PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI
NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo. Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere». Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da
Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in
cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i
nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla
lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio
di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli:
Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal
comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità
il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni,
conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse
scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di
Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.
Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al
quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di
filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli
spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel
Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che
seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento
rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe
Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la
vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa,
come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I
‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le
classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la
nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia
arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto
con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò
la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli
Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle
madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e
dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta
botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato
“Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato
dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi
approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane
invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel
1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come
molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una
nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim
villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”.
Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari
Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in
solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è
sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S.
Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il
Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni,
malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina
Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale,
vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava
intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo
la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita
privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri,
pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un
cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27
Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità
di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza
entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV
che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del
baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale.
In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la
libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio,
simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera
nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te
Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia
religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della
diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la
divina benedizione sulla Repubblica; che all ‘orazione
“pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che
gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa
di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si
recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don
Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per
questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca
dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di
Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I
‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece
dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don
Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi
di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS.
Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione
intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli
“lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per
riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo,
per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti
da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i
quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo
tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica
il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel
carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala
che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder
soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte
le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII,
pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di
sangue”. Il 14 marzo del
1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del
mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei
Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e
con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi
lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione
riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici:
“Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del
Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le
parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella
prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S.
Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di
Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio
sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu
venduto.
Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto
Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi
mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità
oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la
repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un
traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato
un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui
avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900,
centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere,
nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran
caffè.
L’attualità
dei valori del 1799
Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente
perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o
suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di
esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la
conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di
ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la
città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è
vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è
altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose,
la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799,
tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca
della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire
in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come
“Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale
interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo
di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte
questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono
Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio
attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione
naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta
metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro
Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal
grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla
Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all
‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie
nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.
A Napoli si curò di tracciare i
caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza
della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed
apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande
entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del
regno accorrevano a Napoli a studiare:
* come medici, tra questi l’Arcucci ed il
più famoso Domenico Cirillo;
* come allievi della scuola militare
della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale
Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e
anche questo potrebbe oggi avere un significato;
*come giuristi, sotto la guida del grande
Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di
economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in
latino.
E ciò mentre la città di Napoli
viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa
500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘
La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della
società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da
Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la
descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno,
in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e
sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a
certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare
E’ stato detto che le
rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del
divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni
qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione
precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu
ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla
comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I
‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella
repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:
Gaetano
Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva
Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione
degli Stati Uniti d’America.
le
leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri
dell ‘ordinamento giuridico italiano;
lo stesso spirito del 1799 aleggia nei
deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in
Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che
assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.
Questi passaggi non sono la
democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali
“naturalmente” vi si arriva.
I legislatori del 1799 si posero
l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e,
principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si
cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari
durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante
I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni
uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!
Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido
tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del
secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il
moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di
Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale
mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica
del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori
a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i
tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché
quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali
europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne
studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini
alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione,
anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti
l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi
intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre
dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva
a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel
Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che
quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè
nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce
gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato,
sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare
Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli
uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e
non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata
a Napoli “regina santa”, per offrirlo
ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una
rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i
Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia,
ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba
tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di
governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica
che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo
il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la
primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino
del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di
credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra
naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza
“conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa
metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal
“neolitico” allo “psicozoico” è possibile il
“saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più
storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida,
quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della
morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia
del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di
condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della
storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli
spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle
dei fatti e dell ‘economia.•
FERRO – In
astrologia questo metallo è considerato, insieme al plutonio favorevole ai nati
sotto il segno dello Scorpione. Anche per i nati sotto il segno dell ‘Ariete,
il ferro è considerato il metallo favorevole.
UNICORNO UMANO –
Nel 1598 Enrico IV vinse una forte somma ad un gentiluomo francese con il quale
aveva scommesso sull ‘ esistenza o meno di un “unicorno” con le
sembianze di un uomo. Per vincere questa scommessa, il sovrano non esitò a far
conficcare un corno ricurvo nella fronte di un uomo, il quale morì fra i più
atroci tormenti pochi giorni dopo essere stato mostrato al gentiluomo.
GESÙ CRISTO –
Secondo il professore Roger Rusk, dell ‘Università del Tennessee, Gesù Cristo
venne crocifisso il 6 aprile dell’anno 30 d.c., di giovedì e non di venerdì
come sino ad ora si pensava. Al contrario della tradizione ecclesiastica,
secondo cui si ritiene che Gesù Cristo sia rimasto nel sepolcro per sole 36
ore, il prof. Rusk è convinto che il Nazareno sia rimasto invece tre giorni interi,
come aveva predetto. Lo studioso americano ha ricalcolato le date relative alla
passione di Cristo, servendosi di un cervello elettronico e delle tavole delle
fasi lunari dal 1001 a.C. al 1651 d.c., recentemente compilate dal cervello
elettronico dell ‘Institute of Advanced Studies di Princeton.
Proprio i movimenti della luna di quel tempo, così come sono
stati stabiliti dal calcolatore di Princeton, hanno convinto lo studioso che la
crocifissione avvenne il giovedì. Rusk afferma infatti di essersi attenuto alle
sequenze precise delle lune nuove, rigorosamente seguite per il calcolo delle
date nella Giudea di quel tempo. In considerazione del fatto che Cristo morì
sulla croce nel pomeriggio precedente il tramonto con cui aveva inizio la
celebrazione dell ‘ esodo dall’Egitto, cioè la “pasqua ebraica “,
qualsiasi tentativo di attribuire una datazione a tale evento, deve tener conto
di questa indicazione, che dipende a sua volta dalla fase lunare.
Dopo aver effettuato i calcoli relativi, non v’è dubbio che
il 30 d.c. è l’unico anno plausibile in cui le coordinate relative indicano il
giovedì, come giorno della crocifissione.
MONISMO –
Qualsiasi dottrina che metta alla base delle realtà un principio unico, che può
essere immateriale (monismo idealistico) o materiale (monismo materialistico).
Oggi, parlando di monismo, s ‘ intende soprattutto quello postulato dalla
scienza ufficiale, che considera la realtà fondata sulla materia o energia e
sulle leggi fisiche.
METAPSICORRAGIA
METACINETICA – P. Thomas Bret, nel 1948, ha indicato con questa definizione
il fenomeno di lacrime o sangue fluenti da immagini di Madonne o di Cristi
crocifissi.
RISONANZA – Teoria
ipotizzata dall ‘italiano C. Calligaris e dall ‘inglese N. Marchall per
spiegare i fenomeni di telepatia. Secondo i due studiosi, emissioni di onde di
una data lunghezza, da parte di un cervello umano, potrebbero risuonare in un
altro cervello amne così come una nota musicale emessa da un violino fa
risuonare la corda corrispondente in altro violino.
IL PAPPAGALLO POLL – Il Dott. J. A. Watson, uno studioso
ricercatore di animali intelligenti, tra i tanti casi analizzati cita quello di
Poll. Il pappagallo è, tra gli animali, il solo che siamo abituati a sentir
parlare. Esso si limita, tuttavia, a ripetere abitualmente le parole che ha
sentito, e che sono generalmente sempre le stesse.
Egli racconta che Poll riproduceva una risata assolutamente
inimitabile e talmente coinvolgente che era impossibile non esserne coinvolti,
soprattutto quando il pappagallo, tra i suoi scoppi di risa, gridava: “Non
fatemi ridere così, mi fate morire…”. E subito dopo riprendeva a ridere
sonoramente.
Allorquando qualcuno tossiva, a volte diceva: ” Che
brutto raffreddore”. Un giorno, dei ragazzi tentarono di ripetere in
maniera approssimativa quel che Poll aveva detto. Ad un certo punto, il
pappagallo alzò la testa e disse in maniera chiara ed inequivocabile: “Non
ho detto questo”. Quando, a volte cantando, emetteva una nota sbagliata,
esclamava: “Oh, là,
Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da
Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in
cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i
nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla
lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio
di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli:
Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal
comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità
il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni,
conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse
scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di
Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.
Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al
quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di
filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli
spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel
Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che
seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento
rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe
Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la
vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa,
come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I
‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le
classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la
nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia
arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto
con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò
la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli
Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle
madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e
dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta
botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato
“Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato
dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi
approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane
invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel
1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come
molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una
nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim
villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”.
Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari
Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in
solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è
sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S.
Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il
Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni,
malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina
Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale,
vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava
intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo
la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita
privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri,
pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un
cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27
Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità
di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza
entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV
che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del
baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale.
In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la
libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio,
simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera
nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te
Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia
religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della
diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la
divina benedizione sulla Repubblica; che all ‘orazione
“pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che
gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa
di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si
recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don
Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per
questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca
dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di
Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I
‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece
dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don
Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi
di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS.
Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione
intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli
“lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per
riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo,
per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti
da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i
quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo
tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica
il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel
carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala
che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder
soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte
le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII,
pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di
sangue”. Il 14 marzo del
1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del
mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei
Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e
con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi
lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione
riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici:
“Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del
Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le
parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella
prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S.
Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di
Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio
sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu
venduto.
Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto
Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi
mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità
oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la
repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un
traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato
un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui
avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900,
centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere,
nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran
caffè.
L’attualità
dei valori del 1799
Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente
perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o
suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di
esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la
conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di
ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la
città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è
vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è
altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose,
la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799,
tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca
della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire
in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come
“Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale
interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo
di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte
questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono
Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio
attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione
naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta
metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro
Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal
grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla
Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all
‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie
nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.
A Napoli si curò di tracciare i
caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza
della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed
apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande
entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del
regno accorrevano a Napoli a studiare:
* come medici, tra questi l’Arcucci ed il
più famoso Domenico Cirillo;
* come allievi della scuola militare
della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale
Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e
anche questo potrebbe oggi avere un significato;
*come giuristi, sotto la guida del grande
Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di
economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in
latino.
E ciò mentre la città di Napoli
viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa
500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘
La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della
società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da
Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la
descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno,
in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e
sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a
certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare
E’ stato detto che le
rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del
divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni
qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione
precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu
ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla
comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I
‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella
repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:
Gaetano
Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva
Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione
degli Stati Uniti d’America.
le
leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri
dell ‘ordinamento giuridico italiano;
lo stesso spirito del 1799 aleggia nei
deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in
Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che
assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.
Questi passaggi non sono la
democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali
“naturalmente” vi si arriva.
I legislatori del 1799 si posero
l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e,
principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si
cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari
durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante
I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni
uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!
Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido
tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del
secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il
moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di
Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale
mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica
del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori
a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i
tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché
quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali
europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne
studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini
alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione,
anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti
l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi
intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre
dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva
a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel
Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che
quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè
nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce
gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato,
sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare
Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli
uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e
non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata
a Napoli “regina santa”, per offrirlo
ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una
rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i
Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia,
ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba
tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di
governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica
che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo
il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la
primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino
del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di
credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra
naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza
“conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa
metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal
“neolitico” allo “psicozoico” è possibile il
“saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più
storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida,
quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della
morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia
del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di
condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della
storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli
spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle
dei fatti e dell ‘economia.•
Itinerario
artistico iniziatico per l’anima degli uomini ovvero l’Amen delle stelle
Armando Rossi
Loggia
di Ricerca Arte e Architettura: Antonello da Messina
Permettetemi, anzitutto, di indirizzare la vostra attenzione sulla forma della Loggia: un
parallelepipedo di lunghezza da E ad O, di larghezza da N a S, di
ampiezza dalla superficie della terra al suo centro e alto come il cielo.
Dalla spiegazione della tavola di tracciamento
di I° grado
Ciò che è
in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso
per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da
una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa
unica mediante adattamento. Dalla tavola smeraldina
Incipit
L’uomo come misura di tutte le cose, l’uomo come centro
saliente di ogni pensiero e di ogni arte,
ma anche l’uomo travolto dalle Moire, dalle proprie passioni.
Esiste una
nozione di uomo che connetta strettamente la sua natura al vasto e molteplice
mondo delle divinità?
Anthropos, nel suo etimo, racconta l’immagine umana nella peculiarità
di volgere gli occhi insù. L’uomo è quell’essere che, a differenza di bestiacce
e bestiole, intrattiene con le stelle un legame di privilegio, l’uomo è
quell’essere che studia, comprende e apprende le stelle e discerne lo zodiaco
dalle costellazioni, distingue il giorno dalla notte e sa che il cielo stellato
non svanisce col sole ma li rimane e il non vederlo è solo un suo limite fisico
ma non mentale.
Ciò che è si vede anche quando non è palese, chi ha occhi
per vedere, veda e comprenda e sia da guida per chi non crede solo perché non
riesce a vedere.
Ante factum
“Quando
scoppiano i fuochi d’artificio: nessuno guarda il cielo stellato!”
Lo diceva un signore avanti con l’età a voce un po’
elevata, che stava dietro di me, per farsi sentire dal suo vicino, il quale
ricordo annuì quasi per compiacenza. Mi ricordo però che io staccai lo sguardo
dai brillanti colori dei fuochi artificiali che in quell’attimo (e solo per
quell’attimo!) vivevano e guardai
più in alto. E un’emozione più intima mi invase. Respirai
profondamente…
Un cielo stellato che il nostro emisfero boreale talvolta
ci regala in visione nel mese di luglio era là: monotono, perenne,
instancabile, insensibile al richiamo di quei poveri ed insulsi colori
spumeggianti dei fuochi artificiali ed artificiosi.
Una metafora. Una metafora di me, una
metafora del mondo profano?
La Massoneria è quell’arte che insegna a staccare lo sguardo dall’estemporaneità
della fenomenologia attuale ed istantanea, estemporaneità che forse –
può produrre fallaci momenti di finta emozione che proprio come fuochi
artificiali durano un attimo e non più, senza lasciare segno di sé un momento
dopo.
E’ necessario imparare a staccare lo sguardo per volgerlo
al cielo stellato. Quei cieli stellati che Vincent Van Gogh ha magistralmente
dipinto rendendoci partecipi dei vortici d’aria che lo formano. Lui pittore
complesso e sempre al limite della follia ci permette di cogliere l’invisibile,
l’aria che sposta le masse e forma
le tonalità dei colori.
E se la notte scende, le stelle, si sa, risplendono
ugualmente e illuminano il cammino. Il cielo stellato, archetipo junghiano che
in maniera litografica impresse
l’anima dei primi uomini, avvia ed induce ad una filosofia concettuale
secondo la quale l’identità tra cosmo e uomo è esperienza di vita e Dio è
“sentito” come uno spirito che sa rivelare armonia cosmogonica nel
“solenne silenzio del cielo stellato”. Tale equazione risulta essere
addirittura un “fatto scontato” in Goethe.
Una legge geometrica in cui tutto è armonia
Il cielo azzurro, o blu, con tante stelle che lo
impreziosiscono corre da Oriente a Occidente e da Settentrione verso Meridione,
uguale da milioni di anni. Il Cielo stellato accomuna le civiltà precolombiane
a quelle della Mesopotamia, accomuna i Fenici ai Sumeri, ai Cinesi, ai
Tehuelche. Il Cielo stellato è comune per gli Induisti e per i Cristiani,
unisce i Mussulmani ai Veda. Sempre!
E dalle Colonne lo possiamo sempre ammirare. Il Tempio è
incompiuto, volutamente, poiché il lavoro massonico è infinitamente
perfettibile, ma non raggiungerà mai la perfezione. La raggiunge solo là:
all’infinito! Il cielo stellato è il tetto naturale del Tempio di Salomone e
comunica al Libero Muratore l’infinitezza del creato e lo esorta verso una
spiritualità elevata a cui occorre tendere. A cui occorre aspirare.
Anche
nell’io dell’Apprendista? Mi chiedo.
L’Apprendista non sa, ma vuol sapere. L’Apprendista
quella sera del mese di luglio comprese come il cielo stellato è stato, è, e
sarà, un segno, un simbolo che indirizzerà la via e la sua vita. Kant nella
conclusione della Critica della Ragion Pratica scrisse: “Due cose
riempiono l’animo di ammirazione e venerazione, sempre nuove e crescenti, e
quanto più spesso e a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale
dentro di me”
Corpus
Nell’antichità il termine “Tempio” ha
significato un recinto, una delimitazione[1]una porzione del cielo, o un luogo delimitato da cui osservare la volta
stellata, posto tra cielo e terra, tra macro e microcosmo, tra finito e
infinito, il Tempio diviene il luogo privilegiato della riflessione, della
elevazione spirituale.
Ciò che del cielo attraeva l’uomo erano principalmente le stelle, quelle
luci in mezzo al buio che sorprendevano
e stupivano, e che per millenni hanno costituito la mappa unica e sicura
per coloro che percorrevano il mondo per terra e per mare, per chi come i marinai cercavano la rotta per la nuova
terra o per il ritorno verso casa (se questo era il loro desiderio) o per chi,
come i Re Magi, seguivano la stella per trovare un essere divino. Ancora oggi
si guarda alle stelle, profanamente,
perché ci suggeriscano la giusta rotta da seguire.
Il cielo stellato ha sempre rappresentato l’emblema
dell’infinito. . La sua rappresentazione nelle opere architettoniche ne
ha costituito un limite indefinito che permetteva a chi entrava di sentirsi un unicum
con l’universo.
Emblematici i cieli stellati del Mausoleo di Galla
Placidia a Ravenna o quelli nella tomba della regina Nefertariin
Egitto nella valle delle Regine.
Proprio quest’ultima rappresentazione può considerarsi la
più antica volta celeste della storia.
l’origine delle parlate diffusesi in una consistente
parte dell’Europa, dell’India e
dell’altopiano iranico, nonché di alcune regioni dell’Anatolia,
dell’Asia centrale e della Cina occidentale.
Si tratta di una struttura ipogea ricoperta da più di
3500 mq di dipinti che illustrano il viaggio nell’aldilà di Nefertari. Tutto il
soffitto è un intero cielo stellato di un intenso blu scuro.
.
Si tratta di un aspetto molto affascinante in quanto la
stella a 5 punte è la raffigurazione del pentagramma, della stella pitagorica
ed è la figura geometrica costruita sulla base della sezione aurea, proporzione
e dimensione già nota agli Egizi.
Queste distese di stelle, generalmente, non hanno
riferimenti astronomici ma in alcuni casi gli astri sono raffigurati in modo
tale da far pensare a delle vere e proprie mappe stellari.
Le rappresentazioni più antiche di mappe stellari sono in
Europa senza dubbio i frammenti rinvenuti nei Templi megalitici di Malta 3.600
a.C. ed il manufatto noto come Disco di Nebra, rinvenuto in Germania quindici
anni fa ma risalente a non più tardi del 1.600 a.C.
Nel corso dell’arte classica è difficile trovare grandi
esempi di cieli stellati. Qualche frammento fittile di epoca greca mostra il
Dio Eosforo che porta la luce del mattino accompagnato da qualche sporadica
stella (raffigurata in questo caso con sedici raggi).
Il cielo stellato interamente a coprire la volta interna
lo ritroviamo significativamente a Padova, in un altro scrigno pieno di colore
e bellezza. È la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto intorno al 1300
con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
Qui la volta a botte è interamente dipinta di blu
oltremare, colore associato alla sapienza divina e ottenuto con preziosa
polvere di lapislazzuli,
San Gimignano
mentre le stelle dorate ad otto punte sono leggermente in
rilievo rispetto alla superficie della volta.
Quello degli Scrovegni non è un caso isolato. Nel basso
Medioevo, infatti, so no molte le chiese con volte dipinte a cielo stellato
(basta ricordare le crociere della Basilica superiore di San Francesco ad
Assisi, o quelle della cattedrale di Siena o del Duomo di San Gimignano).
Nello stresso periodo si possono trovare esempi anche
fuori dall’Italia, come nella tardogotica cappella di San Biagio nella
Cattedrale di Toledo o nella coeva chiesa di Santa Maria a Cracovia.
Il cielo stellato nelle chiese va ben oltre il mero
significato della volta celeste, esso idealizza, come studio
“scientifico” e speculazione filosofica, il cielo dei giusti e dei
santi. Proprio l’enfasi religiosa ha determinato la diffusa credenza che il
cielo sia sede di esseri superiori che, guardando verso il basso, trovavano
divertimento nell’osservare la vita e le gesta dei deboli abitanti della Terra.
Prima del Cristianesimo solo gli uomini migliori ovvero
gli “eroi” erano degni dell’interesse divino ed alcuni, per la loro
prodezza in battaglia o per un ‘altra non comune qualità, venivano addirittura
divinizzati, quali semi-dei.
È chiaro quindi come la sede celeste sia sempre stata
considerata simbolo di ciò che vi è di superiore, essendo riservata normalmente
ad esseri divini e, solo saltuariamente, a quei rari uomini che avessero
dimostrato qualità eccezionali per nascita o, più raramente, per libera scelta.
La volta stellata rappresenta l’incomprensibile,
l’infinito e, non ultima, la speranza in un futuro migliore, immateriale, una
dimensione che liberi l’umanità dalla sofferenza della vita terrena, meglio se
per l’eternità: un luogo in cui lo spirito possa riscaldarsi attraverso
l’irraggiamento diretto della fonte di “luce” primigenia[2].
Della fine del Quattrocento è la testimonianza di un
altro cielo stellato sulla volta di una cappella. Ma la notizia, stavolta, è
quella della sua scomparsa, ovvero all’affresco di Piermatteo d’Amelia che
ricopriva il soffitto della Sistina prima dell’intervento di Michelangelo.
Pochi anni dopo, nella seconda metà del Cinquecento un
altro splendido soffitto stellato posto a copertura della Cappella Reale di
Hampton Court, uno dei palazzi reali eretti da Enrico VIII in Inghilterra.
Secondo lo stile dell’epoca si tratta di particolare due opere che compone.
“Quatour por la fin du temps” e “Le visioni dell’Amen”.
I colori che Messiaen trasfigura nei suoni – quello
sfolgorante arcobaleno sulla testa del settimo Angelo, le colonne di fuoco, il
blu del mare, il verde della terra, e tutti gli altri colori dell’Apocalisse –
appaiono vividi e smaglianti nei sogni dell’autore. I colori diventavano suoni
e i suoni si coloravano di blu e arancio, di limpida luce stellare. Un
suono definito da tutti limpido come un cielo stellato. E il silenzio – grande
solenne che segue l’apertura del settimo sigillo – non rappresenta tanto un’eco
dilatata degli ambigui e oscuri silenzi del cielo notturno, quanto il sogno di
una quiete inesprimibile.
Il cielo stellato come metafora dell’attesa del giudizio
per tutti
gli esseri viventi, da contemplare, da rispettare, da
osservare e cercare di comprendere. Chissà. Forse possiamo anche noi oggi
provare a capire che cosa significa Apocalisse, come ha fatto Olivier Messiaen
e dalla visione privilegiata del cielo stellato del Tempio Massonico possiamo
trarne un insegnamento per il nostro tempo e per la crescita di ognuno. Non a
caso nella composizione della Visioni dell’Amen [3][4]dopo l’Amen della creazione, segue l’Amen delle stelle, per chiudere con
l’Amen del Giudizio e l’Amen della Consumazione.
Ma se l’arte ha saputo nella storia interpretare ed
utilizzare il cielo stellato per le proprie esigenze queste non hanno mai
contribuito in forma diretta ad una ritualità, ad una liturgia. Il Cielo
stellato ha costituito un “naturale e semplice” collegamento tra la
terra (luogo degli uomini) e l’infinito (luogo della divinità) e da tutti
ampiamente e pienamente utilizzato, come abbiamo potuto vedere.
Da questa semplice e non esaustiva carrellata di esempi
(gli esempi non sono mai abbastanza) emerge però un singolare e importante
dato: il cielo stellato non è il punto di arrivo ma un mezzo attraverso il
quale sia possibile raggiungere la divinità. Il cielo stellato non come meta ma
come filtro, come elemento mediale in un sistema di rapporti tra uomo e sua
trascendenza.
Che sia esso particolarmente dettagliato o semplicemente
sfumato, semplice o prezioso nei materiali esso non “contiene” mai la
divinità ma la “vela”, la cela e la contorna.
L’uomo dovrà attraverso la sua conoscenza mediare tra
terra e divinità attraverso il cielo come metafora di ascesa. Verso il cielo il
bene, al suo opposto il male.
Terra come elemento di mediazione con gli lnferi, cielo come elemento
di mediazione con il Divino.
Quale rapporto
esiste allora tra l’uomo e il cielo? È il medesimo che esiste tra l’uomo e la
terra?
Corpus Massonico
Se il rapporto con il cielo è verso l’alto quello con la
terra è verso il basso è il caso di ricordare uno dei due incipit del presente
lavoro:
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è
in alto è come ciò che è in basso
Il Tempio massonico
è la peculiare rappresentazione di quanto scritto nella tavola smeraldina, non
per mera definizione e attribuzione ma per specifico sistema.
La ritualità si
svolge sopra un pavimento a scacchi e sotto la volta celeste e da questi due
elementi è “contenuta”.
Il Tempio dei
liberi muratori è trasposizione simbolica di un tempio ipetrale[5],
cioè un tempio a cielo aperto. È noto che in antico le riunioni massoniche
avvenissero en plein air. Perciò nel soffitto delle officine si apre un
riquadro rettangolare (affrescato) che simula la volta celeste trapuntata di
stelle.
21 x 29,7 cm, 2007, Éditions Durand
L’uomo ha da sempre
levato al cielo, con primordiale stupore, il proprio sguardo interrogativo. Il
Dante esoterico, summa della sapienza medioevale e fedele d’amore, fa sì che
ciascuna delle tre cantiche della Commedia termini menzionando le stelle: e
quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno)
/ puro e disposto a
salir alle stelle (Purgatorio) l’amor
che move il sole e l’altre stelle (Paradiso)
Alla luce di alcune
definizioni che abbiamo potuto percepire nell’excursus artistico possiamo
affermare che l’uomo ha il dovere morale di tendere verso l’alto e quando
questo viene meno la mediazione con la terra è “governata” dal
pavimento a scacchi che concede, ricorda e riallinea chi lo percorre
permettendo di riprendere il giusto equilibrio, mentre la mediazione verso
l’alto è “governa” dal cielo stellato ovvero un “velo” o
filtro rispetto alla Divinità alla quale tendiamo elevandoci attraverso la
scala di Giacobbe che percorriamo esercitando le virtù su di esse adagiate e
che incontriamo nel nostro cammino.
Il Tempio Massonico non è una porzione da cui osservare
l’universo ma è l’intero Cosmo, uno spazio aperto che non ha pareti, ma essendo
esso stesso Cosmo è impossibile delinearne le dimensioni e ovviamente è
impossibile definirne le “visioni”. Questa o quell’altra costellazione
sono semplice scelte poiché la volta celeste è simbolicamente rappresentata ma
non definibile.
Il cielo stellato prescinde da ciò che in esso è
rappresentato.
A Gerusalemme, in una caldissima sera d’agosto poco prima
dell’avvento del Messia…
“Il
“Gadol Cohen ” si svegliò presto quella notte e volle riguardare
ancora una volta quello spettacolo nel cielo che già aveva ammirato la sera
prima. Uscì dall”‘Ulam ” del Tempio, in quell’afosa serata estiva,
scandita dalle folate di un vento caldo, passando accanto alle colonne
“Boaz” e “Jachin”. Uscì sulla spianata del Tempio ed il suo
sguardo, dopo aver superato, alla sua sinistra, lo “lam Mutzach ”
si diresse verso il cielo, con un moto di devoto rispetto,
‘tle-Qedem “.
Il sole sarebbe
sorto in quel punto soltanto 2 ore più tardi, ma qualche pallida luce iniziava
già ad annunciare timidamente l’alba. Lì, poco più in alto della linea
dell’orizzonte, si posò il suo sguardo, su quel punto del cielo chiamato dagli
astronomi del suo paese “Sartan “. Quasi al centro di questo settore,
gli avevano insegnato, c’era un punto divino, davvero importante per tutti loro
e per il Creatore.
Era un piccolo e ristretto
agglomerato grigio di stelle, dalla luce fioca e lontana, chiamato
“SharAischim ” Era quasi un punto, gli aveva spiegato il suo vecchio
maestro rabbi, in cui la volta celeste era più sottile e le anime degli uomini
scendevano tutti i sette cieli, provenienti dal “Magazzino delle
Anime”, per incarnarsi nei loro corpi, seguendo i dettami della “Shevirat
Ha-Kelim “, soltanto per volere del Creatore oppure risalivano lungo la
scala di Giacobbe, secondo principi e virtù.
Due piccole fioche
stelline20 erano poste ai lati della ‘Porta”, una un po’ a nord
e l’altra un po’ più a sud, quasi a sorvegliarne e custodirne con rispetto il
sacro accesso. Con umiltà pensò che anche la sua anima avesse fatto un giorno
quello stesso tragitto, ed i suoi occhi brillarono di commozione, ma ricordò
anche che, spesso, alcuni corpi celesti (Pianeti) vi finivano ‘dentro’ nel
corso dell’anno. E quello, per tutti loro, era sempre un grande momento per
onorare la magnificenza del Creatore. Anche quella sera stava succedendo quel
momento meraviglioso e davvero speciale: il rosso “Maadim ‘ era proprio
dentro alla “Porta”, ma c’era anche di più. La bianca “Nogah
” era posta un poco più a sud, ma davvero molto vicina alla “Shar
Aischim” ed a “Maadim” che vi stava dentro in quel momento.
Quello era un presagio nel cielo che sembrava fatto apposta per segnalare un
evento davvero speciale, da ricordare per tutti loro, e che era stato scritto
per sempre fra le stelle “
Il cielo stellato, tra tutti gli spettacoli della natura,
è quello che più è capace di scuoterci profondamente, stimolando la riflessione
sulla nostra natura e sul “senso” della nostra esistenza, il cielo
stellato è sentito come irraggiungibile, come ‘ultimo orizzonte” oltre al
quale, al pari della siepe dell’infinito di Leopardi, non possiamo avventurarci
se non con il pensiero. La sensazione di irraggiungibilità e di estensione
illimitata nello spazio e nel tempo, suscitata dalla visione del cielo stellato
genera in noi una mescolanza di sentimenti di ammirazione, per l’imponenza ed
immanenza del Cosmo, e contemporaneamente di angoscia, nel momento in cui
confrontiamo la nostra limitatezza con l’infinità del cielo. Il cielo è
riprodotto sulla volta del tempio che non è, appunto, un luogo delimitato ma è
l’intero cosmo nel cosmo.
La volta celeste posta sopra il Tempio, a prescindere dal
suo contenuto fisico o della costellazione in essa rappresentata rappresenta
anche un altro principio, spesso dimenticato della Massoneria, ovvero la
crescita personale di ognuno Massone e il suo miglioramento personale.
Così come ci ha ricordato il G.M. nella sua ultima
allocuzione[6]riportando la definizione di “religioso” delle scuole del
Vedânta e della dottrina religiosa del Giainism0 [7][8]per le quali la Religione non è altro che il rapporto personale con un
essere divino o trascendente a cui ci sottomettiamo e a cui rivolgiamo le
nostre preghiere, per ottenere vantaggi materiali, oppure illuminazione
spirituale, o morale e il cielo è universalmente il simbolo delle potenze
superiori all’uomo, benevole o temibili.
In antichità gli Auruspici Etruschi indicavano con la
presenza o assenza delle Stelle il «carattere» del Cielo, del Numinoso. In
presenza di Stelle il responso divino è benevolo, al contrario un Cielo
tempestoso rivela la collera divina.
Il cielo del Tempio
è stellato, dunque benevolo.
Il Cielo rappresenta tutto ciò che sovrasta l’uomo,
l’insondabile immensità, la sfera dei ritmi universali. Tutti gli esseri sono
prodotti dall’unione «coniugale» del Cielo con la Terra, del Padre Celeste con
la Madre Terra. In Egitto, però, curiosamente le polarità s’invertono. La dea
Nut è celeste, il dio Geb terrestre: dalla loro unione nascerà, il Sole.
Nelle religioni orientali come l’induismo, il taoismo e
lo shintoismo, il cielo stellato è spesso visto come un segno di una presenza
divina. In alcune tradizioni, le stelle sono associate a divinità specifiche e
il loro movimento è interpretato come un segno di volontà divina. Ad esempio,
nell’induismo, le stelle sono associate ai pianeti e il loro movimento è usato
per la previsione astrologica. Nel taoismo, il cielo stellato rappresenta la
totalità dell’universo e il suo ordine cosmico. Inoltre, nello shintoismo, le
stelle sono considerate una manifestazione della presenza divina in cielo.
Nelle tradizioni esoteriche e spirituali, il cielo
stellato ha un significato simbolico profondo. Ad esempio, nella Cabala ebraica,
le stelle rappresentano gli spiriti degli uomini giusti che hanno raggiunto la
purezza spirituale. Nell’alchimia, le stelle sono viste come rappresentazioni
dei diversi elementi e forze cosmiche che influenzano il mondo materiale.
Inoltre, nell’astrologia, le posizioni e gli allineamenti delle stelle al
momento della nascita di un individuo sono visti come influenti sulla sua vita
e il suo destino. In molte tradizioni spirituali, il cielo stellato viene anche
associato alla conoscenza divina e alla via verso l’illuminazione spirituale
Nell’Apocalisse il Cielo è la dimora di Dio; al
contrario, i Celti non pongono in Cielo la residenza degli Dei. Nella
cosmologia dei popoli uralo-altaici vi sono nove cieli, raffigurati attraverso
tacche incise sull’Albero del Mondo, la Betulla.
Nella mistica sufi, le stelle sono viste come simboli
dell’infinito e dell’eternità, e la contemplazione del cielo stellato viene
considerata un modo per avvicinarsi a Dio e alla verità divina.
Per gli Algonchini americani26 i cieli sono dodici;
mentre gli Aztechi parlavano di tredici cieli e nove mondi inferiori27.
L’espressione «Figlio del Cielo e della Terra» appartiene sia ai Misteri
Orfici, sia al Taoismo. Il Figlio del Cielo e della Terra è l’Imperatore (Wang)
come archetipo del Vero Uomo, dell’lniziato.
La disposizione della Loggia varia secondo i Riti ma
esistono regole assolutamente obbligatorie da osservare: la Loggia, di forma
rettangolare. rappresenta il cammino che conduce dall’Occidente all’Oriente,
cioè “verso la Luce”: il Trono del Venerabile all’Oriente, il suo
lato destro indica il Mezzogiorno, il lato sinistro il Settentrione. Il
soffitto rappresenta il cielo stellato. Infatti il Tempio simbolizza il Cosmo:
ecco perché pur conoscendone le “proporzioni” non esistono
“dimensioni”: la sua lunghezza va dall’Occidente all’Oriente, la sua
larghezza dal Settentrione al Meridione, la sua altezza dal Nadir allo Zenit.
La contemplazione del cielo stellato viene vista come un
modo per aumentare la consapevolezza di sé, per connettersi con la dimensione
cosmica e per raggiungere una comprensione più profonda della realtà.
Il Tempio o Loggia è un luogo aperto e questo è anche
fisicamente riscontrabile nella tavola di tracciamento di I grado dove non
esistono pareti o limiti fisici in nessuna direzione, limitato per essere
utilizzato in basso dal pavimento a scacchi e in alto dal cielo stellato.
Il cielo stellato rappresenta la divinità, la saggezza e
l’ordine cosmico e simboleggia la presenza divina nell’universo. Il cielo
stellato della Sala del Tempio costituisce sostanzialmente ad un invito a
raggiungere una comprensione più profonda della realtà e a cercare la verità.
Esso rappresenta la necessità di mantenere un ordine e una struttura nella
propria vita, come nel cosmo: le stelle rappresentano gli ideali e i valori che
i massoni cercano di perseguire nel loro cammino spirituale e nella vita quotidiana.
Quando una Loggia è impegnata nei lavori rituali questi vengono
svolti sotto un cielo stellato e testimonianza del rapporto trascendente che
esso ha con l’uomo. Questo rapporto è visto come un legame che supera la
dimensione materiale e che connette l’iniziato con una realtà più grande e
divina.
Nel platonismo, il cielo stellato rappresenta la
dimensione delle idee eterne e l’uomo è invitato a elevarsi verso di esso per
raggiungere una comprensione più profonda della realtà così come l’iniziato
avendo accesso agli “strumenti” può andare oltre il semplice sguardo
profano.
Nel neoplatonismo, il cielo stellato è visto come una
manifestazione della divinità e la contemplazione delle stelle è considerata un
modo per avvicinarsi a Dio, ragione per cui i nostri lavori si definiscono
“rituali” essendo la ritualità l’unica strada che conduce alla
Divinità.
Pur avendo visto le molte rappresentazioni nelle diverse
arti del cielo stellato possiamo concludere che esso è sempre e assolutamente
un riferimento esoterico e spirituale se posto come coronamento, sfondo o
completamento di gestualità rituali o luoghi significativamente
“rituali”. Il cielo stellato è sempre associato all’anima umana e
alla sua dimensione spirituale, e la contemplazione del cielo stellato è sempre
vista come un modo per raggiungere una comprensione più profonda di sé e della
realtà, per il Massone una perfetta via da percorrere, come un ideale
“Cammino di Santiago” lungo la Via Lattea.
La volta stellata è anche il simbolo dell’ideale di
fratellanza, ciascun fratello è avvolto dalla stessa volta celeste, uniti l’uno
all’altro dalle stesse luci e dallo stesso mistero, dallo stesso segreto; il
fratello di Loggia è uguale, per ideale di fratellanza, al fratello di un altro
differente luogo sulla terra, uguale al fratello di qualsiasi altra lingua
troppo lontano fisicamente per essere incontrato nella vita profana. Il cielo
della volta stellata del tempio, benché notturno, lo testimonia la presenza
delle stelle, non è nero ma turchese colore di un momento particolare del
giorno, quello dell’idea che, una volta infranto il velo della Notte, precede
l’Alba e il Sorgere del sole della fratellanza.
Non ha valore rituale, quindi, questa o quella
costellazione, il cielo stellato della Loggia, come in arte, non determina il
valore esoterico del Tempio. Non importa quale sia la sua rappresentazione e
cosa contenga – che rimane una libera scelta – ma l’importante è che ci sia
poiché è un “simbolo”!
L’Iniziato
che percorre la Via Iniziatica è in grado di ascendere al Cielo. Non si tratta
di ottenere la Salvezza con la fede, quanto di ascendere al Cielo, diventando
Divino.
[1] Dal termine
indoeuropeo Tem. Il sistema morfologico dell’indoeuropeo (così come
il sistema
fonologico e in genere tutta la grammatica di questa
lingua)
è una ricostruzione frutto del confronto tra le lingue indoeuropee di attestazione
più antica
e, in mancanza
di queste,
tra le
lingue moderne, ipotizzandone una origine comune. L’indoeuropeo è infatti
l’ipotetica protolingua preistorica ricostruita che si ritiene comunemente
essere
[2] Cfr. Michele
Galassi – La volta celeste, il paradigma ermetico
e la “coincidenza de lio osti” – Ma io 2015
[3] Parola ebraica
(‘âmën), passata anche in altre lingue semitiche (siriaco, etiopico, ecc.),
nelle versioni greche e latine del Vecchio Testamento e nei varî testi del
Nuovo. Deriva dalla radice semitica ‘mn col senso “sostenere, esser
saldo”, quindi “esser sicuro, certo, veritiero”
[5] Si chiama
così l’edificio, in particolare il tempio, privo di copertura nella parte
centrale. Nessun tempio conosciuto era esattamente del’ tipo descritto da
Vitruvio (III, 2) come ipetrale; vi si accostavano l’Olympieïon di Atene
e il tempio
di Apollo
a Selinunte.
cfr. A.
Choisy,
Vitruve, l, Parigi 1909, p. 165
[6] Cfr. Religione e
Sacro – Allocuzione nella Gran Loggia del 5 novembre 2022 Fabio Venzi
LA GRANDE
RELIGIOSITA’ DELL’EROE DEI DUE MONDI: IL SUO CREDO IN DIO, NEL VERO E NEL GIUSTO
di
Aldo Chiarle
GIUSEPPE GARIBALDI, INTOLLERANTE
Dl OGNI IMPOSTURA DEI PRETI “PESTE DELL
‘ITALIA
Ancora oggi pochi hanno la visione chiara della
religiosità alta e sublime di Giuseppe Garibaldi; la pubblicistica di dozzina
lo fa passare per antireligioso e negatore di Dio.
Nulla di più inesatto, perché della religiosità e di
Dio Giuseppe Garibaldi ha sempre fatto norma di vita. Annota l’eroe: “Chi
è Dio? E’ il regolatore del mondo. E’ quella intelligenza infinita la cui
esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia
che regge i corpi celesti disseminati, chiunque deve confessare”
“Come tutti gli esseri, io sono dotato di una
quantità di intelligenza e se l’intelligenza universale che anima tutto è Dio,
io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Divinità, sarei una parte e
questa idea mi nobilita, mi soddisfa fa qualcosa del mio nulla e contribuisce a
sollevarmi dalle miserie di questa vita.
“Io accenno, ma non insegno, poiché mi sento
troppo infinitamente nulla al cospetto dell’onnipotente per poterne ragionare.
Semplice bella e sublime è la religione del vero; essa è la Religione del
Cristo, poiché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’Eterna Verità. “Non
fare agli altri ciò che non vorreste per voi” e “Chi non ha
sbagliato, getti la prima pietra sul delinquente”. “Di fratellanza il
primo concetto e simbolo di perdono il secondo. Simboli, precetti, dottrine
che, radicati negli uomini, costituirebbero quel grado di perfezione e
prosperità a cui è suscettibile giungere”
Ma se era grande la religiosità di
Garibaldi, grande era la sua reazione contro le imposture religiose.
Il suo anticlericalismo non era di maniera, non era
vuota retorica ma era l’esplosione di un animo generoso, conscio della assoluta
inconciliabilità del prete con un domani migliore, ln cui il trionfo della
libertà e della giustizia spianasse il cammino all ‘illuminato progresso.
“E’ dovere di ogni italiano di combattere il
prete, peste dell’Italia”, egli scriveva il 25 agosto del 1868 e il I
gennaio 1889 scrive da Caprera ad un convegno di liberi pensatori, augurandosi
presto fosse cancellata “la cancrena sacerdotale che appesta il
paese”.
Agli organizzatori di un solenne comitato per
estendere a Roma e al Lazio la “Pressione delle corporazioni religiose,
così il generale nel 1870: “abolire le corporazioni religiose è salvare l’
Italia dalla rogna più pericolosa da cui possa essere colpita una nazione ..
.il sacerdozio è puntello di ogni tirannia mascherata… non istiamoci garruli
ed indolenti a contemplare cretinamente ciò che si trama a Roma per colpirci
col doppio gioco della menzogna e del furto”
E successivamente aderendo al
Congresso razionalista di Bruxelles proponeva i seguenti punti:
I liberi pensatori sono apostoli del vero, cioè della
ragione, della scienza, e però sono anche i migliori istitutori dei popoli e le
scuole debbono essere laiche.
I preti, a qualsiasi religione rivelata appartengono
(buddismo, maomettismo, cattolicismo, ecc.), sono falsi apostoli. Essi, gli
autori delle torture, dei roghi, dei sacrifici umani, sono i naturali nemici
delle nazioni, che hanno mantenuto e che mantengono sempre in sanguinose
discordie.
E pochi mesi prima della sua morte, quasi presago
della fine, Garibaldi scrisse due lettere, una ai messinesi e l’altra ai
palermitani e le volle scrivere di suo pugno.
Ai messinesi: “…ricordando il più grande
eroismo di popolo che registri la storia del mondo, il Vespro, vi rammenterò
soltanto che gli assassini dei nostri padri di quell’epoca furono mandati e
benedetti da un papa e che i successori di quell’infallibile scellerato hanno
venduto l’Italia settanta volte allo straniero e che oggi stesso stanno
trattando di venderla e non vi riescono per mancanza di mediatori e di
barattieri”. Ai palermitani “A te, Palermo, città delle grandi
iniziative!
Maestra nell’arte di scacciare i tiranni, a te
appartiene di diritto la sublime iniziativa di scacciare dall’Italia il
puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti, il patriarca della
menzogna, che villeggiando sulla destra del Tevere, sguinzaglia di là i suoi
neri scagnozzi….”.
Ma I ‘idiosincrasia per la “nera tonaca”
copre un sottofondo ma serio, è la sensibilità di un grande uomo per i problemi
dello stato di diritto, per una società laica responsabile e democratica,
“L’Italia – scrive Garibaldi – è il paese dove il governo e i preti,
mantengono diciassette milioni di analfabeti”
E il suo giudizio sulle Leggi delle Guarentigie, dopo
Porta Pia, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa è deciso e drastico:
“L’Italia amoreggia oggi con l’idea sacerdotale e la lecca, l’accarezza,
supplicandola genuflessa, acciocché le mantenga i suoi figli nella ignoranza e
nell ‘abbruttimento, chiamando l’atto suicida delle garanzie”.
Per Garibaldi il papato rimane “sempre il mortale
nemico della libertà italiana e lo ha sempre contro in tutte le sue battaglie:
gli austriaci da parte loro e i preti non mancano mai di fare le indagini
possibili per scoprirmi… i preti poi dal pergamo e dal confessionale
suscitano le cittadine ignoranti a far la spia per la maggiore gloria di
Dio”
Nel suo testamento, vergato di pugno, scrive: “Ai
miei figli, ed a quanti dividono le mie opinioni, io lego I ‘amore mio per la
Libertà, per il Vero, il mio odio per la menzogna e la tirannide”
“Siccome negli ultimi momenti della creatura
umana, il prete profittando dello stato in cui si trova il moribondo e della
confusione che sovente vi succede, s ‘inoltra e mettendo in opera ogni turpe
stratagemma e coll’impostura di cui è maestro che il defunto compiti,
pentendosi delle sue credenze passate ai doveri di cattolico, in
considerazione, io dichiaro che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio
accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole, scellerato di un
prete che considero atroce nemico del genere umano e dell ‘Italia in
particolare. E che solo in istato di pazzia o di ben grassa ignoranza, io credo
possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada”
Terminiamo questa carrellata sul pensiero di Garibaldi
uno scritto che ci auspichiamo venga meditato perché di palpitante attualità:
“Quando io penso al potere dei preti, conservato ad onta d’ogni
scelleraggine appenda credibile e di cui dovrebbe essere incapace l’umana
natura anche di idearle, dico che in questo secolo che si chiama civile mi
viene sovente il dubbio che cotesti cretini a cui appartengo per forme, altro
non sino che una delle tante famiglie di scimmie da me vedute nel nuovo
mondo”
“Un prete è un impostore. Chi può provare il
contrario? E vi vuol poi tanta matematica per capirlo? Eppure la potenza di
quell ‘essere malefico continua. Le plebi ne sono affascinate ed il despotismo
si serve di cotesto fascino per malmenare i popoli. E si grida da una parte e
si fa i sordi dall’altra, ed intanto va avanti questo bordello chiamato
costituzione di popolo libero”.•
(R.L.
“I Pitagorici” n.387 Oriente di Crotone – Valle del Neto)
Uno dei temi centrali di questa inquieta e problematica
fine di secolo è quello della “diversità”: concetto utilizzato,
sempre più frequentemente, per legittimare le aspirazioni particolaristiche di
comunità, gruppi e individui che mirano a ritagliare il proprio spazio entro o
contro gli assetti istituzionali esistenti, nell ‘ alveo dei grandi processi di
unificazione, economica, politica, culturale, che interessano il mondo odierno.
E’ chiaro che non si può prescindere dalla
considerazione di quanto vi è di specifico nelle varie situazioni umane,
collettive e individuali, e che non si può negare il diritto di nessuno alla
ricerca dell ‘ autonomia, senza mettere in dubbio il principio stesso della
libertà; il quale, d’ altra parte, può essere rivendicato soltanto sulla base
del reciproco riconoscimento, della comprensione vicendevole e paritetica delle
condizioni e delle ragioni dell’altro.
L’idea di un mondo unito, che oggi, nell ‘era spaziale,
si va concretamente delineando al nostro orizzonte, non può certo svilupparsi
all ‘insegna di una razionalizzazione livellatrice, che cancelli determinazioni
naturali e storiche rilevanti e persistenti, senza averne compreso e apprezzato
il valore, ma nemmeno si può realizzare in assenza di un forte consenso su ciò
che accomuna gli esseri umani, al di là delle loro reciproche differenze.
Al contrario la critica della ragione illuministica ha
prodotto esiti relativistici, attraverso la negazione della centralità del
soggetto, che viene visto nella sua individualità determinata biologicamente,
psicologicamente e culturalmente, cioè nella sua differente particolarità e non
più sotto l’ aspetto della coscienza e della capacità di giudizi e di
valutazioni incondizionati.
La cultura della “diversità” e della
“differenza”, si va affermando in questi anni in forme e
manifestazioni che suscitano interrogativi preoccupanti, dal momento che, in
tutte le sfere della vita associativa e all’interno stesso della personalità
individuale, essa alimenta non già equilibri più naturali e stabili, come si
potrebbe supporre, ma un generalizzato e progressivo aumento del tasso di
aggressività e di conflittualità.
Da questo punto di vista, la Massoneria, sebbene venga
spesso accusata di diffondere una ideologia relativistica, esprime, invece, una
concezione e un programma di vita opposti a quelli che caratterizzano le
tendenze del nostro tempo.
Infatti, l’esperienza che da secoli si compie
all’interno dei templi massonici ribadisce e rinnova uno stesso atto di volontà
consapevole, indicando a tutti gli iniziati una via ben diversa da quella che
sembra aver imboccato il mondo profano.
I filosofi che oggi celebrano la “differenza”
originaria e quanti glorificano gli “eventi”, valorizzandoli
semplicemente per la loro novità ed esclusività, si rappresentano una realtà
ridotta alle sua manifestazioni più appariscenti, superficiali ed effimere, in
cui il sapere cede il posto ai “saperi” e si configura come un
labirinto senza centro e senza confini, in cui si naviga alla deriva, in un
mare senza approdi e ognuno cerca di salvarsi sulla zattera di un’ identità
labile e provvisoria, pronto a saltare su quella che, di volta in volta, gli si
presenti come più comoda e più sicura.
La logica della diversità, con la quale oggi individui e
gruppi, sempre più numerosi, si autogiustificano e si autolegittimano, è quella
della reciproca incompatibilità ed esclusione e si afferma in scelte di
isolamento e di contrapposizione, in comportamenti arroganti, fanatici,
violenti, al di fuori della relazione attraverso cui, invece, le differenze si
costituiscono e acquistano diritto alla cittadinanza.
Questa è la pericolosa tendenza del nostro tempo, quale
emerge nei fondamentalismi e nei rigurgiti integralistici delle religioni,
nella autoesaltazione di presunte e conclamate identità etniche e territoriali,
nelle asprezze della quotidianità politica, in cui sembra smarrito il senso
della misura e del decoro, nel malessere dilagante all’interno della società,
della famiglia, del singolo individuo.
Se mai l’ assassinio e la guerra hanno trovato un
motivo che li renda ammissibili, i delitti e le tragedie di cui siamo
giornalmente testimoni si distinguono per la loro terrificante gratuità, avendo
come loro base motivazioni inconsistenti, falsi ideali, progetti folli, alimentati
dall’ideologia, seguita al crollo dei grandi sistemi: l’ideologia, appunto,
dell’ assenza di un centro e della differenza.
Al contrario, ciò che hanno di specifico le diverse
aggregazioni etniche, culturali, linguistiche, politiche e sociali, in quanto
formazioni storiche, legate al tempo e alle circostanze, può e dovrebbe
continuare ad essere difeso unicamente sul fondamento di un principio che le
accomuna e le trascende.
Di questo principio, a cui è sottomessa la molteplicità che
si svolge nella dimensione del tempo e dello spazio, attraverso lotte e
conflitti, altrimenti privi di senso, noi massoni, invece, conserviamo la
memoria e manteniamo viva la consapevolezza.
Riunendoci nelle nostre officine noi rivolgiamo lo sguardo al
“Re dell ‘universo”, come l’ antico filosofo designò tale principio,
e ci esercitiamo a considerare questo nostro mondo non come una
irrappresentabile baraonda senza scopo, ma come il suo ordinato regno, visibile
attraverso le tracce di un disegno cosmico e concretamente percepibile
attraverso I ‘ armonia che siamo in grado di raggiungere dentro di noi, nelle
relazioni con gli altri, nei rapporti con la natura, di cui ci sentiamo parte
e, insieme, specchio, quando riusciamo a purificarci dalle passioni esclusive e
a sottrarci al caos delle differenze. Per questo orientiamo la nostra mente
all’unità, piuttosto che alla molteplicità, e coltiviamo l’idea di un unico
progetto e di un comune destino. Per questo professiamo la nostra fede
nell’uguaglianza, convinti che, nella luce della coscienza, che brilla
ugualmente in tutti gli esseri umani, e non nella differenza delle storie
personali, sia la verità e il valore dell’ uomo.
Se non riconosciamo in questa tensione verso l’unità, la
verità e il bene, l’autentico significato della presenza massonica nel mondo,
non possiamo dubitare che il sentimento che ci ispira venga compreso e
condiviso, prima o poi, da tutti quelli che avvertono come non vi sia vera
comunicazione tra gli esseri umani, senza un rapporto di fraternità, senza una
correlazione tra anime, diverse perché uguali e complementari.v
NALISI E SINTESI NELL’UOMO MODERNO E NELLA CIVILTÀ’ CONTEMPORANEA
di
Paolo Caradonna Moscatelli
Alle soglie del
“terzo millennio ” e dell’età dell’Acquario, l’uomo moderno appare
lacerato da contraddizioni individuali e collettive che lo rendono sul piano
animico e spirituale una “.monade stanca ‘
Tutti i punti fermi della vita, capisaldi dell’esistenza
dell’uomo antico e della sua visione del mondo “per ordini”, sono
sconvolti.
E’ quindi venuta meno quella visione
piramidale del mondo sensibile e sovrasensibile che aveva la sua pietra
angolare nel “principio di autorità” che scendeva “per li
rami” da un Essere Supremo, fino alla intima essenza di ogni materia e di
ogni manifestazione della Forza.
La caduta di questo principio solare
di autorità che dava una sanzione e un ordine agli eventi naturali e permetteva
una profonda proiezione dell’uomo sul piano spirituale (anticamera della
comprensione della legge di analogia), da un lato permette di vivere una
materialità sempre più tesa ai bisogni di comodità a lungo repressi nei secoli,
dall’altro identifica l’uomo con i suoi bisogni, facendo obliare la citata
legge di analogia, estraniando l’uomo da se stesso, dalla sua intima essenza.
Da ciò il rifugio della scienza, intesa come “summa
analisi” per procacciarsi il bisogno materiale sempre più raffinato, a
scapito talora del godimento pieno ed interiore del bene conquistato.
La parcallizzazione propria della scienza moderna può
essere considerata come la esasperazione del la analisi che si approfonda nei
vari campi del sapere, creando specialisti sempre più preparati e sempre più
settoriali.
Ne deriva un tumultuoso divenire che espropria l’ uomo
comune da una dimensione e da una comprensione globale del suo tempo; e questo
accade proprio mentre i mezzi di comunicazione in real-time dilatano lo spazio
a livelli planetari.
Ma il tempo dell’uomo moderno appare frazionato in tanti
tempuscoli seguendo una serie infinita e randomizzata di rapporti causa-effetto
che annulla il senso di unità personale, di unità naturale e cosmica, e, in
definitiva, il senso del sacro.
L’ ascolto costante di una messe infinita di notizie, di
nozioni, di fatti spiccioli, privi del necessario tempo di elaborazione (fase
del silenzio) e della critica consapevole, ci rende simili a radio che
propagano nell’ etere vibrazioni altrui senza ritenerne alcuna e, peggio, senza
conoscere la natura sovrasensibile della parola e del pensiero come creazione.
Né va taciuto che la mancanza di una formazione critica e
la diffusione di mode massificanti sempre più effimere, permette il facile
dominio delle folle e il plagio di un orientamento collettivo.
L’effetto amplificante della rivoluzione industriale prima,
e della rivoluzione tecnologica poi, ha fuorviato l’ uomo moderno da se stesso
inteso come soggetto/oggetto di unità donandogli, in compenso, una presunta
onnipotenza sul mondo del sensibile, inteso come riproducibile e misurabile.
La prima conseguenza è lo scotoma del non visibile, con la
negazione del sacro vissuto come tessuto connettivo dell’esistenza dentro e
fuori di sé.
In campo medico, per esempio, una miriade di specialisti,
si affanna intorno ad uovo, studiandolo nei dettagli consentiti dalle
possibilità tecnologiche, ma negandogli al contempo l’unità della mente e la
dignità dell’uomo.
Con ciò non si vuole negare l’indagine diagnostica
approfondita ma se ne contesta la freddezza disumanizzante.
La diffusione ormai epidemica delle
malattie psicosomatiche conferma le mie parole.
In campo militare, la possibilità di una distruzione a
distanza del nemico, nega la necessità del coraggio del singolo, della
solidarietà nella compagine e in definitiva la scoperta in sé di quei valori
etico-esotericomilitari che avevano forgiato la Cavalleria, giunta a noi come
galateo essoterico.
Emerge quindi prepotente la necessità della sintesi
quale antidoto allo stato delle cose, perché la sintesi presuppone e tende
all’unità (anche senza raggiungerla) e quindi necessita di ben precise
direttive logiche attuabili dall ‘iniziato con metodo analogico.
ORDO AB CHAO. E alla sintesi UNO si
perviene attraverso una riappropriazione della unità fondamentale
di tutto ciò che esiste, della Causa, della Forza e della Azione, per noi
iniziati, e con la profonda consapevolezza fra uomo e macrocosmo.
La
legge analogica di Ermete Trismegisto spiega tutto questo con dovizia.
Ma occorre anche modificare ” nella
secreta camera dello core ” la dimensione e la percezione dello
spazio-tempo.
Si dovrebbe intuire che il tempo non è una
dimensione verticale di eventi in successione ma una dimensione orizzontale di
un presente eterno i cui limiti alla comprensione sono solo nella natura umana del lettore. Questo riporterebbe
all’unità in quanto totale ed immanente compresenza del G.•.A .•.D .•.U .
Lo
spazio sarebbe invece una dimensione verticale, in una successione ordinata di
piani più o meno sottili di cui riappropriarsi in ordine crescente.
Questo creerebbe comunque una tensione verso
l’ alto, verso I ‘ ombelico di Brahama in termini di legge di analogia tra uomo
e macrocosmo.
Per parlare in linguaggio junghiano, si
avrebbe allora una compressione dell’Io individuale, oggi ipertrofico perché
unica ancora e pesante limite dell ‘uomo moderno, e la riappropriazione del Sé
inteso come percezione logica di una essenza comune a tutti gli esseri umani.
E dalla ambizione di questa conquista e dalla necessaria umiltà con
cui accingersi a conseguirla che si può evincere l’intimo significato della
LIBERTÀ ‘, della UGUAGLIANZA e della FRATELLANZA. •
Macchina del Tempo: “Lo strano caso” di Jules Verne e
Dante Alighieri.
Calma, non state per leggere un articolo fantascientifico
o pseudo storico, riguardo viaggi nel tempo, nei quali sarebbero coinvolti i
due scrittori nominati nel titolo; né tantomeno, quello sopra, rappresenta un
titolo esca, finalizzato a catturare l’attenzione dei lettori.
In questo nuovo articolo-studio, in realtà, analizzeremo
uno strano quanto particolare collegamento che ho avuto modo di osservare tra
Dante Alighieri e Jules Verne, che va oltre i quasi sei secoli che li dividono
e, nella fattispecie, che ho riscontrato all’interno di due loro opere
specifiche.
Chiunque, conosce il ”Sommo Poeta”, e la sua opera più
famosa che nei secoli è divenuta oggetto di studio, di ricerca, ma anche
simbolo della stessa italianità nel mondo: la Divina Commedia. Non ritengo
perciò che vi sia bisogno di ulteriore introduzione per l’autore fiorentino
vissuto nel periodo medievale.
Forse più bisognoso di presentazioni (non essendo, al
contrario di Dante, un autore facente parte della cultura popolare italiana)
potrebbe risultare invece Jules Verne.
Nato nella francese Nantes, nel 1828, e morto ad Amiens
nel 1905, è stato un famoso scrittore di romanzi di avventura, e iniziatore del
genere fantascientifico che oggi siamo abituati a guardare nei vari film e
serie Tv, che ormai da anni si sono stabiliti all’interno di questo genere
narrativo.
Sebbene nella cultura italiana, soprattutto quella del
nostro tempo, Dante Alighieri risulti certamente essere più conosciuto del suo
”collega” francese, nondimeno Jules Verne può essere annoverato senza
esitazioni, tra autori più tecnici di sempre. Ma adesso cerchiamo di scoprire e
conoscere le due Opere letterarie interessate, e secondo quali aspetti, sono
stati rilevati elementi in comune, che metterebbero in relazione i due scritti.
Due autori: due opere a confronto
Come è giusto e logicamente corretto che sia, non si può
analizzare e parlare delle opere di uno scrittore, prescindendo dall’analisi
dello scrittore stesso; a maggior ragione se poi il suo prodotto narrativo,
risulti essere estremamente complesso e denso di significati, simbolismi,
intenzioni…
Per affrontare la trattazione di questo articolo, e
partendo da Dante Alighieri e dalla sua opera più importante, La Divina
Commedia che, in questo studio, farà da co-protagonista insieme a quella
dell’autore francese, Le Indie Nere, non mi addentrerò ovviamente in una
minuziosa analisi dei due scritti, sia perché non risulta essere questo,
l’oggetto del presente studio, e sia perché un lavoro del genere, richiederebbe
ben più di un articolo pubblicato (quantitativamente e qualitativamente
parlando).
Ciò che invece si andrà ad osservare, relativamente alle
due opere, avrà invece come campo d’indagine, molto più l’aspetto
macroscopicamente ermeneutico e simbolico che i due autori abbiano avuto
intenzione di rappresentare (o di celare) nei loro prodotti narrativi, e le
loro relative somiglianze e correlazioni che eventualmente si riuscirà a
trovare e dimostrare.
1. Dante Alighieri e la Divina Commedia
Come già affermato, la Divina Commedia dantesca, così
come il suo autore, non necessitano affatto di presentazioni, o di noiose
prefazioni o introduzioni intellettualoidi, soprattutto perché ho già
provveduto a negare che fosse questo, lo scopo del presente studio. Non starò
quindi qui ad annoiarvi, con quello che di tale favolosa opera letteraria già
conoscete, o che potreste conoscere andando a documentarvi su studiosi che,
dello studio dell’opera più importante del poeta fiorentino, ne abbiano fatto
un impegno di vita.
Più che dilungarmi, allora, su ciò che la Divina Commedia
sia, ho invece intenzione di porre all’attenzione del lettore, proprio ciò che
la Divina Commedia non possa e non potrà mai essere.
Iniziamo
innanzitutto affermando, senza alcun dubbio, che si può riconoscere come lo
scritto dantesco non sia stato affatto ideato (come alcuni debolmente hanno in
passato ipotizzato), per divenire una ”chilometrica” poesia d’amore per
un’ipotetica donna di cui il poeta si fosse potuto innamorare. Si può
tranquillamente ritenere che il genio letterario assoluto che partorì un
capolavoro del genere, sia stato ispirato da una motivazione ben più ”alta”, di
una dedica amorosa.
La Divina
Commedia (proseguendo), nemmeno può essere identificata come un tentativo, da
parte del suo autore, di intentare la realizzazione di un’opera di stampo
prettamente teologico-Magisteriale. La motivazione con cui si può pronunciare
con molta sicurezza un tale assunto è che, nel pieno del medioevo, la Chiesa
poteva vantare un assoluto monopolio relativo all’azione ex Cathedra docendo,
cioè alla possibilità di pronunciarsi su dogmi di fede e questioni relative all’ambito
teologico. Certamente Dante Alighieri, nella realizzazione di quel capolavoro
che oramai da secoli l’umanità sta avendo la possibilità di leggere, fu
chiaramente provvisto delle conoscenze teoretiche in ambito teologico e
dogmatico, necessarie per poter realizzare un’opera simile, ma ovviamente non
avrebbe mai avuto la presunzione, né la motivazione di fondo e né tantomeno
l’ardire, di potersi aggiungere o sostituire alla Chiesa, in fatto di attività
teologico-dommatica.
Andando avanti,
possiamo affermare in itinere che un’altra cosa che la Divina Commedia non è
mai stata, fu quella di fungere da opera Magisteriale, con cui sostituirsi alla
ruolo della Chiesa, nel pronunciamento giudiziale sulla sorte ultraterrena
delle anime dei personaggi che il poeta incontrò nel suo triplice viaggio
(Inferno, Purgatorio, Paradiso). Le motivazioni, sono ovviamente le medesime o
simili, di quelle analizzate nel punto precedente.
Ma allora, cosa fu realmente la Divina Commedia?
Sintetizzando forse un po’ troppo banalmente la risposta, si potrebbe dire che
essa, fu tutti e tre i punti precedentemente elencati e, contemporaneamente,
nessuno di essi.
Molto più semplicemente ed ingegnosamente, si può
affermare che Dante Alighieri abbia pensato la struttura di tale prodotto
narrativo, per fare in modo che l’opera stessa, dietro ciò che poteva apparire,
celasse invece ciò che realmente fosse. Dante Alighieri, allora, non fece altro
che utilizzare lo strumento che tanti altri scrittori hanno spesso utilizzato:
il linguaggio ermetico. Ovviamente il poeta fiorentino si servì di tale mezzo
narrativo, in maniera certamente più moderata rispetto ad altri ermetici del
passato, al punto che la Divina Commedia, non sembrò mai un’opera il cui
significato apparisse totalmente oscurato da tante parole e frasi che
apparentemente sembrassero non poter significare nulla; al contrario, invece,
lo scrittore italiano fu così abile da nascondere, nella sua realizzazione
letteraria, una serie di livelli semantici, ognuno con il proprio nucleo di
significato, ed ognuno validamente accettabile, cosicché ad oggi, sembra
ugualmente ammissibile l’ipotesi amorosa, l’ipotesi teologica o l’ipotesi
Magisteriale.
Ciò che ad uno sguardo attento traspare, è che il poeta
fiorentino abbia deciso di occultare un messaggio simbolico ed iniziatico,
dietro la convincente parvenza di un’opera realizzata con uno scopo a tratti
romantico, a tratti teologico magisteriale.
Come ben si ricorderà, la struttura narrativa della
Divina Commedia, si incentra su di un viaggio che l’Alighieri compie, dopo ”che
la diritta via era smarrita”, passando nei tre luoghi ultraterreni (inferno,
purgatorio e paradiso), nei quali le anime dei defunti possono approdare
secondo la dottrina cristiana, una volta staccatesi dai propri corpi mortali.
Si può quindi affermare che il poeta, al di là della
triplice apparente metafora con cui decise di rivestire la sua opera, volle
invece molto più specificamente affidare al suo scritto, evidentemente la
tradizione e la custodia di una propria coscienza e conoscenza iniziatica, che
decise di dissimulare per mezzo di simbologie ed analogie, dietro l’impalcatura
di un viaggio.
La conferma che ritengo di poter dimostrare di tale
ipotesi appena formulata, giungerà con l’esame comparato dell’opera Verniana
citata qualche paragrafo sopra: Le Indie Nere. Ma andiamo per gradi.
2. Il simbolismo grafico e semantico di Jules Verne
Prima di procedere ad una comparazione effettiva, tra le
opere dei due scrittori, è necessario procedere ad un altrettanto attento esame
di quello che sia lo sfondo innanzitutto psicologico, poi ermeneutico,
culturale e letterario, dell’uomo Jules Verne; ciò appare necessario, non solo
per poter gettare la base di un’uniforme possibilità comparativa tra i due
protagonisti di questo articolo, ma anche e soprattutto perché lo scrittore
francese non risulta assolutamente da meno, rispetto al suo collega italiano,
in fatto di complessità ed ermetismo dei suoi scritti; anzi, si potrebbe forse
azzardare ad affermare che Verne risultò perfino più intricato ed
aggrovigliato, nel suo linguaggio letterario, rispetto ad un’opera come quella
della Divina Commedia, che comunque fu la figlia di un periodo letterario e
sociale assolutamente diverso da quello di fine ‘800 inizio ‘900, nel quale si
colloca il francese.
Ma entriamo subito nel vivo; non ho dubbi che le premesse
con cui abbia descritto la produzione letteraria di Jules Verne, abbiano
certamente smosso la curiosità del lettore (o quantomeno di chi non conosca
approfonditamente lo stile verniano), che giunto a questo punto, si starà
chiedendo quale sarà mai la peculiarità narrativa, che abbia reso questo
scrittore così interessante e famoso.
Ebbene, osservando già solamente a grandi linee, la
produzione dello scrittore francese, si può notare la sua sterminata passione
per quella che noi oggi definiremmo l’enigmistica; Jules Verne infatti, per
comunicare, amava servirsi di qualunque gioco di parole o dei loro significati,
che potesse dare poi vita a crittogrammi, anagrammi, logogrifi e palindromie.
Jules Verne fin da giovane, come tante sue biografie ci testimoniano, amava
comporre frasi che contenessero al loro interno anagrammi relativi a nomi di
persone o parole, giochi fonetici di pronuncia attraverso i quali, una frase
soprattutto se in lingua francese, se pronunciata con una cadenza velocizzata o
rallentata, o una diversa pausa tra le parole, poteva invece significare un
totalmente altro rispetto alla sua scrittura originaria.
Per far entrare il lettore nel concetto che qui si sta esprimendo,
e quindi passando da illustrazioni teoriche ad esempi pratici della tecnica
ermetica ed enigmistica di Jules Verne, si può pensare, per esempio, ad una
delle sue opere più famose e conosciute: ”Viaggio al Centro della Terra”, nel
quale per l’appunto, celando dietro un intento narrativo apparentemente solo
avventuriero, una volontà comunicativa iniziatica invisibile (o quasi),
possiamo osservare che il protagonista, Axel, viene iniziato a questo viaggio
al centro della terra, da suo zio Lidenbrock, che scomposto e tradotto
dall’etimo di lingua inglese di cui è composto, emergerà il significato di
”colui che spalanca gli occhi” (lid=palpebra e brocken=rompere).
Come alcuni filosofi e studiosi francesi hanno molto
spesso proposto ed avanzato, tra i quali lo stesso filosofo Michel Serres, le
opere verniane, dietro l’impalcatura narrativa classica di un’iniziale ricerca
misteriosa o risoluzione di un enigma, nascondono spesso invece uno o più
sentieri interpretativi che rimandano all’ermetismo, al simbolismo rituale o
esoterico. Lo stesso filosofo francese, in una delle sue tante attività di
interpretazione delle opere di Jules Verne, riferendosi al significato
dell’opera verniana dell’isola misteriosa, afferma: ” L’Isola è il primo
microcosmo nel cerchio delle acque. Chiusa in sé stessa, si entra per miracolo:
dall’alto, con un pallone gonfiato dall’aria, dal basso mediante un passaggio
sottomarino, dal centro attraverso una colonna di fuoco di un cratere. Miracolo
d’aria, d’acqua, di fuoco e di terra”.
E che dire di un’opera giovanile di Jules Verne, rimasta
inedita ma ritrovata nel suo carteggio personale, che vede la sua trama
svolgersi tra le rovine della Clavurerie (Clavé= la chiave) e le rovine
dell’Emeri (secondo i giochi di parole verniani, Emeri come richiamo
all’Ermetismo e ad Ermete Trismegisto); In questa opera, i personaggi, seguendo
il cammino degli allievi(iniziati), giungono a decrittare un messaggio
esoterico per mezzo della strega Abraxia, quando l’Abraxas è nel simbolismo, un
pentacolo gnostico.
Insomma, le tracce del simbolismo ed ermetismo verniani,
sono veramente copiose all’interno delle sue opere letterarie, che furono ben
lungi dall’essere pensate come semplici romanzi d’avventura, strutturati con
elementi di suspense e mistero fini a sé stessi, ma furono costruite ed
innalzate all’interno di un’impalcatura ermeneutica che conferisce ad ognuno
dei singoli elementi (dal nome dei personaggi fino all’ultimo apparente
dettaglio marginale) un’appartenenza e significato organici e sistematici, con
una ratio causale e finale, pienamente fondata sull’intenzione comunicativa
dello scrittore stesso.
I due scrittori e loro opere a confronto
Giunti adesso alla fase conclusiva di questo articolo,
andremo adesso ad effettuare quelle comparazioni simboliche, semantiche ed
ermeneutiche, che ritengo di aver ritrovato all’interno delle opere dei due
autori, che abbiamo visto accennare all’inizio di questa trattazione: La Divina
Commedia e Le Indie Nere.
Nel paragrafo relativo all’opera dantesca, ci eravamo
lasciati con dei riferimenti all’elemento principale e fondativo, sul quale
tutta la Divina Commedia è stata costruita, ovvero proprio l’elemento del
viaggio che, stranamente, è lo stesso elemento che caratterizza Le Indie Nere
di Jules Verne.
Ovviamente, non è questo elemento alquanto generico, a
voler costituire il fattore determinante di questo articolo; anzi, giunti a
questo punto, dopo tante spiegazioni intermedie relative ai due autori
protagonisti, ritengo di dover velocizzare la presente trattazione, di modo da
renderne anche più fluida la comprensione, da questo punto in avanti.
Ciò che allora farò, sarà quello di esporre fin da
subito, la teoria (o l’ipotesi) che ritengo di aver individuato in questo esame
comparato di modo che, via via proseguendo, nei passaggi che seguiranno, sarà
il lettore stesso a giudicare l’opportunità o meno di quello che verrà qui
esposto.
Sia nell’opera dantesca che in quella verniana, mi è
apparso subito evidente dopo un’attenta analisi, l’elemento non solo iniziatico,
ma anche e soprattutto spirituale, non come lo si potrebbe intendere secondo
paradigmi cristiani o religiosi, ma secondo quelle linee dottrinali facenti
capo allo gnosticismo ermetico. Sia nella Divina Commedia che nelle Indie Nere,
infatti, ho avuto la sensazione che i veri protagonisti non fossero quelli in
carne ed ossa illustrati nei due scritti, ma fossero molto più speculativamente
delle personificazioni dell’anima, e del viaggio che la stessa, secondo i due
scrittori, dovrebbe autonomamente fare, in un cammino molto più gnostico ed
individualistico, che non invece di vera fede e gerarchico nei confronti di un
Dio Essente e Supremo.
Nella Divina
Commedia, il poeta si trova misteriosamente smarrito nella selva oscura ed ai
piedi dell’entrata dell’inferno; inspiegabilmente in ottica cristiana, dal
momento che Dante al tempo doveva già essere stato battezzato. L’incipit
avviene quindi con questo smarrimento dalla strada maestra ed il ritrovare sé
stesso vicino all’entrata dell’inferno, cioè al caos ed al disordine della
spiritualità.
Similmente, in
Le Indie Nere, Verne fa iniziare l’opera nella vecchia miniera di carbone di
Aberfoyle luogo della Scozia (casualmente), che stranamente è l’unica località
scozzese del suo circondario, a non aver mai avuto giacimenti carboniferi.
Similmente all’apertura dello scritto dantesco, anche qui c’è un’iniziale
situazione di caos, confusione e pericoli, che qui l’autore rappresenta con
pericoli di frane (elemento terra) incendi (elemento fuoco) inondazioni
(elemento acqua) e scoppi di grisù (elemento aria) all’interno della miniera.
Nella Divina
Commedia, Dante ritrovatosi in questa selva oscura, ed avendo compreso di aver
smarrito la retta via, tenta allora l’esplorazione di questo luogo che lo
avrebbe condotto alle porte dell’inferno, dal quale, anche volendo non avrebbe
potuto fare ritorno sui suoi passi. Decide allora di proseguire, addentrandosi
nell’inferno, insieme alla sua guida, Virgilio. Giunto nell’inferno, per lo
spavento e la stanchezza, Dante perde i sensi svenendo.
In Le Indie
Nere, allo stesso modo, il protagonista, Harry Ford, decide di esplorare con
degli amici, una galleria della vecchia miniera, con la speranza di poter
assicurare alla miniera un nuovo splendore. Ma quando avevano deciso di fare
ritorno sulla strada di partenza, il passaggio venne totalmente bloccato,
facendo smarrire la via del ritorno, e rendendo incastrato il protagonista in
una ”miniera” oscura. Nel frattempo, similmente al dantesco Virgilio, giunge in
aiuto come guida per Harry, il suo amico Jack Ryan per aiutare il suo amico a
fuggire da quel luogo. Anche in Le indie Nere, il protagonista sviene perdendo
i sensi, all’inizio delle peripezie.
Nella Divina
Commedia, tutto ciò che nei tre viaggi effettuati da Dante, faccia apparire
distaccati i luoghi e i relativi personaggi, soprattutto quelli che gli fungono
da guida, sarebbe in realtà da interpretare come un unico filone composto di
tre atti, piuttosto che tre mini-opere ognuna indipendente ed autoreferenziale
dall’altra. Se è vero che il cammino che compie il poeta fiorentino,
simboleggia la percorrenza del sentiero di trasformazione compiuto dalla sua
anima, i tre personaggi che egli incontra come guide (Virgilio, Beatrice e San
Bernardo di Chiaravalle), rappresenterebbero allora ognuno un attributo o
itinerario di percorrenza, per raggiungere un certo punto di arrivo o grado di
perfezionamento dell’anima. Seguendo allora quanto premesso precedentemente, su
di un’interpretazione unitaria della Divina Commedia, si potrebbe allora
ipotizzare che anche all’inizio del suo viaggio all’inferno, Dante avesse già
chiaro dinanzi a se, sia dal punto di vista narrativo dell’opera che anche
simbolico e quindi sostanziale del suo significato ermetico, quale sarebbe
stato il punto di arrivo del suo itinerario sovrannaturale. Se si presta
infatti attenzione, si possono scorgere nelle strutture semantiche e simboliche
dell’inferno, delle anticipazioni del purgatorio, il quale a sua volta lasciava
intravedere in alcuni passi delle anticipazioni di cosa sarebbe potuto essere
il terzo ed ultimo mondo: il paradiso. Rileggendo in maniera organica la Divina
Commedia, si può osservare che tutto il viaggio del poeta, dallo smarrimento
nella selva oscura, fino alla visione della Presenza Divina, sia un tutt’uno
strettamente collegato e connesso.
Allo stesso
modo, nell’opera verniana Le Indie Nere, il protagonista Harry Ford viene
salvato, o meglio allontanato da vari pericoli che gli si presentavano, da
parte di una salvatrice (una ragazza di nome Nell) che rimane inizialmente
misteriosa e sconosciuta al protagonista. Ciononostante, Harry sente un
inspiegabile quanto irrefrenabile senso di attrazione verso questo salvatore a
lui sconosciuto.
Insomma, così
come la natura e la sostanza della propria anima fungono da richiamo per Dante
Alighieri, che viene a trovarsi in un viaggio nel quale seppur presentandosi
incognita la destinazione, ciononostante esercita sul poeta fiorentino
un’incomprensibile attrazione e richiamo al proseguimento del cammino, allo
stesso modo Harry Ford trovatosi intrappolato e smarrito nel suo viaggio, viene
aiutato e preservato nella continuazione del suo cammino, da parte di un
personaggio anch’esso femminile come la dantesca Beatrice, che rimane anch’ella
ignota momentaneamente al protagonista, ma che anche lei esercita su Harry Ford
il desiderio di cercarla e conoscerla.
Altro elemento
di somiglianza (per non dire di strettissima similitudine) è la guida iniziale
che aiuterà i protagonisti delle rispettive opere, a proseguire ed avanzare in
una parte del loro itinerario simbolico; Dante Alighieri avrà con sé infatti
Virgilio che sarà sua guida nel viaggio verso l’inferno, e in quello verso il
purgatorio, ma che non potrà accedere al paradiso, perché non degno di poter
godere di quella luce, essendo il poeta latino espressione e simbolo della
materialità e del pensiero terreno.
Ugualmente nell’opera
di Jules Verne, il protagonista Harry Ford, avrà inizialmente come guida nel
suo viaggio, Jack Ryan il quale anche lui, similmente al luogo dantesco del
purgatorio attraversato dal fiume Lete, oltre il quale Virgilio non potrà
andare, vede in questo caso Jack Ryan fermarsi dinanzi alla ”prova dell’acqua”
del Lago Katrine da cui non ne uscirà purificato, ma rimarrà intrappolato e
schiavo degli elementi umani e materiali che lo tengono legato alla sfera
corporea e non gli permettono di elevarsi verso la sfera spirituale.
Altro punto di
contatto tra la Divina Commedia e Le Indie Nere, riguarda proprio il viaggio
iniziale; se infatti da una parte, Dante deve prima passare dall’inferno senza
rimanerne intrappolato, simbolo della vittoria sulle passioni e vizi che
ostacolano l’uomo nell’incontro con la sua anima in una progressione
spirituale, allo stesso modo Harry Ford dovrà prima liberare Nell dalla
prigionia nella quale è stata tenuta, dal suo padre putativo Silfax, nelle
viscere oscure della caverna. E’ interessante, a questo proposito, osservare
l’etimologia dei nomi di Nell e Silfax; il primo può farsi infatti derivare dal
greco Helios che significa sole, ma anche dal celtico Hel che indica la dimora
delle anime dei defunti. Non a caso, in un dialogo tra Harry e Jack,
quest’ultimo rivolge al protagonista un ammonimento alquanto indicativo, di
fronte al suo desiderio di scendere giù nel tentativo di salvare Nell; dice
così Jack: “Harry, questo significa sfidare Dio”, al quale fa seguito la risposta
di Harry Ford che dice: “No Jack, perché io implorerò il suo aiuto per riuscire
nel mio intento”.
Ad ulteriore
conferma sia della somiglianza delle due opere, che dell’analisi etimologica
dei due nomi, c’è da analizzare anche l’etimo di Silfax, che tiene prigioniera
Nell. Silfax infatti, deriva dalla combinazione di due termini latini sil dal
verbo sileo che significa silenziare o tacere, e fax che invece è il
corrispettivo del termine torcia che dimostra come tale personaggio sia il
chiaro alter ego del lucifero della Divina Commedia.
Così come
Dante, per ricongiungersi con la sua anima divinizzata, dovrà affrontare e
superare l’inferno, simbolo evidentemente delle pulsioni umane verso la
materia, allo stesso modo Harry Ford, nel suo tentativo di salvataggio di Nell,
si dovrà scontrare con un’iniziale tendenza della ragazza, che nei primi
momenti volge il suo pensiero e le sue preoccupazioni, verso quello stesso
carceriere che prima la teneva prigioniera: lo stesso Silfax.
Sarà proprio
Jack Ryan ad aiutare Harry nel ritrovamento della prigioniera, così come
Virgilio aiuta Dante a percorrere e ad uscire sano e salvo dall’inferno, luogo
nel quale evidentemente Dante si riteneva prigioniero.
Così come Dante
Alighieri superato l’inferno, giunge nel purgatorio, dove si devono subire
quelle sofferenze e prove, necessarie a purificare l’anima prima di giungere
nell’ultimo viaggio, allo stesso modo Harry Ford riesce a trarre in salvo Nell
dai sotterranei della vecchia miniera, ma non può ancora coronare il suo sogno
di unirsi a nozze (simbolo evidentemente del paradiso e della beatitudine) con
la sua amata, se non dopo aver affrontato e superato alcune prove.
Così come nella
Divina Commedia il viaggio nell’inferno termina con l’attraversamento di Dante
e Virgilio di un lungo passaggio, al termine del quale i due riescono a
rivedere le stelle, segno che ovviamente il viaggio di risalita ed uscita,
viene compiuto durante la notte, ugualmente all’interno di Le Indie Nere, Harry
Ford porta fuori Nell dalla miniera, giungendo in superficie proprio durante la
notte, al chiaro delle stelle e della luna, per permettere all’anima
(rappresentata dalla ragazza) di non rimanere accecata da una luce improvvisa,
bensì di percorrere la risalita in maniera graduale, con l’aiuto di una luce
più tenue, come quella delle stelle e della luna.
Di fronte
all’inadeguatezza di Jack Ryan, come guida al raggiungimento della meta finale,
subentra quindi James Starr, personaggio statico e completo, rappresentante la
pienezza della conoscenza e della saggezza, che è anche colui che dà inizio al
racconto stesso, in quanto inviato proprio ad Aberfoyle, per risanare l’oramai
decaduta miniera. James Starr, come suggerisce il suo cognome (Star, ovvero
Stella), rappresenta quelle Altezze verso le quali l’anima del protagonista
(sempre Nell) è chiamata a fare ritorno. E infatti sarà proprio James Starr,
come possessore di quella saggezza e sapienza celesti, ad occuparsi di Nell
quando questa verrà condotta in superficie da parte di Harry.
Si può quindi
intravedere in James Starr il corrispettivo verniano che San Bernardo di
Chiaravalle rappresenta invece nel poema dantesco. La sola differenza
esistente, è puramente di carattere narrativo, che vede nella Divina Commedia
un’apparizione graduale di certi personaggi guida, come San Bernardo e Beatrice
al posto di Virgilio, che rappresentano i mutati attributi e virtù che sono
necessari per il perfezionamento dell’anima, mentre nell’opera di Jules Verne,
le virtù rappresentate da certi personaggi guida, sono invece già presenti,
quasi come se l’individuo le possedesse innate, e dovesse solo riscoprirle,
come se fosse una reminiscenza platonica. Chiaramente su questa differenza si
può osservare il divario culturale e temporale di sei secoli che separa un
autore immerso in una società totalmente cattolica, come quella dantesca, ed
una società invece stabilizzata purtroppo nella filosofia razionalista e
gnostica com’era quella francese ed europea di Jules Verne, e che pur tuttavia
siano stati espressione di una volontà rappresentativa dei medesimi contenuti.
Giunti quindi
in superficie, similmente al passaggio intermedio che Dante deve compiere
nell’attraversamento del Purgatorio, anche i due ragazzi, Harry e Nell, non
vedranno la loro unione immediatamente a seguito della risalita dalla miniera,
bensì su decisione di James Starr, la ragazza verrà affidata in custodia ai
genitori di Harry, nel mentre lo stesso sarà chiamato al superamento di alcune
prove.
Sarà proprio
qui che, come nella prova spirituale dell’acqua rappresentata dal fiume Lete,
presso cui Dante, salutando Virgilio indegno di proseguire oltre, ritrova
Beatrice a fargli da guida di unione tra purgatorio e paradiso, similmente
Harry Ford, dinanzi alla prova purificatoria dell’acqua presso il Lago
sotterraneo Katrine, perde Jack Ryan, personaggio legato alla materialità, per
ritrovarsi a dover affrontare l’ultima prova insieme a Nell, che qui
rappresenta sia l’anima dantesca, che la sua Beatrice.
Come avviene
nel passaggio dal purgatorio al paradiso, in cui Beatrice e Dante sono
rispettivamente posti in una situazione di silenzio/imbarazzo, che vede
Beatrice inizialmente parlare con gli Angeli ma non con Dante, contemplando le
verità e segreti celestiali, e Dante a sua volta in difficoltà a parlare e
guardare Beatrice, a causa del rimorso dei suoi peccati, ma con il continuo
desiderio di chiedere a Beatrice informazioni sul luogo che era loro intorno ,
allo stesso modo Nell ed Harry sono sottoposti alla prova del silenzio, in cui
Nell deve trattenere sé stessa dal rivelare il suo segreto ad Harry, nel mentre
quest’ultimo a sua volta riesce a stento a trattenere le domande che vorrebbero
tanto uscire dalla sua bocca verso Nell.
Terminata e
superata la prova, Harry riesce finalmente ad assicurarsi la vicinanza di Nell
grazie ad un gufo che, fino ad allora faceva da alleato a Silfax, ma che da
quel momento in poi prende le parti dei ragazzi, aiutando i giovani a superare
finalmente gli ostacoli posti innanzi da parte del padre putativo e carceriere
della ragazza, e ponendo finalmente in relazione diretta Harry e Nell.
In maniera
quasi parallela, nel canto XXXI del Purgatorio è proprio un Grifone, animale
alato per metà uccello e metà leone, che aiuta Dante a poter guardare
definitivamente negli occhi Beatrice e a trovare il coraggio di interagire con
lei, mostrando ora una e ora l’altra natura (quella di uccello e quella di
leone), facendo così coincidere il parallelo del gufo, che nel racconto
verniano prima mostrava una natura, (quella di antagonista) e alla fine ne
mostrava un’altra (quella di aiutante dei due giovani protagonisti).
E’ proprio al
termine di questa riconciliazione, avvenuta dopo una purificazione, che Dante
dopo aver finalmente compiuto il suo percorso con Beatrice, è pronto ad
incontrare San Bernardo come guida finale per la visione Divina, ed il
coronamento delle sue nozze spirituali con la sua anima, così come Harry
divenuto degno di poter stare al fianco di Nell a seguito del superamento delle
prove purificatorie, vede sugellata la sua unione sponsale al fianco dello
stesso James Starr.
La Conclusione
Ebbene, giunti al termine di questo articolo di analisi e
ricerca, nel quale il lettore vorrà perdonarmi per l’eccessiva lunghezza del
presente scritto, tengo innanzitutto a precisare, ribadendo quanto affermato
nei paragrafi precedenti, che lo scopo del presente scritto non è mai stato
quello di addurre una conclusione analitica oggettiva e scientifica dal punto
di vista letterario e filologico; sono infatti consapevole che il materiale qui
presentato, sia ben lontano dall’essere quello proprio di una ricerca
scientifica e sistematica atta a sostenere un’ipotesi quantomeno condivisibile
con relativa certezza.
No; ciò che ho avuto intenzione di presentare attraverso
tale elaborato, è piuttosto da considerare come la presentazione di alcuni
(molti, a dire la verità) elementi di congruenza narrativa, simbolica e
contenutistica, che ho avuto modo di rilevare tra le due opere prese in esame.
Come è stato già esposto, va ovviamente tenuto da conto,
il divario temporale ed anche culturale, intercorrente tra i due autori e tra i
loro due scritti; è chiaro quindi che qualunque analisi con cui si deciderà di
convenire o di confutare, gli elementi sopra esposti, dovrà essere un’analisi
chiamata a tenere conto dell’ermeneutica comparativa, con cui confrontare non
già contenuti simili, rivestiti di altrettanti simili contenitori, bensì
contenuti simili, rivestititi da necessari e contingenti paralleli contenitori.
Le due opere che sono state qui analizzate,
indipendentemente dalle opinioni di accordo o disaccordo che il lettore avrà
verso le ipotesi qui esposte, rimangono chiaramente il frutto di due
incredibili geni creativi e letterari, che hanno saputo far rincorrere tra di
essi, la necessità di una trama avvincente, ed il bisogno di raccontare un
contenuto significato, al di là di un simbolo significante.
Ci tengo poi a ricordare ai lettori, che la lettura e la
conoscenza di determinati elementi simbolici ed ermetici presenti in certe
opere letterarie, non debbano mai fungere da pulce nell’orecchio, con cui
insinuare il dubbio di una lettura gnostica della vita spirituale di ognuno.
Dobbiamo saper distinguere tra le Verità Spirituali salvifiche presenti nel
deposito Ecclesiastico cristiano di fede, (le sole a poter garantire una
corretta economia salvifica) dalle speculazioni simboliche e gnostiche di
uomini che, in quanto tali, non possono essere reinterpretati a scrigni di
pseudo verità nascoste, ma essere visti semplicemente per quello che furono:
solamente appunto degli esseri umani.
Spero che la fatica veramente enorme che ha comportato la
realizzazione di questo articolo, possa eventualmente sopperire, alle
imperfezioni ed ai difetti narrativi, di cui certamente questo scritto non sarà
privo.
Nisi argentum vivum mortificetur cum corpore occulto, nil valebit
La Tavola Smeraldina o Smaragdina è un breve testo
ermetico ed alchemico di autore ignoto attribuito dalla tradizione ad Ermete
Trismegisto e da altri studiosi ad Apollonio di Tiana; il testo venne tradotto
nel XIII secolo da un’ opera in lingua araba.
Tra le diverse versioni della Tavola
proponiamo la seguente in cui vengono numerate le diverse proposizioni che la
compongono:
LA TAVOLA SMERALDINA
E’ vero e certo che ciò che è in basso è come ciò che è
in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere le meraviglie dell’Uno.
II . Come tutte
le cose sono e pervengono per mediazione dall’Uno, così tutte le cose sono
create per adattazione dall ‘ Uno.
III . Suo padre è il Sole, sua Madre è la Luna;
lo porta il Vento nel suo ventre e la Terra è la sua nutrice.
IV. Esso è l’ origine di tutte le perfezioni del Mondo.
V La sua forza è
integra una volta che si sia riversata sulla Terra.
VI .Separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dal denso,
operando con prudenza, sapienza e modestia.
VII Ascende dalla
Terra al Cielo e ridiscende in Terra portando con sé la forza delle cose
superiori e di quelle VIII Otterrai così la gloria di tutto il mondo e
l’ oscurità e l’ impotenza ti saranno lontane.
I X Questo è il più grande di tutti i poteri
perché supera quel che è sottile e penetra ciò che è solido.
X. Così fu creato il mondo. Da ciò derivano
combinazioni mirabili e meraviglie di tutti i tipi.
XI. Pertanto, fui chiamato Ermete Trismegisto,
possessore delle tre parti della sapienza del mondo intero.
XII Questo è
quanto ho da dire sull’Opera solare archemica.
–
Nella tradizione iconografica il testo del
la Tavola è accompagnato da una rappresentazione simbolica a forma
circolare detta Tabula smaragdina Hermetis, pubblicata per la prima volta nel
1599 accompagnata da un testo poetico esplicativo (Aurei velleris Oder der
Guldin Schatz und Kunstkammer, Tractatus III, Rorschach, 1599). In questo
emblema emetico sono rappresentati simbolicamente i contenuti fondamentali del
testo della Tavola accerchiati dall’ acrostico: Visita Interiora Terrae
Rectificando Invenies Occultwn lupidem (V.I.T.R.I.O.L.). (Quello che viene qui
riprodotto è stato ripreso da Ehrd de Naxagoras, Aureum vellus, Francoforte,
1733, Tomo 11). La presenza dell’ acrostico sta a segnalare la duplicità di
interpretazione: quella specificatamente alchemica, riferita direttamente alla
pratica dell’Opera e l’altra di natura ermetico-esoterica in cui il simbolismo
alchemico accede a una interpretazione in cui gli elementi dell ‘ Opera sono
simboli di pratiche di più ampia natura esoterica che coinvolgono la
trasmutazione della condizione dell ‘uomo.
La Tavola è un testo passibile di diverse
interpretazioni e racchiude in una forma ermetica i contenuti essenziali e
fondamentali della tradizione gnostico-ermetica. Essa venne chiamata smeraldina
in riferimento allo smeraldo considerato come pietra esoterica che non poche
volte venne assegnata a Ermete Trismegisto; la tradizione vuole che sotto
alcune statue di Ermete vi fosse uno smeraldo; secondo L. Thurneysser (1586) lo
smeraldo dona ragione, saggezza e abilità che sono proprio i caratteri
tradizionali di Ermete Trismegisto e del dio Ermete. Lo smeraldo con la sua
luce apre l’ orizzonte dell’invisibile e per questo è la pietra degli iniziati.
Il testo della Tavola Smeraldina fa parte della
tradizione ermetica, che trova la sua ampia esposizione nel Corpus Hermeticum,
tradotto da Marsilio Ficino nel 1463 (pubblicato nel 1471), e da allora in poi
diventato fondamentale per la comprensione dell’ermetismo tradizionale
(pre-medioevale) e per lo sviluppo di quello successivo che portò alla
formulazione di diverse tradizioni esoteriche come i Rosacroce, la filosofia
naturale, la teosofia e il pensiero massonico. Pur non facendo parte del Corpus
Hermeticum la Tavola Smeraldina condensa in diverse proposizioni l’essenza
teorica dell’ermetismo gnostico e si presenta come una guida per intraprendere
un cammino che permette all’iniziato di conoscere, attraverso il suo intelletto
divino, il fondamento di ogni realtà: ciò che di essa è l’inizio e la fine.
In essa è Ermete Trismegisto che
parla.
La parte ontologica della Tavola si fonda sul
simbolismo dello specchio che era centrale alla tradizione ermetico-gnostica e
che venne ripreso, in modi diversi (colori, luci prismi), da teosofi come Jacob
Boheme.
Lo speculum va inteso nel senso arcaico del geroglifo egizio del KA,
il doppio, che ritroviamo successivamente nell’ iconografia e nella mitologia
greco-romana (per es., in Giano bifronte). Esso non istituisce un dualismo tra
mondo superiore e mondo inferiore, ma una unicità che si esprime nelle due
dimensioni dell’ alto e del basso, della luce e dell’oscurità e, in senso
alchemico, del denso e del sottile. Macrocosmo e microcosmo sono la stessa
cosa, come parte dell’Uno, ma anche dimensioni diverse per cui il secondo è lo
specchio del primo. Questo principio di corrispondenza è il perno su cui poggia
tutto I ‘edificio gnostico-ermetico. L’iniziato è in grado di cogliere il
Macrocosmo proprio e solo perché è un microcosmo in cui il primo viene
riflesso: l’uomo possiede un intelletto divino, come dicono i teosofi moderni e
i Rosacroce, e proprio per questo è in grado di cogliere e conoscere l’Essere
Supremo attraverso la contemplazione del mondo, riflesso del macrocosmo, dell
‘ultimità del Nous.
Il principio di corrispondenza non è solo un
concetto ontologico, bensì anche metodologico, o se si vuole, iniziatico: il
cammino parte sempre dal microcosmo per giungere al macrocosmo: la pietra
grezza microcosmica è l’elemento iniziale per raggiungere il macrocosmo. Anche
il percorso esoterico- massonico si muove in base a una continuità di specchi
in cui si riflette ogni volta un microcosmo riflesso di un macrocosmo: è
proprio osservando lo specchio che il massone può trovare in esso l’essenza di
ciò che ogni volta ricerca nel suo cammino iniziatico. Allo stesso modo il
tempio terreno è speculum del tempio celeste, della Gerusalemme Celeste.
Nella Tavola il simbolismo dello specchio in senso
ontologico indica la concezione gnostico-ermetica della realtà espressa, da un
lato, dalle parole “ciò che in basso è come ciò che è in alto è ciò che è
in alto è come ciò che è in basso”; dall’ altro, dall’ affermazione secondo
cui tutte le cose sono e pervengono dall’Uno per mediazione e tutte le cose
sono create dall’Uno per adattazione. Allo stesso tempo tutte le cose tornano
all’Uno: Ab uno Omnia / Ad Unum Umnia. Un percorso ciclico che dall’Uno si
muove vero la molteplicità delle cose e da questa molteplicità verso I ‘Uno. La
realtà ultima è intesa come unica ed è costituita allo stesso tempo da materia
e da spirito; essa è quel Nous, od Uno, nel senso offerto da Plotino, che è
origine e scaturigine di ogni cosa e di ogni diversa natura delle cose. Per
usare una espressione della Naturphilosophie si può dire che si tratti di un
organismo che possiede una vita e che pulsa e pulsando origina emanazioni e
mediazioni che danno luogo a ciò che è in alto e a ciò che è in basso: due poli
che si distanziano e si ricongiungono continuamente. In termini alchemici si
tratta del processo solve et coagula per cui per cogliere l’essenza di ogni
cosa è necessario adoperarsi per dissolverla per poi ricostituirla in una nuova
unità: alchemicamente l’ Uno, pur restando tale, si dissolve e dissolvendosi
genera le cose del mondo che a loro volta tendono a ricostituirsi in altre sino
al finale ricongiungimento con l’ Uno: l’ alto muove verso il basso ed il basso
ritorna all ‘ alto. Un processo che è proprio anche della pratica massonica di
costruzione del tempio alla gloria del GADU: l’ Uno ha dato luogo all’uomo e
l’uomo, dissolvendosi e coagulandosi durante la pratica esoterica, si
ricongiunge con esso attraverso la costruzione del suo Tempio Interiore.
Come è noto, la Tavola ha avuto principalmente una
interpretazione alchemica (che appare anche palese da alcune sue proposizioni
come la VI e la XII) che indica le strette relazioni tra ermetismo ed alchimia
intendendo anche che l’ alchimia è lo strumento pratico dell ‘ermetismo.
Tuttavia, altre interpretazioni, come quelle dei Rosacroce o dei Teosofi,
prescindono dalla pratica alchemica ed intendono la Tavola come una
enunciazione di fondamenti filosofici e di indicazioni per una via esoterico-iniziatica
che fa appello a un processo di trasmutazione relativa a una elevazione
spirituale in cui, non di rado, il Nous è identificato con l’ Essere Supremo.
La Tavola, quindi, in senso più ampio, può essere
interpretata come un testo esoterico che fornisce una visione del mondo e dell
‘uomo che , attraverso uno specifico processo, è impegnato in un cammino di
perfezionamento e di elevazione spirituale che lo rende capace gradatamente di
cogliere dal ciò che è in basso ciò che è in alto; da ciò che è esteriore (per
esempio il Tempio fisico, la Cattedrale) ciò che è interiore (il tempio
interiore, il proprio sé che si è elevato dalla mondanità senza negarla: il sé
iniziatico).
La Tavola è espressione della concezione ermetica
secondo cui la pratica dell’Opera (alchemicamente o diversamente intesa)
permette di passare dalla materia allo spirito, all’ interno di quella
divinizzazione dell ‘universo che fu propria della tradizione esoterica che va
da Pitagora a J. Boehme.
In questo lavoro ci occupiamo solo delle
prime affermazioni di Ermete Trismegisto indicate con le proposizioni 1 e 2.
La Tavola inizia con una affermazione che è il
fondamento della filosofia ermetica: il principio di corrispondenza come viene
chiamato nel Kybalion e simbolicamente rappresentato dalla cosiddetta stella di
David (due triangoli intersecati tra loro: l’uno con il vertice verso l’alto,
l’ altro con il vertice verso il basso). Questo principio viene espresso sotto
forma di una verità certa e quindi indiscutibile: “E’ vero e certo
In tutte le versioni della Tavola il processo di
corrispondenza parte dal basso per riferirsi all’alto e in secondo luogo viene
ribadita la ‘somiglianza’ dell’alto con il basso. Per questo la Tavola non è
solo un testo filosofico, ma iniziatico che indica la via dal quale cominciare
il cammino verso l’Uno.
Il principio esprime l’unità del reale; l’Uno si
separa in ciò che in alto e in ciò che è in basso che posseggono la stessa
sostanza; ciò che costituisce ciò che è in basso.
L’alto e il basso sono il macrocosmo e il microcosmo, ma non solo nel
senso riferito al terreno e al celeste, ma in modo più ampio alla materia e
spirito; ed ancora, l’alto e il basso sono riferibili a un processo di
carattere gnostico, mirato cioè alla conoscenza, che opera un continuo
passaggio tra ciò che appare nel mondo e ciò che lo costituisce; tra il sopra e
il sotto di ogni cosa; tra l’apparenza e la essenza della realtà. La gnosi si
raggiunge con il passaggio continuo tra ciò che appare alla superficie (l
‘occultum lapidem) e ciò che è al di essa e la fonda.
Il basso in senso alchemico, è ciò che è solido da
cui deve essere estratto l’elisir , ciò che è sottile, ma l’elisir è
raggiungibile solo in quanto c’è il solido; ed è proprio partendo dal solido,
dai metalli, che si può giungere, per generale separazione, alla pietra
filosofale, al sottile, a ciò che come elisir è essenza del mondo. Essenza che
è telesma, principio di tutto: dove per telesma si intende proprio ciò che è
perfetto, ma perfetto in quanto dato ma allo stesso tempo raggiunto; la radice
è quella stessa di telos (fine) per cui si intende il principio che è origine e
fine allo stesso tempo.
Il basso (solido) e l’alto (sottile) sono anche ciò
che costituiscono l’ Uno ed ogni cosa che proviene da esso, come per esempio
anche l’uomo; se si vuole, materia e spirito, metalli e oro philosophico; l’
androgino come unione nella separazione tra maschile e femminile: l’Adamo
Khadmon ha in sé questa unione degli opposti separati.
In un senso più ampio la cosa-uno, od Uno, è anche
l’unione degli opposti; ciò che è pesante e ciò che è leggero, ciò che è denso
e ciò che è liquido, ciò che è interiore e ciò che è esteriore, ciò che duro e
ciò che è molle, ciò che è apparente e ciò che è nascosto.
Dall’Uno è stato generato il Tutto, inteso come
l’insieme di tutte le cose che appaiono come tali; ma anche di quelle che non
sono, di quelle che verranno generate, di quelle che non appaiono
fenomenicamente ed ancora di quelle che sono svelate dalla condotta iniziatica.
Dall’Uno si diparte ogni cosa, ma ciò non significa che l’Uno viene meno della
sua sorgente di potenza: le generazione del tutto non allenta la forza
dell’Uno. Esso, inoltre, si arricchisce da ogni processo che dal basso muove
verso l’alto (ad Unum Omnia) .
La concezione monista dell’ermetismo, tuttavia,
proprio in base al principio di corrispondenza, non porta a una considerazione
negativa della materia (o dei metalli), ma a una Iop interpretazione positiva
come ciò da cui si diparte ogni cammino verso I ‘Uno.
In riferimento all’ uomo, il principio di
corrispondenza da un lato indica la duplicità della sua natura terrena e,
dall’altro, il fatto che egli possiede la luce dell’Uno ed è proprio per questo
che può accedere ad esso.
La prima duplicità è la
constatazione primaria dell ‘iniziazione: la parte esteriore o fisica e quella
interiore o spirituale. L’involucro esterno è ciò che racchiude lo smeraldo che
riflette la luce dell’Uno. Uno smeraldo che deve essere ricercato, trovato e
curato ed in ciò consiste la pratica esoterica. La pietra che si trova in ogni
uomo, l’occultum lapidem, è il fondamento su cui costruire la Cattedrale
Celeste: la dimora in cui ritrovare se stessi, il senso della propria vita, ma
ancor più la dimensione dell’ Oltre e dell’Invisibile in cui ogni uomo può
esprimere la pienezza del suo essere e quindi la sua vera ed ultima dimora. L’
occulto è in tal modo oltre ed invisibile.
Secondo
il principio di corrispondenza ogni cosa ne nasconde un’altra ed ogni cosa si
apre ad un altra. Proprio come il processo iniziatico che ha una origine ma non
ha fine, perché la vita stessa iniziaticamente è un percorso di ricerca
continua di ciò che è oltre ed invisibile: ciò che sta dietro alle parole, alle
cose, ai fatti, ai rituali. Ogni passo raggiunto nel cammino della via
esoterica si lascia dietro una oscurità che è superata ma che è sempre oggetto
di ulteriore chiarimento. Un processo che è costituito da una via ascendente e
di una via discendente attraverso quelle che ho indicato come le cinque vie del
percorso massonico.
(Tratto
da: Mariano Bianca, Le cinque vie e i quattro percorsi, in Massoneria Oggi,
III, 2, pp.35-41; i quattro percorsi sono:
a)
esoterico-iniziatico, b) intellettivo-razionale, c) intrapsichico, d)
dialogico).
Queste vie sono quelle
che permettono di oltrepassare i limiti della apparenza, del fenomico, della
superficie per poter così passare dal basso all’alto, dal fuori al dentro ed
entrare gradatamente nella dimensione oltre e invisibile. Ogni cosa ha un fuori
che è il suo basso ed ha un suo dentro che è il suo alto. L’acrostico del
V.I.T.R.I.O.L. , che accompagna la Tavola, indica che il viaggio iniziatico
consiste nel visitare l’interno della Terra; e questa Terra è elemento
costitutivo primario per cui essa è ogni cosa del mondo di cui si deve svelare
ciò che è nascosto. E’ solo viaggiando all’interno, o nell’interno, che si può
trovare quella pietra del basso su cui agire per raggiungere l’alto.
L’interiora Terrae significa l’interno di ogni alcunché che è posto come punto
di partenza: luogo di oscurità, di occulto, che è inteso come ciò che è
nascosto, invisibile, non è palese, né ovvio agli occhi dei sensi, ma appare
alla luce della ragione e della sapienza.
In riferimento al singolo uomo questo interiore è proprio
ciò che chiamiamo la sua interiorità, ciò che è nascosto ed oscuro che deve
essere portato alla luce; ciò non significa la luce dei sensi ma quella della
sapienza che non traspare palesemente nel mondo. Da qui la segretezza della
oscurità che si svela solo alla luce della comprensione della essenza del mondo
e la segretezza del lavoro ermetico.
La comprensione del principio di corrispondenza,
quindi, non porta solo ad una visione filosofica del mondo, ma induce un
atteggiamento attivo, indotto dalla forza dell’Uno attraverso la comprensione
del mondo, che fa sì che l’iniziato partecipi attivamente alla vita dell’Uno e
quindi alla continua costruzione del cielo stellato, quello che sovrasta il
Tempio Massonico. Partecipa a questa vita in quanto emanato continuamente da
esso ed in quanto rivolto ad esso.
Nella via iniziatica massonica il libero muratore
intende il principio di corrispondenza non solo in riferimento al suo occulto
interiore che necessità di essere posto in corrispondenza dell’ alto che solo
lui può trovare; ma vuol dire anche che ogni cosa del mondo non può essere
intesa così come appare. V’è sempre qualcosa di più, qualcosa che deve essere
cercato; in ogni cosa v’è un occulto che per essere raggiunto deve impegnare
uno sforzo continuo: da qui la pratica rituale e soprattutto la sua continuità
nello scorrere del tempo nella vita quotidiana e all ‘ interno del Tempio.
Ciò che è in alto è così ciò che è occulto, nel senso
di nascosto allo sguardo ma si manifesta attraverso dei segni (i segni delle
cose, segnatura rerum) che non solo devono essere ricercati ma devono essere
capiti nel loro valore di indicatori di ciò che è oltre ed invisibile:
l’occulto si svela attraverso segni, ma sono segni ermetici ed oscuri per cui è
necessario un lavoro di scavo per poterli comprendere: un’Opera che esegue il
singolo iniziato, ma che si fonda su una tradizione e sull’ausilio dei compagni
di viaggio ( i fratelli di Officina).
La ritualità sacrale (e sacrale è qui inteso come ciò che sta sopra e
da senso ad ogni cosa) procede quindi nella duplice direzione della ricerca e
della comprensione. La vita nel Tempio (l’Officina che si rivolge ai segni
delle cose) si muove in questa duplice direzione: ricerca l’occulto e si volge
alla sua comprensione. L’ impegno primario dell ‘ iniziato è perciò prima di
tutto la intenzione occulta, cioè l’intenzione di mirare verso ciò che è
nascosto, oltre e invisibile. L’iniziazione, in tal senso, è la disposizione d’
animo dell ‘ iniziato verso questa ricerca e la disponibilità dei liberi
muratori di accoglierlo per aiutarlo in questa sua ricerca. L’ iniziato non può
fermarsi a ciò che è in basso, a ciò che è esteriore e a ciò che è pesante:
egli intende muovere verso I ‘ alto, I ‘interiore, il sottile; quell’occulto che
non si disvela ai sensi ma si propone al disvelamento attraverso i segni delle
cose. I segni portano all’ occulto e questo, una volta raggiunto, apparirà come
la luce che rischiara la caverna in cui l’uomo si è perso: la molteplicità
delle cose.
Il Tempio massonico è quel luogo in cui, attraverso la
pratica rituale l’occulto appare con i suoi segni che vengono svelati con l’
ausilio della loro comprensione.
La vita nel Tempio massonico per questo si svolge
proprio all ‘ insegna del principio ermetico posto come fondamento iniziale
nella Tavola Smeraldina. La ritualità ha proprio come scopo lo svelamento dell
‘occulto (occultum lapidem), inteso come ciò che è oltre ed invisibile e quindi
come l’essenza delle cose; ciò significa partire dal basso per spingersi verso
l’ alto; osservare l’ apparenza per trovare l’essenza, percepire l’ esteriore
per entrare nell’interiore, trovare l’occulto: ciò che è nascosto che proprio
perché tale è il fondamento dell’ultimità, di ciò che è ultimo di ogni cosa.
Il Tempio è ancora ciò che è in basso se non è
partecipato dalla sapienza iniziatica e dalla ritualità, per questo esso è in
sostanza meramente simbolico e può essere tracciato in qualsiasi spazio
concreto. Il Tempio diventa dimora iniziatica quando è attraversato dal logos e
dalla ritualità ermetica e solo così esso, insieme ai fratelli che lo
costituiscono in un dato tempo, diventa il luogo del cammino, del viaggio che
si dirige verso I ‘ occulto come essenza di ciò che appare nel mondo.
Quest’ultimo, quindi, nelle parole templari assume una diversa dimensione;
trasmuta da luogo del basso a indirizzo verso l’alto. E’ così che ogni
argomento posto ritualmente nel Tempio, anche riferito alla concretezza del
mondo, passa dal luogo del basso a quello dell’ alto; esso supera la
esteriorità e si pone come oggetto su cui viene posta l’ attenzione per
disvelare ciò che in esso è nascosto. Gli ermetici antichi e medioevali
ponevano proprio l’accento sull’ aspetto occulto della pratica esoterica; il
termine occulto in questo senso non è riduttivamente riferito a pratiche
magiche (una riduzione che venne effettuata in particolare da E. Levi
nell’Ottocento), ma fa riferimento proprio all’ antica pratica ermetica, come
occulta philosophia, cioè quella filosofia che si dirige verso l’alto e in tale
prospettiva intende cogliere ciò che è nascosto, occulto, nel mondo. Agli
esoterici.. ai massoni, agli emetici, così come agli alchimisti, non interessa
soffermarsi all ‘apparenza delle cose del mondo, ma il loro intendimento è
proprio quello di cogliere ciò che è nascosto, dietro, interno, al di là delle
apparenze. Il mondo concreto, allora, sia nella ritualità templare, che nell
‘impegno profano appare in una nuova dimensione che non annulla la concretezza
delle cose, ma la porta proprio in alto, fornendo ad essa nuovo senso e
significato e così facendo cambiando
concretamente il mondo e dando luogo alla costruzione di Templi interiori e di
Cattedrali Terren che stanno nel basso ma che riflettono direttamente e
profondamente ciò che è in alto.
L’ alto così si rivolge
al basso ed il basso tende a volgersi verso l’ alto. In ciò risiede la natura
dell’Opera
della pratica rituale massonica e della sua presenza nel mondo
concreto. In ciò sta il senso massonico della vita di ogni uomo e dell’intera
umanità. In ciò si fonda il cammino verso l’oltre e l’invisibile che riveste li
natura concreta di tutte le cose.
IL PENSIERO MERIDIONALE TRA IL SEICENTO E IL SETTECENTO
di
Concetta Notarile
Delineare in poche righe un profilo del pensiero meridionale
costituisce un compito arduo per la molteplicità di motivi che andrebbero
presentati, più proficuo forse, è indicare uno “stile di pensiero”
che attraversa uno dei periodi più interessanti della cultura meridionale.
Ciò che ha caratterizzato il pensiero meridionale è stata
una tradizione vitalistico-naturalistica autoctona che affonda le sua radici in
G.B. Della Porta, G. Bruno, B. Telesio, e T. Campanella. Tale tradizione
costituì, tra la metà del Seicento e gli inizi del Settecento, una delle
componenti fondamentali del confronto critico con l’ Aristotelismo scolastico e
con il pensiero moderno.
Di fronte all ‘ avanzante cultura
europea, la cultura meridionale trovava una forte identità e continuità
culturale nel platonismo. Si ha nel meridione un platonismo civile,
riformatore, che dalla metà del Seicento attraversa tutto il secolo dei Intorno
alla metà del Seicento, un largo filone della storiografia meridionale, (si
pensi a G.B. Vico, ad es.) individua l’antica alternativa all’aristotelismo in
un una “filosofia italica”, platonico-neoplatonica, non priva di
agganci nell’ ermetismo, e riconosce in essa le lontane origini del pensiero
moderno così come si era configurato nel contesto culturale meridionale. In
questo contesto storico-erudito, la rinnovata attenzione per il pensiero
pitagorico-democriteo-platonico, e quindi “italico”, scaturiva da
istanze metafisiche e civili trascurate dal razionalismo cartesiano.
Più in particolare, si può affermare che lo
spartiacque aristotelismo-platonismo che vede la riaffermazione di
quest’ultimo, nei termini della già citata categoria di “platonismo
civile”, da parte della cultura meridionale di questo scorcio di secolo,
sembra articolarsi secondo la seguente duplice polarità tematica: a) accentuata
sensibilità, secondo la linea dell ‘ ermetismo naturalistico rinascimentale,
per la presenza divina nell ‘uomo; b) spiccato interesse per il mondo della
storia, invece che per quello della natura, secondo quanto la moderna scienza
sperimentale, nata dentro altri e diversi contesti sociali e culturali, andava
fortemente rivendicando.
E’ appena il caso di aggiungere che questi due modelli
tematici, alla base della categoria storiografica del “platonismo
civile”, non vanno assunti in senso né schematico, né restrittivo rispetto
agli autori di volta in volta qui ricordati, ma stanno piuttosto a segnare
delle linee di tendenza di un percorso storico-ideale spesso contraddittorio e
contraddistinto da non poche opacità.
Maturando la sua strategia intellettuale, Giambattista Vico
aveva indicato nella Scienza Nuova un modo diverso di guardare alle origini
rispetto alla cultura del proprio tempo. Vico sosteneva che nella cultura delle
origini non andava cercata una sapienza riposta, piuttosto di una riflessione
che appartiene ad uno stadio avanzato della storia dello sviluppo dello spirito
umano, da cui la critica vichiana alla “boria dei dotti”, ma una
sapienza volgare frutto dell’ intuizione e quindi dell ‘ immaginazione e della
fantasia propria dei primitivi. Solo risalendo alla fase aurorale della storia
dell’umanità, ma senza i pregiudizi arrecati dalla “boria” (dei
“dotti” e delle “nazioni”), si poteva capirne lo sviluppo
perché in quella fase si era formata la conoscenza e il vivere associato.
Solo risalendo a questo momento iniziale si potevano
cogliere le leggi naturali e immutabili che sono a fondamento dello sviluppo
generale della storia dell’umanità assieme a questi importanti spunti della
riflessione vichiana, che non mancarono di trovare risonanza presso più di una
generazione di illuministi meridionali, si diffuse durante il regno di Carlo
III di Borbone, l’interesse antiquario che, in quanto pura erudizione, divenne
un impegno ufficiale legato alla corte ma privo di un rapporto ideale con la
nuova cultura dei lumi.
Sebbene il ceto intellettuale formatosi
alla scuola del Genovesi fosse volto prevalentemente verso problemi di
carattere economico e civile, i prodigiosi ritrovamenti degli scavi di Ercolano
e Pompei avviati nel 1738 da Carlo III, provocarono tuttavia in quegli anni un
diffuso gusto per le origini, quasi una vera moda antiquaria. La grande
suggestione che i reperti rinvenuti negli scavi ercolanensi e pompeiani
esercitarono sul pubblico, trovava la sua ragione di fondo in una visione
accreditata dal mondo classico, ripresa dalla tradizione ermetico-neoplatonica
e largamente diffusa dalla massoneria, che aveva avuto a Napoli uno dei confini
latomistici. più importanti a partire dal 1734. Secondo tale visione, che non
emerse esplicitamente nei dibattiti del tempo, i reperti rinvenuti negli scavi
di Ercolano e Pompei erano stati “disseppelliti” da un passato nel
quale si celava un canone di verità che il tempo aveva “seppellito”.
Tale visione trovò, alla metà del Settecento, la sua espressione più
significativa nella poliedrica attività di Raimondo di Sangro.
Per un verso ancorato al naturalismo rinascimentale e per un
altro aperto alle istanze dell’Illuminismo, il Sansevero è stato conosciuto per
le bizzarre scoperte ed invenzioni, fra tante, le macchine anatomiche, più che
per la figura intellettuale offuscata dagli aspri giudizi di S. Di Giacomo e di
B. Croce, una nota a parte nella produzione desangriana occupa la famosa
cappella gentilizia di gusto barocco per la quale il Sansevero, insieme allo
scultore Corradini, realizzò i modelli dei gruppi marmorei che delineano all ‘
interno della Cappella un vero percorso iniziatico nel Cristo morto realizzato
da Sammartino.
Di fronte al mancato decollo di una politica di riforme,
intorno agli anni Settanta del Settecento, molti intellettuali abbandonarono il
cauto riformismo di stampo genovesiano-tannucciano e, pur rimanendo consapevoli
di una funzione civile della filosofia, si volsero ad un riesame globale della
dinamica storica. Il senso complessivo di questo movimento di pensiero, non è
immediatamente politico, perché I ‘ accento non batte su meccanismi
istituzionali e di potere, ma etico-storico, cioè in direzione di una
“civile filosofia” che fa i conti con la storia.
Gli illuministi meridionali della “seconda
generazione” accolsero e fecero proprie le importanti indicazioni
storiografiche del pensiero francese e scozzese, senza peraltro perdere di
vista nelle loro indagini storiografiche i riferimenti autoctoni, in
particolare VICO. Pur negando il realizzarsi di un piano provvidenziale nella
storia umana, erano consapevoli della maggior forza persuasiva della religione
rispetto alla ragione e dell ‘influenza che la religione ha avuto in tutte le
trasformazioni giuridico-politiche. Questa consapevolezza fece sì che il
progetto legislativo che il Filangieri delineò nella Scienza della
Legislazione, ad es. culminasse nella proposta di una “ragione illuminata” o “religione civile”.
La riflessione sul
proprio passato avviata in questi ultimi trent’ anni del secolo, nasceva nel
meridione, come si è detto, innanzitutto, dall ‘ esigenza di una riforma morale
e politica. Non a caso uno dei cardini della storiografia meridionale del tardo
Settecento è costituito dall’individuazione ed esaltazione di un “modello
italico” opposto ad un “modello romano”. Riferirsi ad un
“modello italico” significava per gli intellettuali sia porre un
parametro originario che consentisse di recuperare le radici della
“nazione” e quindi di tutta la storia patria nei suoi diversi
aspetti, sia, e soprattutto, contrapporre tale riferimento alle corrotte
condizioni del regno.
Non va trascurato che evocare un ritorno alle origini non
significava per questi intellettuali condividere il mito del buon selvaggio. La
teoria dell ‘uguaglianza tra gli uomini, la teoria contrattualistica e quella
dell ‘illegittimità della proprietà privata sostenuta da Rousseau.
Gli illuministi meridionali, per ragioni storico-politiche e
culturali, intendevano proporre un ‘ uguaglianza civile, non politica. Una
delle aree in cui maturarono le più alte espressioni del tardo illuminismo
meridionale e dove il naturalismo trovò, non a caso, i maggiori sostenitori, fu
la massoneria, che ebbe nella famosa villa dei fratelli Di Gennaro, uno dei più
importanti circoli massonici del tempo. Tra i frequentatori di questa villa,
posta tra Mergellina e Posillipo, ricordiamo, tra gli altri, Filangieri,
Delfico, Cirillo e Pagano, questi ultimi vittime della Rivoluzione del 1799.
Uno dei figli illustri dell
‘Illuminismo meridionale, fu Vincenzo Cuoco, il quale, come molti illuministi
meridionali, apriva i motivi di ispirazione vichiana a suggestioni provenienti
dalla cultura d’ Nel Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799,
Cuoco afferma che la causa del fallimento della Rivoluzione napoletana era da
individuarsi nel fatto che essa era stata una rivoluzione “passiva”,
ossia, non nata spontaneamente dal popolo, ma si era ispirata al modello
francese adottato dagli intellettuali. Era come se la nazione napoletana fosse
divisa in “due popoli”, quello degli intellettuali e quello del
volgo, che “avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue
diverse”. Finché c’era questa dicotomia sarebbe stato impossibile
realizzare ogni progetto di riforma, di qui I’ esigenza di un’ azione educativa
che formasse una nuova coscienza politica.
Nel Platone in Italia, l’autore
tornava sugli stessi temi e auspicava una rinascita spirituale dell’Italia non
ispirata ad ideologie straniere ma alle sue tradizioni di pensiero e di
civiltà. Tale rinascita doveva basarsi su valori comuni ed autoctoni, Cuoco
guarda insomma al “platonismo civile”, ma siamo ormai già all ‘inizio
dell’ Ottocento. •