Oriente prima che la Luce venga spenta a Occidente. Il marchese De Curtis non è affatto uno sprovveduto. Sa benissimo di compiere un passo rischioso. Conta sulla riservatezza della Fratellanza. Offre la sua “testimonianza” a quel che resta dell’Italia nella quale si riconosce: quella degli uomini liberi. L’attore vive una tra le stagioni più angustiate della sua travagliata esistenza terrena. Ha ventisette anni. La madre, Anna Clemente, lo voleva prete. Lo aveva avuto dal marchese Giuseppe De Curtis, frutto di una relazione extraconiugale, e lo aveva fatto registrare all’anagrafe come Antonio Clemente “di N.N.”. Chierichetto di passo come tanti coetanei, più malinconico che giocoso, lasciata alle spalle infanzia e adolescenza tristissime, Totò fece i conti col servizio militare tra Pisa, Pescia, Alessandria e Livorno. A Cuneo non mise mai piede, ma coniò il celebre motto “Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo”… cioè “in capo al mondo”, in un angolo sperduto, “ai confini dell’Impero”. Si compiacque anche di dire che vi era stato seminarista. Cuneo era un “tòpos”. Anche se aveva dato e continuava a dare i natali a politici, scienziati, storici, scrittori e militari di primaria grandezza (bastino i nomi di Vittorio Bersezio, Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Vittorio Cian, Ettore Pais, Balbino Giuliano, Pietro Gazzera…) era dipinta come “Beozia d’Italia”. Proprio perché non lo è e sa sorridere di sé e delle leggende che la circondano, su impulso di Gianni Vercellotti, avvocato e profeta del turismo in plaghe povere di vere autostrade, ferrovie, strade, aree attrezzate ma ricche di umanità, la “Provincia Granda” è stata al gioco e da molti anni ha costituito l’Associazione “Uomini di Mondo a Cuneo”, brevius “UdM di Cuneo”. Ora presieduta dall’esilarante vignettista Danilo Paparelli, con tanto di Totò quale emblema, viatico e “angelo protettore”, l’UdM ha appena celebrato l’ennesima edizione dedicata a D’Artagnan, il più celebre dei Quattro Moschettieri di Alexandre Dumas, che si ispirò al conte Charles di Batz-Castelmore, fuggevolmente ma effettivamente militare a Cuneo. “Uomo di mondo”, dunque. Già. Ma come era il mondo conosciuto e vissuto da Totò, uomo e non “caporale”, sino al fatidico 1° maggio 1925? Una sequenza di umiliazioni e di speranze, di sogni e di delusioni. Navigazione tra i flutti della vita con la barra a dritta ma con l’occhio alla sua Stella Polare: la libertà di pensiero (e anche un po’ di costumi). Sin da ragazzo voleva divertirsi e far divertire, procurarsi piacere e dispensarne. Intraprese la carriera di attore nella sua città, che presto però gli divenne stretta. Tardivamente riconosciuto dal padre e passato a Roma in cerca di miglior fortuna, si esibì in una “compagnia” di second’ordine, senza fisso compenso. Spiantato, spesso alla “fame nera” (come egli stesso narrò), fu licenziato in tronco quando osò chiedere all’impresario, Umberto Capece, almeno gli spiccioli per il tram da casa al teatro. Gli si spalancò dinnanzi l’abisso dell’isolamento. Optò per il varietà, di gran lunga più congeniale con le due anime che convivevano nella sua persona, il sorriso scherzoso (ma quanta malinconia nei suoi occhi) e lo sconforto più cupo. Totò divenne “la Maschera”. Incarnò gli italiani che uscivano feriti dalla Grande Guerra e si inabissavano in un regime liberticida che li avrebbe precipitati in un secondo irreparabile disastro.

La Gran Loggia dal tramonto…

Il suo nome fu iscritto nel repertorio degli “apprendisti” della Gran Loggia, annotati con la grafia tipica degli scritturali del tempo: uno svolazzante corsivo pulito pulito con cognome, nome, data e loggia di appartenenza. Gli iniziati/affiliati della Gran Loggia avevano superato largamente quota 28.000. Altri ne vennero segnati lo stesso 1° maggio. Il 19 accanto a un numero matricolare in uno spazio bianco compare la formula arcana: “Segreto”. Era il giorno dell’approvazione della nefasta legge “contro la massoneria”. Gli ingressi continuarono sino al 17 novembre 1925, cioè alla vigilia del forzato autoscioglimento decretato da Raoul Palermi mentre era in viaggio negli Stati Uniti d’America per ottenere la solidarietà dei Supremi Consigli di rito scozzese antico e accettato di cui la Gran Loggia faceva parte dal Convento mondiale di Washington (dal 1912): riconoscimento solennemente confermato a Losanna nel 1922. In Italia le logge erano perseguitate, invase, incendiate. I loro arredi e archivi venivano dispersi (anche per iniziativa di transfughi decisi a cancellare le tracce della loro affiliazione), ma all’estero l’Acacia continuava a fiorire. Il regime stesso non poté fare a meno di confrontarsi con massoni di spessore culturale e patriottismo indiscutibile: da Vittorio Valletta, Ugo Cavallero, futuro maresciallo d’Italia, Luigi Mascherpa, ammiraglio, Edmondo Rossoni (capo dei sindacati fascisti), Curzio Malaparte (tutti della Gran Loggia), Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Alberto Beneduce (del Grande Oriente).

… alla Palingenesi e al Fulgore

Chi sapeva sapeva. Il massonismo non andava sbandierato ma vissuto. Fu quanto fece Totò. Alternò la rivendicazione del titolo nobiliare (Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito, Duca Comneno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, Dardania, Tessaglia, Ponto, Moldava, Illiria, Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro..: d’altronde anche il Re d’Italia si rivendicava Re di Cipro e Gerusalemme, al pari di tanti altri sovrani in Europa) alle tournées dai successi crescenti e all’esercizio della beneficenza, praticata con discrezione e senza mai chieder conto del frutto della sua proverbiale generosità, proprio perché aveva conosciuto la miseria, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, il dolore (anche negli affetti più cari), la prepotenza esosa degli impresari, l’arroganza dei “potenti” antichi e nuovi.

Di quest’ultima ebbe un saggio nel gennaio 1945 durante una tournée in Toscana in cui presentava “Imputati, alziamoci”, un sorridente invito a un “esame di coscienza” da parte di quanti stavano rapidamente cambiando il colore della camicia, dal nero al rosso fiammante. Come in “Totò massone. Il principe Antonio De Curtis e la massoneria del suo tempo” (ed, Atanor) narra Ruggiero di Castiglione (autore di dottissimi saggi e repertori) gli si presentò nel camerino un energumeno che gli domandò a bruciapelo: “Veramente per lei camerata e compagno è la stessa cosa?” e alla risposta “Mah, non so” gli sferrò in faccia un pugno partigiano che gli spaccò le labbra”. “Spaventatissimo” per il clima di odio dilagante Totò riparò a Roma e poi a Capri.

“Resurrexit… sino al grado 33°”

Il 9 aprile seguente il “Marchese De Curtis Gagliardi Antonio” sottoscrisse il Testamento massonico nel “gabinetto di riflessione” della loggia “Fulgor” di Napoli (Gran loggia d’Italia) per l’accettazione tra i Fratelli. Alla domanda: “Che cosa dovete a voi stesso” rispose “Niente all’infuori del miglioramento spirituale”. Chi ritiene che il “re della risata” si esaurisse nell’esibizione nei teatri di tutta Italia, in un centinaio di films, spesso a costi irrilevanti, e in un profluvio di presenze televisive, non ne coglie la profondità umana, fatta di riservatezza, riflessione, tormenti appena leniti dalla compagna, Franca Faldini e dalla figlia, Liliana, che gli furono a fianco negli anni difficili dell’incipiente vecchiezza e delal cecità. Proprio alla compagna una volta accennò quasi distrattamente ai segni di riconoscimento in uso tra massoni.

Secondo Giordano Gamberini, gran maestro del GOI e collettore di memorie e confidenze di massoni di antica data e di varie Obbedienze (come Dunstano Cancellieri), nel 1944 Totò fu iniziato (o più correttamente si ridestò dal forzato “sonno”) nella loggia “Palingenesi” di Napoli per transitare poi nella citata “Fulgor”, che aveva sede in via Monte di Dio, sulla quale si affaccia Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, presieduto da Gerardo Marotta e ora da suo figlio, Massimiliano. Lì Totò presenziò all’iniziazione di Mario Castellani e Vittorio Caprioli. Come documentano le carte che da Piazza del Gesù migrarono al Grande Oriente con Francesco Bellantonio quando gran maestro era Lino Salvini, Totò fondò poi una loggia in Roma, la “Fulgor Artis” mentre poche e vaghe voci rimangono sulla “Ars et Labor” , forse sua reincarnazione.

Gli impegni “professionali” e qualche delusione per i poco fraterni dissensi tra la diverse Comunità liberomuratòrie e per le gare tra i diversi aspiranti a cariche apicali (quant’è difficile deporre i metalli al di fuori dei Templi) coincisero con il suo definitivo assonnamento. Aveva raggiunto il grado 30° del Rito scozzese. Il 19 ottobre 2012 la Gran Loggia gli conferì il grado 33° “alla memoria”, presente sua figlia, Liliana.

“’A Livella”

Il suo più autentico testamento massonico rimane la celebre raccolta di poesie intitolata “’A livella” (1964). Totò scelse per insegna l’attrezzo del lavoro di loggia. Sormontata dal compasso, la livella, simbolo di equilibrio, armonia e uguaglianza, forma un triangolo equilatero attraversato longitudinalmente dall’archipendolo, che coniuga il piano “terraqueo” con lo Spirito. Nel film “Letto a tre piazze” (1960) Totò si rivolse a Peppino De Filippo: durante un’immaginaria quanto allusiva “scalata” gli disse: “professò’ , la lego ad un masso…, n’ho trovato uno magnifico, questo resiste, è un bel massone, un massone”. Con una delle sue ultime partecipazioni filmiche in “Uccellacci, uccellini” di Pier Paolo Pasolini (1966), stupì tutti per la sua drammatica forza interpretativa, che gli meritò anche una menzione speciale e un nastro d’argento al Festival di Cannes. Precocemente invecchiato ma indomito, generoso con tutti (consigliò a Pasquale Zagaria di mutare il nome d’arte da Lino Zaga in Lino Banfi…), non dimenticò l’amarezza per la sua esclusione dalla televisione per aver entusiasticamente esclamato “Viva Lauro” durante una puntata del Musichiere di Gigi Riva (1958). Non era una ingenua captatio di voti pro-monarchia ma un omaggio a Napoli che, disse una volta, è l’unica vera grande città d’Italia. Roma ne è solo una “periferia”.

Si avviò alla fine senza rimpianti ma col timore di essere presto dimenticato. Invece il pubblico gli si affezionò ancor più. Capì la sua libertà di spirito. L’Italia ne aveva e ne ha bisogno. A nessuno verrebbe in mente di ignorarlo per la sua scelta del 1° maggio 1925, ribadita vent’anni dopo, il 9 aprile 1945. D’altronde nella sua originaria “Fulgor”, nella “Fulgor Artis” o nell’officina intitolata al celebre Gustavo Modena o in altre ancora delle due diverse liberomuratorie italiane si raccolsero nel tempo attori, cantanti, scrittori quali Gino Cervi, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Giovacchino Forzano, Silvio Gigli, Francesco Gorni Kramer, Amedeo Nazari, Tito Schipa, Odardo Spadaro, Paolo Stoppa, Johnny Dorelli e il Claudio Pica, noto come Claudio Villa, membro della “Propaganda massonica” n. 2, come il grande e sfortunato Alighiero Noschese: un patrimonio morale del Paese Italia. Allora, proprio l’Associazione cuneese Uomini di Mondo potrebbe forse promuovere una rivisitazione di quell’Universo in omaggio al principe Antonio De Curtis, il Totò del quale ben si può dire “semel abbas, semper abbas”.

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ERMENEUTICA E TRASCENDENZA IN MASSONERIA

ERMENEUTICA E TRASCENDENZA IN MASSONERIA

Francesco Angioni

Il pensiero teleologico massonico e la sua tensione ontologica alla Verità

Inizio chiarendo il significato della parola “ermeneutica”. Questa è la metodologia della interpretazione, del chiarire, dello spiegare. Nasce in ambito religioso per definire la corretta interpretazione dei testi sacri e poi, nell’età del Rinascimento italiano, si amplia all’analisi dei testi tout court, in qualsiasi ambito. Dicendo corretta interpretazione dei testi sacri, evidentemente mi riferisco a due modalità interpretative: la prima è l’interpretazione linguistica atta a riconoscere la validità d’origine di un testo, dunque l’esatta attribuzione a un autore o a una corrente di pensiero e di cultura. L’altra modalità, specifica per i testi sacri, è l’interpretazione fideistica o, in senso più generale, spiritualistico-religiosa (interna alla teologia) del contenuto del testo.

Non è questa sommaria distinzione da confondere con quella tra forma e sostanza;

infatti, l’interpretazione del testo in quanto tale, nella sua forma linguistica, non è rivolta alla pura espressione formale, essa al contrario si volge alla forma per riconoscerne la sostanza nascosta nella forma. Ad esempio, se un termine ha un certo significato in un ambito ben definito, quel termine ci svela, essendo stato usato in quella frazione di testo, non solo che appartiene ad un determinato periodo storico e a un preciso ambito culturale, ma anche svela il vero significato dell’intero frammento di testo. In italiano, ad esempio, usiamo il termine Illuminismo per una specifica corrente di pensiero dai forti connotati culturali e civili, mentre il termine tedesco Aufklarung, che potrebbe essere tradotto sempre con Illuminismo, all’analisi ermeneutica svela un diverso significato che, purgato di connotati ideologico- politici, ha valenze più letterarie e culturali; quindi più opportunamente è da tradurre con “rischiaramento“. Il primo ci dice che illumina le genti verso un cambiamento sociale, il secondo che rischiara le menti verso la comprensione della realtà. Allora è ben evidente che con l’ermeneutica si parte dalla forma, come figliastra, per giungere alla sostanza, come genitrice indiretta.

L’altro livello o dimensione dell’interpretazione ricerca i sensi nascosti che determinano una fede, in altri termini, si interpreta dando dei significati d’ordine spirituale che non necessariamente collidono con il significato semantico della parola stessa o della frazione di testo in cui essa è contenuta.

La prima modalità appartiene più all’ambito della filosofia mentre la seconda a quello dell’esegesi.

C’è una concezione che in un certo periodo si è andata affermando riguardo alla filosofia come scienza dal rigore ineccepibile, ovvero della filosofia come modalità del pensare umano in grado di rappresentare la realtà.

Ai Massoni queste concezioni lasciano alquanto distratti e disattenti. Infatti, non sono queste le condizioni che possono essere definite come necessarie per il percorso massonico d’elevazione umana e spirituale. Tutto ciò che tenta di porre un termine allo sviluppo del pensiero e dell’elevazione spirituale umana appare autolimitante, sembrano un colpo di freno allo sviluppo della Gnosi umana. Per questo le ideologie al Massone non possono che apparire una castrazione del pensiero, dell’evoluzione progressiva del pensare e del sentire dell’Uomo.

Un Massone dovrebbe partecipare alla nostra società universale, per superare le limitazioni del pensare, per dare spazi e dimensioni altri da quelli che il mondo profano riesce ad elaborare e che poi traumaticamente è costretto periodicamente a negare e reinventare. Lo scopo della Massoneria è quello di fornire uno sviluppo senza traumi, senza una presunzione gnoseologica che dall’ontologia profana verrebbe limitata. Ciò implica il

riconoscimento che la Verità è un concetto trascendente e non immanente, ma su questo ritornerò.

Il pensiero umano, pensiero simbolico, filosofico, teologico e scientifico, con Tommaso, Galilei, Descart, Kant e altri sommi, si è posto l’obiettivo di essere garante della rappresentazione fedele della realtà e, sicuramente, sugli aspetti fenomenici ne ha svolto il compito con esemplare maestria. Tale visione pone quindi il pensiero filosofico come specchio in cui la realtà, la Natura si rispecchia o almeno, come Kant meditava, ne riconosce le strutture di base.

Oggi, l’idea che questo indirizzo sia definibile come metafisico, e su ciò non si può essere che d’accordo ignorando il senso negativo che tanti filosofi odierni tendono a dare del termine metafisica, ci deve indurre a riscoprire i sensi nascosti del pensiero metafisico, in termini moderni e con analisi ermeneutica, anche se in questo scritto preferisco usare il termine trascendente.

Quando Heidegger riduce il pensiero metafisico alla contemplazione della verità oggettiva o tutt’al più all’osservarla, e quindi a riscoprirne le norme che nella realtà sono insite, egli rifiuta la realtà come insieme sistemico di cui l’uomo è elemento partecipativo e lo estranea dalla realtà, più precisamente dalla Natura, configurando quella scissione che già la religione positiva aveva posto, estendendo tale scissione a tutto l’essere cosmico, uomo, natura e aspetti sovradimensionali dello stesso e della stessa natura.

Il Massone, superato l’apprendistato, come Compagno incomincia a sviluppare un’osservazione ermeneutica della Natura nei termini della scoperta dei suoi significati misterici, quelli nascosti nell’intimo della Natura, quelli che non vengono svelati neppure dall’individuazione delle leggi fenomeniche che controllano gli accadimenti, sempre fenomenici, della stessa Natura. La Natura, in una visuale esoterica, è da scoprire non nei suoi accadimenti appariscenti, epifenomenici, che di ciò la scienza con i suoi attuali sofisticatissimi metodi e strumenti è in grado di fare meglio, ma con una visione altra, nella sua sostanzialità metastorica e metafisica. Il pensiero materialistico, positivistico, scientista ci descrive la Natura nel suo apparire, nei suoi aspetti discorsivi, ma nulla può dire sulla sua sostanzialità, su ciò che il senso del sacro e della spiritualità umana possono dire ed intuire. Anche se c’è da ammettere che questo pensiero non si pone altro scopo che osservare, descrivere e spiegare ciò che accade nella Natura lasciando ad altri di enucleare i perché degli accadimenti.

La Massoneria, proprio perché non è metodo gnoseologico, si oppone alla ipostatizzazione di una via prestabilita; essa non è “la via” e neppure “una via” essa supera il concetto di via, quindi di metodo e di metodologia, e si pone come “tensione” ontologica alla Verità“. L’epistemologia filosofica ci ha insegnato che ogni legge scientifica è tale nella misura in cui può dimostrare la sua fallacia e quindi superare se stessa con un modello interpretativo maggiormente esplicativo. Ciò che non è dimostrabile come errato, parziale, limitato al contingente storico non è scienza ma è fede, è cristallizzazione del sapere e della conoscenza scambiata come Verità.

La concezione della Massoneria come “metodo di vita“, in particolare in una certa corrente del pensiero massonico italiano, vorrebbe dire come affermano certi alti esponenti di Gran Loggia che «La Massoneria non esprime, invero, una particolare filosofia o ideologia, ma un metodo di convivenza tra tutte le filosofie e le ideologie possibili». Un’idea che sorvola sulla rappresentazione della Massoneria come associazione iniziatica e separata dal mondo profano ed anche “laicamente” sincretica, di modo che in essa potrebbe confluire qualunque pensiero umano senza discriminazione. È evidentemente una concessione all’uso indiscriminato di pensieri esoterici, religiosi, filosofici e anche ideologici di ogni epoca e cultura senza che essi passino nel filtro di una ermeneutica massonica. apparentemente alternativo è l’idea della Massoneria come “ortoprassi”. Questo è un concetto ripreso dal pensiero teologico volendo superare la distinzione tra dottrina e morale;

la prima implica il pericolo del dogmatismo, la seconda dà priorità al retto comportamento sotto la supremazia del bene universale. L’ortoprassi, corretto modo di agire, limita tanto il pensiero che l’azione massonica ad un “essere per fare” (comportarsi) e necessariamente rischia di confluire nella corrente di pensiero del pragmatismo anglosassone. È sostanzialmente una visione immanentista, di cifra comportamentale, che mette in secondo piano ogni espressione spirituale umana. A ben vedere ambedue le visioni soffrono della stessa unidimensionalità che Marcuse, tanti anni fa, denunciava nell’immagine dell’uomo unidimensionale.

Ambedue le elaborazioni evidenziano, la prima più della seconda, la carente elaborazione del pensiero massonico, l’adeguamento a logiche del passato, a filosofie del pensiero che la stessa filosofia oggi ha superato.

L’idea del “metodo” massonico, di matrice cartesiana, da una parte non prende posizione su una elaborazione squisitamente massonica degli esoterismi, filosofie e ideologie, dall’altra parte vorrebbe opporsi all’idea pragmatica, comportamentale, del fare massonico, però contraddicendosi quando s’immerge nel vissuto collettivo profano adottando filosofie, indirizzi culturali e ideologie sociali. In definitiva questa massoneria metodologica si rende più pragmatica di un’ortoprassi che almeno cerca di definire una morale massonica.

Il pragmatismo anglosassone, con i suoi epigoni l’inglese John Dewey e l’austriaco Ludwig Wittgenstein, mira a considerare l’uomo non come osservatore ed esploratore della sostanzialità della realtà, ma come produttore e imprenditore di conoscenza che trasforma la realtà. Non c’è bisogno di grandi meditazioni filosofiche per capire ciò, è evidente che, fin dai suoi  primordi, l’umanità si è posta pragmaticamente in  questi termini,  ma non solo.   È questo “non solo” che rende carente e svela la soffocante autosufficienza del pensiero pragmatico, il suo porsi in un vicolo cieco al quale, giunti alla fine, si osserva impotenti la nebbiosa imperscrutabilità della fine del cammino. Se la realtà è da considerare solo nella sua accezione di causa produttiva, che trasforma la realtà, che ne è del pensiero non produttivo quello che la realtà non vuol trasformare ma coglierne le sue intime essenze? Però, è questo cogliere le essenze che infastidisce il pragmatico, perché le essenze non sono di per sé produttive, non modificano la realtà ma la definiscono in un’altra dimensione che esce dal controllo dell’Uomo. Il pragmatico, dicendo che osservare la realtà vuol dire osservare per trasformare, non dice nulla di errato, così come non si erra dicendo di considerare la Massoneria come ortoprassi, cioè dicendo di osservare la realtà per definire un corretto comportamento, oppure considerandosi come sincretismo a tutto spazio. Queste due sono visioni parziali e unidimensionali. Manca l’altra parte, quella fondante, quella del discorso che è dell’osservare per scoprire le norme regolative dell’essere umano nella sua dimensione spirituale. In termini semplici, metodologismo pragmatico ed ortoprassi sono due modalità del pensiero amorale, che nega ogni dimensione spirituale all’Uomo e alla Natura.

Scindere le conseguenze morali1 dall’agire comporta necessariamente i guasti di un produrre concettualistico giunto alla sua autogiustificazione, così come un comportamento corretto senza definire i principi morali a cui riferirsi è affermazione general-generica che non distingue la Massoneria da una qualunque altra forma di approccio spirituale; anzi, questo ne è escluso per la riduzione ai soli comportamenti senza considerare l’essenza del sussistere umano.

L’essere umano quando incominciò a mescolare due diversi metalli per produrne un terzo, ad esempio il bronzo, non si spiegava la modificazione in terza molecola di altre due mescolate tra loro, non ne aveva le conoscenze scientifiche. E su questa parziale conoscenza però sviluppò un sistema di rituali, di miti, di elaborazioni trascendentali che per lui davano un senso alla Natura nel suo insieme, ponendosi sul piano della sapienza, anche nel verso di farlo sentire componente vitale della Natura. Poi, viene lo scienziato, che spiega

la fusione molecolare dei metalli e ignora il pensiero sul trascendente. Ora sappiamo del potenziale conoscitivo della materia, ma abbiamo perduto tutto del potenziale sapienziale della Natura, del Cosmo, del Creato, comunque lo si metta.

Le religioni vorrebbero superare questa frattura e dare una spiegazione in termini fideisti e finalisti del creato, ma così facendo, riportando tutto ad un ente creatore. non spiegano l’essenza della Natura; dicono chi la guida e la giustifica, ma senza rispondere alle domande: come e perché? Infatti, quel come e perché è nella mente divina, imperscrutabile all’uomo. Oggi alcuni avventurosi teologi sono disposti a credere che il Creato sia un Atto divino e che le leggi della Natura siano effetti e non conseguenze dell’Atto divino, per cui queste leggi non sono direttamente controllate e gestite dal pensiero divino. In tal modo si pone all’interno della Natura una capacità di autorganizzazione ed autoregolamentazione scissa dal divino, in altri termini non c’è nulla di trascendente nel creato, nella Natura, se non il solo atto creativo. Pur se affascinante in sé, questa spiegazione della sussistenza intrinseca della Natura e dei suoi accadimenti non dà risposta al perché dell’atto creativo, se non nei termini, neoplatonici, di  una “esigenza” autosussistente della creazione rispetto al divino. In tutto ciò è impossibile, per il pensiero umano, pervenire ad una Verità in sé esplicativa dei massimi sistemi posti dal pensiero teologico.

Dunque, anche in questo si evidenzia la limitatezza di certi grandi del pensiero massonico, come Lessing e Goethe, che ripongono la Verità ultima nel pensiero divino, come indicibile ed inconoscibile, essendo troppo compresi in una visione apofasica del divino stesso. Il pensiero massonico non può porsi in questo spazio autocensorio, anzi deve avere il coraggio di andare oltre, altrimenti non si distinguerebbe né dal pensiero scientifico né da quello religioso e, ciò è più importante, non si definirebbe come pensiero altro, pensiero sapienziale teleologico. La Massoneria se è altro, ha come necessità epistemologica ed ermeneutica quella di coniugare il discorso sulla materia e quello sulla sovramateria, ovvero il pensiero sulla struttura materica e sulla sovrastruttura spirituale, sul sensibile e sul extrasensibile.

Sempre riguardo all’ortoprassi, questa non aiuta a definire la Massoneria come pensiero soprasensibile, non fa riconoscere una sua visione d’ermeneutica esoterica. L’esoterismo non trova lo spazio di giustificazione di sé nella concezione dell’ortoprassi, che è concezione di comportamenti umani, pur considerandoli nella loro apparenza extra-storica ed extra-culturale. Se intendiamo l’esoterismo, visione riservata e dunque essenzialmente massonica senza inquinamenti estranei, come strumento essenziale del pensiero massonico è necessario scandagliarne i suoi peculiari significati non in termini puramente di perfezionamento spirituale, che non lo distinguerebbe da altre pratiche spirituali, ma ripeto in peculiari termini massonici. L’esoterismo in quanto strumento massonico, dal pensiero massonico deve trarre il proprio significato e non può configurarsi in se stesso, ovvero limitare il suo sviluppo all’interno di un pensiero avulso da una causalità esplicativa e da un percorso ben coordinato e indirizzato, altrimenti una qualunque persona fortemente interessata allo esoterismo potrebbe benissimo cercare il proprio sviluppo spirituale nell’esoterismo in sé e non avrebbe la necessità di entrare nella Massoneria. Addirittura, potrebbe cercare una propria speciale forma d’iniziazione dentro la via esoterica, ignorando l’iniziaticità massonica. Questo è proprio il termine ultimo di un pensiero herderiano che in definitiva toglie alla Massoneria ogni carattere di esclusività, riducendola a mera forma umanitaria, alla pari di un qualunque umanesimo modernista.

Il Massone, sensibilmente determinato considera l’esistenza come progetto, alla stregua di un Heidegger, e vuol condividere questo progetto con altri sotto il riparo della loggia. In questa Loggia il Massone non trova la spiegazione di come stanno le cose, di

come l’esistere si spiega. La sua concezione di Verità è diversa da quella giuridica, civile e religiosa e pure scientifica.

La filosofia moderna tende a depennare la Verità, intesa come descrizione oggettiva, dai propri discorsi. È difficile contestare chi afferma che la razionalità di un discorso se è ridotta alla sua presentazione decorosa è accettabile dai più. Però, ciò non vuol dire che la felicità umana risieda nell’essere tutti d’accordo, nella comune ricerca di una felicità data dall’accordo, come sembra di sentire nelle parole di un Herder.

Ugualmente, si sente la necessità di superare certe posizioni del XVIII secolo e di quelli successivi, ove la Verità è lo “specchio della Natura” e che la conoscenza dei dati di fatto e delle norme che li regolano sia la via alla Verità. I Massoni settecenteschi cercavano ciò, trovandosi come Lessing, ad essere costretti a negare ogni validità ai plurimi esoterismi come strumento di conoscenza. È difficile infatti dichiarare che ogni esoterismo conduce alla Verità, se non appellandosi in modo fideistico a un’idea di astratta spiritualità non definita. Questo perché all’epoca, non differentemente da oggi, quello era un esoterismo che dall’esterno veniva inglobato nel pensare massonico, senza saperlo integrare, senza saperlo ripensare nei soli termini massonici, facendo del pensiero massonico un confuso ed incoerente agglomerato dei più disparati esoterismi, con la tiepida ed inconcludente giustificazione che ogni forma di esoterismo umano è definibile come ” Tradizione“. Solo Goethe provò a coniugare massoneria, spiritualità ed esoterismo extramassonico usando plurime arti, comprese quelle scientifiche, ma con grande sofferenza e senza giungere ad una conclusione2

Nel linguaggio massonico non appare la parola “felicità”. Il Massone non cerca la felicità, si distingue dall’accezione moderna della morale intesa come aiuto reciproco per soddisfare “felicemente“ i desideri personali e collettivi. Una tale concezione, presente ad esempio in Stuart Mill e in una certa visuale anche nell’idea di ortoprassi, non rientra nello schema di perfezionamento spirituale; al più in quello civile e privato del mondo profano. Una tale concezione parte dal presupposto che non esiste nella natura umana alcuna struttura sostanziale e ciò è inaccettabile dal pensiero massonico.

Non si deve però pensare che l’accezione trascendentale del pensiero massonico voglia dire fondarsi su qualcosa di già esistente, di una trascendenza che trascende persino l’uomo. L’unica trascendenza concepibile per un Massone potrebbe essere quella di scoprire nella sostanzialità umana un senso del sacro che lo connota come ente umano e come essere vivente teso allo spirituale, al metafisico; tutto il resto è prodotto storico e culturale dell’agire umano. Il pensiero massonico, depurato dalle connotazioni che gli sono estranee, come quelle ideologicamente e teologicamente fondate così come quelle di un esoterismo estraneo alla tradizione massonica, concepisce la morale come pura espressione umana ed il senso del sacro come propria sostanzialità. La morale umana, nell’accezione massonica, non discende dall’extraumano, essa è elaborazione progressiva della pulsione umana al superamento dei limiti umani, non in senso materiale, civile, religioso che sono compito e scopo di istituzioni che appartengono all’ambito del mondo profano. Da parte sua, il senso del sacro è la trascendenza che appartiene all’uomo e in senso massonico è la sostanzialità che lo innalza oltre il suo essere produttivo, oltre la sua materialità, oltre i suoi comportamenti pur moralmente ed eticamente guidati.

Nella Massoneria non si può cercare ciò che Heidegger chiamava ontoteologia, la ricerca sull’origine e la fondatezza dell’idealità umana in una sfera extraumana e sulla certezza del possesso di un ideale giusto e vero. Ciò è rintracciabile solo nel pensiero teologico e a questo ci si deve rivolgere se quella è la ricerca. Ma, se qualcuno volesse ridurre il pensiero e la prassi massonica a relativismo, farebbe un’operazione di mistificazione inaccettabile.

In una società iniziatica, spiritualmente connotata, il relativismo è cosa estranea. Né può essere considerata come relativistica l’affermazione che la Massoneria è ricerca di una

Verità, di una Morale, di un Senso del Sacro che fanno parte della sostanzialità dell’Uomo. Questi concetti hanno valore di assolutezza dentro la sfera dell’umano. Sono essi che si connotano come veicoli al superamento della condizione materiale per accedere a quella spirituale. Se la Massoneria è concepibile come progetto di elevazione dal materiale allo spirituale, in ciò non sussiste nulla di relativistico. Ma non solo, infatti, tale rappresentazione è coerente col pensiero platonico che richiedeva a un progetto di essere affrontato con volontà superiore. Se una definizione può essere data alla Massoneria è quella di “fondamentalista”, nel senso di ricerca dei “fondamenti dell’essere umano e della Natura“, con un proprio  metodo  e  propri  strumenti  che  non  fanno  parte  della  realtà  profana. In certe critiche che vengono dal mondo religioso si tende a stigmatizzare la Massoneria come relativistica perché essa non riconosce alcuna cosa come definitiva, perché l’uomo è in una condizione di continuo sviluppo spirituale Ciò, se non è travisamento voluto, è mancato approfondimento del pensiero massonico.

La Massoneria fonda la propria tradizione sul riconoscimento di un Ente Supremo, però senza dare definizione di questo Ente e senza farne discendere altro che il suo riconoscimento, perché ogni Massone è libero di dare la sua definizione nel rispetto di tutte le fedi. È prassi tradizionale della Massoneria nel suo insieme il rendersi estranea agli ambiti religiosi e politici e dunque a non chiudersi dentro un unico credo o ideologia. La vocazione della Massoneria è quella di essere universalistica e ancor prima cosmopolitica e di trovare nell’Uomo, a prescindere dalla sua razza, credo religioso, condizione sociale e idealità politica le condizioni sostanziali per elevarsi spiritualmente. Ciò implica non di affermare che per un Massone ogni via da percorrere sia giusta, bensì di lasciare aperte le porte ad una ricerca la più ampia possibile e che la sua elevazione spirituale nasce dall’uomo e non da un qualcosa a lui estraneo. La Massoneria si pone dunque rispetto all’Uomo come definizione di un ambito spirituale, sacrale, insito nell’essere umano.

Il fatto che la Massoneria consideri che si possa discutere su tutto non vuol dire che tutto viene desacralizzato, ma al contrario che nel tutto si può trovare il senso del sacro e a ciò, a questo senso del sacro, si sposta la ricerca massonica. In realtà, la critica al relativismo è puntata verso quel pensiero che non sostiene che la Verità possa essere detenuta da qualcuno perché a quel qualcuno un Ente superiore ha rivelato la Verità e che solo quella Verità sia giusta, mentre tutto il resto, tutte le altre ricerche e vie sono conseguentemente fallaci ed inutili, che alla “vera” spiritualità non si possa giungere se non con il proprio credo; anche se oggi teologi spericolati incominciano a chiedersi con finezza di ragionamento se una tale concezione possa avere diritto d’esistenza nell’ambito di una religione3 tesa al bene concepito come libertà che a sua volta necessariamente implica il senso del rispetto verso le altre vie spirituali e religiose4.

La corrente pragmatista e relativista del pensiero filosofico moderno ritiene, sulla falsariga di Nietzsche, che l’uomo è animale intelligente e che la sua intelligenza si esplica nella collaborazione degli uomini per la migliore realizzazione dei propri desideri. Questo modo di vedere la realtà non è in sé errato ma è certamente parziale, perché volutamente ignora sia il senso del sacro che spinge l’uomo a vivere pure una vita spirituale, sia la sua connotazione non riducibile al materiale, la sua sostanzialità metafisica; ignora che l’uomo prima di sviluppare il senso del sacro ha, come base di partenza, sviluppato il pensiero simbolico.

Nell’ontoteologia questa unitarietà tra materialità e spiritualità, che si concretizza nell’essere umano, viene spezzata tra una parte limitata nella sua finitudine e una parte che anela all’infinito. La Massoneria, invece, riconosce nel senso di sacro e quindi di infinito la sostanza che giustifica la parte finita, sensibile. A differenza di Peter Singer, filosofo americano odierno, la Massoneria non aspira ad “ampliare la cerchia del noi”, piuttosto tende a considerare l’uomo solo alla luce della sua appartenenza all’umanità e quindi come

singolo rappresentante di un “noi assoluto”, come dire che nel singolo uomo esiste l’intera umanità.

Il Massone porta avanti un progetto che ipotizza un futuro possibile per l’umanità fondato sul riconoscimento del valore trascendentale insito nell’uomo. Pertanto, la Massoneria si appella tanto alla ragione quanto al senso del sacro, ove l’uno è ragione d’essere dell’altro e l’insieme dei due è teleologicamente teso al  perfezionamento,  giacché la Massoneria non pensa teologicamente, non concepisce la Verità come qualcosa di superiore all’uomo e quindi ricerca la Verità dentro la sostanzialità dell’uomo, della Natura. Non viene ricercato, in altri termini, un qualcosa che è fuori dall’uomo, a lui superiore, che è compito teologico, ma vuol scrivere il poema dell’universalità dell’uomo come percorso di perfezionamento materiale e spirituale, lasciando al mondo profano il perfezionamento materiale e riservandosi quello spirituale, inteso come spirituale meramente umano.

Sul piano religioso il misticismo è la via dell’accesso al trascendente, ma, fuori dall’ambito religioso, può anche essere concepito un misticismo che del trascendente è azione e pensiero assieme, nel senso che scopre il trascendente presente nell’uomo o più precisamente nella determinazione dell’uomo come insieme sistemico di materia e di spirito. Quest’affermazione che può apparire un paradosso, un gioco semantico, invece è il percorso non lineare che compie il Massone. Qualità materiale e qualità trascendentale sono i due distinti livelli che compongono l’unitarietà dell’essere umano ed il misticismo è la via che consente di far comunicare i due livelli e farli interagire sinergicamente, dando luogo ad un superiore essere umano, né solo materiale né solo spirituale, ma altro da sé.

Richard Rorty, altro filosofo americano pur di pensiero pragmatico e relativista, pone il misticismo come una superiore forma di linguaggio che porterebbe al progresso materiale e morale. In una logica massonica è preferibile parlare di perfezionamento piuttosto che di progresso, infatti, il perfezionamento è uno scopo mentre il progresso è un effetto. È però corretto definire il misticismo come linguaggio speciale che fa comunicare l’uomo sia con la sua parte sensibile sia con la sua parte spirituale, attuando con questa comunicazione il percorso di perfezionamento. La via massonica al perfezionamento, in ultima analisi alla Verità, è raffigurabile come una vite senza fine, che gira senza mai serrare, che ha la funzione di avvio di un meccanismo che conduce ad altri risultati che non sono il serrare. La Massoneria può benissimo concepire una propria forma peculiare di misticismo, estranea alla religione, proprio partendo da ciò che Rorty definisce come misticismo, ma superando la sua limitazione al progresso materiale e morale, con il concetto di perfezionamento spirituale. Come già accennato, Goethe tentò la ricomposizione dei due livelli della sostanzialità umana; egli aveva una visione essenzialmente mistica della Massoneria, ma non sviluppò una mistica massonica e fallì perché volle applicare due strumenti esoterici, come l’ermetismo e l’alchimia, estranei alla via massonica: egli, in ultima analisi, fu esoterista perché ermetico e alchimista e non perché Massone.

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LE ORIGINI DELLA LOGGIA MASSONICA ED I COSTRUTTORI MEDIEVALI DI CATTEDRALI.

LE ORIGINI DELLA LOGGIA MASSONICA ED I COSTRUTTORI MEDIEVALI DI CATTEDRALI.

Durante il Medio Evo l’umanità fu capace di realizzare le più grandi opere della storia: in tutta Europa furono movimentati, in poco meno di tre secoli, milioni di tonnellate di pietra per la costruzione di circa 130 edifici fra cattedrali e grandi chiese. Tali opere impegnarono una quantità di risorse da far impallidire l’antico Egitto con le sue piramidi.

Per una tale mole di lavoro furono necessari migliaia di uomini che, operando all’unisono, compirono il miracolo nel nome ed alla gloria di Dio e della Vergine Maria.

Le opere che si andavano realizzando richiesero certamente enormi risorse, ma questo non era sufficiente a garantirne il successo: la sfida da affrontare richiese qualità umane non così comuni.

Organizzazione, comunicazione e competenze necessarie, richiesero un modello senza precedenti; fu tale spinta a generare la formazione delle antenate delle moderne Logge Massoniche: praticamente, in tutte le opere di un certo rilievo, esisteva una loggia a lato della cattedrale; gli operai ammessi non vi abitavano, ma la utilizzavano per cibarsi o per riposarsi durante la giornata di lavoro; in più veniva utilizzata per custodire la cassa con gli utili.

Esisteva poi una differenza di rango fra gli operai, basata sulle rispettive specializzazioni. Ad esempio, nell’Inghilterra del XIV secolo, coloro che lavoravano la pietra (ovvero gli “hewers”) percepivano un salario maggiore rispetto ai posatori (chiamati “layers”); un secolo prima (1212) alcuni documenti londinesi distinguevano tra categorie di operai “cementarii”, “scultores lapidum liberorum” e gli altri operai generici.

Come si vede non era ancora apparsa la definizione di “freestone-mason” poi abbreviato con free-mason, che ritroviamo documentata solamente dalla metà del ‘300.

Con Maestro artigiano (o massone) della pietra “libera”, si intendeva coloro che lavoravano le pietre più malleabili, facili a lavorare (ovvero i cosiddetti “artisti” che avevano il compito di produrre i vari ornamenti quali statue, capitelli, etc.), rispetto a coloro che dovevano sgrossare la pietra, più dura e difficile, di cava e infine coloro che avevano il solo compito di posarla e che quindi si trovavano al livello più basso.

Fra i primi statuti di Loggia medievali, troviamo un estratto tramandatoci dal canonico Ph. A. Grandidier [su_tooltip style=”bootstrap” position=”north” content=”Che si occupò con successo della storia della Cattedrale di Strasburgo, tramandandoci l’opera “Ensayo històrico y topografico de la Iglesia Catedral de Estrasburgo”, Lerrault, 1782, Strasburgo.”][1][/su_tooltip] . Riassumendo, si trovano interessantissimi spunti: scrive che, davanti alla Cattedrale, esisteva un edificio contiguo chiamato Maurer-Hoff, dove si riunivano gli operai del cantiere; tale antica confraternita di massoni liberi aveva avuto origine in Germania ed era composta da maestri, compagni e apprendisti.

Pian piano, nel corso di due-tre secoli, dal tipo di massoneria, definita operativa, si giunse a quella di carattere speculativo, la cui data di fondazione ufficiale risale al 1717 [su_tooltip style=”bootstrap” position=”north” content=”Benché esistano prove documentali che attestino l’esistenza di massoni speculativi operanti già dalla prima metà del secolo precedente: Elias Ashmole riporta nei suoi diari di esser stato iniziato in una Loggia il 16 ottobre 1646: «Sono stato fatto Massone a Warrington, nel Lancashire, insieme al Col. Henry Mainwaring, di Karincham, nel Cheshire.»”][2][/su_tooltip] in Inghilterra, ad opera di quattro logge londinesi, The Goose and Gridiron, The Crown, The Apple Tree e The Rummer and Grapes che si costituirono nella Gran Loggia di Londra. Successivamente nel 1723, un gruppo di pensatori e scienziati fra cui spiccavano numerosi membri della Royal Society, primo fra tutti il pastore anglicano Jean-Théophile Désaguliers, ne redassero le Costituzioni, mentre il pastore presbiteriano James Anderson ne fu il firmatario. Così la massoneria divenne il “fulcro d’unione” tra gli uomini, sulla sola base delle loro qualità morali. In un momento travagliato della storia inglese, ove regnavano le divisioni religiose a livello dinastico, politico e sociale, la massoneria si erse a simbolo di unione e fratellanza umana a dispetto della religione professata e dello status sociale dei singoli adepti. Queste idee, poste a fondamento delle Costituzioni del 1723, divennero la base per la diffusione dei valori di uguaglianza, libertà e fratellanza che funsero da innesco per la rivoluzione francese prima e quella americana poi.

Che cos’è una Loggia Massonica?

Come abbiamo verificato dai documenti storici pervenutici, la “loggia” ai tempi dei massoni operativi era il luogo ove facevano base gli operai medievali, ovvero una costruzione ubicata nei pressi del cantiere che permetteva alle maestranze impegnate nei lavori di avere una sede per riposare, riporre i propri oggetti, fare riunioni e decidere il da farsi…

La Loggia Massonica moderna, ossia quella speculativa, non è un luogo identificato nello spazio o nel tempo, ma è, più precisamente, uno stato mentale; quando i massoni si riuniscono in Loggia significa che attraverso opportune e precise movenze dettate da antichi rituali si trasportano su un diverso piano spirituale, utile a dimenticare, ossia mettere da parte, tutto il bagaglio (o fardello) che ciascuno di noi si porta appresso, durante il vivere quotidiano.

Generalmente i massoni si ritrovano per giungere a questo stato in uno spazio con delle determinate caratteristiche, chiamato appunto “tempio” che, comunque, non è strettamente necessario ad “aprire” i lavori di una Loggia.

Da questa premessa è facile comprendere come la Loggia non sia un luogo fisico, ma sia, più propriamente, un’entità completamente avulsa dalla materialità terrena; più facilmente potremmo definirla come la dimensione dello “spirito”.

Infatti ciò che rende “rispettabile” una loggia è la capacità dei propri componenti di elevarsi ad un livello superiore; debbono cioè riuscire ad abbandonare i “metalli” fuori dal tempio; dove, simbolicamente, con il termine “metalli” si tende ad indicare l’insieme dei vizi, pregiudizi, stato socio-economico e così via di ciascun individuo…

Da questa prerogativa, è chiara l’intenzione di eliminare non solamente le differenze di casta, ma anche quelle politiche e religiose, fonti inesauribili di guai e contrasti fra gli uomini.

Coloro che intendono “lavorare” in Loggia debbono quindi tentare di operare “liberamente ed onestamente” con i propri fratelli, partendo ogni volta da zero; senza preconcetto alcuno si stimola il ragionamento favorendo la possibilità di seguire la propria “intuizione”, parte fondante del lavoro di Loggia.

Queste caratteristiche, indispensabili al Libero Pensiero, permettono a questo variegato consesso di elevarsi ad ideale via di integrazione fra gli uomini: basti pensare che esistono Logge in cui ebrei, musulmani e cristiani si chiamano, e soprattutto si comportano da Fratelli.

A tal proposito, è sufficiente ricordare il primo degli “Antichi Doveri” tramandatici da Anderson nel 1717:

“I. Concernente Dio e la religione.

Un muratore è tenuto per la sua condizione a obbedire alla legge morale; e se intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di onore ed onestà, quali che siano le denominazioni o le persuasioni che li possono distinguere; per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti.”

Per comprendere la portata di un tale precetto, basti richiamare alla memoria il particolare momento vissuto dall’Inghilterra – ma anche dal resto d’Europa – agli inizi del XVIII sec. quando lo scontro religioso aveva raggiunto il suo apice: anglicani, luterani e cattolici erano profondamente divisi e la convivenza si era fatta difficile; fu allora che queste menti illuminate vollero cambiare il corso della storia, cercando di elevarsi al di sopra delle differenze e concentrandosi piuttosto sui punti di interesse comuni a tutti gli uomini. Da questa volontà nacquero affermazioni come quella notissima espressa da Evelyn Beatrice Hall che riassume così il pensiero di Voltaire: “Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo.”

(fonte: Gianmichele Galassi, Apprendista Libero Muratore, Secreta Ed. 2013)

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NEL SENSO ESTETICO

NEL SENSO ESTETICO

E un giorno di inizio primavera, sono in campagna. Di fronte a me l’orizzonte è grandioso, e posso ammirare le onde di verdi colline e più in là la maestosa catena di montagne, molto innevate, sublimi, uno stimolo per la mia immaginazione. Il cielo è intensamente azzurro, non offuscato dallo smog.

Di fronte ad un simile spettacolo viene spontaneo riflettere sulla bellezza, sul senso estetico. Riflessione sollecitata, acuita dalle macchie di colore rosso, rosa, giallo, dei primi tulipani, eleganti sul loro stelo verde pallido, dalle modeste commoventi pratoline bianche, da questo verde ancora intatto e fresco di inizio primavera.


Le città in cui oggi viviamo sono ormai invivibili: contaminate dallo smog, dall’intenso traffico, dall’incuria della gente che molto spesso non le ama abbastanza, soltanto le usa, che non sa e non vuole vedere. Città che sono pur scrigni di bellezza, ma nelle quali questa bellezza è tenuta nascosta, è ignorata. Come accade in certe abitazioni nelle quali splendidi mobili e ornamenti sono nascosti da inutili e banali suppellettili, che le involgariscono, le imbruttiscono.

Il senso estetico è molto spesso un innato dono di natura, e il fortunato mortale che lo possiede può godere di gioie infinite. Un chimico sa come manipolare e trasformare i prodotti, l’economista elabora grafici e dal loro zig-zag prevede crisi monetarie o lo sviluppo della ricchezza di un paese. Professioni indubbiamente utili, come lo sono tutte le professioni che aiutano il progresso. Ma la ricerca della bellezza non è ricerca di guadagno, è un dono del tutto gratuito, infinitamente prezioso per chi la sa trovare, la vuole trovare. La gioia che ci può dare la vista di un fascio di rose elegantemente sistemate in un vaso, un raggio di sole attraverso i vetri della finestra, l’azzurro intenso del cielo, il volo di un uccello, un bosco verde cupo, tutto lo spettacolo grandioso, variopinto, Intenso della natura.

Il senso estetico. In alcuni è istintivo, in altri più nascosto, assopito e che pur può essere improvvisamente risvegliato in una felice pausa nella corsa sfrenata della vita.

E un dono dell’anima. Non si sofferma sulla composizione chimica degli oggetti, ma vede la forma, il colore, la luce. Non indaga sulle leggi della creazione ma indugia sulle gioie della creazione. E una ricerca artistica e intuitiva, che non richiede il sapere, ma il saper vedere. Un geologo, uno scienziato che studia la composizione delle piante e delle rocce non è sempre in grado di rendere artisticamente; poeticamente le forme, i colori come invece hanno saputo superlativamente fare Leonardo, Tintoretto, Turner con qualche colpo di pennello. Penso che le sensazioni così dette inutili siano le più potenti, le più squisite.

I nostri sensi• — il tatto, l’olfatto, il gusto, la vista, l’udito — sono serVitori della nostra vita e strumenti per preservarla. Hanno una funzione fisiologica e ci guidano alla ricerca di quanto ci è necessario. Ma questi strumenti ci regalano anche sensazioni profonde e raffinate che spesso, inconsciamente, ci accompagnano per tutta la vita e rimangono parte del nostro essere, della nostra sensibilità.

Con il ragionamento filosofi, psicologi possono spiegare molte cose, l’universo, la sua evoluzione. Ma definiscono apparenze il fremito delle foglie, i limpidi ruscelli scroscianti, la fiamma dello sguardo, il palpito delle palpebre. Apparenze a cui tuttavia noi dobbiamo molte nostre sensazioni. E anche molte nostre decisioni e debolezze. L’apparenza della gloria, l’apparenza dell’amore.

Il filo dei miei pensieri potrebbe continuare a lungo. Il contrasto fra corpo e anima, fra concretezza ed intuizione, fra logica, ricerca e sentimento. Il nostro complicato io che deve cercare e possibilmente trovare un ampio sbocco di liberazione, come il fiume che sfocia nell’ immenso oceano. Un oceano dove può trovare poesia, bellezza, sentimento, pace, liberazione, conciliazione.

Fortunato chi tutto questo tenta di trovare. Fortunato chi lo trova

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LA RUOTA E LA ROSA NELLE ANTICHE RELIGIONI

LA RUOTA E LA ROSA NELLE ANTICHE RELIGIONI

di L. M.

La ruota è forse, insieme con la croce, il simbolo più ricorrente nelle religioni antiche sia occidentali che orientali.

Diffusissima nelle rappresentazioni celtiche rappresenta la divinità creatrice (il perno immobile) intorno alla quale tutto gira. È il dio druidico Dagda al quale Mag è servitore o meglio «servitore della ruota».

Nella piastra di Gundestrug un uomo gira la ruota cosmica mentre il dio, le braccia levate in alto, è impassibile fermo nel tempo e nello spazio, perno di un moto che è insieme avanzamento e ritorno proiettato all’infinito, simbolo quindi dell’eternità.

La ruota di Mag è fatta di legno di tasso, albero della morte (i suoi archi si piegano nel dare la morte ma indefinitivamente ritornano nella loro posizione di partenza). Questa ruota è una ruota cosmica.

Quando apparirà sulla terra ne seguirà la fine: chi la toccherà morrà, chi la vedrà perderà la luce, chi ne udrà il rumore perderà l’udito. Arianrhod, dea gallese, è la ruota d’argento.

Essa ha due figli, uno si chiama Dylan eil Ton e nuota rapidissimo nell’acqua, l’altro è Llew ed è un guerriero invincibile.

Riti e danze di queste popolazioni sono tutte improntate al moto rotatorio e si perpetuano ancor oggi nel folklore inglese, bretone, normanno e nel nord in genere. Ruote alate, ruote infiammate di Daniele, ruote dei cherubini di Ezechiele nella religione ebraica.

Le ruote infiammate girano perpetuamente intorno al Bene immutabile; sono ruote rivelatrici ed elevano l’intelligenza dell’uomo abbassandosi nel loro movimento fino ai più umili. Esse sono portatrici dell’ illumlnazione divina.

Le ruote alate girano eternamente su un perno senza declinazione: rappresentano la verità, unica ed assoluta, verità che può lambire il mondo ma non pervaderlo completamente in quanto imperfetto. La perfezione è unicamente cosa divina e quindi totalmente ultramondana.

La cintura di Ishtar (casa della luna per gli antichi babilonesi) è per gli arabi la ruota dello Zodiaco. Zodiaco significa ruota della vita, Primitivamente con significazione lunare si trasforma nel tempo in significazione solare.

I limiti dell’orizzonte sono circolari, il firmamento è emisferico, gli astri si muovono con moto circolare, la perfezione filosofico-matematica è nel cerchio, sublimazione divina del quadrato, limite dello spazio umano.

Nell’iconografia indiana la ruota ha spesso dodici raggi: sono il ciclo lunare ed il ciclo solare espressi nei mesi.

La ruota cinese ha trenta raggi; sono i giorni approssimati del ciclo lunare.

La ruota dell’esistenza buddista ha sei raggi, cioè quante sono le classi di esseri o Ioka: è la ruota della Legge volta in un movimento in unico senso. La ruota del Dharma, con i suoi otto raggi simbolizza gli otto sentieri della vita.

Il perno della ruota è sempre la Divinità, il Sovrano, l’Uomo univerSale. Il Chakra è attributo peculiare di Vishnu e non è altro che un disco solare.

Nel mondo occidentale, medioevale la ruota è attraverso il rosone delle cattedrali il simbolo del centro cosmico e del centro mistico ricongiunti in una sola figura.

I raggi vanno dal centro alla periferia e da questa ritornano al centro: unità nella totalità.

RUOTA – ROSONE – ROSA

La fiamma che, sotto il crogiolo dell’Alchimista, fonde la croce di vile metallo e la trasforma in metallo perfetto ed incorruttibile è la rosa. E essa mistica rigenerazione nel mondo greco.

Apuleio nel suo «Asino d’oro» fa mangiare, con l’aiuto di un sacerdote di Iside, a Lucio un serto di rose vermiglie: solo così egli potrà riacquistare le sue sembianze umane.

Nell’antica Grecia i roseti erano dedicati ad Afrodite ed in certi casi anche ad Atena, dea dell’ulivo. Sulle tombe venivano poste le rose: i «rosalia» dei latini che, nel mese di maggio simbolizzavano in que53

sto modo la rigenerazione della natura. Da ciò derivava un simbolo di resurrezione e quindi di immortalità.

Centro mistico, perfezione assoluta, anima, cuore ed amore della coppa della vita: ecco gli aspetti simbolici della rosa indiana.

Nell’iconografia cristiana la rosa è la coppa che raccoglie il Sangue di Cristo (il Santo Graal) ma anche con i suoi petali vermigli, la trasfigurazione di questo sangue.

L’erta per giungere al Santo Graal è piena di spine e di triboli. Persino il peccato si dovrà commettere per potervisi avvicinare. Peccato e redenzione, terra e cielo.

«Rosa candida», «rosa mistica», «rosa aurea», ecco tre simboli cristiano-medioevali con significati che spaziano dalla purezza assoluta alla potenza spirituale.

La Riforma protestante si fregia di una rosa apposta sulla croce. Analogo emblema è dei Rosa-Croce. In questi due casi la rosa non è che il Cuore del Cristo.

Rosa è purezza, amore, sofferto amore, sublimato attraverso la sofferenza che ne arrecano le spine. Giardino dell’anima, giardino del cuore, tramite di elevazione: Rosa dei Cavalieri, Giardino dell’Amore, Romanzo della Rosa…

Perfezione umana mai perfetta, perfezione divina sempre perfetta. L’eterno slancio dell’Uomo, che cosciente della sua razione rna anche impotente nei suoi limiti cerca nel Trascendente di raggiungere quella perfezione che intuisce ma che non sarà mai sua. La rosa e la ruota: identificazione ma non totale.

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MASSONERIA, ARCHITETTURA, GEOMETRIA: IL TEMPIO DELL’UMANITAA’di

di Francesco Ventani

“L’Architettura compenetra tutta l’esistenza, e l’esistenza stessa diventa architettura”(B. Taut)

Il rischio della tautologia nell’analisi sincronica di un processo diacronico

Uno degli errori commessi spesso da molti Liberi Muratori, presi dall’entusiasmo della “caccia” ai vari simboli liberomuratori, è quello di voler cercare, e voler trovare, gli stessi ovunque ed ad ogni costo, e ciò avviene soprattutto sui documenti più ricchi di tali tracce, ovvero (chiaramente) gli edifici e le loro varie componenti. Mi spiego: per un Libero Muratore che se ne vada in giro per il mondo con g li occhi nuovi dell’iniziato, è assai piacevole, e in fin dei conti motivo di un malcelato orgoglio misto a un’impressione di immediata familiarità, scoprire una squadra o un compasso, un segno, un simbolo o una scritta legata alla Tradizione Muratoria, proprio su una facciata di una cattedrale o di un palazzo, su un cornicione, una lapide, un dipinto o un bassorilievo. Ma questo non deve indurci all’errore di significare quello che vediamo riempiendolo di ciò che assai probabilmente non ha mai contenuto; cioè non possiamo riversare su quei simboli e segni tutta la storia e la valenza che hanno assunti in tempi moderni e in particolare dopo il ‘700 inglese e l’illuminismo.

Quando noi vediamo una squadra e un compasso, la mente ci porta a tutta una serie di idee, di immagini e di concetti che sono propri della Massoneria come oggi la intendiamo, che ovviamente non è la stessa di quella antica, “operativa”. Questo però non deve portarci su una strada sbagliata: la Massoneria moderna, quella nata alla fine del ‘600 in Inghilterra, benché legata da un cordone ombelicale mai rescisso con la muratoria antica, è comunque un qualcosa di diverso, e che per altro si è mutata continuamente nel corso dei decenni.

Va da sé quindi che non solo i simboli muratori che troviamo negli antichi edifici sono spesso stati messi fi dagli autori con un senso non esattamente massonico modernamente inteso, ma al contempo è assai poco stupefacente, o degno di chissà quale panegirico mentale, il fatto stesso di trovarceli.

ln sintesi, la scoperta di tali segni, forme, archetipi nelle architetture del passato ci espone ovviamente al rischio della tautologia: cioè cercare queste tracce nelle opere architettoniche è operazione chiaramente tautologica, perché non si può che trovare il proprio patrimonio genetico, se lo si va cercare nei propri avi. Tale rischio è assai tipico di un’analisi sincronica (cioè vedere oggi un simbolo e interpretarlo, collegarlo ai suoi attuali

significati) dj un processo diacronico (la formazione del fenomeno Massoneria dalle origini a oggi).

A ben vedere, è sostanziale tracciare una linea di separazione tra due possibilità in questo tipo di ricerca: ovvero da una parte scoprire le tracce della Tradizione Muratoria nei monumenti del passato, con la coscienza che ne troveremo quasi certamente, ma che altrettanto certamente non potremo dar loro un significato modernamente massonico, ma limitarci a inquadrare il loro senso (certamente spesso in iziatico) ed eventuale sviluppo all’interno della storia della nostra istituzione; dall’altra limitare il campo all’influsso che la Massoneria moderna ha operato in campo architettonico, ritrovando le tracce, i simboli, le forme, gli archetipi, questa volta sì, in stretto legame con i valori e gli ideali della Libera Muratoria universale (ovvero la muratoria moderna).

A rèbour: quando la Massoneria finisce per influenzare ciò che le ha dato origine

Negli edifici antichi troviamo molto del bagaglio tipico dell’Arte Edificatoria, tutto quel substrato di saperi tecnico-iniziatici ustoditi e trasmessi dalle corporazioni muratorie e dagli

architetti. Però se vogliamo invece cercare le tracce e i risultati dell’influenza massonica moderna sugli edifici e le città, dobbiamo giocoforza limitarci a prendere in considerazione le opere di quegli autori che hanno fatto parte di logge moderne (cioè dal ‘700 in poi) e sono stati fortemente influenzati culturalmente dal pensiero e dal metodo massonico, o che lo siano stati, se non per appartenenza, in virtù di una vicinanza di pensiero (e talvolta di un legame di amicizia) a tali ideali e valori, Da questo fecondo cross-over culturale è capitato che la Massoneria finisse per influenzare ciò che le aveva dato origine, cioè l’architettura.

Partiamo dalle Costituzioni di Anderson del 1723: in esse l’architettura riveste già un ruolo fondante nella mistica del mito massonico; essa è Opera del Grande Architetto, e questa discendenza divina si trasfigura nell’uomo quale “costruzione del Tempio dell’Umanità”. Le Costituzioni sono evidentemente influenzate dal processo cultu rale che dalla trattatistica vitruviana prosegue la sua infiltrazione palladiana in Inghilterra e si conclama con Inigo Jones; esse delineano chiaramente il culmine della tradizione architettonica nell’epoca classica augustea- Ma questo non è che il primo gradino, perché in questa proiezione idealistica dei modelli antichi, della “tradizione” dell’Arte, pian piano si avvicenderanno, o meglio conviveranno tutti gli stili, anche in una aperta dichiarazione di tolleranza e libertà universali; Io stile dei “Revival”(dal greco, all’egizio, al gotico, ecc.), dell’Eclettismo che durerà per tutto l’Ottocento, sarà espressione concreta, materiale ma anche e soprattutto ideale dei mondo Iatomistico.

È def tutto evidente la capacità evocativa di questo genere di architettura: ci riporta alle virtù civili della democrazia greca, allo splendore della civiltà romana, alle acropoli, ai fori imperiali, verso un tempio laico dell’Umanità; Neoclassicismo quale stile prediletto, “Architettura di Stato” dell’Illuminismo. Molte sedi massoniche sono così costruite negli anni, dal ‘700 e fino al ‘900, seguendo questa mistica evocativa (la sede attuale della Gran Loggia Unita di Inghilterra, quella del Rito Scozzese a Washington, il George Washington Masonic Memorial ad Alexandria).

ln Francia, nel secolo dei Lumi, conosciamo con esattezza i nomi di numerosi architetti settecenteschi che appartennero alla Massoneria, come Vie’, Dumont, Chalgrin, Rondelet, ma non abbiamo totale certezza invece per i tre più famosi, ovvero Boullée, Lequeu e Ledoux; tuttavia al di là della controversia ancora da dirimere, i loro ideali e le loro opere sono così in sintonia con le istanze illuministico•massoniche che se non sono stati affiliati, di certo avevano qualcosa di più di una semplice vicinanza di pensiero.

Lo spazio architettonico viene così concepito nella sua rappresentazione simbolica tipica dell’ideologia della socialità borghese ed aristocratica; un riunirsi civile che mette insieme le menti e le professioni è tipico del pensiero dei philosophes della seconda metà del ‘700. La loggia massonica è lo spazio più indicato per queste finalità, è uno spazio consacrato a creare una comunità felice, verso la realizzazione, all’esterno, del “bene e del progresso dell’Umanità”.

Ricordiamo soprattutto Claude•NicoIas Ledoux (sebbene il suo nome non sia mai stato trovato tra i documenti superstiti del Grande Oriente di Francia, l’appartenenza a società iniziatiche ci è testimoniata dal racconto di un amico inglese): per lui l’architettura è luce, contrapposta indissolubilmente alle tenebre in un equilibrio dinamico di concezione cosmica.

Ma gli esempi di architettura di ispirazione massonica non mancano nemmeno in Italia: ci piace ricordare in particolare

anche il senese Agostino Fantastici, in cui l’influsso massonico è ben evidente già dal linguaggio usato, eclettico certamente neoclassico. ln sintesi: con l’Illuminismo, il Tempio delle Virtù massonica si affianca sempre di più al mito della Cattedrale, essi sono la rappresentazione della “Loggia ideale”.

E così via, i simboli muratori si intridono di significati densi e si manifestano nei monumenti per acclarare le nuove ideologie di progresso dell’umanità.

Città invisibili e Città visibili: l’urbanistica massonica

Interessante è l’influenza massonica in campo urbanistico e nella fondazione e disegno delle città; questo legame lo si legge attraverso l’interpretazione, ormai consolidata, dell’architettura utopica dell’illuminismo come architettura del Progresso, della nuova Socialità. Così si riflette anche in temi urbanistici, con una visione autocratica, se non “aristocratica”, dove convivono talvolta istanze socialiste ed un autoritarismo quasi ancien régime, una ricerca di un Ordine Superiore che esprima una società ordinata tanto nel suo disegno di città quanto nell’organizzazione della componente umana.

Gli stessi Boullée, Lequeu e Ledoux sono tra i massimi esponenti di questa architettura visionaria, con veri e propri contributi alla città utopica; di Ledoux sono da ricordare le rappresentazioni e gli studi sulla Città Ideale delle Saline di Chaux. II tratto di Ledoux è tipicamente e assai chiaramente iniziatico: l’autore si pone quale emulo del Grande Architetto dell’Universo, conducendo a Ordine (insieme architettonico e sociale) il Caos; Ordo ab Chao. l

Dalla parte del socialismo utopico, troviamo invece Charles Fourier, con le sue visioni del Falansterio e di Cosmopoli: visioni cosmologiche e cosmogoniche che rimandano a idee filosofiche da “iniziati”, dove si cerca di raggiungere, attraverso la geometria dello spazio e l’ordine sociale, l’armonia suprema. Fourier, per quanto non si abbia prova certa della sua appartenenza, ha quantomeno un legame importante con la Massoneria; egli scrive: «Al nostro secolo, si propone una questione completamente nuova: esso non ha riconosciuto le preziose forze che la Massoneria gli offre. La Massoneria è come un diamante non levigato che noi disprezziamo perché non ne riconosciamo il valore…» È invece nota l’appartenenza di altre figure del Socialismo Utopico, come Saint-Simon, Godin, Proudhon, Considérant, ed evidente è la coincidenza di certe tematiche massoniche con alcuni degli ideali di questa corrente di pensiero, come l’Amore Fraterno, l’Ordine dal Caos, l’Armonia Universale. Ma le tracce degli ideali massonici le ritroviamo anche nel disegno di città realizzate: una su tutte, Washington. Sin dal suo concepimento essa fu al centro di una querelle non indifferente, che coinvolse vari attori, tra i quali l’omonimo Presidente, il Segretario di Stato Jefferson, e ovviamente l’urbanista che ne redasse il piano, L’Enfant: poiché

.

si stava progettando una città ex novo, si voleva che fosse al contempo simbolo degli Stati Uniti e simbolo della Nuova Civiltà, una sorta di esempio programmatico dell’era moderna,  repubblicana, illuministica e massonica; non scordiamoci infatti quanti fratelli contribuirono e influenzarono la Costituzione Americana* e la nuova capitale doveva esserne l’incarnato, la sua rappresentazione materica.

La nuova capitale, non potendo cadere in nessuno degli Stati, fu collocata in un Distretto speciale (District of Columbia) di dieci miglia per lato: il 1 5 aprile del 1791 fu posta la prima pietra di confine, e la cerimonia fu eseguita con un complesso rituale con tanto di sfilata massonica, al termine del quale la posa fu eseguita dal Venerabile della Loggia. E ne furono posate molte altre, ben quaranta, a formare un enorme quadrato (o rombo) simbolico, it cui significato esoterico è evidente nella loro funzione di pietre miliari, di landmarks appunto: capisaldi di un’invisibile recinto sacro, il Distretto, Tempio del Governo Federale; ma anche principi inamovibili che garantiscono l’essenza stessa dell’Istituzione, della Nazione tanto quanto dell’Ordine Iniziatico.

Avanguardia e Tradizione

La sottile linea dell’esoterismo tuttavia attraversa la storia dell’architettura ancora una volta, e in tempi più recenti: dalla fine dell’Ottocento e nel primo Novecento, latente e quiescente nelle istanze avanguardiste del Movimento Moderno.

Singolare come, nonostante il movimento delle avanguardie sia, dal punto di vista stilistico, volutamente di rottura con la Tradizione, esso invece contenga in nuce una forte valenza esoterica che ci riconduce ancora una volta a una visione esoterica dell’Arte e al concepimento della costruzione della Cattedrale dell’Umanità.

   

Già a partire dall’Art Nouveau, gli influssi esoterici in architettura sono ben evidenti, e non è un mistero l’appartenenza alla Massoneria di un personaggio di spicco come Victor Horta. Altro teorico cui si devono influenze su molti architetti avanguardisti è l’architetto teosofo J.L.M. Lauweriks, che fu chiamato da Peter Beherens (che nel 1922 progettò la sede massonica di Monaco di Baviera) a insegnare alla scuola di Darmstadt, la famosa Colonia Artistica d’avanguardia dove si svolgevano complessi

rituali di influsso esoterico-iniziatico e ispirati da una concezione di corporazione artistica, quasi medioevale. E proprio dalle logge dei costruttori medioevali prendevano spunto le nuove associazioni artistiche previste dal Novembergruppe, che infatti si chiamavano Bauhütte, che vuol dire appunto “loggia”. E poi come non ricordare Rudolf Steiner, il quale a sua volta fu autore in campo architettonico del famoso Goetheanum, il cui nome è un omaggio al grande scrittore romantico (e massone) Goethe.

Un’ondata di misticismo accomuna tutte le istanze espressionistiche, nella speranza di un rinnovamento sociale e spirituale; l’architettura, attività edificatrice per eccellenza, diventa meta suprema: l’edificazione della Cattedrale di Cristallo corrisponde, come in Massoneria, all’autoedificazione per il bene dell’umanità.

In verità l’Espressionismo non inventa nulla: l’esoterismo, ben lungi dall’essere inventato o re-inventato allora, è presente senza soluzione di continuità nella cultura tedesca, e non solo tedesca.

Tutto si coagula nella “Tradizione” grazie ai gangli con la Massoneria, i’ Rosacrocianesimo, la Teosofia, l’Antroposofia, che convergono su posizioni simili verso il finire dell’Ottocento: lauweriks, Steiner, Beherns, la Colonia di Darmstadt.

 

L’Espressionismo non è un revival, però recupera le istanze storiche a livello di ispirazione: modelli di comportamento che diano un senso alla figura dell’architetto. Sarà questo il tema, nell’architettura moderna, che esprimerà il filone sotterraneo della “Tradizione”, quello della Cattedrale dell’Umanità, ovvero il Tempio del Bene e del Progresso dell’Uomo.

Tentiamo una definizione: Architettura Idealizzante ed Ideologica

 Crediamo che, dovendosi prevedere una sorta di conclusione, o forse meglio un tentativo di estrapolare un fil rouge comune a tutti gli exempla architettonici appena visti, un’affermazione possa essere riassuntiva anche se non certo esaustiva: l’architettura, che di sua stessa natura è legata indiscutibilmente alle origini della Massoneria, ha nei tempi moderni subito, in alcuni autori e in talune correnti artistiche, un feedback significativo dalle istanze massoniche o filo-massoniche o che comunque sono state ispirate dalla Libera Muratoria. E tale influenza, come è d’uopo nella storia della Massoneria, trae fondamento da entrambe le correnti che da sempre la sostanziano e la sostengono, ovvero quella

illuministico•progressista (che è eterno modello della corrente della Aufklàrung) e quella tradizionale-esoterica (che nelle sue frange più estreme ha dato vita alla corrente della Schwârmerei), e che qui, nel campo antico (direi “primitivo” nel senso etimologico del termine) dell’Architettura finalmente si uniscono in un coro unanime. Quello, cioè, di un’Architettura che non esiteremmo a definire idealizzante ed ideologica: ovvero essa è, e rimane talvolta sulla carta nelle sue Utopie, un modello ideale di creazione, di edificazione, di trasformazione dal Caos all ‘Ordine, simbolo e simulacro defl’autoedificazione dell’Uomo, dei Valori e delle Virtù umane e civili, che esso ha riconosciuto e a cui si sforza di elevare Templi; che questi “parlino” per lui (ed a lui), in eterno. È quindi la testimonianza fatta di materia, ovvero “concreta”, del profondo spiritualismo ed idealismo che risulta parte essenziale dell’Uomo e della sua Storia.

Un trait d’union iniziatico: il Compagnonaggio

II Compagnonaggio al giorno d’oggi pare essere probabilmente l’unica realtà lavorativa dove l’avviamento al mestiere è una vera e propria Iniziazione, cioè riveste anche un’importanza spirituale. Naturalmente ai grandi studiosi di storia massonica la cosa non è certo sfuggita; tra questi René Guénon, il quale nelle sue opere ha sempre sostenuto la cosiddetta “teoria del tronco comune”, ovvero che entrambe le realtà derivino da un unico antenato. ln effetti le somiglianze e le vicinanze sono tantissime: basti ricordare che anche i Compagnoni hanno una tradizione legata al Tempio di Gerusalemme, a Salomone e a Hiram, su cui poi si innesta la figura di Maître Jacques, collega di Hiram ed anch’egli partecipe ai lavori del Tempio, che dopo lungo viaggiare per- il mondo si ritira in Provenza, dove finisce ucciso da cinque discepoli compagnoni traditori?

Nondimeno, abbiamo rappresentazioni e allegorie molto esplicite, nei brevetti o nel Rô/e (sorta di piedilista) di società compagnoniche operanti in alcune città francesi, in cui fanno bella mostra di sé emblemi e simboli propriamente massonici. Ma, come giustamente fa notare Mathonière3, molte di queste forme simboliche ed espressive strettamente massoniche, così come le prime tracce della leggenda dell’uccisione di Maître Jacques da parte dei cattivi compagnoni, paiono comparire in documenti pervenutici risalenti a non prima del Sette-0ttocento.

Questo, insieme alla notoria “doppia appartenenza” di molti compagnoni francesi in quei due secoli, spinge Mathonière e altri studiosi a mettere fortemente in dubbio l’affermazione categorica di Guénon, propendendo per una non necessaria identità dei due rami (massonico e compagnonico) nel passato, e spiegando le clamorose somiglianze simbolico-allegoriche con un’operazione di influenza massonica massiccia, diremmo quasi una “massonizzazione”, dovuta alla diffusione enorme che le logge e gli ideali muratori ebbero in quel periodo, anche tra le classi artigiane. Secondo tale ipotesi non si può parlare di un “tronco comune” tra le due istituzioni iniziatiche, ma eventualmente di «…substrati culturali in tutto o in parte comuni e/o simili» 4 Onestamente, ci pare che tale contro-ipotesi sia quasi un tentativo di voler dare un risalto maggiore al compagnonaggio, cercando di sollevarlo dall’appiattimento in cui in effetti la presunta identità protostorica con l’ordine massonico sembra averlo gettato, schiacciato da un’ingombrante coinquilino che calamita forse troppo le attenzioni, quale è la Massoneria.

Una cosa però è certa, la scarsità delle fonti e fa disparità di approfondimento che esiste tra Libera Muratoria e compagnonaggio non permettono al momento di tirare alcuna conclusione e lasciano giustamente interrogativi irrisolti.

A nostro avviso, questa distinzione finisce per divenire, a secoli di distanza dai fatti storici, una questione de lana caprina: quello che a noi interessa fondamentalmente è proprio quel substrato culturale, legato all’Arte della Costruzione, quel senso del Sacro che da tempo immemore ha sempre contraddistinto l’Architetto ICostruttore, figura iniziatica già per sua stessa natura: mestiere che era probabilmente particolarmente ricettivo nei confronti della Tradizione Occidentale, come poi delle istanze Illuministiche. In questo senso, il Compagnonaggio, col suo inscindibile legame, ancor oggi, con la parte “operativa”, rappresenta una prova “vivente” di come il salto verso la Massoneria moderna non sia spiccato casualmente da un universo, quale quello architettonico-muratorio, denso da sempre di spunti filosofici

Una conferma dell’esistenza del GADU: la Sezione Aurea

La Geometria, una delle Sette Arti Liberali, nonché materia attinente la sfera del Sacro e della Creazione divina, è sempre stata un punto imprescindibile della figura dell’Architetto /Costruttore e del substrato culturale protomassonico. Non poteva quindi mancare un accenno al numero che forse più sembra svelare, nelle sue varie ed incredibili manifestazioni, la presenza del GADU dietro alla bellezza del Creato, una sorta di matrice divina che si nasconde come ossatura geometrica sotto fa materia.ll Numero Aureo (in matematica Q) dalla sua scoperta ha rappresentato un punto cruciale nella storia non solo della matematica, ma anche del pensiero dell’uomo; non sappiamo con esattezza se fosse conosciuto anche in civiltà precedenti, ma certamente è giunto a noi tramite la defi nizione della “proporzione estrema e media” di Euclide.

La definizione euclidea ci dice che un segmento AB è diviso in due parti AC e CB, secondo la proporzione estrema e media, quando AB:AC=AC:CB; cioè risulta diviso secondo quello che è stato definito Rapporto Aureo, o Sezione Aurea. Tale rapporto è espresso con il numero (P = 1 ,61803398…, con infinite cifre decimali prive di sequenze ripetitive. Quindi Q è un numero ‘irrazionale’! anzi come qualcuno ha detto, il più irrazionale dei numeri irrazionali.

Quando il concetto dei numeri irrazionali fu sviluppato, nella Grecia classica, anche in termini filosofici pose un serio problema epistemologico al pensiero umano tutto: il mondo, la realtà, non era così più nettamente finita e misurabile.

Si narra, secondo fonti storiche incerte, che il concetto di incommensurabilità creò enormi angosce in particolare ai Pitagorici, che considerarono questa cosa la manifestazione di una imperfezione cosmica, una imprecisione di origine divina. Invero, come vedremo più avanti, il Numero Aureo potrebbe invece racchiudere, forse, la chiave per la lettura defla perfezione e della meraviglia che il Creatore ha nascosto nelle pieghe più profonde del creato. Gli esempi in natura si sprecano, e soprattutto si trovano in campi ed in ordini di grandezza lontanissimi tra loro. La conchiglia di tipo Nautilus si sviluppa lungo un certo tipo di spirale, la spirale logaritmica, che ha una connessione geometrico-matematica strettissima con il Rapporto Aureo. Questo tipo particolare di spirale si ritrova, magicamente, nella disposizione delle foglie delle piante (fitlotassi), dei semi di girasole, nella macroarchitettura

 delle galassie… Matematicamente, la geometria della Sezione Aurea è strettamente legata alla Serie di Fibonacci, ed alle sue incredibili proprietà numeriche: ogni numero della serie, diviso per il predecessore, è una sempre più accurata approssimazione di (P. Lélenco delle implicazioni matematiche dovute alla connessione tra la serie di Fibonacci e il Numero Aureo, è veramente lunga. Basti pensare che una serie lunghissima di matematici e scienziati del passato vi si sono imbattuti, e stupiti di conseguenza (pensiamo a Luca Pacioli ed al suo trattato “De divina proportione”).

Ma allora una domanda si pone necessaria: se «p è manifestazione del Lògos, del Dio come Principio Ordinatore e Regolatore dell’Universo, come si interpreta la sua presenza dal senso metafisico a quello fisico? Qui forse ci viene incontro lo stesso nome di Leonardo Fibonacci, che in realtà aveva altro cognome ma che passò alla storia, grazie alla sua scoperta, come ‘*Figlio dei bonacci” (da cui Fi l bonacci), cioè *’figlio di una buona disposizione’! Cioè fu colta da subito una cosa fondamentale: le proprietà matematiche, che sono astrazione pura, nella reaftà corrispondono, con buona approssimazione, a proprietà fisiche del mondo reale. Quando l’esperienza ci fa notare che la fillotassi delle piante si organizza in un certo modo, quando il girasole, la mela e la conchiglia seguono una determinata geometria, il messaggio che traspare è che evidentemente quella è, in natu ra, la “buona disposizione! cioè probabilmente la migliore per Io sviluppo della vita.

E fi il Grande Architetto dell’Universo ha dato prova delle sue capacità matematiche, che noi ancora non riusciamo a comprendere appieno e probabilmente non ci riusciremo mai; ecco che ne esce una visione della realtà come di un qualcosa che sussiste sopra (e grazie) a una matrice divina, da leggere in filigrana e non solo con gli occhi della ragione, ma anche con quelli dell’intuizione. Ecco come mai l’uomo da millenni considera quindi sacra la Geometria, e perché ha sempre rivestito un carattere sacrale l’atto del costruire, e quindi l’Architettura. E nel momento in cui riconobbe la matrice divina nel Numero Aureo/ ne constatò la sua bontà e al contempo la sua bellezza (secondo un principio caro agli antichi Greci, Kalòs Kai Agathòs): ciò che è buono, funzionale, è anche bello. Cioè la bellezza figlia della proporzione, e quindi dell’armonia, intesa come manifestazione accidentale dell’Armonia Celeste. E se la Bellezza e l’Armonia sono manifestazioni del Divino e dell’atto creativo di Dio, anche l’Uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, quando crea e costruisce tende a riconoscere le leggi e le proporzioni che egli interpreta attraverso il suo intelletto grazie all’astrazione matematica.

L’uomo ha così replicato le forme e le proporzioni della Natura nelle sue opere, cosicché spesso ha utilizzato in particolare nell’Epoca Classica, la Sezione Aurea; non a caso la lettera greca (P, corrispondente alla nostra F, è stata utilizzata per indicare il Numero Aureo in onore di Fidia, il grande architetto e scultore greco. Ma egli, e con lui gli autori di meraviglie artistiche ed architettoniche dell’antichità, lo utilizzarono davvero e con coscienza? Molti studiosi oggi Io mettono in dubbio, sostenendo che spesso si è trattato di voler trovare (P in tutti i modi da parte di chi si era invaghito di una teoria da dimostrare, e con i numeri, si sa, si può giocare quanto si vuole… Questo non significa che in molti casi non sia effettivamente stato utilizzato consciamente il Rapporto Aureo in un edificio, però ci deve indurre a valutare con attenzione le tesi, soprattutto quando si ha a che fare con i numeri, che, Io sappiamo, li possiamo sempre manipolare e far tornare a piacere…

Un grande architetto del Novecento, Le Corbusier, sviluppò un sistema proporzionale che chiamò “Modulor”, ovvero la figura stilizzata di un uomo, ogni parte del corpo seguendo la Serie di Fibonacci. Secondo il suo autore, il Modulor permetteva di conferire dimensioni armoniose a tutto ciò che si progetta, dalla cassettiera al palazzo, fino agli spazi urbani, diventando un sistema di standardizzazione con una matrice di armonia naturale che potremmo definire quasi “deistica”.

Per una conclusione: nessuna conclusione?

A fine di questo excursus proviamo a tracciare una possibile conclusione a un’indagine che forse ha spaziato in campi apparentemente distanti, ma che invece sono strettamente correlati ad un’unica visione d’insieme, forse così ampia che la si coglie meglio osservandola da una certa distanza.

Il rapporto tra Massoneria ed Architettura è un qualcosa di viscerale, e non solo per la vexata quaestio delle origini della nostra istituzione, ma a ben vedere, in senso lato ovviamente, essa sprofonda nelle pieghe mirevoli della storia dello scibile umano, laddove lo studio della Geometria, della Fisica e della Matematica tornano al primo interrogativo se Dio si manifesta attraverso la Bellezza del Creato, o se forse è l’uomo che comunque ha bisogno e desiderio di trovare tutta intorno a sé la traccia della scintilla divina, e così si prefigura la divinità, a propria immagine e somiglianza, con in mano un enorme compasso con cui traccia l’armoniosa curva dell’Universo; il GADU quale noumeno di quella cosa in sé inarrivabile e che trascende la ragione umana.

Anche per tutta la complessità dei temi trattati, ma non solo, rimane così volutamente del tutto aperta questa conclusione, che forse tale non è, e non deve essere, visto che il Tempio, come sempre, è ancora in costruzione.

Lasciamo però le ultime righe per un aneddoto su Louis Kahn, uno dei più grandi architetti del XX secolo: americano di origini ebraiche, in realtà si sentiva apolide e spinto da un’universalità che comunque non gli fece dimenticare l’influenza della mistica ebraica, secondo cui il Messia non è ancora venuto, e quindi la presenza di Dio la si può intravedere nelle sue Opere.

Ma in fondo l’Opera di Dio è anche l’Opera dell’Uomo che, nel suo atto creativo che lo congiunge alla divinità, crea l’Opera per Dio, come fece Hiram con il Tempio.

Questo è l’aneddoto, tratto da un racconto autobiografico: da piccolo, in Estonia, era fortemente attratto dalla luce (e le sue opere architettoniche tuttora Io testimoniano), e da qualunque cosa la emettesse, compresi dei tizzoni ardenti, fino al punto, una sera, di metterseli sul grembiule, che prese ovviamente fuoco, ed egli si bruciò così il volto, rimanendo parzialmente sfigurato per tutta la vita.

Non sappiamo se Louis Kahn fosse un Libero Muratore, non avendo trovato notizie in merito, e personalmente ne dubitiamo molto, ma (ed è ciò che più conta) quello che trasmettono la sua architettura e le sue parole sono comunque sensazioni che si collocano su una lunghezza d’onda profondamente universale. Egli amava dire: «Amo gli inizi. Gli inizi mi riempiono di meraviglia. lo credo che sia l’inizio a garantire il proseguimento». Che prosegua, con forza e vigore, fa costruzione del Tempio…

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LA REGIA DELLA MASSONERIA DIETRO LA MARCIA SU ROMA

La regia della massoneria dietro la marcia su Roma e l’ascesa del fascismo

Mussolini e la marcia su Roma, 28 ottobre 1922

Mussolini e la marcia su Roma, 28 ottobre 1922

Grazie a un processo di riconoscimento facciale e a uno studio durato 4 anni, il regista e scrittore Tony Saccucci ha dimostrato la presenza del gran maestro Raoul Vittorio Palermi il 28 ottobre 1922 al fianco di Mussolini. 

C’era la massoneria dietro la marcia su Roma che il 28 ottobre 1922 portò Mussolini al potere in Italia. A 100 anni dalla marcia su Roma sono uscite fuori le prove. Fino ad oggi era noto l’appoggio diretto del gran maestro Raoul Vittorio Palermi a Mussolini, le sue simpatie anche successive al 1922.

Così come, d’altra parte, era noto che il potere dei massoni tout court rappresentava l’ultimo baluardo democratico alla scalata del giovane Mussolini. Proprio per questo nel 1925 il Duce mise fuori legge la massoneria e alcuni esponenti finirono male, qualcuno addirittura ucciso.

Quello di cui nessuno finora ha avuto la prova, era che lo stesso Palermi fosse presente alla marcia su Roma e sfilasse insieme al ristretto gruppo dei futuri ministri e sottosegretari del primo governo Mussolini, che non è superfluo ricordare abbondava di non fascisti (si pensi solo a Gronchi, futuro presidente della Repubblica italiana).

La ‘pistola fumante’, la prova della presenza della massoneria dietro la marcia arriva oggi grazie allo studio durato quattro anni condotto da Tony Saccucci, regista, sceneggiatore, professore (continua tuttora a insegnare Storia e Filosofia al liceo classico Mamiani di Roma), autore di ‘Marcia su Roma’, il film diretto dal regista irlandese Mark Cousins che ha aperto le Giornate degli autori all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e attualmente in sala.

Saccucci ha discusso proprio lo scorso 19 settembre la sua tesi di dottorato in Scienze politiche dal titolo ‘Il film della marcia’. Un Phd che ha ottenuto il massimo dei voti e la lode, alla cui esposizione ha assistito anche il professor Fulvio Conti, uno dei maggiori storici di storia della massoneria in Italia.

“L’uso del cinema come fonte storiografica è il futuro della ricerca storica. Questo è il maggior apporto del mio studio alla scienza storica”, dice Saccucci all’AGI.

La mattina del 28 ottobre 1922 Raoul Palermi insieme a Ernesto Civelli era dal re alle 7.30 del mattino – si legge nel dottorato – e fu lui a convincerlo a non firmare l’ordinanza di stato d’assedio che avrebbe impedito la marcia. Questo è un episodio noto e viene raccontato anche nel film di Cousins, ma ciò che è del tutto inedito è il fatto che Raoul Palermi prese poi parte alla marcia su Roma in prima fila, accanto a quelli che sarebbero poi diventati i ministri del governo fascista.

La scoperta di questa presenza tra i vertici fascisti e liberali di quel primo governo Mussolini è arrivata solo questa estate ed è stata frutto di una complessa operazione di alta tecnologia. Un processo di riconoscimento facciale su poche centinaia di fotogrammi del film di Umberto Paradisi dal titolo ‘A Noi! Dalla sagra di Napoli al trionfo di Roma’ dove ci sono le uniche immagini della manifestazione.

“Ho smontato e rimontato i 64.945 fotogrammi che compongono le 436 scene di ‘A Noi!’ – racconta Saccucci – poi grazie alla Facoltà di Ingegneria dell’università ‘La Sapienza’ di Roma (all’equipe della professoressa Francesca Campana) e a Morgana studio (con il Dop Filippo Genovese), sono stati ‘matchati’ i profili di alcuni manifestanti con foto con didascalia rinvenute su giornali americani ed è stata scoperta la presenza di numerosi massoni noti”.

Tra questi la scoperta più importante riguarda proprio Raoul Palermi. La sua presenza è la cosiddetta ‘pistola fumante’. Una presenza fisica mai provata finora. Eppure era lì, in quei fotogrammi, da un secolo. 

Il gran maestro della massoneria, il cui figlio Amleto Palermi aveva un sodalizio artistico ed era stato socio di Paradisi fino al 13 ottobre 1922, fu la prima persona che Mussolini incontrò dopo aver ricevuto l’incarico di formare il governo da parte del re. Di questo ci sono prove documentali. Così come ci sono prove che con Mussolini sfilarono tanti massoni (il celebre Balbo a parte), tra cui Giacomo Acerbo, sottosegretario e braccio destro del Duce, autore della legge che porta il suo nome che, col 25% dei voti, diede a Mussolini il 66% dei seggi in Parlamento.

Acerbo fu iniziato proprio da Palermi al 32esimo grado del Rito scozzese il 6 novembre, una settimana dopo che aveva assunto la carica di sottosegretario, quando già redigeva i verbali delle riunioni del Consiglio dei ministri.

Dopo cento anni, dunque, grazie a questo monumentale studio e all’ausilio delle moderne tecnologie dell’università di Roma si aggiunge un tassello importante alla storia d’Italia.

Palermi dal re Vittorio Emanuele III per convincerlo a non firmare l’ordinanza di stato d’assedio. Palermi, il primo a incontrare Mussolini dopo che questi ha ricevuto l’incarico. Palermi, in posa per la foto di rito col governo. Uno ‘sponsor’ potente che però, come altri illustri personaggi, primo fra tutti il sovrano, non ha ottenuto quanto sperato.

Per tutta la durata del Fascismo Raoul Palermi scriverà centinaia se non migliaia di lettere al Duce – si può leggere nel lungo lavoro di Saccucci – e, dopo aver tentato il suicidio nel 1929, riceverà una pensione di 3.000 lire al mese fino all’aprile del 1943. All’Archivio di Stato è conservata  una delibera datata 25 luglio 1943, ossia il giorno del Gran consiglio che depose Mussolini, in cui si rinnova il vitalizio per Palermi.

Una fine forse non onorevole per quello che nel 1922 era uno degli uomini più potenti d’Italia (o almeno così sembrava essere in quell’autunno). AGI Read 1141 times

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FICHTE LA FILOSOFIA DELA MASSONERIA

di Antonio Binni

Nella mia operosa giovinezza ho frequentato assiduamente i testi dei filosofi idealisti e, fra questi, l’opera di Johann Gottlieb Fichte, preso e ammirato, oltre che dalla sua idea di libertà, soprattutto dalla natura pratica della sua filosofia. Nel pensiero del Nostro la filosofia avrebbe dovuto infatti avere unicamente il compito di essere efficace strumento per cambiare il mondo e l’uomo. Dunque non spiegare come il mondo è, ma come potrebbe diventare attraverso l’azione dell’uomo, senza dare per scontata la immodificabilità della situazione esistente. Parimenti non per descrivere la vita delle persone ma per cambiarle, per essere attribuito alle stesse il compito di operare attivamente per incidere sulla società. Nato in una famiglia poverissima, si narra che da fanciullo lavorasse come guardiano di oche per aiutare i genitori. Per sostenersi, da giovane, fu costretto a mille lavori che via via detestava; ma la natura lo aveva creato pensatore. Fu così che costruì un pensiero compiuto che è erroneo degradare – come taluni sostengono – a mero terreno preparatorio del pensiero di Hegel, che fu, quantomeno, ingeneroso quando accusò la filosofia di Fichte di risolversi in un idealismo soggettivo e in un pensiero vuoto e formale. Alla fama del Nostro non hanno poi sicuramente giovato i Discorsi alla nazione tedesca, tenuti a Berlino nel 1807–1808, durante l’occupazione napoleonica, nei quali il filosofo riaffermò il primato della nazione tedesca, considerata la guida degli altri popoli per avere mantenuto in tutte le epoche storiche la purezza della lingua, del carattere e della religione. Tesi questa, come noto, sciaguratamente ripresa e diffusa dalla ideologia nazista. Da qui, in principalità, un giudizio immeritatamente negativo, quando, all’opposto, quelle orazioni altro non erano che un accorato appello al popolo tedesco di riscossa contro l’occupazione napoleonica. Nelle mie modenesi calde e afose vacanze estive di liceale mi è stata silenziosa compagna e fedele amica la lettura di molte pagine della Missione del dotto, dalla quale trascrivo questo pensiero ancora nitido nel ricordo: “L’uomo esiste per migliorarsi sempre più dal punto di vista morale e per rendere migliore tutto ciò che lo circonda” (testo pubblicato dalle Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1991, pag 94). Una volta entrato nella Comunione, ho scoperto l’appartenenza all’Ordine di Fichte, mai rinnegata, seppur breve. Ne nacque così una affezione al filosofo ancora maggiore. L’opera di Fichte a me più cara divenne però ben presto quella intitolata Filosofia della Massoneria (in Italia, edita da Bastogi, Foggia, 1995; ma l’edizione italiana più recente è quella edita da Mursia, Milano, 2019, a cura dell’Amico C. Bonvecchio). Col tempo, il volume, di fatto, è andato in pezzi per eccesso di uso. Da qui la necessità di farlo rilegare. Oggi l’opera è nelle mie mani, in una nuova veste elegante che mi ha indotto alla ennesima rilettura, dalla quale estraggo alcuni dei punti più salienti, mosso dalla convinzione che quella lezione è, ancor oggi, preziosa a quanti praticano l’Arte regia, e non solo. Insegna il Nostro che la Massoneria non può proporsi nessuno degli scopi ai quali si dedica generalmente l’impegno intellettuale degli uomini, perché già tutti realizzati. Sicché, laddove perseguisse codesta finalità, diverrebbe inutilmente superflua e perfino “sommamente nociva”. E per difetto di competenze (non ogni massone è architetto, filosofo, giurista, ecc.), e per la natura riservata in cui la Massoneria opera, visto che – appunto – dovrebbe fare in segreto ciò che, di norma, avviene invece in pubblico. Ciò acclarato, secondo Fichte rimane allora a chiedersi quale possa essere codesto scopo. Domanda alla quale il Nostro risponde secondo ragione e, perciò, in termini del tutto persuasivi: lo scopo della Massoneria non può essere altro che quello di realizzare una perfezione umana maggiore di quella che ciascun individuo avrebbe raggiunto fuori dalla Associazione. Scopo da una parte troppo ampio e dall’altra troppo stretto. Troppo ampio perché codesto fine può essere conseguito anche altrimenti (ad esempio con la meditazione). Troppo ristretto perché nessuna società di qualsiasi specie può, per sua natura, operare il suo perfetto raggiungimento. Sicché la maggiore umanità conseguita rimarrà per sempre una perfezione umana, squisitamente umana, dunque mai superiore alla stessa. Questa educazione, che ha il suo approdo nella acquisizione di una specifica competenza in umanità, secondo il Nostro filosofo deve poi avvenire in una “piccola comunità”, che è centrale non solo per la funzione che assolve, ma pure per la sua lingua. Per la funzione perché, nella “piccola comunità”, si impara a comunicare il proprio sapere e ad acquisire quello degli altri in modo del tutto diverso per la natura eterogenea dei presenti-partecipanti. Per la sua lingua perché, anziché l’estrema specializzazione dei linguaggi professionali degli adepti, è adottata, e parlata, una lingua condivisa, che è quella dei simboli. Fichte non si nasconde poi il pericolo della esistenza di uomini scaltri e disonesti che indirizzano adepti ingenui verso propri fini personali: critica abituale all’istituto massonico. Parimenti è del tutto consapevole della esistenza, all’interno della “piccola comunità”, di uomini che, per soddisfare il proprio orgoglio personale, fallito nel mondo profano, talora pure ripetutamente si impegnano a dirigere, e a prevaricare, chi per cultura o per posizione sociale li sopravanza nella società civile. Né trascura di prendere in considerazione chi è entrato nel sodalizio massonico per semplice curiosità, o per capriccio, o con la speranza di accrescere la propria modestissima clientela. A tutte codeste pur frequenti censure, volte a svilire l’Ordine, Fichte obietta però di avere personalmente conosciuto uomini saggi e onesti che si sono affratellati per un fine sublime, quale quello di essere educati da capo a fondo per divenire “uomini”, uomini veri e autentici. Anche se poi, per raggiungere codesto scopo, sono stati costretti a sacrificare non poco della loro vita e dei loro beni personali. In merito al tanto vituperato “segreto massonico” Fichte dichiara che quello più noto, e a un tempo nascosto, è che i massoni esistono e continuano a esistere malgrado siano vittime abituali di aggressioni, di infamie e calunnie, oltre che delle loro stesse sciagurate scissioni e delle loro reali manchevolezze. Secondo il Nostro, a indubbio merito della Massoneria vanno comunque ascritti, e soprattutto riconosciuti, l’educazione dello spirito, l’aspirazione alla sensibilità morale, l’imposizione di corretti comportamenti e l’osservanza delle leggi che, sia permessa l’integrazione, nei relativi contenuti l’Istituzione ha spesso ispirato, divulgando una cultura politica totalmente umana, perciò universale, elaborata all’interno delle Logge, dove si sono radicati i principi della libertà, della uguaglianza, della fratellanza, della tolleranza e degli stessi diritti umani, oltre che del merito. Una eredità che per certo non merita di morire. Come tutte le epitomi, anche quella che abbiamo presentato altro non è che un semplice compendio del pensiero fichtiano, per definizione privo di ogni reale approfondimento. Temi, invece, affrontati con particolare acume e una dotta e documentata analisi nell’accurato volume di Valerio Meattini intitolato Storicismo e Massoneria. Libertà, uguaglianza e strategia di convivenza da Lessing a Croce (Carrocci Editore, 2021); testo nato in confutazione del duro giudizio formulato da Croce nei confronti della “mentalità” massonica: critica alta, mai astiosa, per certo la più severa contro la libera muratoria. Tuttavia indifendibile una volta dimostrata la incondivisibilità dello “storicismo” posto da Croce a fondamento della sua critica, come Meattini ha argomentato in termini del tutto fondati e, perciò, persuasivi. I temi in precedenza richiamati, sia pure con tutti i limiti propri di ogni sintesi e di ogni brevità, nell’ottica di chi ha scritto queste note sono tuttavia funzionali a segnare un distacco e soprattutto una netta contrapposizione all’indirizzo denominato postumanesimo, ossia a quella crescente sfiducia negli esseri umani nei confronti dell’umano, sul presupposto che le macchine stanno diventando umane (… anche se poi non si sposano!) e gli uomini macchine. Inspiegabile tesi paradossale visto che, in questi ultimi strani giorni, l’uomo è il padrone incontrastato del pianeta. Sicché non si comprende davvero come possa essere sfiduciato proprio verso se stesso! Da qui l’importanza del richiamato pensiero di Fichte e di quanti si pongono a difesa dell’umano nell’uomo e del suo sviluppo integrale fino a dove è consentito alla umana finitudine. Anche se poi occorre riempire di contenuto quella bella, ma oscura parola, visto che, a fronte del termine “umano”, è indispensabile chiedersi cosa sia lo specifico che lo caratterizza e nel contempo lo differenzia, ad esempio, dal corpo, dall’intelletto analitico, dalla ragione sintetica, dalla passione del cuore. A nostro sommesso ma meditato parere, l’umano non può essere altro che la libertà. Non però una libertà qualsiasi, quanto invece quella che è indirizzata al bene, alla giustizia e alla bontà. Il compito principale della esistenza di ciascun uomo è dunque quello di imparare a navigare nello spazio aperto della libertà al fine di diventare liberi, giusti e buoni. Non è poi per nulla detto che questo lavoro sia coronato da successo. Chi non accende dentro di sé l’umano, inteso così come proposto, resterà però privato della sua più autentica natura, quanto dire del tesoro più prezioso dell’esistenza, che è armonia con il mondo e con gli altri uomini. Mentre su ogni cosa sovrasta quel dolore dal quale “si impara”, come ci ha insegnato Eschilo (Agamennone, versi 176-178, in tutte Le tragedie, Mondadori, Milano, 2003, pag. 407). Solo chi ha provato e pensato il dolore si è infatti impadronito della vera conoscenza, il cui nome è saggezza. L’umano nell’uomo, per ripetere ancora una volta la bella espressione di Vasilij Grossman (dal testo La Madonna Sistina [1955] ora in Il bene sia con voi!, Adelphi, Milano, 2014, 2ª Ed., pag. 51) coincide allora con la gioia di vivere la libertà così come dianzi prefigurata: impegno che si costruisce giorno per giorno, senza mai stancarsi, su misura di ciascun uomo e di ciascuna singola esistenza.

TRATTO DALLA RIVISTA MASSONICA “OFFICINAE”

GRAN LOGGIA D’ ITALIA

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