PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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IL RUOLO DELLA MASSONERIA NEL XXI SECOLO

il ruolo della massoneria nel xxi secolo

 

Il ruolo della Massoneria nel XXI secolo: tradizione, etica e nuovi valori

 

Sin dalle sue origini la Massoneria ha contribuito in modo sostanziale al bene dell’uomo con le sue idee e le sue azioni che sono state recepite e poste a fondamento delle società democratiche.

Il lavoro muratorio, svolto nelle Logge, ha infatti permesso nel passato ai fratelli di elevare la propria conoscenza e coscienza e li ha così forgiati per costruire un’umanità migliore.

La Massoneria, ancora oggi, è indubbiamente il solo luogo in cui uomini, legati dal vincolo di fratellanza, possono accrescere la loro spiritualità, affinare la loro conoscenza esoterica, rinsaldare la loro morale e prepararsi a vivere socialmente in forza di quei valori massonici che costituiscono per ogni persona le linee guida per poter essere liberi ed esprimere le proprie potenzialità nel pieno rispetto delle diversità.

Nel loro percorso storico i massoni si sono sempre posti come punto di riferimento per gli uomini che avvertono l’urgenza di un proprio perfezionamento e si pongono come obiettivo di essere liberi e di cooperare al miglioramento della condizione umana. Anche oggi la Massoneria può fornire un contributo essenziale all’umanità mettendo in campo nuovi valori e storicizzando quelli tradizionali e perenni, cioè applicandoli in modo originale alle condizioni attuali dell’umanità. Nell’epoca del villaggio globale e della globalizzazione insorgono problematiche che non possono essere superate solo in base a mere soluzioni economico-finanziarie, ma facendo sempre riferimento ai valori che guidano l’umanità.

In questo contesto la Massoneria può svolgere un ruolo primario e centrale perché propugna i valori fondamentali della dignità, della libertà e del rispetto del singolo nella diversità, che sono a fondamento della convivenza civile e democratica che deve ruotare intorno alla centralità dell’Uomo, con esclusione di ogni forma di intolleranza e discriminazione.

È fondamentale a questo punto sottolineare un aspetto peculiare della Massoneria: essa non ha interessi materiali da difendere, né posizioni di potere e di privilegio, di qualsiasi natura esse siano, per questo è l’unica istituzione di uomini che si può adoperare liberamente e spassionatamente per la felicità dell’uomo.

Con riferimento in particolare alla globalizzazione è necessario svolgere un’attenta riflessione. È indubbio che questo fenomeno può dare luogo a risultati positivi per l’uomo, ma non può essere considerato come un processo indipendente dalle condizioni di vita dell’uomo nella sua duplice dimensione materiale e spirituale.

Al contrario, noi massoni riteniamo che anch’esso debba essere guidato e reso compatibile con i valori, in modo che possa essere uno strumento di benessere e di elevazione e non solo una macchina che mira a soddisfare gli interessi di una parte privilegiata e minoritaria dell’umanità a scapito di altre. Nonostante i grandi risultati riferiti alla qualità della vita che si sono raggiunti nel mondo occidentale, non possiamo sottacere che sia in esso che nel resto dell’umanità sono presenti squilibri che preoccupano l’animo umano verso i quali non v’è né sufficiente attenzione, né un’adeguata volontà di porre rimedio.

Al fine di superare queste condizioni è necessario collocarsi in un’ottica diversa che non sia ristretta e legata ad interessi di parte, ma abbia un orizzonte più vasto che pone al centro l’Uomo e che sia in grado di cogliere i trends globali senza mai dimenticare le condizioni specifiche dei singoli, anche nelle forme associate, delle collettività e degli Stati. Questa apertura d’orizzonte, peculiare dei massoni, ci deve portare a considerare tutte le problematiche attuali in riferimento al bene concreto dell’umanità piuttosto che a quello di una sola parte: in ciò consiste la nostra universalità fondata sul valore della fratellanza fra tutti gli uomini. Purtroppo lo scenario mondiale suscita diverse inquietudini. La violenza esplosa in diverse parti del pianeta, le pulizie etniche, i genocidi nei continenti africano ed asiatico, il terrorismo dei fondamentalismi religiosi e l’ossessione nazionalista denotano un malessere profondo che deriva da squilibri sociali, provocati anche dal tramonto delle ideologie, e che viene avvertito sia dagli individui, sia dalle collettività.

Al contempo, le diversità della qualità della vita e delle condizioni economiche tra Nord e Sud non può che suscitare preoccupazione per il benessere dell’umana famiglia, nonché per le possibili conseguenze anche conflittuali che possono derivare. Anche nel mondo occidentale, ricco ed opulento, nonostante una diffusa ed alta qualità della vita, non sono assenti contraddizioni che minacciano l’armonia e la stabilità sociale; ingiustizie economiche e sociali, discriminazioni di diversa natura, le povertà nuove e vecchie, il degrado ambientale, i disagi psicologici ed esistenziali, nonché conflitti interetnici appaiono come un male dell’Occidente a cui si deve prestare un’ampia attenzione che sia fondata sui valori che proclamano la dignità della persona

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LA GRATITUDINE

La gratitudine
(Alpina 8-9/2011)

Nel bagaglio di insegnamenti da trasmettere ai giovani, la gratitudine è sempre stata una costante. Oggi come oggi, tuttavia, sembra che tale valore sia stato declassato. Le ragioni e le cause che hanno determinato la crisi di questa componente meriterebbero uno studio approfondito. È probabile che i fattori che hanno concorso a tale declino siano di differente natura. Si può supporre che la gratitudine venga ormai percepita come una forma di debolezza, oppure che sia un comportamento da assimilare a quei noiosi e un po’  ridicoli formalismi in auge soprattutto nel romanticismo. Altri ancora potrebbero associare la gratitudine ad una specie di riconoscimento di un debito contratto con qualcuno. Queste sono solo alcune ipotesi plausibili, verosimili della tendenza soprattutto odierna a espungere dal corredo delle regole civili quella della gratitudine. Il presente numero dell’Alpina potrebbe essere un primo tentativo di porsi seriamente il problema in attesa di ulteriori ricerche che possano metter e a fuoco nitidamente la natura di questo fenomeno abbastanza inquietante. Credo che il compito di ogni Massone, a fronte di questo problema, sia almeno duplice:mostrare in primo luogo che le ragioni dell’ingratitudine non sono cogenti ma piuttosto deboli e, in un secondo tempo, evidenziare alcuni argomenti forti, cioè non retorici, dell’esigenza di riabilitare questo nobile stato d’animo. Per quanto riguarda il primo obiettivo, una conoscenza anche sommaria della teoria dell’argomentazione e di alcuni principi di logica, è sufficiente per mettere in evidenza i punti deboli dei ragionamenti, impliciti od espliciti, posti a fondamento dell’ingratitudine. Per quanto concerne invece il secondo proposito, non è difficile trovare nella storia del pensiero massonico in particolare, e di quello etico in generale, dei ragionamenti coerenti e anche convincenti per tenere in vita e rinvigorire quello che a noi personalmente sembra un inalienabile principio alla base di una dottrina e di una pratica esistenziale, come è appunto quella massonica, che ha per scopo il miglioramento etico e morale dell’uomo. Aggiungerei infine, non perché meno importante, ma piuttosto per metterla maggiormente in evidenza, la costante meditazione dei nostri simboli fondamentali: la squadra, il compasso, lo scalpello, la cazzuola, il grembiule, i guanti bianchi, il filo a piombo, la livella che, interpretati alla luce dei secolari insegnamenti massonici,sapranno sempre indicare il comportamento giusto e perfetto.

Daniele Bui

 

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CASTEL DEL MONTE: LA LEGGENDA DELLA PUGLIA

CASTEL DEL MONTE: LA LEGGENDA DELLA PUGLIA

 

La fortezza di Federico II è uno dei misteri d’Italia. Scoprite la sua leggenda in crociera!

Castel del Monte è una delle costruzioni più geniali e misteriose d’Italia. Volete scoprire le leggende che questa fortezza voluta da Federico II di Svevia custodisce ad Andria, nel cuore della Puglia, dal 1240? Fate tappa a Bari con Costa Crociere!

 

“Si dice che il castello sia ‘magico’ e che custodisca il Sacro Graal!”

L’enigma della costruzione del castello

L’origine di Castel del Monte è avvolta nel mistero, si dice persino che sia stato ideato dallo stesso Federico II e che sia ispirato alla grandezza dalla piramide di Cheope. La leggenda più famosa vuole che sulla collina su cui sorge il castello (dichiarato patrimonio dell’umanità UNESCO) ci fosse un tempio antico con una statua che riportava inciso un enigma: a risolverlo fu un saraceno, che scavando sulla collina trovò un tesoro che usò per costruire Castel del Monte. Ancora oggi, infatti, gli studiosi non si spiegano perché la fortezza sia su questa collina isolata e non sia protetta da un fossato.

 

Un progetto esoterico

Il numero 8 scritto in orizzontale rappresenta l’infinito e l’unione tra Dio e l’uomo: la pianta di Castel del Monte è un ottagono, ci sono 8 torri ottagonali, un labirinto di 8 stanze, 8 finestre per piano, i gradini delle scale a chiocciola sono 44… per questo si dice che il castello sia “magico” e che custodisca il Sacro Graal! Dal cortile interno potrete guardare all’esterno solo alzando gli occhi al cielo, e avrete la sensazione di essere in un pozzo, che nel Medioevo era simbolo di conoscenza e chiaroveggenza. Un altro mistero? Castel del Monte non ha mai avuto cucine o camere da letto! Quindi non era abitabile, e questo ha fatto nascere la leggenda che fosse un osservatorio astronomico, una casa di caccia o un “centro benessere” ispirato agli hammam, le terme turche… In quasi 800 anni i segreti di Federico II non sono ancora stati svelati.

Castel del Monte è una costruzione tanto splendida quanto enigmatica che si trova in Puglia e più precisamente ad Andria, in provincia di Bari. Fu eretta tra il 1230 ed il 1240 sulle rovine di una fortezza antecedente dall’imperatore Federico II di Svevia, lo “Stupor Mundi”.

Sono molte le storie e i misteri che ruotano intorno a Castel del Monte. Secondo alcuni si troverebbe all’interno di una linea ideale che collega la Cattedrale di Chartres con Gerusalemme e il Tempo di Salmone. Secondo altri sarebbe un modello in scala della Piramide di Cheope. Ci sarebbero inoltre numerosi messaggi in codice non decifrati,, che una volta risolti rivelerebbero importanti segreti, forse addirittura il luogo dove è custodito il Santo Graal.

 

Federico II era un uomo illuminato, amava le arti e la cultura e, pur essendo un imperatore cristiano, provava un grande interesse per le civiltà orientali.

Tutto questo si riflette tra le pietre di Castel del Monte, dove nulla sembra essere lasciato al caso.

Contrariamente a quanto molti pensano, con ogni probabilità Federico II non abitò mai a Castel del Monte. Il castello rimase abbandonato per un lungo periodo, durante il quale molti dei marmi che lo decoravano sono stati asportati. Nel corso dei secoli, è divenuto prima un carcere e poi un ricovero per pastori, infine, nel 1876, è diventato proprietà dello Stato italiano che lo ha acquistato per la somma di 25.000 lire, cifra davvero esigua anche per l’epoca. Restaurato più volte, dal 1996 è inserito nell’elenco dei siti considerati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. La sua struttura è talmente particolare che è stata scelta per essere rappresentata sul rovescio delle monete italiane da un centesimo di euro.

 

L’edificio, è a base ottagonale. Risulta privo di ogni attrezzatura di tipo militare, e totalmente improntato al “principio ottonario”: otto sono le facciate, otto i grandi saloni, e il cortile, orientato in modo da essere perfettamente illuminato durante gli equinozi e i solstizi, costituisce un perfetto ottagono. Secondo una corrente esoterica che risale ai primi tempi del cristianesimo, l’otto è infatti il numero prediletto dalla divinità. Il numero otto – infatti – sdraiato di lato è il simbolo dell’infinito, significa l’unione tra l’uomo e Dio. Ma l’ottagono è anche il simbolo della casa imperiale degli Svevi, la cui corona era, appunto, di forma ottagonale. Castel del Monte è quindi anche un gigantesco simbolo del potere stesso dell’Imperatore?

 

In quell’epoca era frequente l’usanza di trasmettere messaggi in codice includendoli nell’architettura e nelle proporzioni di palazzi e castelli. Questi messaggi sono talvolta veri e propri enigmi, e per molti edifici del passato ancora oggi restano tali.

Forse il mistero principale è rappresentato proprio dalla sua costruzione: perché fu edificato?

I castelli venivano eretti per scopi difensivi, ma secondo molti, Castel del Monte, non sarebbe nato con questa finalità.

 

Secondo Aldo Tavolaro, autore di numerosi testi sulla simbologia esoterica di Castel del Monte, l’origine del palazzo non è quella che abbiamo appena descritto: Federico II l’avrebbe trovato infatti già edificato, e si sarebbe limitato a “ristrutturarne sollecitamente il lastrico”.

In effetti – contrariamente ad altri palazzi voluti dall’Imperatore – non si hanno notizie precise su chi disegnò ed eresse Castel del Monte.

La tradizione popolare vuole che l’abbia progettato Federico II stesso.

 

Se il Castello esisteva già, chi furono allora i suoi costruttori?

Aldo Tavolaro non ha dubbi: si tratta di un edificio dei Templari. Lo proverebbe anche il fatto che esso si trova a poca distanza da una masseria battezzata “Spinetta”: molti edifici templari sorgono infatti in prossimità di un luogo il cui nome contiene la radice “spina” (Epine, Epinac, Lepiney, Nòtre Dame de l’Epine); nel “luogo della spina”, si troverebbe un’entrata segreta a essi collegata tramite un sotterraneo.

Di questo avviso è anche Franco Ardito, autore nel 2005 di un libro su Castel del Monte. Ecco una sua testimonianza rilasciata qualche anno fa ai microfoni di Radio Rai International.

 

Quindi Castel del Monte sarebbe un gigantesco monumento al divino?

Oppure è possibile ipotizzare anche una funzione differente dell’edificio?

 

Una possibile svolta nelle ricerche su Castel del Monte si è avuta nel 2012, grazie al lavoro di due architetti del Politecnico di Bari, autori di un libro incentrato su una nuova ipotesi sull’identità della struttura. Secondo il Prof. Giuseppe Fallacara e il ricercatore Ubaldo Occhinegro del Politecnico di Bari, Castel del Monte sarebbe un’ingegnosa macchina idraulica per la raccolta delle acque piovane e sotterranee, utilizzate per la cura del corpo. Un vero e proprio centro termale capace di sfruttare l’acqua scaldata dai grandi camini a varie temperature sull’impronta dei bagni orientali. Non solo. I due architetti avrebbero anche rintracciato indizi di Castel del Monte nel cosiddetto manoscritto Voynich, definito spesso come il libro più misterioso del mondo. Il manoscritto, che dovrebbe risalire al 1400, fu acquistato dal polacco Wilfrid Voynich nei pressi di Frascati nei primi del ‘900. Scritto in una lingua sconosciuta e tuttora indecifrata, contiene numerose illustrazioni di piante, oggetti e diagrammi sconosciuti. Ecco come il Professor Fallacara ha raccontato questa esperienza ai microfoni di Antenna Sud.

 

L’ipotesi dei due architetti è sicuramente molto suggestiva ed è stata accolta con molto entusiasmo da parte dei media di gran parte d’Europa.

 

Gli enigmi di Castel del Monte però non finirebbero qui. Sarebbero presenti infatti alcune iscrizioni di difficile lettura. In particolare ce ne sarebbe una, presente nel cortile a fianco all’entrata della stanza sette del pian terreno. Tale crittogramma, si dice, fornirebbe lo strumento per scoprire il mistero del castello. Il crittogramma sarebbe stato decifrato nel 2009 dal Professor Francesco Magistrale, scomparso alcuni fa, specializzato in Paleografia Latina, che così lo descriveva in un servizio al TG3 Puglia.

 

Nulla di misterioso quindi, ma un’iscrizione posta a ricordare degli interventi di restauro. In effetti nel 1552, il Conte di Ruvo Fabrizio Carafa diventa nuovo proprietario del Castello. Facile pensare che poco dopo lo facesse restaurare.

 

Sempre nello stesso servizio c’è anche il contributo del Professore Raffaele Licinio, al tempo professore ordinario di Storia Medievale nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari, che su Castel del Monte aveva una visione molto diversa da quello cha abbiamo approfondito finora.

 

Licinio, autore di numerose opere, cercò con tutte le sue forze, e le sue competenze di storico, di contrastare il fervore di misticismo che da sempre avvolge Castel del Monte. Dalle sue ricerche il castello non nasconderebbe nessun mistero da risolvere e le sue caratteristiche non sarebbero così singolari. Uno degli allievi del Professor Licinio, Massimiliano Ambruoso, ha continuato ad approfondire le ricerche iniziate dal suo professore, e nel 2014 ha pubblicato un libro dal titolo: “Castel Del Monte: manuale storico di sopravvivenza”, con l’obiettivo di salvaguardare le verità storiche del Castello e mettere in ombra le storie legate al mito.

 

Senza volerlo sono tornato al punto di partenza.

Ho percorso tante strade ma alla fine è come se non si arrivasse mai alla soluzione.

E’ come districarsi in un labirinto. Magari non è un caso che uno dei più famosi labirinti, quello della Cattedrale di Reims, scelto anche da Umberto Eco per la copertina del Nome della Rosa, siano a pianta ottagonale… No aspetta sto divagando…

 

Forse è semplicemente per questa struttura, geometricamente perfetta ma vuota, che si sente la necessità di riempirla, di darle vita, di animarla.

 

 

 

 

 

 

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DA TEMPO È IN CORSO UN PROGRAMMA  . . .

DA TEMPO È IN CORSO UN PROGRAMMA  . . .

 

Da tempo è in corso un programma di ricerca e di studio archeoastronomico di probabili siti protostorici che possano riportare traccia dell’esistenza di nemeton oppure di oppida celtici in territorio italico cisalpino. Una delle principali caratteristiche dei siti di questo tipo è la morfologia ellittica che trova giustificazione archeologica soprattutto in ambito transalpino, e in area celtica irlandese. Lo studio archeoastronomico dei siti archeologici che potrebbero avere rilevanza astronomica sta traendo grande beneficio dalle immagini riprese dai satelliti artificiali in orbita intorno alla Terra. In questo modo è possibile mettere in evidenza le tracce, talvolta molto elusive, lasciate sul territorio dagli antichi insediamenti. Recentemente sono state analizzate svariate strutture ellittiche in territorio cisalpino tra cui anche il nemeton di Milano (nemeton di Medelhanon). L’analisi geometrica ed archeoastronomica di tutti questi siti ha mostrato che il loro perimetro è approssimabile molto bene mediante un’ellisse con gli assi in proporzione pitagorica (b/a = ¾) i quali mostrano anche un consistente orientamento astronomico tanto che le direzioni degli assi sono risultate allineate verso punti dell’orizzonte naturale locale astronomicamente significativi. Dal punto di vista geometrico è stata messa in evidenza la similitudine morfologica tra tutti i nemeton ellittici fino ad ora studiati con quella che delimita il Rath na Rioch (il recinto dei Re) presente nel sito regale di Temair (Tara) nella contea di Meath in Irlanda. Ora però siamo di fronte ad un caso enigmatico. Un libro pubblicato alcuni anni fa da Gianluca Padovan (2014) riporta in copertina un fit ellittico di un presunto secondo nemeton situato a Milano, nell’area di Porta Ticinese. Tale area include l’attuale PAN (Parco Amphitheatrum Naturae) che include i resti archeologici dell’antico anfiteatro di Milano, oggetto di scavi recenti, ma anche due basiliche: la Basilica di San Lorenzo Maggiore, con le Colonne di San Lorenzo, e quella di Sant’Eustorgio. Secondo il Padovan sarebbe esistito un secondo nemeton, forse molto più recente rispetto al nemeton di Medelhanon, situato in quella particolare area di Milano. La questione è quindi molto intrigante per tutta una serie di motivi, sia archeologici che storici, tanto che è stato deciso di analizzare la questione durante un recente corso avanzato di Archeoastronomia [2] dedicato esplicitamente alla geometria dei siti sacri preistorici e protostorici. Tale corso essendo avanzato e di tipo operativo e computazionale ha consentito di collaudare alcune nuove e più potenti metodologie di analisi applicandole a svariati siti antichi che mostrano una morfologia curvilinea. Il sito di Milano Porta Ticinese si adattava perfettamente alle esigenze del corso. Il punto di partenza sono state le numerose immagini satellitari in alta definizione dell’area presa in esame.

 

[1] S.E.A.C. – European Society for Astronomy in Culture e S.I.A. – Società Italiana di Archeoastronomia, adriano.gaspani.astro@gmail.com

[2] Corso di Archeoastronomia: “Geometria sacra preistorica e protostorica”, (San Pellegrino Terme, 29-30 Aprile 2023).

[3] analisi applicandole a svariati siti antichi che mostrano una morfologia curvilinea. Il sito di Milano Porta Ticinese si adattava perfettamente alle esigenze del corso. Il punto di partenza sono state le numerose immagini satellitari in alta definizione dell’area presa in esame.

 

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L’UCRAINA E LE NOSTRE INCERTEZZE

L’UCRAINA E LE NOSTRE INCERTEZZE

 

di Angelo Panebianco | 4 maggio 2024

 

Il diverso approccio di britannici e francesi da un lato e di tedeschi e italiani dall’altro. Il ruolo delle opinioni pubbliche.

 

Ben cotti e pronti per essere serviti a tavola. È ciò che, probabilmente, Vladimir Putin pensa di noi occidentali mentre osserva le nostre mosse. Di fronte alle sfide internazionali le democrazie nulla possono se non hanno dietro di sé, compatte o quasi, le opinioni pubbliche. E quella compattezza Putin, di sicuro, non la vede. A parole, c’è consapevolezza in Occidente di quanto catastrofica, e non solo per gli ucraini, sarebbe una vittoria russa in Ucraina. A parole.

 

I fatti dicono altro. I fatti dicono che i governi occidentali faticano a mantenere un fronte unito sulla crisi ucraina e faticano a farlo perché le loro opinioni pubbliche sono divise. Mentre la guerra va male per l’Ucraina gli occidentali mandano segnali contraddittori, anche se coerenti con le rispettive tradizioni nazionali. Se Emmanuel Macron ribadisce che se le cose si mettessero davvero male gli occidentali dovrebbero intervenire direttamente in Ucraina, gli altri governi europei (tedeschi e italiani in testa) ne prendono le distanze, lo smentiscono: armi sì, soldati sul terreno no, mai. A parte il fatto che queste divisioni fanno capire quanto ci sia di chimerico in tanti bei discorsi sulla difesa comune europea, come si pensa che divergenze di questa portata vengano interpretate dagli strateghi del Cremlino? Per inciso, già da sole le dichiarazioni di Macron mettono a nudo la debolezza occidentale. Non essendo il frutto di una presa di posizione della Nato, sostenuta dagli Stati Uniti e condivisa dagli altri governi europei, risultano agli occhi dei russi delle spacconate (sbeffeggiate come tali), non certo segni di forza.

 

A conferma di quanto pesino le tradizioni nazionali nell’orientare le opinioni pubbliche, e quindi i governi, si percepisce bene, anche nella guerra ucraina, le diversità di approccio di britannici e francesi da un lato e di tedeschi e italiani dall’altro. In ogni caso, è una specie di miracolo il fatto che finora non ci siano state diserzioni, che nessun governo europeo abbia rotto il fronte, abbia smesso di sostenere l’Ucraina. Tenuto conto del fatto che al loro interno sono presenti consistenti correnti di opinione che, in nome della pace, vorrebbero regalare l’Ucraina a Putin. Credendo o fingendo di credere che, mangiata l’Ucraina, la Russia sarebbe finalmente sazia, non avrebbe ancora appetito.

 

In questo quadro si può dire che è stata una benedizione per i russi la guerra a Gaza. Perché distrae e divide le opinioni pubbliche occidentali. È una manna per loro la mobilitazione studentesca in atto in tutto l’Occidente sulla Palestina. Contribuisce a lacerare le opinioni pubbliche e a distogliere l’attenzione di tanti da ciò che accade in Ucraina.

 

In genere, si pensa, e l’esperienza storica passata lo conferma, che i tiranni tendono a sottovalutare la forza delle democrazie, le ritengono assai più fragili di quanto esse siano in realtà. Nel momento del pericolo le democrazie — così è stato in passato — sono in grado di attingere a risorse, materiali e morali, che le tirannie non possiedono. Ma ciò che è stato vero in altri tempi potrebbe non esserlo più oggi. Per molte ragioni. A cominciare dalla fortunata circostanza rappresentata da ottant’anni di pace ininterrotta di cui hanno goduto gli europei occidentali. Pesa anche il fatto che società ricche, ben pasciute e invecchiate (ci sono tanti precedenti storici) spesso non sanno reagire con la necessaria energia di fronte alla vitalità e all’aggressività di gruppi umani il cui stile di vita è sempre stato assai meno confortevole.

 

E pesano equilibri internazionali e congiunture politico-diplomatiche. È ormai un luogo comune dire che la nostra è un’età multipolare, con una pluralità di potenze in concorrenza. Solo che non sembra a tutti chiaro che cosa ciò comporti per le democrazie. Età multipolare significa che non c’è, come invece c’era ai tempi della Guerra fredda, un’unica minaccia. Allora le opinioni pubbliche avevano chiaro dove fosse e chi fosse il nemico. Ora sfide e minacce arrivano da ogni parte. Basti pensare a cosa rappresenti per il benessere occidentale la scelta degli Houthi (e dei loro sponsor iraniani) di bloccare, con gli attacchi alle navi nel Mar rosso, una arteria vitale del commercio internazionale. È vero che fra queste crisi c’è interdipendenza. I russi sono stretti alleati dell’Iran e di Hamas. E i cinesi sostengono russi e iraniani contro gli occidentali. Resta che di fronte a sfide plurime le opinioni pubbliche occidentali vanno in confusione. E i governi delle democrazie, per conseguenza, faticano a mantenere coesione e unità di intenti.

Non sappiamo come finirà la guerra in Ucraina né se le armi taceranno presto in Palestina, né quale sarà la prossima sfida che, si presenti in Europa o in Medio Oriente, dovranno fronteggiare gli occidentali. Sappiamo però che senza il sostegno delle opinioni pubbliche i governi delle democrazie sono generali senza esercito, non vanno da nessuna parte.

 

Elezioni europee, elezioni presidenziali americane. In un certo senso, la tempesta perfetta. Se le democrazie, nelle prove elettorali che le attendono, resisteranno alle sirene degli estremismi, ci sarà forse la possibilità di chiarire bene alle nostre opinioni pubbliche quali siano le priorità. Nel frattempo, non ci si può stancare di ricordare ogni giorno agli elettori che gli ucraini stanno combattendo anche per noi.

Al netto della retorica politica, piacerebbe a tutti una Europa forte, capace di difendersi, di difendere le proprie democrazie. Ma oggi si può solo cercare di minimizzare i danni.

 

AVOLA INVIATA DAL FR.’.  A.’.  F,’,

 

 

 

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QUEI TANTI MERITI DELL’OCCIDENTE SOTTO ATTACCO

QUEI TANTI MERITI DELL’OCCIDENTE SOTTO ATTACCO

di Antonio Polito

 

Nel suo nuovo saggio Federico Rampini dimostra che il progresso del nostro mondo si è rivelato un grande vantaggio anche per l’altro mondo

Si può ancora dire «Grazie, Occidente»? Si può ancora riconoscere «tutto il bene che abbiamo fatto»? Possiamo ancora «dirci superiori» per ciò che abbiamo inventato, prodotto e diffuso nel mondo, per la nostra medicina, tecnologia, scienza? Per i nostri sistemi istituzionali, per la nostra libertà?

 

Federico Rampini crede che si possa, e anzi si debba dire. Nel suo ultimo libro, che prosegue in una preziosa opera pedagogica, nega che la storia degli ultimi secoli dalla Rivoluzione industriale in poi possa essere letta «come un lungo romanzo criminale, fatto di sfruttamento abietto, sofferenze, guerre coloniali, saccheggio delle risorse naturali». E dimostra, con il supporto di un’ampia mole di studi e di autori, che al contrario il progresso del nostro mondo si è rivelato un grande vantaggio anche per l’altro mondo, perché ha determinato ovunque, seppure in gradi e tempi diversi, un miglioramento senza precedenti di condizioni di vita, livelli di istruzione e di benessere, diritti e libertà.

 

L’idea del titolo — racconta l’autore nell’incipit — gli è venuta in Tanzania, quando ha visto un pastorello masai a guardia del gregge di capre con l’occhio fisso sul suo cellulare: «Non può certo supplire a un’istruzione ancora spaventosamente carente, ma è uno strumento per spezzare l’isolamento e aprire una finestra sul mondo. Qualcuno nel suo Paese usa lo smartphone per conoscere le previsioni meteo e pianificare meglio i raccolti; o per gestire qualche piccola attività commerciale. Ecco: quel pezzo di tecnologia l’abbiamo portata noi al pastorello masai. Insieme a tutto il male che abbiamo fatto all’Africa e agli africani, vuoi vedere che c’è un’altra faccia della medaglia?».

Quei tanti meriti dell’Occidente sotto attacco

 

La copertina del libro

 

Ovviamente c’è. Oggi scriviamo «energia fossile» accostandola inevitabilmente a uno scenario di disastro climatico. Ma aver trovato il modo di trasformare il calore in movimento ha reso possibile l’impossibile. Per milioni di anni quasi tutta l’energia necessaria a muovere le cose veniva dai muscoli di uomini e animali. Di conseguenza, anche nelle società più sviluppate, al massimo il 10/15% della popolazione poteva passare il tempo a leggere e scrivere. L’istruzione di massa, l’adolescenza come età dello studio, è dunque un’invenzione occidentale. Oppure prendiamo la meccanizzazione dell’agricoltura, accusata dell’impoverimento di massa dei contadini. È grazie all’aumento senza precedenti di produttività agricola se «un adulto medio del 2000 era del 50% superiore per statura e peso di un suo antenato del 1900. In gran parte del resto del mondo, inclusi Cina e Giappone, l’arco di vita si è allungato di quasi quarant’anni. Anche in Africa, nonostante malaria e Aids, la longevità media era di vent’anni superiore nel 2019 rispetto al 1900».

 

Durante la maggior parte della storia umana le donne sono state macchine per la riproduzione. La medicina moderna, la profilassi e le campagne di vaccinazione, la raccolta dell’immondizia e la distribuzione di acqua potabile, tutte invenzioni occidentali, hanno abbattuto la mortalità infantile, così che le donne non devono più avere in media cinque parti e passare la vita adulta in gravidanza o in allattamento. Insieme con i frigoriferi e le lavatrici, i preservativi e la pillola, l’Occidente ha introdotto un po’ alla volta in tutto il mondo un formidabile progresso nella vita delle donne e nella loro libertà. Tranne, guarda caso, nei Paesi retti da regimi dichiaratamente anti occidentali, come l’Iran degli ayatollah e la Gaza di Hamas. Ci sarà del resto una ragione per cui il sistema occidentale ha avuto tanti imitatori (primo tra i quali il Giappone alla fine dell’Ottocento), e nessun governo occidentale «ha mai cercato di amministrare il proprio Paese in base al confucianesimo o al taoismo?».

 

Ciò nonostante, la cosiddetta Generazione Z, educata nelle nostre istituzioni culturali e dai nostri libri al catastrofismo e al pessimismo sulle sorti dell’umanità (il che deve avere qualcosa a che fare con il dilagare di disagi e sindromi psicologiche), è convinta che siamo ricchi perché abbiamo derubato i poveri. Caricatura un po’ grottesca del marxism

 

Speriamo che i giovani di questa «generazione ansiosa» leggano questo libro. «Non date retta ai catastrofisti, il mondo non sta andando a pezzi. La verità è questa: se doveste scegliere in tutta la storia dell’umanità il periodo migliore in cui essere vivi, scegliereste quello attuale»; e questo non lo ha detto Rampini ma Barack Obama appena otto anni fa. Criticare il nostro modello di sviluppo è giusto, a patto di sapere ciò che ne ha scritto un suo insospettabile critico, il pensatore di lingua madre araba Amin Maalouf: «Tutti quelli che combattono l’Occidente e contestano la sua supremazia, per delle buone o cattive ragioni, vanno incontro a un fallimento ancora più grave del suo».

 

TAVOLA SEGALATA DAL FR.’.  A.’.  F.’.

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SOLSTIZIO D’ESTATE

SOLSTIZIO D’ESTATE

2 giugno 2002 E:. V:

Viviamo un tempo nel quale dominano incertezze, contraddizioni e paradossi.

 

In questi anni che segnano i primi passi del Terzo Millennio, quotidianamente siamo costretti a fare delle scelte, che ci portano, spesso, ad adattamenti repentini del nostro atteggiamento nei confronti degli «altri», nei confronti della società della quale noi siamo parte integrante ed attiva. Abbiamo ben tracciato il nostro percorso, nella piena consapevolezza di tutti: le ragioni che ci hanno spinto, anni addietro, ad imboccare la nostra strada maestra sono rimaste valide. Le esperienze che abbiamo avuto, quelle nelle quali ci troviamo immersi continuamente, ci hanno dimostrato e ci dimostrano che le nostre «intuizioni» traevano linfa vitale dalle profonde radici della nostra Istituzione. Le «intuizioni» – che tali non possono e non devono considerarsi -hanno avuto riscontro nella realtà, ma dire che tutto ciò che abbiamo fatto è stato o possa essere sufficiente a cambiare gli scenari costruiti da altri, sarebbe velleitario e dannoso.

 

«Fino quando avrò fiato io griderò “Pace, nel nome di Dio”: queste parole le ha pronunziate  il 22 maggio scorso in Azerbaigian Giovanni Paolo II: un richiamo ad una «pace vera, fondata sul rifiuto del fondamentalismo e di ogni forma di imperialismo», quello di Wojtyla, un pontefice stanco e sofferente che non rinuncia alla sua missione in questo mondo. Il giorno prima (il 21 maggio), a 36 ore dal suo arrivo a Mosca, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in una intervista ai giornali russi dichiara: «Sono un uomo di pace», sottolineando di essere convinto che il vertice con Vladimir Putin contribuirà a dare la pace al mondo. Ha detto ancora Bush: «Ritengo davvero che abbiamo una possibilità di raggiungere la pace».

 

Tante cose possono accadere nel corso dei giorni e dei mesi, anche se apparentemente tutto sembra rimanere statico e, sostanzialmente, sembra non mutare. Ciò che è in superficie può facilmente sparire senza che la nostra attenzione venga colpita, così come sparisce ciò che ci rifiutiamo di accettare. Tante cose importanti stanno accadendo, e Noi – a differenza dei più – le vediamo, le registriamo, le analizziamo cercando di comprenderne i meccanismi – palesi e reconditi – che le determinano.

 

La conoscenza degli avvenimenti e, soprattutto, di ciò che li provoca, ci pone in una condizione particolarmente privilegiata, una sorta di «potere» che dobbiamo sapere ben utilizzare.

 

Guardiamo con attenzione, pertanto, ai «messaggi» che inviano i rappresentanti-protagonisti di due «culture» che maggiormente e profondamente stanno incidendo nella realtà d’oggi: Papa Wojtyla e George W. Bush.

 

Le conclusioni che traiamo da questi «messaggi» sono, poi, le linee che sempre hanno guidato l’istituzione massonica.

Se è vero che in Tempio non ci occupiamo né di Religione, né di Politica, sappiamo bene che le Religioni devono essere elemento d’unione e non di disarmonia o, ancora peggio, di conflittualità: siamo convinti, pertanto che ogni religione dovrebbe essere chiamata a promuovere Giustizia e Pace tra i popoli. Siamo convinti che per potere avere un futuro migliore, chi è chiamato a ricoprire ruoli di responsabilità dovrà procedere con Saggezza, nella Legalità e nella salvaguardia delle istituzioni democratiche, senza lesinare sacrifici, custodendo e promuovendo i valori che fondano la vera grandezza di un popolo: onestà morale e intellettuale, difesa della famiglia, rispetto per la vita umana.

 

Siamo convinti che per raggiungere il traguardo di un vero Rinnovamento occorre conservare e sviluppare il patrimonio di valori spirituali e culturali di cui un Paese va fiero. Bisogna lavorare per un domani che sia migliore per tutti.

Siamo convinti che occorre divenire protagonisti della storia del domani. Oggi denaro, sesso, potere sono i totem affascinanti della società del benessere: per determinare il domani, dobbiamo partire dalla nostra vita interiore, evitando di essere distratti dagli idoli. La storia si può scrivere solo nel nome della concordia.

 

Dicevamo che «Viviamo un tempo nel quale dominano incertezze, contraddizioni e paradossi».

 

Ebbene, se noi crediamo fortemente nel valore della pace, altrettanto fortemente siamo convinti che questa pace alla quale aspiriamo, e che oggi non c’è, se non in limitate zone del globo, questa pace deve essere difesa. Quanto è accaduto recentemente vicino a noi, quanto accade non lontano da noi, i conflitti minacciano quotidianamente la pace. Il nostro Paese, l’Italia, la nostra Terra, la Sicilia, possono sprofondare nel buio solo che la follia o gli interessi economici, o la politica militare, o il mantenimento di equilibri fin troppo instabili, mutino il loro indirizzo. La Gran Loggia di Sicilia – il primo pilastro della costruzione della Gran Loggia del Mediterraneo  si è prefissa il «Bene Comune» non solo fra i massoni, ma anche e soprattutto nel mondo profano, affinché l’Umanità trovi quella «armonia» complessiva che le viene negata da più parti. Stiamo vedendo che, fortunatamente, c’è chi si muove per raggiungere gli obiettivi di pace. Sono grandi i pericoli per i Paesi che difendono la libertà. E se è vero che la Sicilia è un’isola, è altrettanto vero che questa isola è Italia, e l’Italia solo  con la Sicilia, può costruire il domani. Il nuovo domani si gioca principalmente in Sicilia, nell’area del Mediterraneo: per la Sicilia, e per Noi, con ciò che rappresentiamo, una grande occasione, una grande opportunità che non possono andare disperse.

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LA NOTIZIA STORICA SUL R.S.A.A.

LA NOTIZIA STORICA SUL R.S.A.A.

fornita dal Pyron, Segretario del Sacro Impero del S. C. di Francia,

pubblicata nell’ “Estratto dal libro d’oro del S. C. di Francia”

nel 1813

Lavoro originale di ricerca e traduzione a cura di

 

Giuseppe Vatri

 

che ne autorizza la pubblicazione su questo sito

 

Il Sovrano Grande Ispettore Generale Pyron, segretario del Sacro Impero, ha dato, in forma di istruzione, una Notizia sulla Libera Muratoria e sulla fondazione dei Supremi Consigli del trentatreesimo grado.

NOTIZIA

L’origine della Libera Muratoria risale alla costruzione del primo tempio di Gerusalemme, sotto il regno di Salomone, l’anno del mondo 2992, 1012 anni prima della nascita del Cristo.

 

La descrizione dei segni mistici per le iniziazioni, le sofferenze dei Muratori sotto i successori di Salomone, il racconto storico del fuoco sacro nascosto da Geremia e ritrovato da Neemia, sono consacrati in differenti capitoli della Bibbia.

 

Di tutte le istituzioni divine e umane, la Muratoria è per noi la migliore, perché tutti i sui atti, concentrati nelle parabole, e rappresentati con dei geroglifici, hanno una tendenza continua verso la pratica delle virtù innate nel cuore dell’uomo, che lo richiamano senza posa al principio della legge divina e naturale, ne alteri feceris quod tibi fieri non vis (1).

 

La Muratoria non è solo contemplativa, essa è anche attiva verso l’umanità sofferente; ed i suoi emblemi lugubri nel terzo grado simbolico non sono che un linguaggio mistico per esprimere che il vero Muratore è colmo di dolore, quando considera come l’universalità degli uomini non sia perfettamente felice.

 

I Muratori stessi non sono sempre stati felici! Dopo la distruzione del terzo tempio, i più zelanti si ritirarono nella Tebaide, dove presero il nome di Kadosh, o Santi; essi coltivarono, nel ritiro, le conoscenze che i loro antenati avevano loro trasmesso e, aggiungendovi la scienza degli antichi misteri, dei quali Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone, Virgilio, avevano divulgato la dottrina; è infatti a questi ultimi che si deve la conservazione delle alte scienze.

 

Dopo le crociate, la loro scienza fu trasportata in Oriente, dove si formarono Arnaldo di Villanova, Raimondo Lullo, Ruggero Bacone, Tommaso d’Aquino, ed altri sapienti che hanno reso illustre la Muratoria.

 

Le disgrazie dei tempi relegarono di nuovo una gran parte dei Muratori nei deserti della Tebaide, dove i loro successori coltivano ancora oggi le scienze che sono state loro trasmesse; altri si rifugiarono in Scozia, e si riunirono all’Ordine dei Cavalieri di Sant’Andrea che si era formato, in Palestina, a partire da gentiluomini Scozzesi. Essi vi presero il nome di Muratori Liberi e Accettati. Giacomo VI, re di Scozia, fu uno dei loro Grandi Maestri, e trasportò la loro Loggia a Edimburgo. Presto la Muratoria si sparse in tutta Europa: tutti i grandi vollero farsi ammettere alla antiche Iniziazioni d’Egitto, di Palestina, di Grecia, e nei nuovi misteri che facevano loro seguito.

 

Dal 936, la Muratoria aveva preso consistenza in Inghilterra.

 

Nel 1327, EDOARDO III ne aveva riconfermato le Costituzioni.

 

Nel 1425, ENRICO VI fu ammesso nell’Ordine.

 

Ma i segreti dell’Ordine rimasero chiusi tra pochissime persone le quali, legate dal loro giuramento, concordarono di non accordarne la conoscenza che a coloro che avessero meritato di conoscere quelle tradizioni.

 

Da ciò, deriva questa diversità dei riti, questa moltitudine di gradi, che dividono, per così dire, la Libera Muratoria in altrettanti dogmi che gradi.

 

Il Nord ha i suoi istituti, le sue parole, i suoi segni e toccamenti particolari; e questi stessi istituti sono ancora divisi in differenti sfumature.

 

La Scozia, uno dei primi asili dei Muratori rifugiatisi, ha ugualmente la sua propria particolare Muratoria.

 

L’Irlanda, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’America Inglese, l’America Francese, l’Italia, e il suo Mezzogiorno, hanno così i loro dogmi, i loro segni, le loro parole e toccamenti.

 

La stessa Francia ha sul suo territorio sistemi dogmatici differenti.

 

Ciascuna di queste potenze Muratorie pretende di possedere in esclusiva la scienza ed i misteri dei primi Muratori, cosa che rende la Muratoria in qualche modo straniera a se stessa a causa delle difficoltà che essa esperimenta nelle sue comunicazioni.

 

In tutti questi differenti sistemi dogmatici, ve ne è uno che appare concentrato in una liturgia più vicina alla Muratoria primitiva e a tutto ciò che appartiene alla Alta Muratoria professata sui due emisferi: questo dogma è quello conosciuto sotto il nome di Rito Scozzese Antico e Accettato, che contiene tutto insieme la simbolica e la mistica di tutti i Riti, le scienze filosofiche, ermetiche e cabalistiche, gli istituti della perfezione e della saggezza; infine, tutto ciò che si designa con il nome di Muratoria antica, di Muratoria moderna e di Muratoria rettificata.

 

CARLO EDOARDO, ultimo rampollo degli Stuart, fu il capo della Muratoria antica e moderna. Egli designò, come Gran Maestro e suo successore, FEDERICO II re di Prussia.

 

FEDERICO II accordò alla Muratoria una protezione particolare: essa era l’oggetto di tutta la sua sollecitudine.

 

A quell’epoca, il Rito scozzese antico e accettato non era composto che dai venticinque gradi dei quali il Prin(cipe del) R(eal) S(egreto) era l’ultimo.

 

Dei progetti di rinnovamento, delle discussioni sollevate in Germania del 1782, gli fecero temere che la Muratoria non divenisse la preda dell’anarchia di coloro che, sotto il nome di Muratori, avrebbero potuto tentare di degradarla, di avvilirla, di lavorare alla sua distruzione.

 

FEDERICO prevedendo, nel 1786, che la sua vita non sarebbe più durata a lungo, concepì il progetto di concentrare il sovrano potere Muratorio del quale era rivestito, in un Consiglio di Grandi Ispettori Generali, i quali, dopo la sua morte, potessero regolare, conformemente alla costituzione e agli Statuti, il governo della Alta Muratoria.

 

Il primo maggio 1786, egli portò a trentatré gradi la gerarchia dei gradi del Rito Scozzese antico e accettato, che era allora limitata a venticinque. Diede al trentatreesimo grado il nome di Potente e Sovrano Grande Ispettore Generale. La potenza data a questo grado, e destinata a reggere e governare il Rito, fu concentrata in un Sovrano Capitolo, sotto il nome e titolo di Supremo Consiglio dei Sovrani Grandi Ispettori Generali, trentatreesimo e ultimo grado del Rito.

 

Il grado di Princ(ipe) del R(eal) S(segreto) che, all’epoca del 1786, era investito della potenza del Rito, fu allora classificato come trentaduesimo ed il suo potere sparì per fare posto a quello dei Sovrani Grandi Ispettori Generali.

 

Il primo maggio 1786, FEDERICO ne fissò Costituzioni, Statuti e Regolamenti.

 

L’articolo 5 dice, che non ci sarà che un solo Consiglio di questo Grado in ogni Nazione o Reame in Europa; due negli Stati Uniti d’America; uno nelle Isole Inglesi e uno nelle Isole Francesi.

 

Ogni Consiglio non può essere composto che da nove Membri; ma l’estensione dell’Impero Francese ne ha fatto portare i membri a ventisette.

 

L’articolo 8 vuole, che dopo la morte di FEDERICO II, i Supremi Consigli siano i sovrani della Muratoria.

 

Di conseguenza è detto, all’articolo 12, che i Supremi Consigli eserciteranno, in ogni Nazione o Reame nel quale saranno stati stabiliti, tutti i poteri Muratori dei quali FEDERICO II era rivestito.

 

Poiché ogni nazione è indipendente da tutte le altre nel Governo civile, FEDERICO aveva pensato che fosse più giusto che ognuna possedesse entro se stessa una Alta Corte Muratoria al di sopra della quale non vi fosse appello; e questa politica sarebbe risultata gradita ad ogni governo Muratorio, perché non sarebbero potute esistere sovrapposizioni di poteri.

 

Uno spirito di invasione e di infrazione alle Costituzioni del 1786 ha tuttavia elevato, ben di recente, delle pretese contrarie. Il Supremo Consiglio di Francia se ne è lamentato! una Circolare del 14 settembre scorso, un Decreto del 30 gennaio seguente, ed infine una Circolare dello stesso giorno, che è stata inviata a tutte le Logge ed i Capitoli di Francia, ed ai Grandi Orienti esteri, fermeranno lo sguardo dei Muratori e li richiameranno alla Sovrana Potenza e alle Costituzioni del 1786.

 

Dall’ Estratto dal Libro d’Oro del Supremo Consiglio di Francia, 1813.

 

 

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MASSONERIA E MASSONI IN ITALIA DAL 1815 AL1859.

Trionfo Ligure e Amici Veri dei Virtuosi, all’obbedienza del G. O. di Francia.

di

Luigi Polo Friz

 

Si dibatte da anni, e si continua a farlo, sulla presenza o meno della Massoneria in Italia come Istituzione fra il 1815 e il 1860 e sulla sua eventuale partecipazione al processo risorgimentale. Nel 1925, con un sincronismo non programmato, si sono contrapposti sul tema un massone, Giuseppe Leti l e un antimassone, Alessandro Luzi0 2 . Il primo ha pervicacemente attribuito iniziazioni non provate, oppure ha anticipato arbitrariamente date di iniziazione di personaggi che hanno effettivamente preso parte ai moti risorgimentali, giungendo a soddisfare così in senso positivo al quesito posto. Abbarbicandosi altrettanto tenacemente a tesi precostituite ed utilizzando argomentazioni faziose, il secondo è giunto a conclusioni opposte.

 

La realtà che emerge allo stato dell ‘ arte è quella abbracciata, del tutto fortunosamente, da Luzio. Ciò non tanto per i supporti sui cui si è basato questo autore, che sono di una fragilità estrema. In assenza assoluta, per lo meno fino ad oggi, di documenti che consentano di far sfociare il dibattito verso conclusioni alternative, la situazione non può essere forzata più di quel tanto. Nel periodo in discussione non v’ era una Massoneria organizzata a livello nazionale. La stessa coscienza di un ‘ Italia unita tardò a prendere l’abbrivio. E’ tuttavia fuori dubbio che lungo la Penisola erano attive Logge clandestine, in alcuni casi tollerate perché frequentate prevalentemente o esclusivamente da cittadini di altre nazioni, a volte riconosciute da Grandi Orienti stranieri.

All’ultimo gruppo appartengono la Trionfo Ligure di Genova e la livornese Amici Veri dei Virtuosi3, legate al Grande Oriente di Francia (G.O.F.), fino al 1862 la prima, a tutto il 1870 la seconda. A posteriori per gli storici questa circostanza si è di-

mostrata particolarmente felice. Le Carte del G.O.F. sono state custodite fino a tempi recenti dallo stesso Grande Oriente, per essere poi conferite alla Bibliothèque Nationale di Parigi, che le ha collocate in un Fondo Massonico . La corrispondenza delle due Logge, le richieste di diplomi per passaggio ai gradi superiori e i piè di lista che ogni anno esse dovevano inviare a Parigi si sono miracolosamente conservati, non avendo subito le traversie di materiale analogo appartenente alle Logge italiane devote ad Obbedienze nazionali. In particolare la consultazione delle richieste di diplomi ed ancor più dei piè di lista ci ha riservato una piacevole sorpresa: ogni nome elencato, e globalmente nel periodo ‘francese’ gli affiliati delle due Officine si aggirarono intorno a 550 unità, è affiancato nella maggioranza dei casi da quello della data e della Loggia di iniziazione. Ciò ci ha consentito, congiuntamente al contenuto di altri documenti provenienti dalla stessa fonte e alla modesta saggistica già nota sull’ argomento, di allargare consistentemente lo spettro fin qui noto delle Officine che hanno operato nel nostro Paese durante il periodo della Restaurazione e di ricostruire con ragionevole completezza la storia delle due Logge menzionate.

Quando, nel 1859, venne costituita a Torino la Ausonia, precorritrice dell ‘odierna Massoneria italiana, i suoi membri, in particolare Livio Zambeccari, si preoccuparono subito di andare alla ricerca di altre Logge, o addirittura di un Grande Oriente italiano. “Unfratello disse di credere che in Genova esistesse una Loggia sotto il titolo di Unione dei Cuori”, che ad una più approfondita indagine non risultò ancora regolarmente costituita. Si parlò di Logge di Levante e di Ponente, “cioè Sarzana, Lerici, Spezia, Savona e Nizza”, già in rapporto tra loro per formare un Grande Oriente italiano, ma anche queste notizie non trovarono conferma. Venne menzionata quasi di sfuggita la Trionfo Ligure, che avrebbe meritato un’ attenzione di gran lunga maggiore. L’indagine sul suo conto non era stata superficiale, considerato che si era perfino saputo il nome del Venerabile, “un negoziante, certo Sig. Francesco Cipollina”. Dovette incutere rispetto il fatto che si trattava di Loggia “regolarmente costituita sotto il Grande Oriente di Parigi”, e così questo importante canale di informazione si inaridì subito.

La Trionfo Ligure iniziò i suoi lavori il 21 giugno 1856. Per qualche anno operò tranquilla, sotto la guida piuttosto personalizzata di Cipollina, che la considerò sempre cosa sua. Il 31 dicembre 1860 la Loggia deliberò di fondare a Livorno la Amici Veri dei Virtuosi. I dignitari eletti tre giorni dopo erano gli stessi della Trionfo Ligure, in contrapposizione al fatto che esiste un elenco di fondatori completamente diverso. Il 5 ottobre il Capitolo genovese, costituito in maggio, formalizzò al G.O.F. la richiesta di creare una Loggia filiale a Livorno e il 25 febbraio successivo ebbe luogo la cerimonia di insediamento. Nelle elezioni del 12 giugno 1861 nessuno fu confermato.

Numerose prove indicano che la Amici Veri dei

 

Virtuosi esisteva almeno dal 1859. Nella corrispondenza con Parigi i suoi membri lo ribadirono più volte. Propendiamo a credere che essa abbia chiesto aiuto alla Trionfo Ligure per regolarizzare la sua posizione, venendo accolta con diverso spirito rispetto a quello auspicato.

Ottenuto il riconoscimento da Parigi, rispetto alle entità massoniche emergenti nel neocostituito Regno d’Italia, la Amici Veri dei Virtuosi si sentì subito rinvigorita ed aumentarono le attese della casa madre. Ebbe anch’essa un Capitolo e nell’aprile 1863 appoggiò le sue aspirazioni per ottenere un Supremo Consiglio delineando una breve storia della Massoneria in Livorno, “la sola città che [in Italia], tra il 1815 ed il 1859 non sia rimasta senza Logge Massoniche”. Dopo il 1815 i membri della Napoleone costituirono la Fratellanza e la Progresso. A qualche anno di distanza la seconda fondò la Minerva, che nel 1842 assunse il nome di Livorno. Da questa Loggia nel 1850 sorse l’Amicizia. Nel 1855 se ne staccò un ramo, nucleo di una nuova Progresso, quasi subito trasformatasi nella Unione, ancora esistente all ‘ epoca del racconto.

In presenza di rare fonti questo riassunto sarebbe stato già prezioso. Esso mostra che dal 1815 al 1860 almeno sette Logge hanno svolto una attività nel capoluogo labronico l .

Non è detto che la narrazione del Venerabile della Amici Veri dei Virtuosi sia fedelissima, tenuto anche conto dell’ obiettivo a cui mirava. Fortunatamente, come abbiamo anticipato, altri documenti della stessa fonte lo integrano e lo affinano. V1 sono menzionate dieci Logge locali, che ebbero vita tra il 1815 e il 1860. In questo lasso di tempo quindi a Livorno operarono complessivamente diciassette Logge simboliche. Oltre a quelle menzionate, esse sono: Amici Concordi (1839-1840), Amici Costanti (1818-1858), Amici Riuniti (1840), Amici Veri Virtuosi (1836-1860), Avvenire (1845), Felice (1817), Fratelli Concordi (1840), San Giovanni (1830-1858), Unitaria (1868), Uniti Concordi ( 1840 -1845). Abbiamo inoltre individuato sette Officine superiori.

Rispondendo ad una lettera del G.O.F., che probabilmente lamentava eccessivo autoritarismo riguardo alla conduzione della Loggia, nel settembre 1858 Cipollina si giustificò affermando che originariamente essa “si componeva in prevalenza di capitani marittimi, iniziati in tutti gli Orienti del globo”. Era stato quindi impossibile “avere degli ufficiali stabili in permanenza”. Entrambe le dichiarazioni erano vere. Risulta dai piè di lista menzionati. Ma il Venerabile continuò ad attingere a questa categoria. A sette anni dalla fondazione dell ‘ Officina vi apparteneva il 50% dei fratelli. Viene da chiedersi fino a che punto tale situazione fosse casuale. Era gente sempre in giro per il mondo, che quindi non esercitava pretese sulla conduzione della Loggia.

Cipollina non godeva della stima di tutti gli affiliati. Carlo Masmejan, un orologiaio che svolse un ruolo importante nel Gran Consiglio del Grande Oriente Italiano (G.O.I., emanazione della Loggia Ausonia), riunì un gruppo di dissenzienti per tentare di sollevarlo dall’incarico. Scrisse di lui a Parigi che era un routinario, che ignorava il vero spirito della Massoneria e procurava il disordine nelle finanze. Per screditarlo aggiunse che “in Brasile faceva il falegname ed ora era commerciante di cappelli di paglia e di giocattoli”, ma non fu ascoltato. Insieme ai compagni di avventura gli toccò rinunciare a frequentare la Loggia ll Il Venerabile aveva controbattuto con pesanti accuse, ad esempio incolpando uno dei contestatori della “sottrazione della cassa”. Proseguì imperterrito nel suo cammino, anche perché ritornando dal Sud America, dove era stato iniziato alla Perseveranza di Bahia, si era ritrovato in Patria con un nucleo abbastanza consistente di fedelissimi massoni, vecchi compagni di emigrazione, che appoggiavano ogni sua azione.

Nel 1860 pervenne ai Genovesi una circolare del Grande Oriente Nazionale d’Italia sedente in Torino (poi G.O.I.). Datata 3 giugno, “invitava tutte le Logge sparse sulla superficie della cara Patria a volersi riunire con il neocostituito organismo onde formare quella unificazione tanto bramata da tutti i veri Italiani, senza dipendere da Grandi Orienti Muratori dell’Universo”. Cipollina non rispose. Chiese a Parigi numerose promozioni fino al 18mo grado, esplicitando anche il desiderio di avere per sé il 33mo. Dopo un rifiuto secco, insistette: “Come, a chi se non? Abbiamo perfino fondato una Loggia a Livorno, abbiamo la sicurezza di istallarne a Napoli, in Sicilia, a Firenze, a Milano. Alleghiamo l’inVito di un nuovo Grande Oriente a Torino, che abbiamo rifiutato per fedeltà al Grande Oriente di Francia e non abbiamo promozioni !” Il ricatto era palese, ma non ebbe alcun esito.

Nel luglio del ’62 la Trionfo Ligure prese atto del riconoscimento del G.O.I. da parte del G.O.F ma ribadì la sua fedeltà. In quella circostanza comunicò al Grande Oriente transalpino di aver “affiliato l’ illustrefratello generale Garibaldi, 3 0 , come membro effettivo della Loggia, e di aver chiesto al Capitolo di conferirgli il 18mo grado; era suo desiderio che fosse promosso al 33mo grado. La “domanda di aumento di salario” per il Nizzardo fu inviata a Parigi in ottobre. Il Gran Maestro, maresciallo Magnan, fece rispondere, forte degli statuti, che promozione di tale importanza richiedeva che il candidato si recasse a Parigi. Erano tempi in cui l’Eroe dei Due Mondi aveva altri pensieri e l’episodio non ebbe seguito.

A fine marzo 1863 Cipollina decise di aderire al torinese G.O.I.. Era un uomo stanco. Il 17 marzo 1864, a soli 52 anni, passò all ‘Oriente Eterno. Aveva avuto un’ esistenza avventurosa, non sempre fortunata. Cercò rifugio nell’Ordine. Così nel 1882, mentre era Venerabile Gregorio Ordufio, la Loggia decise di staccarsi dal Grande Oriente “e rimase libera e indipendente”. In questo modo pensava di liquidare le diatribe sorte con Michele Barabino, suo ex Venerabile promosso al 30mo grado e accusato di colpe di vario genere in due corpose circolari. La decisione non fu duratura. Dopo una breve dipendenza dal Supremo Consiglio di Torino, la Trionfo Ligure fu di nuovo inclusa nell’elenco delle Logge del Grande Oriente d’Italia. Stando alle commemorazioni è da presumere che vi rimase felice e contenta fino ai giorni nostri.

Liberatisi della Trionfo Ligure, che liquidarono ringraziandola frettolosamente e che nel decennio che seguì non venne mai più menzionata, i Livornesi si dedicarono immediatamente ad un’attività febbrile. Li guidò Fortunato Piperno, massone di vecchia data e uomo ambiziosissimo. Per evidenziare l’urgenza di avere un Capitolo, il Venerabile scrisse al G.O.F. che “massoni irregolari avevano fondato un Grande Oriente italiano. Avevano creato una società rivoluzionaria militante sotto il velo della Massoneria, continuavano la guerra al G.O.F. e distribuivano diplomi. Si sarebbero recati in Francia per cercare di visitare Logge regolari e forse lo stesso G.O.F., per far vedere che erano stati riconosciuti”. L’ arruffato resoconto non produsse un ‘ impressione favorevole. A Parigi in questa occasione si dimostrarono assai bene informati; dall’Italia ricevevano, infatti, rapporti regolari sul còmportamento della Amici Veri dei Virtuosi da Louis Haymann 1 3 Garante d ‘Amicizia del Maestro riferì che “la Loggia era composta per la massima parte di Israeliti, liberi da poco di aver visitato una Loggia irregolare a Firenze, dove ci si occupava di formare un Grande Oriente Italiano”. Secondo Haymann “Coen non aveva commesso nessun errore e la sua posizione andava rivista. Piperno era un semplice facchino”. Non aveva nulla da dire contro quella professione rispettabilissima, “ma il Venerabile non poteva pretendere maggiori riconoscimenti di quelli che aveva già avuti”. Par di capire che Piperno stesse tentando anch’egli la scalata al massimo grado del Rito Scozzese. Nell’ottobre del ’60 anche la Amici Veri dei virtuosi ricevette la circolare del G.O.I.. Si limitò a darne comunicazione a Parigi. In Loggia serpeggiava il malcontento. Nel dicembre dell’anno successivo Giuseppe Leone, Venerabile durante il biennio anteriore al riconoscimento del G.O.F., protestò assieme ad altri “contro l’atteggiamento dei nuovi venuti, che avevano emarginato gli anziani nelle ultime elezioni”.

Il 1862 fu caratterizzato da segnali contrastanti. Moisé De Castro inviò rapporti a Parigi in una veste non meglio identificata. In febbraio era molto preoccupato, perché tutto andava male, molti volevano sottomettersi al G.O.I., anche perché il G.O.F. non si faceva mai vivo . In effetti i contatti con ifratelli del Grande Oriente sedente in Torino si moltiplicarono e se ne ebbero anche riflessi ufficiali. In marzo, ad esempio, insieme alla Amici Veri dei Virtuosi, l’Amicizia, la Garibaldi e l’ Unione firmarono un appello a Magnan perché intercedesse per la grazia in favore di alcuni militari condannati a morte dal Governo pontificio. Si può dire che da quel momento e a più riprese lungo il decennio, nella Loggia livornese l’adesione o meno al G.O.I. fu il tema dominante nella lotta fra opposte fazioni.

Nuovo Venerabile era stato eletto Israele Costa, un cinquantenne professore di lingue, favorevole al cambio di obbedienza. I capi delle altre fazioni in cui era divisa I ‘ Officina reagirono rivolgendo autonomamente numerosi quesiti a Parigi. Rivendicando la trentennale fedeltà, Anselmo Carpi non usò metafore: “Se la Amici Veri dei Virtuosi passa al G.O.I. posso formare una Loggia all ‘ obbedienza del G.O.F. ?”. Piperno ed altri scrissero: “Non abbiamo trovato ragionevole rinunciare così brutalmente ad una posizione… Non abbiamo voluto precipitare una risoluzione perché siamo dell ‘ opinione che la Massoneria non ha nazionalità; perché, secondo noi, il G.O.I. non è completamente costituito, visto che è diviso in due parti, Torino e Palermo, alle quali se ne aggiungerà forse una terza, a Genova, perché a Livorno ci sono diverse Logge che lavorano sotto il G.O.I., ciascuna con viste diverse, qualcuna con opinioni esaltate e forse socialiste. Noi che siamo liberi e favoriti da un Capitolo che ci mette nell ‘ onorevole posizione dei gradi superiori, non troviamo conveniente di scendere al livello delle altre Logge, sottomettendoci ad un cosiddetto Capitolo capricciosamente organizzato, Capitolo che non è nemmeno ammesso negli statuti del G.O I Infine, e questo per noi è importante, noi consideriamo la vostra lettera indirizzata al G.O.I. come una semplice corrispondenza e non come un riconoscimento ufficiale”. Piperno e compagni conclusero: “Se la maggioranza della Loggia deciderà di passare al G.O.I., questa determinazione sarà per noi obbligatoria? Possiamo opporci come fondatori? Potremo continuare a lavorare alla vostra obbedienza, con lo stesso nome, conservando il Capitolo? Potremo eventualmente appartenere a due Grandi Orienti ?”

Un altro messaggio fu spedito da un gruppo capeggiato da Gabriele Paz. Anch’ esso insisteva sul fatto che “il G.O.F. li aveva onorati di un Capitolo e che quindi non trovavano logico rinunciare a questo privilegio ed ai loro gradi”. La lettera chiudeva con propositi non lontani dalle precedenti: “E’ possibile fondare a Pisa un ‘ altra Loggia all ‘ obbedienza del G.O.F.?” Durante il secondo semestre del 1862 gli incontri con i fratelli del G.O.I. si concretizzarono nella concessione di patenti RosaCroce a Pacifico Pacifici, Neri Fortini, Casanova Verano e Giuseppe De Zugni, appartenenti a Logge di quella obbedienza.

In ottobre venne comunicata al G.O.I. una strana decisione, quella di affiliarsi alla Amici Veri dei Virtuosi di Pisa, una Loggia appena istituita dal G.O.I., il quale, dopo due mesi, annunciò invece: “La benemerita Amici Veri dei Virtuosi di Livorno è stata accolta alla nostra obbedienza” e nel febbraio confermò di averne avuto l’assenso dal G.O.F.. Pubblicò anche un atto di sottomissione di settefratelli, poi diventati dodici, reso poco chiaro dalla stampa, che mutilò una parte del testo originale. Erano dei dissidenti o rappresentavano effettivamente la Loggia? Gabriele Paz presenziò ufficialmente all’Assemblea di Firenze del 1863, promossa dai Torinesi del G.O.I., partecipando attivamente ai lavori. Ciò potrebbe far propendere per la seconda ipotesi. Ma in questa storia le cronologie si sovrappongono e si inseguono disordinatamente. Solo un mese dopo il G.O.F. concesse alla Amici Veri dei Virtuosi di rimanere alla sua obbedienza.

Israele Costa, rieletto Venerabile per il 1863, e che aveva probabilmente cambiato idea riguardo al G.O.I., in aprile insistette perché venisse concesso ai Livornesi un Consiglio Kadosh. In quel momento la Loggia aveva 75 membri ed il Capitolo 39: “I massoni in possesso del 30mo grado c’erano, ma non era facile provarlo, considerato che avevano dovuto operare nell’ ombra, distruggendo i documenti per ragioni di sicurezza”. Il G.O.F. assentì e l’ I l novembre 1863 gli fu spedito il verbale di insediamento. Era una concessione rilevante. In passato solo due centri ne avevano beneficiato: Orano e Montevideo. Con il nuovo organismo il nucleo massonico che ruotava intorno alla Loggia acquisiva poteri assai vicini a quelli di una Comunità autonoma. Inoltre la capitale francese era lontana e modeste erano le possibilità di controllo del G.O.F. sul suo operato. A spingere i Parigini a tanta generosità possono essere state le voci che nel frattempo aveva attanagliato il G.O.I., con Filippo Cordova dimissionario. Comunque sia, questo evento riaggregò gli affiliati e consentì alla Loggia di riprendere un assetto stabile.

La Amici Veri dei Virtuosi, ultima testa di ponte italiana dell ‘ Obbedienza d’ oltralpe, cominciò ad informare sistematicamente il G.O.F. sui disordinati movimenti massonici della Penisola, strumentalizzando sempre le notizie con obiettivi propri. Il 26 aprile 1864, poco prima dell ‘ Assemblea che avrebbe dato vita al Grande oriente d’Italia, non ne fece mistero: “Sarebbe di somma utilità colpire il momento, fondare varie Logge simboliche e capitolari sotto la vostra obbedienza. Noi avremmo il mezzo di costruire quattro Capitoli, in quattro diverse città, con persone ragguardevoli, di tutta probità e di assoluta rispettabilità. Questo desiderio, questa proposta muove principalmente dal concetto di contrapporre con forze maggiori una barriera contro il raggiro degli agitatori, di riunire buoni elementi con persone di rango elevato, di abbattere e sventare il raggiro alimentato dai fautori di una politica esaltata, di allontanare il possibile caso che quel partito, nella prossima seduta convocata a Firenze per il 15 del prossimo mese di maggio, possa pervenire alla elezione di un Gran Maestro del colore esaltato o a qualche provvisorio provvedimento nel senso di un concetto sovversivo e preparatorio delle loro vedute”.

L’ultima infornata di notizie fu spedita il 19 ottobre. E’ un tentativo di apparire aggiornati su una materia di cui ormai sfuggivano gli aspetti sostanziali:

Non v’è niente di buono, se non il disordine assoluto che si mantiene, se non è aumentato, nelle idee sovversive. E’ perciò dimostrato che Cordova per primo, e gli altri dopo, non potevano con i loro principi concorrere nel partito di esaltazione, né avevano i mezzi efficaci per reprimerlo. Garibaldi è dimissionario. Si dice anche che Francesco De Luca occupa provvisoriamente questa funzione. Altri affermano che sia Ausonio Franchi. Si dice anche che Garibaldi, nuovamente impegnato, accetterà la Gran Maestranza. In ogni caso manca assolutamente nelle Logge italiane l’ ordine e l’ intelligenza.

La Concordia di Firenze si è divisa. Aurora, Garibaldi e Unione di Livorno si sono riunite, ma i migliori fratelli sono in sonno. A Pisa l’Azione e Fede si è fusa con la Galileo, ma molti fratelli si sono allontanati e sono diventati membri attivi della nostra Loggia in buon numero. A Lucca la Loggia agisce con indipendenza assoluta. In questo stato di cose è naturale che non ci sia risparmiato il più grande disprezzo. Ci chiamano francesi, non massoni e ci guardano come dei rinnegati.

A questo punto il G.O.F. comprese che laAmici Veri dei Virtuosi era completamente isolata dal sistema e che le sue informazioni erano diventate inattendibili. Dopo l’ Assemblea fiorentina del 1864, che aveva visto il disciogliersi spontaneo del G.O.I., era stato fondato il Grande Oriente d’Italia, che aveva subito preso contatto con i Francesi. Lodovico Frapolli , massimo interprete della Massoneria italiana in quegli anni, aveva eletto la Francia a sua seconda Patria da quando vi aveva completato gli studi all’ Ecole des Mines, nel 1842. Ora viaggiava spesso da Torino a Parigi ed aveva frequenti contatti diretti con gli alti dignitari del G.O.F.. Nel marzo 1865 il Bulletin du Gran Orient pubblicò due pagine estratte da un suo scritto, Une voix, dimostrando di aver seguito assai da vicino gli avvenimenti e di averne apprezzata I ‘ evoluzione.

Il Venerabileeletto per il 1864, Gabriele e Gabriello De Paz, aveva 66 anni. Nativo di Livorno, si dichiarava possidente, sotto-cancelliere e segretario del Concistoro israelitico. Era stato iniziato nel 1817 alla Felice, promosso dopo un anno Rosa-Croce dal Capitolo dellaAmici Costanti; I’ omonimo Sublime Consiglio gli conferì il 30mo grado nel 1839. Considerati gli ostacoli ad operare in una Loggia prima del 1860, aveva alle spalle un invidiabile curriculum iniziatico. Poteva trarne autorevolezza; se ne giovò invece per condurre i lavori con piglio autoritario, arrivando a chiedere poteri eccezionali a Parigi contro la minoranza che lo infastidiva. Il suo regime si consumò attraverso ammutinamenti, ribellioni, scissioni e dimissioni. Persino i fragili rapporti intrattenuti con le altre Logge locali vennero interrotti. Nel solo 1865 ifratelli che abbandonarono laAmici Veri dei Virtuosi furono in grado di fondare due Logge, che si sottomisero immediatamente al Grande Oriente d’Italia. De Paz ridusse allo stremo gli organici della loggia e delle Officine superiori che facevano perno su di essa. Al punto che, all’inizio del ’65, il Sublime Consiglio di Kadosh non poteva riunirsi “perché non era più in numero”. Nel 1866 rassegnò le dimissioni. Per perderne la memoria ifratelli rimasti ne cancellarono il nome dal piè di lista. Con ritmi annuali gli succedettero Angelo Alvarenga, negoziante, Giovan Battista Bianco, ingegnere, Alessandro Broglio, negoziante, e Antonio Mangini, avvocato. Nessuno di loro seppe trovare un giusto equilibrio fra le diverse anime dellaLoggia. Parve che Luigi Tognocchi, eletto nel 1871, fosse più adatto al compito. Professore contabile, dalla corispondenza che intrattenne con Frapolli sembra un brav’ uomo. Era appena rientrato in Italia dopo 22 anni di esilio, aveva fondato a Livorno una scuola di commercio e di lingue, ma il non avervi “voluto insegnare, né far insegnare quel maledetto catechismo … era stata causa della perdita di tutti i suoi scolari”. Si contentava ora di un qualsiasi posto di “magazziniere” in qualche branca della Stato, pur di avere un mezzo di sostentamento.

Trascorso qualche mese dall’elezione lo colpirono gli strali del professore Atanasio Bracci Gambini, che in una circolare a stampa lo accusò di aver provocato le dimissioni di Giugni e di Chambion da membri d’onore, di aver fatto per la Loggia abbonamenti a libri che poi tratteneva, di aver contratto debiti che non rimborsava, di aver introdotto donne ai lavori massonici e via dicendo. Essendo Tognocchi ex prete, spretato dal 1846, a Bracci Gambini sembrò di bollarlo duramente chiamandolo “confessore, presbiteriano e neo-pastore valdese” 18. Rieletto nel febbraio 1872, subito dopo il vecchio, irriducibile Anselmo Carpi gli rimproverò una gestione dispotica, avente per solo obiettivo l’adesione al Grande Oriente d’Italia. Il 16 marzo Tognocchi pronunciò un discorso sulla tomba di Mazzini, non sappiamo a quale titolo, considerato che di lui non vi sono tracce né nel Protocollo della Giovine Italia, né negli Scritti editi ed inediti. Qualche giorno prima l’ Oratore della Loggia, Gustavo Sevievi, reclamò perché il Venerabile aveva aperto i lavori senza la consueta convocazione “Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo”. Il 13 marzo Tognocchi scrisse a Frapolli di “aver dato le dimissioni, anche nella speranza che la Massoneria italiana si risollevasse”. Negli atti della Trionfo Ligure non abbiamo scorto alcun atteggiamento politico. La Amici Veri dei Virtuosi si arroccò invece sempre su posizioni moderate. Bisogna tuttavia tener presente il fatto che l’interlocutore con il quale assunsero questo atteggiamento, il G.O.F. era emanazione di un potere costituito. Il Gran Maestro Magnan era stato nominato per decreto dal Capo dello Stato, Napoleone III. L’ opportunismo può quindi aver giocato un ruolo rilevante per la conservazione di privilegi tanto accanitamente difesi.

Dalle fonti citate e da altre sparse abbiamo ricostruito un elenco parziale degli affiliati che frequentarono la Trionfo Ligure e la Amici Veri dei Virtuosi. Le due Logge avevano in comune la dislocazione in una città portuale, che ebbe un sicuro influsso sulla loro composizione. Per il resto ognuna possedeva caratteristiche distinte. Nel caso della prima, per 110 su 140fratelli abbiamo individuato le professioni: il 60% erano capitani di mare, il cui afflusso fu dunque inesauribile; seguono per il 25% i negozianti, mentre il residuo 10% è ripartito in una decina di categorie, una delle quali con un solo componente, I ‘ecclesiastico Domenico Migliarucci . La situazione della Amici Veri dei Virtuosi è più variegata. Dei 350 membri sui quali abbiamo fatto rilevamenti il 40% è costituito da negozianti.

 

 

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ITALO CALVINO E LA MASSONERIA

mercoledì 25 ottobre 2023

ITALO CALVINO E LA MASSONERIA

 

Nel fiume di pubblicazioni che stanno celebrando il centenario della nascita di Italo Calvino e che ne tratteggiano i molteplici aspetti della vita e della creazione letteraria non si trova quasi traccia del rapporto profondo che legò il grande scrittore alla Massoneria. Rapporto di cui si ritrovano tracce evidenti in tutta la sua opera a partire da un passaggio de “La strada di San Giovanni”, una sorta di bilancio che Calvino fa nel 1961 della sua giovinezza. Parlando dell’amore del padre per la campagna egli scrive:

 

“La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell’antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case”.

 

Frase rivelatrice del legame profondo che da sempre univa la sua famiglia alla Massoneria. Legame antico se nel 1874 fra i dieci fondatori della loggia “Liguria”, prima loggia del GOI a Sanremo risultano il nonno e lo zio dello scrittore, il medico e floricoltore GioBernardo Calvino e suo fratello GioBatta. Il 26 marzo 1900 la “Liguria” gemmava una nuova officina: la “Giuseppe Mazzini”. Fra i fondatori ritroviamo il nonno di Calvino, GioBernardo poco dopo raggiunto dai figli, Mario e Quirino, rispettivamente padre e zio di Italo.

 

In un articolo uscito l’anno precedente nel numero di settembre-dicembre della rivista “Il Paradosso”, Calvino aveva descritto con ricchezza di particolari l’ambiente culturale nel quale era cresciuto, sottolineando come la vita della famiglia fosse improntata a rigorosi principi etici di origine laica e repubblicana e come ciò comportasse una netta presa di distanza dal regime fascista allora all’apice del consenso:

 

“ La mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l’Italia d’allora: i miei genitori erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe all’opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista riformista, aveva vissuto nell’America Latina molti anni e non aveva conosciuto l’esperienza della Guerra mondiale; mia madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel ’15 ma con una tenace fede pacifista. Ritornati in Italia dopo anni all’estero mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano trovato un’Italia diversa, difficilmente comprensibile. Mio padre cercava senza fortuna di mettere al servizio del suo paese la sua competenza e la sua onestà (…) mia madre, sorella d’un professore universitario firmatario del manifesto Croce, era d’un antifascismo intransigente. Cosmopoliti entrambi per vocazione ed esperienze (…) Il fascismo s’inseriva in questo quadro come una via tra le tante, ma condotta da ignoranti e disonesti. La critica al fascismo nella mia famiglia, oltre che per la violenza, l’ingordigia, la soppressione della libertà di critica, l’aggressività in politica estera, si appuntava soprattutto su due peccati capitali: l’alleanza con la monarchia e la conciliazione col Vaticano (…) Da bambino sentendo i discorsi dei grandi a casa mia, ebbi sempre per ovvia l’impressione che in Italia andasse tutto per traverso”.

 

Date queste premesse non stupisce che in uno dei suoi primi scritti importanti, “La Riviera di Ponente”, suo esordio su “Il Politecnico” di Elio Vittorini, rivista centrale nel panorama culturale italiano di quegli anni, il giovane scrittore tracciasse nel novembre 1945 una sintetica ricostruzione del ruolo importante svolto dalla Massoneria in Liguria e più in generale in Italia, nel Risorgimento prima e nella costruzione dello Stato unitario poi:

 

“ Battuto Napoleone, nel 1814, i Savoia si trovarono padroni della regione. Come conseguenza si ebbe che, al Risorgimento, la borghesia ligure, tradizionalmente repubblicana, diede i suoi uomini migliori alla cospirazione ed alla lotta dei Mazzini e dei Garibaldi. Delle vecchie famiglie borghesi, chi non era bigotto e clericale era nei carbonari, o nei mazziniani, o nella Massoneria. La Massoneria soprattutto finì per raggruppare intorno a sé tutte le energie progressive dell’epoca e per temperar ogni slancio rivoluzionario: il repubblicanesimo diventò un puro sfogo verbale e la lotta si polarizzò sull’anticlericalismo. Così due forze dominarono la vita pubblica della Liguria di Ponente: la Chiesa e la Massoneria. E due furono i partiti che si contesero le amministrazioni: il conservatore (clericale e monarchico) e il socialista (sostenuto e temperato dalla Massoneria)…”.

 

A quell’epoca lo scrittore è fresco di militanza comunista, si era iscritto al partito nel 1944 durante la guerra partigiana, ma, nonostante la diffidenza se non l’ostilità del PCI verso la Massoneria, non esita a riconoscere l’importanza del ruolo svolto da questa nella storia d’Italia. E non è, come si potrebbe pensare, una semplice ripresa adattata al contesto ligure delle tesi gramsciane sul Risorgimento sviluppate nei “Quaderni del carcere”, di cui allora non si conosceva neppure l’esistenza visto che la casa editrice Einaudi ne iniziò la pubblicazione solo nel 1948, ma di una riflessione del tutto personale, acutissima nella sua sinteticità, derivante dalla conoscenza diretta frutto della sua personale esperienza dato che, come si è visto, le due storie, quella della Massoneria nel Ponente ligure alla fine dell’Ottocento e quella della famiglia Calvino, risultavano inestricabilmente connesse. Una conoscenza profonda della storia e dei riti massonici che riemergerà un decennio più tardi nel romanzo “Il barone rampante”.

 

“Il barone rampante”

 

Nel 1957 Calvino pubblica “Il barone rampante”, secondo capitolo de “I nostri antenati”, insieme a “Il visconte dimezzato” (1952) e “Il cavaliere inesistente” (1959). In questo romanzo, che abbraccia tutto il periodo della Rivoluzione francese iniziando nel ventennio immediatamente precedente e concludendosi in piena Restaurazione lo scrittore fa precisi riferimenti alla Massoneria. In particolare nel capitolo XXV che è interamente dedicato alla vita massonica non proprio ortodossa del protagonista e in cui si può leggere questa illuminante annotazione:

 

“Nella Massoneria Cosimo dunque non faceva che ripetere quel che già aveva fatto nelle altre società segrete o semisegrete cui aveva partecipato. E quando un certo Lord Liverpuck, mandato dalla Gran Loggia di Londra a visitare i confratelli del Continente, capitò a Ombrosa mentre era Maestro mio fratello, restò così scandalizzato dalla sua poca ortodossia che scrisse a Londra questa d’Ombrosa dover essere una nuova Massoneria di rito scozzese, pagata dagli Stuart per fare propaganda contro il trono degli Hannover, per la restaurazione giacobita”.

 

Per il lettore comune un periodo buttato là con nonchalance, come una annotazione fra le tante, ma per chi ha gli strumenti per comprenderne le implicazioni profonde, la testimonianza della conoscenza di prima mano che l’autore aveva delle cose massoniche, considerato che la cosiddetta massoneria dissidente “giacobita” è da sempre argomento per accademici e specialisti della materia e in quanto tale, non solo del tutto sconosciuto ai “profani”, ma spesso poco noto anche agli stessi appartenenti all’istituzione libero muratoria.

 

Tornando al “Il barone rampante”, il romanzo racconta la storia di un giovane aristocratico del Ponente ligure, Cosimo Piovasco di Rondò, che all’età di dodici anni, in seguito a un litigio con i genitori si arrampica su un albero del giardino di casa per non scendervi più per il resto della vita. Come via via raccontato dal fratello, voce narrante del romanzo, quell’atto di ribellione diventa una scelta di vita, un percorso di formazione e maturazione destinato a durare tutta la vita nel tentativo di passare dal caos del mondo a un ordine fondato sulla ragione e su una visione etica della vita. Il romanzo si chiude con un ultimo colpo di scena: ormai anziano, Cosimo non si arrende e non scende a terra, al passaggio di una mongolfiera, si aggrappa ad un cima penzolante e scompare nel cielo alla ricerca di nuovi superiori orizzonti.

 

Come si comprende fin dalle prima pagine quella di Cosimo non è una fuga dal mondo, né il rifiuto snobistico o capriccioso di mantenere rapporti con gli altri uomini. Cosimo non è un eremita. Fedele alla sua scelta di vita, Cosimo vive sugli alberi, ma continua a partecipare attivamente alla vita del suo tempo, tanto da interloquire idealmente anche con il grande Voltaire. Semplicemente, scrive Calvino, Cosimo ha compreso che “per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri”. Detto in altri termini, un’azione mirante ad un cambiamento in meglio del mondo e al “benessere dell’umanità” deve partire da un punto di osservazione esterno alle dispute ideologiche e personali, mantenendosi estranea ad ogni fanatismo. Esattamente quanto predicava negli anni in cui il romanzo è ambientato il massone Voltaire, in questo fedele interprete degli ideali su cui il giorno di San Giovanni Battista del 1717 era stata fondata a Londra, nei locali della taverna “L’oca e la graticola”, la Gran Loggia d’Inghilterra. E d’altronde la frase altro non è che una citazione del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte che nelle sue famose “Lezioni sulla Massoneria”, pubblicate nel 1802-1803, aveva affermato che solo «uscendo dalla società» e cercando di superare gli svantaggi di una «cultura unilaterale», si poteva diventare uomini veramente liberi e di buoni costumi come i massoni amano definirsi.

 

Figlio e nipote di massoni, Calvino non fu mai iniziato alla Massoneria, né per quello che se ne sa provò mai il desiderio di esserlo, forse proprio perché massone si sentiva già nel senso più profondo del termine e l’adesione formale sarebbe stata probabilmente fonte di delusione. Perché gli ideali camminano sulle gambe degli uomini che sono spesso terribilmente corte e di questo Calvino, che aveva appena rotto con il PCI, era pienamente consapevole. Di questa adesione ideale, che era anche – sia detto per inciso – riconciliazione con il padre e il suo percorso di vita – “Il barone rampante” resta testimonianza viva nel suo essere non solo romanzo filosofico, intriso di ironia alla maniera settecentesca, ma anche espressione in forma di favola dei fondamenti del pensiero massonico: l’iniziazione (l’abbandono della vita terrestre e la salita sugli alberi) come cambiamento di stato; la ricerca costante della verità non fine a sé stessa ma finalizzata al miglioramento della condizione umana; il Tempio (la chioma degli alberi) come luogo separato dal caos del mondo dove meditare sulla vita per raggiungere uno stato superiore di coscienza. E nel cielo stellato che sovrasta sia il bosco che il Tempio massonico, Cosimo sparisce a simboleggiare che la morte è solo un ulteriore passaggio di stato, proprio come lo è da sempre l’iniziazione ai Misteri.

 

Ne abbiamo già accennato: il momento in cui il romanzo viene scritto è estremamente significativo. Calvino è ad una svolta fondamentale della sua vita, analoga per importanza a quella operata nel 1944 quando era salito in montagna per unirsi alle Brigate Garibaldi e aveva chiesto l’iscrizione al Partito comunista. Una scelta etica più che ideologica: “Quando seppi – scrive in “Autobiografia politica giovanile” del 1960 – che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista, era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio 1944 chiesi a un amico comunista di entrare nel partito”.

 

Sono gli anni della crisi politica dello scrittore, della sua rottura con il Partito comunista e l’abbandono di una militanza politica intensa come conseguenza diretta del dramma dell’Ungheria e delle rivelazioni del XX Congresso del PCUS. Anche questa volta l’aspetto etico è predominante, risposta al fallimento di una fede salvifica rivelatasi fallace. “Il dio che è fallito” aveva non a caso titolato nel 1950 l’ex comunista Silone un suo libro importante che raccoglieva, oltre la sua, testimonianze di altri intellettuali che avevano vissuto gli stessi entusiasmi e la stessa disillusione. Per Calvino, che pure ci aveva creduto fortemente, il comunismo nella sua versione storicamente realizzata non rappresenta, come aveva utopicamente pensato Marx, la risposta finalmente trovata alla alienazione della condizione umana. Altra è la via. La rivoluzione è prima di tutto rivoluzione interiore, conoscenza e miglioramento di sé. Conquiste da riportare nel mondo, perché la vita degli uomini si regga su quei principi di armonia (libertà, eguaglianza, fratellanza) che lo scrittore aveva appreso a conoscere e ad amare in famiglia a contatto con il padre e lo zio e nel ricordo del nonno, combattente alla presa di Porta Pia nel 1870. Per essere con gli altri veramente, la sola via è essere separato dagli altri, afferma Calvino. Proprio quello che aveva scritto centocinquanta anni prima Fichte e che rappresenta l’essenza di quel “segreto” massonico su cui tanto si è scritto a sproposito. Una scelta che i “profani” spesso non comprendono, vedendo in questa voluta separazione dal vociare confuso e caotico del mondo la prova di chissà quali oscure e inconfessabili manovre, ma che rende la Massoneria scuola di vita e non partito o sorta di religione come qualcuno vuole dipingerla per meglio combatterla.

 

Sarà da queste esperienza traumatica ma illuminante che nasceranno le riflessioni contenute in un altro scritto autobiografico di Calvino, quel già citato “La strada di san Giovanni” in cui nel 1961 lo scrittore ricostruisce il rapporto con il padre negli anni dell’adolescenza.

 

“La strada di San Giovanni”

 

Nella Strada di San Giovanni Calvino contrappone l’universo del padre, Mario, agronomo e floricoltore di fama internazionale, al proprio di adolescente inquieto:

 

“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra, nella regione un tempo detta «punta di Francia», a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza Colombo li a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte (sapete i beudi, che derivano le acque dei torrenti per irrigare i terreni della costa: un canaletto a ridosso d’un muro, fiancheggiato da uno stretto marciapiede di lastre di pietra, tutto in piano) e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di vigne e il verde.

 

Era sempre di là che usciva mio padre, vestito alla cacciatora, coi gambali, e si sentiva il passo delle scarpe chiodate per il beudo, e lo scampanellio d’ottone del cane, e il cigolare del cancelletto che dava nella strada di San Pietro. Per mio padre il mondo era di là in su che cominciava, e l’altra parte del mondo, quella di giù, era solo un’appendice, talvolta necessaria per cose da sbrigare, ma estranea e insignificante, da attraversare a lunghi passi quasi in fuga, senza girare gli occhi intorno. Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le città possibili”.

 

Il paesaggio come punto di partenza per definire un percorso umano, una identità, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e significato alla vita il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell’occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell’animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il paesaggio deve poter essere introiettato, in qualche modo vissuto, fatto proprio. E proprio a questo serve la vita vissuta come ricerca di sé: a dare senso e significato al caos che ci circonda, alla apparente irrazionalità e casualità dell’esistere. “Ordo ab chao” il motto del Rito Scozzese Antico e Accettato in cui Mario Calvino aveva raggiunto il 33° grado, ma anche la conclusione a cui giunge Italo e che lo riconcilia idealmente con il padre nel riconoscere che, anche se in forme diverse, la strada cercata era stata la stessa:

 

“Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch’io, cos’era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d’un’altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l’ombra d’una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l’eco di un’eco di un’eco”.

 

Attraversare lo schermo del cinematografo, voltare pagina alla ricerca di un altrove dove le parole abbiano sostanza e non siano l’eco di altri echi, scrive Calvino. E questo per scoprire la propria individualità, il proprio essere autentico. Sono i motivi per cui si bussa alla porta del Tempio, per cui si cerca la Luce. Ed è questa ricerca che innerva la vita e l’opera letteraria di Italo Calvino a rendere lo scrittore un Massone non iniziato, un Massone nel cuore.

 

Savona – Ottobre 2023

 

Pubblicato da Vento largo alle 18:53

Etichette: Giorgio Amico, Italo Calvino, Massoneria

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