PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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ATTUALITÀ DEL PENSIERO ROSACROCIANO

VIAGGIO NEL MONDO DEI RITI

ATTUALITÀ DEL PENSIERO ROSACROCIANO
di
Riccardo Gandolfi
Premessa
Il pericolo maggiore che, oggi, corre colui che vuole parlare dei Rosa+Croce è quello di ripetere alcuni dei tanti luoghi comuni che circolano sulla Confraternita.
Per cercare di evitare questo rischio, non mi dilungherò nell ‘ analisi storica, né sulle tante interpretazioni tentate sui pochi scritti disponibili, né cercherò di dimostrarne la veridicità storica. Il punto di partenza di questa breve disamina, sarà, invece, il ruolo che va riconosciuto alla confraternita nell ‘evoluzione dell ‘istituzione massonica, partendo da una domanda: “Perché I ‘ istituzione massonica sentì la necessità di richiamarsi ad una tradizione sotterranea, poco conosciuta, contrastata come quella dei Rosa+Croce?”
Cerchiamo di ricordare quale fu il clima culturale nel quale maturò l’ideale massonico e, più tardi, quali furono le correnti filosofiche che incisero profondamente sia nell ‘evoluzione delle società occidentali che dell’ istituzione massonica.
A partire dal diciottesimo secolo si andarono affermando, sempre di più, tendenze culturali che esaltavano la ragione, intesa come facoltà intellettiva superiore ad ogni altra, tendendo, quindi, a valutare negativamente le altre manifestazioni dell ‘ intelletto umano, soprattutto di carattere sentimentale ed istintivo.
Alla luce di queste tendenze, si tendeva a spiegare tutto alla luce della ragione, persino I’ esistenza di Dio, non essendo più sufficiente il semplice atto di fede, inteso, al contrario, come manifestazione di bigotta superstizione.
Questo fideismo cieco nelle capacità razionali dell’uomo arrivò al paradosso di inventarsi un dio laico, la Dea Ragione, che, nell’intenzione dei rivoluzionari francesi, avrebbe dovuto sostituire il culto divino, rappresentando un mezzo per l’ affermazione di un ateismo del tutto anomalo, dato che non si spingeva ad affermare la negazione di Dio, ma semplicemente la sua sostituzione con un altro ente astratto ed artificiale.
In conseguenza di questo culto della ragione, si esaltò la capacità tecnica dell’ uomo, delineando scenari di sviluppo inarrestabile.
L’uomo laico, finalmente, poteva riaffermare la propria capacità di pensiero, utilizzare l’ intelletto in maniera libera, senza doversi confrontare con gli scritti aristotelici e con i dettati della Chiesa.
Le scoperte scientifiche si andavano coniugando alle fantasie di fervidi scrittori come Verne, creando il mito della scienza e della tecnica, intese come uniche attività intellettuali degne di essere esplorate dalle menti dei filosofi.
In quest’ ambito culturale si sviluppò prima l’Illuminismo ed in seguito la filosofia positivista che, in poco tempo, divenne un vero e proprio metodo d’ approccio ai maggiori temi culturali e sociali.
La metafisica, che apparteneva alla speculazione filosofica fin dalla sua nascita, era accantonata, cedendo il passo allo studio delle metodologie scientifiche. Mentre tutto questo accadeva, i migliori intelletti dell’ epoca si ritrovavano fra le colonne dei templi massonici.
Scienziati, filosofi, ma anche uomini d’azione, militanti rivoluzionari, si ritrovavano a rispettare rituali ricchi di simbolismi arcaici, aprendo sull’ ara la Sacra Bibbia e deponendo su di essa la squadra ed il compasso.
Uomini che affermavano la superiorità della ragione, che studiavano i processi chimici e fisici, che progettavano rivoluzioni ed intrighi, al coperto della volta celeste della loggia ritrovavano un linguaggio perduto.
Proprio queste persone contribuivano allo sviluppo del rituale massonico, all’introduzione dei gradi superiori, quelli del Rito Scozzese, nello stesso momento in cui si impegnavano per poter realizzare la più grande impresa culturale fino ad allora tentata, la scrittura dell’Enciclopedia universale, ovverosia un libro, seppur composto da vari volumi, all ‘ interno del quale poter rifrovare il compendio di tutti i libri fino ad allora esistiti.
Ricordiamo, a proposito di quest’ avvenimento, che ancora oggi è comunemente riconosciuto come evento rivoluzionario per la sua vasta portata, le parole che ritroviamo in uno dei testi principali prodotti dalla Confraternita dei Rosa+Croce, la Confessio Fraternitatis.
Non sarebbe forse un ‘ ottima cosa poter leggere tutto in un unico libro e leggendolo ricordare e capire ciò che è stato, che è e che sarà appreso e scoperto in tutti gli altri libri conosciuti e pubblicati finora ed in quelli che si pubblicheranno in futuro?
Certo, chi lo avesse letto con l’occhio dell’uomo del 1600, avrebbe interpretato le parole in maniera letterale, sicuramente le avrebbe derise, ritenendole frutto di fantasia; ma così non era.
Cosa rappresentavano, dunque, le opere dei Rosa+Croce da suscitare l’interesse di uomini così tesi alla ricerca di riscontri razionali, legati al mito della tecnica e del progresso inarrestabile illuminato dalla Dea Ragione? Secondo alcune interpretazioni, gli alti gadi della massoneria, I’ infroduzione dei mid Templare e Rosacrociano all’ interno della gerarchia massonica, coincisero con I’ ingresso di borghesi in cerca di promozione sociale.
In pratica, si dice da parte di qualcuno, la borghesia desiderava sostituirsi in tutto alla nobiltà, non solo nella gestione del potere, ma anche nella considerazione sociale; il poter esibire, seppur solo nel chiuso delle logge, i gradi di Principe o di cavaliere, soddisfaceva questo desiderio, gratificando l’ infantilismo di questi personaggi.
Sinceramente, appare difficile pensare ad un Voltaire che si sente gratificato per così poco, certo non sembra credibile che persone come Proudhon, Bakunin, Malatesta, Costa, Pisacane e Garibaldi, rivoluzionari e demolitori di idee e di regimi, ricercassero, fra un carcere e l’altro, una lotta civile e l’altra, la magra consolazione di un ‘ insegna artificiale.
Appare in tutta evidenza che, nella scelta di introdurre il mito templare e rosacrociano all’interno dei templi massonici, agirono motivazioni e ragioni ben più profonde, tanto da costituire, ancora oggi, la ragione d’ essere e d’ esistere dell ‘ Istituzione massonica.
A questo punto, I ‘unico modo per cercare di comprendere la causa di questo stretto legame nonché le ragioni della persistenza e del vigore del mito rosacrociano, è cercare di individuare alcune idee guida fra le tante che si trovano disseminate negli scritti ufficiali della Confraternita.
L’Umanesimo e la religiosità — Templari e rosacroce
Nei loro scritti, i Rosacroce si riferiscono, in molte occasioni, all’Ordine del tempio, in particolare, nella Fama si legge che la filosofia della Confraternita è: l’ornamento della Chiesa e l’onore del Tempio
Nelle Nozze chimiche, Christian Rosenkreuz, prima di iniziare il proprio viaggio iniziatico, indossa il suo: Bianco abito di lino e si cinse i fianchi di una fascia vermiglia che s ‘incrociava dietro le spalle e, più aVanti, il settimo giorno del suo viaggio, nel ricordare l’onore che gli fu tributato, ricorda che a lui venne permesso di cavalcare accanto al re e, scrive:
ciascuno di noi portava uno stendardo bianco come la neve, con sopra una croce rossa.
Non possono esistere dubbi sul fatto che la Confraternita dei rosacroce intendesse operare seguendo il solco tracciato dai Templari, considerazione peraltro rafforzata dalla descrizione della vita e delle opere dei primi confratelli, monaci e costruttori, come riportato dalla Fama, di un:
Edificio dedicato allo Spirito Santo
Per quale motivo i fratelli rosacroce decisero di ricercare un legame con il Tempio e, ancora, perché mai i massoni dell ‘ illuminismo e del positivismo continuarono a ricercare questo legame, senza mai rinnegarlo come ciarpame irrazionale?
Intanto, come ricorda René Guénon, la tradizione esoterica ha un fine ultimo, uno scopo preciso, quello di completare la Grande Opera.
Simbolicamente, essa è rappresentata dal tempio di Salomone e, altrettanto simbolicamente, per poterla completare occorre trovare un numero sufficiente di pietre levigate e squadrate.
58 Agorà settembre – ottobre 1997 Durante la costruzione, il Tempio appare senza difese, perché le mura non sono ancora costruite e per difenderlo occorre, dunque, che vi siano uomini in armi, uomini che ne comprendano l’ importanza e che per esso siano disposti a sacrificare la propria vita.
I Templari fecero questo, difendendo in Palestina le vie d’accesso alla Terra Santa, ricercando, al tempo stesso, di far proseguire il cammino della Grande Opera, acquisendo le necessarie nozioni spirituali e tecniche per cosfruire la rappresentazione terrena dell’ impegno sovrannaturale, ovverosia le grandi Cattedrali gotiche.
Dunque, richiamarsi all’ esempio ed alla tradizione templare significa, prima di tutto, ricordare il compito dell’uomo, la sua funzione, la sua missione.
L’uomo deve progredire verso una spiritualità profonda, deve liberarsi dalle incrostazioni della materia ilica, deve levigare e squadrare la propria anima per renderla sempre più simile all’ essenza di Dio, per poter contribuire alla costruzione del Tempio interiore.
Templari e Rosacroce, dunque, rappresentano un esempio che deve essere seguito da tutti coloro che credono nel vero progresso umano e che comprendono che il fine ultimo di questo non è la sostituzione di Dio, quanto il ricongiungimento dell’Uomo con Esso.
Da quest’ impegno discendono il precetto massonico di rifiuto dell’ ateismo, il voto monastico dei templari, l’ affermazione di fede da parte dei rosacroce, ma, soprattutto, la necessità di riportare l’ impegno spirituale sul piano pratico.
Quest’ultima necessità è dimostrata dalla critica che, nella Fama, è rivolta a Paracelso, del quale, si dice:
Perse il suo tempo con una vita troppo autonoma ed incurante della società, lasciando il mondo ai suoi sciocchi piaceri.
D’ altra parte, a Paracelso viene riconosciuto un grande merito, quello di aver dato:
Maggior valore al cielo ed ai suoi cittadini, cioè agli uomini, che non ad una qualsiasi altra gloria.
L’intenzione di concorrere allo sviluppo dell’umanità traspare ancora più decisa dalla lettura della Riforma universale e generale dell’intero mondo, nella quale si presenta, sotto forma di allegoria paradossale, l’ impossibilità di procedere ad una riforma vera senza partire dalla riforma delleèoscienze individuali.
Insomma, esattamente lo scopo che si prefigge la massoneria, quello di elevare l’ individuo per renderlo capace di influenzare lo sviluppo ordinato, democratico e libertario della società.
I limiti della scienza
Uno dei punti cardine della filosofia rosacrociana è rappresentato dalla necessità di mantenere l’unione inseparabile che deve esistere fra progresso scientifico e conoscenza della natura.
Nella Confessio Fraternitatis si legge, infatti, nel capitolo undicesimo, che, spesso:
Si opera la trasmutazione dei metalli senza abbinarla ad un’ adeguata conoscenza della natura, mentre è proprio questa ultima che, non solo ci può svelare la scienza della medicina, ma anche molti altri segreti e meraviglie. Perciò — scrivono — è meglio che coloro che possiedono ingenia, prima di occuparsi della tintura dei metalli, si esercitino ad approfondire lo studio della natura.
Nella Confessio si invitano gli uomini di ingegno a rifuggire dai falsi alchimisti, da coloro, cioè, che, dietro pagamento, si offrono per far svelare i segreti dell’arte sacra.
Di contro, si invitano tutti gli studiosi, gli scienziati, i sapienti, ad abbandonare la propria superbia ed ambizione, l’ esempio di arabi ed africani, che usavano incontrarsi per discutere sui temi della conoscenza.
Essi auspicano la nascita di una società che si impegni ad educare i governanti ad apprendere ciò che Dio ha concesso all’uomo di conoscere e, dunque, si rivolgono ai sapienti affinché:
Con umiltà ed amore essi ci aiuteranno ad alleggerire le pene di questo mondo invece di continuare ad essere ciechi di fronte alle meravigliose opere di Dio.
Soffiatori ed Alchimisti — L’anima e la procreazione — manipolazione genetica
Il significato del messaggio rosacrociano appare ancora più chiaro solo che si rifletta sulla conclusione delle Nozze Chimiche alle quali partecipa Rosenkreutz.
Solo Lui, insieme ad altri tre, riesce ad assistere alla nascita, prodotta attraverso un procedimento chimico, della giovane coppia regale che, come si direbbe oggi è nata dalla clonazione dei vecchi re. Gli altri, non puri e non degni, sono rimasti al piano inferiore, cercando, inutilmente, di riprodurre la vita senza comprendere che, senza l’ intervento divino, non è possibile il congiungimento della materia con l’ anima, elemento essenziale per la nascita della vita.
Mi riservo di approfondire in altra occasi one il significato simbolico e scientifico delle nozze chimiche, qui mi preme solo sottolineare una cosa: sicuramente ai lettori delle Nozze chimiche del seicento ma, presumibilmente, anche del primo novecento, tutta la descrizione del procedimento di riproduzione della vita sarà sembrata il frutto di una fervida fantasia. A noi, lettori di fine millennio, tutto appare molto meno favoloso di quanto possa sembrare, avendo presente i progressi della scienza genetica e biologica di questi ultimi anni.
Proprio le scoperte scientifiche di questi anni ci inducono a riflettere meglio sul significato profondo di questo scritto, soprattutto sul ruolo che, all’interno di questo, riveste il sangue e l’essenza genetica che da questo viene tratta nel lungo procedimento alchemico.
Con questo non voglio dire che i rosacroce conoscessero i segreti che oggi permettono la manipolazione genetica e la clonazione, però appare chiaro che essi ritenevano possibile creare in maniera artificiale la vita.
Ma proprio perché ritenevano questo possibile, si preoccupavano di mettere in guardia gli scienziati dal farlo, riservando, metaforicamente, solo agli eletti la possibilità di sapere, possibilmente per non fare, se non in casi eccezionali. Sicuramente, mai nessun rosacrociano, consapevole del valore della vita, della dignità umana e della pietas, componente essenziale dell’essenza umana avrebbe creato migliaia embrioni per poi procede, scientificamente e sistematicamente, con poche gocce di alcool, alla loro distruzione.
La scienza deve assecondare la natura, non sostituirsi ad essa. Questo il loro messaggio. Tant’è che, ricorda Rosenkreutz, fra le regole da rispettare, egli ed i suoi compagni di viaggio, onorati del titolo di Cavalieri della Pietra D’ oro, ce n’ era una che ritenevano quasi uno scherzo, dato che recitava: Non desidererete vivere più a lungo di quanto vi abbia concesso la volontà di Dio Cosa che viene richiamata nella Fama, quando viene scritto che:
Sebbene i loro corpi fossero immuni da ogni malattia e dolore, tuttavia le loro anime non potevano oltrepassare i termini stabiliti ad esse dalla morte.
Ecco dunque che per i massoni, uomini razionali, studiosi, scienziati, l’esempio rosacrociano appare come un simbolo necessario per rafforzare, nello stesso tempo, la fiducia nelle di conoscenza dell’uomo e la fede nella trascendenza.
Senza fede, senza la consapevolezza dell’umana precarietà, la scienza non produrrà progresso, ma solo ricerca dell’ oro e soddisfazione della vanità personale.
Come scrivono i fratelli rosacroce:
Per i veri filosofi la fabbricazione dell’oro è cosa di scarso valore, e che oltre ad essa si possono fare mille cose migliori.
La Lingua ed il simbolo
Nel loro impegno per la diffusione della conoscenza e nel loro appello per la nascita di rapporti stretti, di collaborazione, fra sapienti di tutto il mondo, più volte i fratelli rosacroce trattano il tema della lingua, intesa come veicolo di dialogo e di fratellanza. Nel capitolo nono della Confessio, essi scrivono che:
Abbiamo creato un nuovo linguaggio, tramite il quale è possibile esprimere ed interpretare la natura delle cose.
A proposito delle lingue parlate, essi dichiarano di non essere in grado di esprimersi chiaramente attraverso di esse, perché, scrivono:
Queste lingue non possono venir paragonate a quella di Enoch e di Adamo, nostro padre originario, perché esse fürono completamente contraffatte quando avvenne la confusione delle lingue babilonese.
Nei manifesti affissi a Parigi nel 1623, essi affermano di poter rivelare come parlare le lingue dei paesi dove vogliamo essere. E’ di tutta evidenza che per poter diffondere la conoscenza è necessario che, per prima cosa, sapienti e discenti si comprendano.
II rito come metalingua internazionale
La massoneria, universale per scelta e necessità, ha cercato di tradurre in realtà l’insegnamento rosacrociano attraverso il rito. Attraverso la ritualità simbolica, il significato del simbolo, essa ha realizzato una metalingua, che può essere compresa ad ogni latitudine e longitudine e che consente a chiunque la conosca, di poter seguire i lavori rituali, in qualsiasi parte del mondo esso si trovi e qualunque lingua egli parli.
Oggi abbiamo Garcia Marquez che invita, paradossalmente e provocatoriamente, ad abbandonare la grammatica, per cercare un modo più immediato di comunicazione. E”ovvio che questa affermazione è priva di valore, se non valesse come testimonianza di un sintomo reale di inadeguatezza dei linguaggi, non del tutto idonei ad assolvere alle funzioni a cui sono chiamati.
60 Agorà settembre – ottobre 1997 Non è, però, rinunciando alla grammatica che si può ovviare al problema, quanto diffondendo la conoscenza ricercando una lingua comune.
Conclusione
Al termine di questa breve e mi auguro non troppo noiosa disamina, ritengo opportuno sintetizzare quelli che ritengo essere i principi cardini del pensiero rosacrociano che, attraverso la ritualità e la tradizione, sono stati inglobati dal pensiero massonico e che, ancora oggi, mostrano una notevole vitalità.
Per rispondere alla domanda che ci siamo posti all’ inizio, ovverosia quali motivi potrebbero aver indotto uomini legati al pensiero illuminista e positivista a rifarsi al mito rosacrociano, possiamo affermare che il simbolismo rosacrociano risponde ad impegni che trovano una con•ispondenza nel pensiero e nell’ azione massonica.
Questi impegni possono essere sintetizzati come segue:
— Impegno individuale
— Impegno sociale
Impegno culturale e linguistico
Impegno scientifico
Impegno religioso
Per prima cosa, dunque, vi era, sia per i rosacroce che per i massoni, la necessità di difendere ed espandere i principi umanistici, ponendo l’attenzione allo sviluppo dell’individuo e della sua personalità, difendendolo da ogni tentativo culturale teso a subordinarlo a principi sovraindividuali, propri di culture totalitarie e totalizzanti.
Quindi, tutelare il progresso scientifico e culturale da ogni tentativo di compressione da parte del potere costituito, sia esso di carattere politico o religioso, pur riconoscendo che un limite deve essere imposto dalla coscienza stessa dei sapienti, consapevoli del fatto che non deve essere turbato il rapporto fra microcosmo e del macrocosmo e che ogni progresso deve essere in armonia con la natura.

Da questi principi discende la consapevolezza che l’uomo non può mai sostituirsi a Dio, che non deve arrogarsi il ruolo di demiurgo e che, soprattutto, non può alterare il ciclo della vita, cercando di ritardare la morte oltre ogni limite accettabile o generando la vita al di là delle naturali possibilità.
In definitiva, l’ uomo rosacrociano e massonico ricerca I ‘ equilibrio, la propria e l’ altrui perfezione per essere in sintonia con un universo del quale fa parte ed al quale appartiene.
Per assolvere a questo impegno, per contribuire alla realizzazione della Grande Opera, egli non può, però, limitarsi a curare il proprio perfezionamento, perché altrimenti potrebbe essere oggetto di critiche come Paracelso.
Egli deve operare come i Templari, agendo sul piano anche terreno, cercando di condizionare la realtà che lo circonda, al fine di renderla pronta per accogliere il completamento della Grande Opera.
Dunque, deve cercare di coinvolgere i sapienti e gli studiosi in un grande impegno culturale universale, ricercando una lingua comune, seguendo, in questo, l’esempio del fratello Zamenhoff, il doctor Esperanto.
Se questo sapremo comprendere, avremo compreso molti dei motivi che indussero i migliori uomini del secolo scorso ad adottare la simbolica discendenza della massoneria dai rosacroce e, soprattutto, avremo adempiuto al nostro principale dovere, quello di contribuire al progresso ed allo sviluppo dell’umanità ed al rafforzamento della spiritualità laica e massonica.
Fra questi compiti, vi è anche quello di difendere la libertà di studiare la storia, il rivendicare il diritto dei giovani e dei meno giovani di conoscere culture e racconti storici oggi esclusi dall’ufficialità
Mi riferisco proprio allo studio della cultura templare, rosacrociana e massonica, oggi esclusa dallo studio, non figurando alcun accenno nei libri di filosofia, storia, letteratura, quasi la loro influenza non fosse stata determinante per la formazione culturale di persone come Dante Alighieri, Giuseppe Garibaldi, Giovanni Amendola, Giacomo Matteotti, Einstein e tanti altri.
Se tutti avremo ben compreso il vero insegnamento, sapremo sicuramente come comportarci.

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AD UNA FUTURA INTEGRAZIONE RAZZIALE Opportunità e difficoltà di VITTTORIO VIANN

INTEGRAZIONE RAZZIALE Opportunità e difficoltà
di
Vittorio Vanni
on vi sono, oggi, argomenti, più difficili a trattare come quello dell’integrazione razziale, in quanto l’irrazionalità, l’emotività, l’egoismo, la xenofobia, inconsci o meno che siano, fanno parte del bagaglio psicologico di ognuno. Nessuno può dirsi veramente immune da impulsi biologici potenti come il sospetto, la paura, il rifiuto dell’altro, dell’alieno, dello straniero.
Chi afferma con sdegno di esserne privo molto spesso dimostra con i fatti una violenta preclusione verso alcune categorie umane o un’intolleranza, spesso feroce, verso delle categorie ideologiche che non collimano con le sue. Chi vive attivamente nelle nostre città deve riconoscere che la tentazione dell’insofferenza, del rigetto, dell’intolleranza, è spesso messa a dura prova dalle varie forme di mendicità, a volte violenta, che gli extracomunitari esercitano.
Chi subisce sulla propria pelle lo stillicidio quotidiano degli scippi, dei borseggi, dei furti, deve dimostrare continuamente a sé stesso di avere, tenacemente, la volontà di non generalizzare, di comprendere, di tollerare.
Questo, a volte, può esser più facile per chi ha dei mezzi economici per la difesa di se stesso e della propria famiglia, ma per le classi meno fortunate questo non sempre è possibile.
Quando, nei mass-media, i protagonisti di raid, punitivi o preventivi, o comunque esprimenti sentimenti di avversione contro gli extracomunitari sono intervistati, ognuno respinge con sdegno l’accusa di razzismo e nella maggior parte dei casi le affermazioni sono senz’altro sincere.
Può nascere così, in una nazione come la nostra, nel complesso bonaria ed ospitale, una forma nuova di razzismo, non più basata sul pregiudizio etnico, ma sulla paura di esser sottoposti ad atti di piccola o grande criminalità.
Ignorare le ragioni, a volte giustificate, di questi sentimenti della popolazione, o addirittura criminalizzarle, è un errore fatale alla convivenza ed alla comprensione dei popoli.
La volontaria cecità delle autorità politiche ed anche religiose di fronte al disagio della popolazione, cecità indotta da motivi ideologi spesso obsoleti, può produrre, alla fine, ulteriori lutti ed atrocità di cui l’umanità farebbe finalmente a meno. Il riconoscimento dei diritti dell’umanità nasce dall’equilibrio, dalla razionalità, dalla conoscenza, e non solo dal sentimento, che spesso è acritico ed a volte volubile.
Nella difficile opera dell’inte-
grazione razziale, che attende l’Europa futura, non potranno essere misconosciuti i diritti della cittadinanza, che pretende di mantenere un benessere economico ed un’identità personale e di gruppo, che ha acquisito a prezzi altissimi, pur senza farne, nel suo complesso, concetti ideologici.
L’ansia acritica dell’immediata integrazione degli extracomunitari, a tutti i costi, sia economici sia politici, è forse l’ultima, in ordine temporale, delle confessionalità nella storia del pensiero.
Quest’ansia, che può assumere dei caratteri funesti, contrasta nei fatti con la ragionata e cosciente affermazione del diritto d’ogni membro dell’umanità alla sussistenza ed alla dignità personali.
L’accoglienza calda, umana e gioiosa che noi italiani, in particolare, vorremmo riservare ai nostri fratelli d’ogni luogo e razza, non può prescindere da una valutazione e pianificazione dei mezzi d’ospitalità.
Vi sono tuttavia dei valori che, pur non dimenticando le difficili realtà economiche e sociali della nostra patria, italiana ed europea, vanno comunque affermati e difesi.
Il principio dell’uguaglianza e della fratellanza fra i popoli non è oggi comunemente contestato, al contrario è divenuto un archetipo psicologico e spirituale della stragrande maggioranza dell’umanità.
Ben diverse e sottili sono le variazioni dei principi con cui l’istinto primordiale, presente in tutti gli esseri umani, vorrebbe rideologizzarsi.
L’accusa di razzismo, sempre portata agli altri, naturalmente, è oggi più concettualmente rozza del razzismo stesso.
Per combattere le nuove forme dell ‘intolleranza, per procedere evolutivamente e civilmente verso l’integrazione, è necessario studiare e quindi conoscere le sue nuove maschere, le sue nuove variazioni concettuali ed ideologiche.
Le parole chiave di queste variazioni attuali, che degenerano sentimenti popolari rispettabili sono: personalità ed individualità: spiritualità genetica.
La dottrina della razza, tipica della prima metà del XIX secolo, era dapprima considerata come dominio dell’antropologia e dell’etnologia, quando queste consideravano i popoli primitivi o più arretrati come selvaggi da ammansire e addomesticare con usanze tipiche di una civiltà superiore.
Le supposte inferiorità di fatto erano quindi soggette ad igiene sociale, ma anche etica e spirituale. L’identità occidentale, affermata con la forza dal colonialismo, con la conoscenza dallo scientismo, con i concetti dalla speculazione filosofica, non aveva. in principio, dubbi di sorta sulla necessità etica della propria supremazia.
Il “bagaglio dell’uomo bianco”, il cui peso e gloria Kypling aveva epicamente cantato, faceva parte dell’immaginario collettivo che nessuno, se non pochissimi, avrebbe messo in dubbio.
I mezzi che l’occidente evoluto usava verso i popoli ancora nell’infanzia erano la brutalità dei fucili, i bastoni e le fruste.
Il giudizio verso i dominati era lo stesso che gli antichi romani riservavano agli schiavi e, in parte, alle donne, esseri che bisognava proteggere, dominandoli.
Il positivismo ed il razionalismo scientista di quegli anni confermava gli aspetü biologici ed antropologici della mentalità corrente, che si creava un mito, un’idea forza, una cristallizzazione d’energie creatrici relative agli istinti di un’epoca.
Le nazioni europee, tutte più o meno implicate nel colonialismo, si creavano così una sua giustificazione, razionale ed etica nel contempo, ai loro interessi anti-universalistici ed anti-individualistici.
Per affermare il concetto di stato etico, tipico delle oligarchie di ogni colore politico, era necessario collegare il sentimento di nazionalità a quello, più energetico e biologico, di razza, attraverso la creazione di un “mito” cioè ad un’idea che è più valida per la sua suggestione possibile che per la sua verità e fondatezza.
In questo senso il razzismo è un nazionalismo potenziato, che supera i confini territoriali, giuridici, culturali. Pur opponendosi all’universalismo, non si esaurisce in semplice unità di civiltà, ma può estendersi senza limiti geografici alla ricerca, o all’affermazione, del “proprio sangue”.
Questo mito, che ha segnato con una striscia di sangue il volto del nostro secolo, ha però delle evidenti limitazioni.
I popoli europei sono formati geneticamente da un meticciato bianco di cui sarebbe impossibile determinare la principale origine, sempre ammesso che questa vi sia o che sia importante ravvisarne le tracce.
Sarebbe oggi impossibile rilanciare l’idea di “purità o di contaminazione razziale”, ma variazioni ideologiche del razzismo, più insidiose, potrebbero ben cavalcare il disagio delle popolazioni europee di fronte all’immigrazione sempre più pressante dal Terzo Mondo.
Queste variazioni, già presenti “in nuce” nel razzismo classico, ma ripresentate insidiosamente sin dalla fine degli anni 70, potrebbero essere il maggior ostacolo all’affermazione dei diritti dell’umanità al libero spostamento e all’integrazione razziale.
Vi è, negli archetipi mentali e biologici dell’umanità, un istinto inestinguibile di sopravvivenza attraverso la specie, di mantenimento delle proprie caratteristiche fisiche e psicologiche.
Quest’istinto di natura legittimamente egoistica ha, naturalmente, delle fondate e legittime basi naturali, e si dovrebbe applicare oggi non più alla propria appartenenza “razziale” ma a quella dell’intera specie umana.
Può essere, al contrario, usato in termini opposti, per il rifiuto dell’altrui individualità, e per l’affermazione della propria maniera di vita e cultura particolare.
Se vi fosse, veramente, una civiltà superiore in termini oggettivi, è solo il contatto fra i popoli di diversa tradizione e la loro competizione non violenta che potrebbe affermarla e confermarla.
Sappiamo invece, oggi, che ogni civiltà possibile è il prodotto di una compromissione naturale fra diverse culture e modi di vivere, anche se i principi etici fondamentali devono essere comunque comuni.
Il nuovo razzismo non si lega più alle differenze genetiche, che elude come mere appartenenze materiali, ma si collega a considerazioni più sottilmente spirituali.
In quest’ambito si presenta come una volontà di stabilire, miticamente, • delle forme, dei limiti, delle individualità.
Il globalismo ed al mondialismo che si presentano insistentemente al nostro futuro, e che certamente hanno in sé dei pericoli, sono visti come l’indice di caos etnico e di snaturamento delle individualità, considerate come valore assoluto ed eterno.
Da questo punto di vista vi è una contraddizione dei termini, in quanto l’individualità è considerata, paradossalmente, come una forma comunitaria. Il razzismo, biologico o spirituale che sia, si rifiuta di considerare il singolo, in nome di un’astratta concezione di stirpe, di sangue, di tradizione. Queste hanno, in realtà, una vitalità, un’essenzialità, una sopravvivenza, quanto mai variabili, mobili, transeunti e trascendenti.
Rispettare ed affermare l’individualità di un popolo che ha, comunque, i suoi diritti non significa negare quelli dell’individualità del singolo, che nella scala dei valori etici ha valori primari, legati all’unicità momentanea della sua vita presente.
Il razzismo attuale, nel presentare la sua scala di valori etici, sociali ed economici, fa prevalere l’idea di “personalità” sull’individualità, intendendo così che il “merito” può prevalere sui diritti di ognuno, anche su quelli minimali.
Il valore personale dell’intelligenza, dell’operosità, della dirittura morale non può esser messo in discussione, ma il concetto di eguaglianza non si basa su questo parametro, ma su quello degli inalienabili diritti individuali di chi ha meno intelligenza, meno operosità, meno dirittura morale.
La confusione “meritocratica” diventa razzismo quando si attribuisce agli extra-comunitari minori valori di personalità, utilità e correttezza sociale, il che può anche esser vero, ma non in relazione ai diritti minimali.
Il razzismo attuale si contrappone poi al cosiddetto “mito” democratico ed illuminista, e si schiera contro la civiltà laica e profana della società borghese, affermando che la virtù, la nobiltà, la dignità non s’impara, ma si possiede o non si possiede, secondo la razza, la stirpe, la tradizione.
E’ la consueta teoria delle élite, che, conservatrici o rivoluzionarie che siano, si autodefiniscono tali solo in valenza del successo, della forza, dell’abilità, elementi, a volte, puramente casuali, non indotti dal merito individuale e soprattutto non innati.
L’autoaffermazione del sentimento elitario, in un periodo d’estrema crisi morale, politica ed economica come il nostro, è una tentazione che può affermarsi anche in relazione al fastidio che la presenza aliena degli extracomunitari, anche se non eccessivamente numerosa, può provocare.
Ancora più pericoloso è lo scambio dialettico fra i concetti di personalità e di individualità che può diffondersi nella mentalità comune; ma il concetto di maggior efficacia del nuovo razzismo è quello di spiritualità genetica.
Le forze dell’umanità che si richiamano all’istinto, al sangue, all’ereditarietà, insomma a tutto ciò che dà forma e sostegno alla personalità, non sono viste come un’espressione individuale, ma come appartenenti oggettivamente alla natura.
Ad esempio, l’aggressività psico-zoologica dell’uomo – che Conrad Lorenz ha evidenziato essere componente naturale ed indispensabile – come espressione individuale può esser controllata, diretta, raffinata e sublimata.
Come espressione della natura ha invece un valore innato in sé e può e deve esser usata coscientemente come forza egoica opprimente sugli altri, come un impulso inarrestabile di vita, ed in questo caso la personalità trascende la natura materiale stessa, divenendo spiritualità.
Non è più, quindi, la razza, un fattore meramente biologico, un puro dato, estraneo a qualsiasi azione creatrice dell’uomo, ma un’essenza spirituale che si manifesta sì biologicamente, ma che, intrinsecamente, si rende visibile in qualità, atteggiamenti, inclinazioni, sensibilità.
La nobiltà, come confessa Dante Alighieri, è fondamentalmente “antica ricchezza e bei costumi”, ma, essendo i bei costumi molto spesso una creazione generazionale indotta dal censo, è questo, e solo questo, che forma l’élite.
Ed è questo, fondamentalmente, il nuovo ed antico razzismo contro i diritti dell’umanità e contro l’integrazione dei popoli.
La povertà è, nello stesso tempo, inferiorità economica, intellettuale, morale. Un povero mansueto ed inoperoso è considerato la feccia dell’umanità, ma un povero ribelle ed attivo è sempre negativamente negro, albanese, marocchino, come una volta era italiano.
Il censo è considerato sintomo di criminalità, ma una criminalità “sui generis”, corretta, civile, superiore, dotata di qualità, d’educazione, di superiorità. Un ricco è pulito, quindi puro, quindi spirituale, anche se di quell’ambigua spiritualità moderna delle classi privilegiate chiamata New Age. Questa afferma i diritti altrui coltivando i propri privilegi, ama profondamente la povertà ed i poveri quando quella e questa sono ben lontani, e disprezza profondamente il razzismo triviale di chi incolpa gli zingari per i furti subiti.
Ed è proprio a questa forma di neo-razzismo pseudo-spirituale cui bisogna riferirsi come al rifiorire di nuove forme d’intolleranza.
In questo torbido fine millennio le speranze di qualche decennio fa sembrano impaludarsi, la nuova realtà europea, sperata e sognata da generazioni, sembra fagocitata dal pragmatismo delle banche e delle multinazionali.
Le nuove generazioni, che in parte non accettano il cinismo imperante nel nuovo ordine, si rivolgono illusoriamente alla cosiddetta nuova spiritualità.
Movimenti neo-mistici, pseudo-religioni, sette sponsorizzate dalle industrie che necessitano di sempre nuovi bisogni, ricreano universi chiusi e falsamente elitari, volgendosi spesso ad un improbabile oriente, ad una metafisica grossamente ciarlatanesca.
Il movimento della NewAge è come fiaccato da improbabili ansie escatologiche, non derivanti dalla profondità dell’inconscio collettivo quanto dall’introiezione d’archetipi prima rimossi dal consumismo degli anni ’80, e poi frustrati dalla crisi economica degli anni ’90.
I suoi corifei, apparentemente contrari alla tecnocrazia, all’inquinamento ecologico, al consumismo, al predominio delle considerazioni economiche su quelle etiche, ne rappresentano invece la loro giustificazione metafisica, dimostrando un’opposizione rivolta solo a finalità materialistiche, mentre vorrebbero così combattere l’arido positivismo delle multinazionali.
Il sacrificio della razionalità, secondo i neo-guru, è indispensabile alla scoperta della fede, dimostrando così che la New e la Old Age concordano nella volontà di controllo delle coscienze e nello sfruttamento del prossimo.
Il razzismo evoluto della post-filosofia della New Age ieri, e della Next Age oggi, è rappresentato dal presentare l’umanità come getta ad evoluzione spirituale individuale, il cui assommarsi, nel turo, diverrebbe l’evoluzione spirituale dell’intera umanità.
L’indifferenza, e la riprovazione, verso le necessità razionali ed organizzative della società, lungi dal rappresentare un’ascetismo, ostentato ma mai dimostrato, dimostrano un fideismo incontrollato nei confronti di una fatalità preordinata verso il meglio.
Le preoccupazioni quotidiane dell’umanità, di fronte ad una realtà poco felice, diventano una discriminante fra gli esseri evoluti e quelli che lo saranno in un lontanissimo futuro.
Il responsabile senso di colpa che ogni essere umano ha nei fronti dei miliardi di esseri umani senza libertà, senza cibo, senza medicine, viene così rimosso e sublimato nel concetto che ognuno deve comunque evolvere nel suo ambito e nelle sue condizioni, interventi ed aiuti esterni.
La povertà, il disagio, l’ignoranza, divengono così il segnacolo di un’esistenza precedente rivolta verso la materialità e il male. Le sponsabilità sono così dirette, individuali, senza attenuanti, senza pietà se non formale, con indifferenza totale e sostanziale.
Neanche le deliranti teorie sulla superiorità biologica razziale arrivarono mai a discriminare l’essenza interiore dell’umanità, a condannare implicitamente una vita umana, spesso più infelice che colpevole.
Cos’è dunque possibile fare per professare ed attuare il diritto alla sussistenza, alla libertà, alla dignità di ogni uomo in quanto tale, e non soltanto come appartenente ad una particolare razza, cultura o civiltà?
Aumentare, prima di tutto in noi stessi, la conoscenza e la consapevolezza della “charitas” come la consideravano i romani, che non è la semplice pratica dell’elemosina, ma la coscienza profonda che gli uomini differiscono enormemente per intelligenza, cultura, maturazione, ma che sono uguali nei sentimenti, nei bisogni, nei desideri, negli affetti, nella capacità di gioire e di soffrire.
Praticare la “virtus”, che è soprattutto moderazione ed equilibrio delle passioni e, oggi, dei consumi, godendo più della propria personalità che del proprio status.
Esercitare la “fides”, che è speranza ed azione assieme, per l’affermazione di principi che, negati spesso dalla realtà esteriore, devono essere tenacemente riconquistati nella realtà interiore.
Bisogna esser consapevoli, come un buon padre di famiglia, che non sempre possiamo soddisfare i bisogni materiali di tutti, come vorremmo, ma possiamo dare a tutti dignità, offrendo attenzione e considerazione, aggiungendo alle mille lire dovute al lavavetri uno sguardo, un sorriso, una parola.
Non dovremo attribuire agli ospiti delle nostre nazioni europee più diritti di quelli che godono i nostri concittadini, perché la “bontà” o meglio il “buonismo” molto spesso è solo fittizio, e nasconde l’egoismo di chi vuol esorcizzare i propri complessi di colpa o ignorare, senza giustizia, l’equilibrato diritto di ognuno.
Dovremo pretendere dai nostri ospiti che compiano i loro doveri, e che si adattino ai costumi ed alle leggi locali con la diligenza e la pazienza dell’ultimo arrivato, nell’attesa di una generazione che possa imparare ed insegnare nuovi valori e quindi nuove tradizioni.
Solo allora avremo il diritto e la capacità di organizzare, produrre, legiferare, in favore del nostro prossimo più alieno, perché senza equilibrio, prudenza, equità, maturazione personali le nostre opere produrranno soltanto nuovi errori, dolori e tragedie all’umanità.

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I MASSONI E IL GIUBILEO DEL’ANNO 1900

I massoni e il Giubileo del 1900
di
Anna Maria Isastia
ue grandi storici del novecento hanno scritto che la storia è sem pre storia contemporanea qualunque sia l’argomento trattato, perché lo studioso lo affronta con la cultura, la sensibilità, gli strumenti conoscitivi del suo tempo e non dei secoli passati.
Anche la scelta degli argomenti di ricerca non è mai casuale, ma è dettata da uno stimolo o da una motivazione che deriva dall’attualità, e questo sia nel caso che il ricercatore sia consapevole, sia nel caso che la scelta si presenti apparentemente occasionale.
In questo primo scorcio di 2000 due temi si sono imposti all’attenzione degli studiosi: l’anniversario della morte di Giordano Bruno, avvenuta a Roma il 17 febbraio 1600, di cui cadono i quattrocento anni, e la storia dei Giubilei.
La vastissima bibliografia degli scritti di e su Giordano Bruno non ha impedito la pubblicazione di nuovi volumi e una particolare attenzione al personaggio, anche a motivo del pentimento manifestato dai vertici cattolici per gli eccessi del passato.
Quanto al Giubileo non si contano più le pubblicazioni sul tema, che è stato ed è affrontato da tutte le possibili angolature, con articoli su quotidiani e periodici, opuscoli, libri di tutti i prezzi e tutte le dimensioni.
In questo oceano di parole, la mia attenzione è stata attratta da una notizia che ho letto più volte in differenti contesti, riferita sempre con lo stesso taglio critico, su un preteso contro giubileo che sarebbe stato organizzato dal Grande Oriente d’Italia nel 1900 a Roma.
La notizia viene riportata in un libro sul Giubileo pubblicato da Francesco Sisinni; dal “Corriere della sera” in un articolo del 25 aprile 1999 intitolato 1900, lo sberleffo dei Massoni al Papa; dalla rivista “30 Giorni” che, a fine novembre, ha proposto, in una storia a puntate dei Giubilei, la stessa ricostruzione dei fatti.
Si tratta di un fatto marginale cui viene però dagli autori attribuita una importanza tutt’altro che secondaria. Ed è proprio questo aspetto a renderlo interessante per lo studioso della storia della massoneria.
Si può dunque leggere che “il Pontefice e la sua Corte sono stati oltraggiati da un controgiubileo profano, e le timidissime aperture (vaticane e della politica cittadina) per raffreddare la “questione romana” non sono riuscite a raffreddare il forte spirito anticlericale che serpeggia in città. Il peggio accadde il venti settembre, quando la Massoneria festeggiò la ricorrenza dell’ingresso delle truppe italiane a. Roma, avvenuto trenta anni prima, con un corteo che, motteggiando i riti giubilari, si spostò in pellegrinaggio tra “quattro basiliche laiche” della città.
L’irriverente processione partì dal Pantheon, perché ospitava la tomba di Vittorio Emanuele II re d’Italia, puntò sul colle del Gianicolo rendendo omaggio a Giuseppe Garibaldi che aveva dato una spallata definitiva ai papalini, proseguì fino a Porta Pia, cioè proprio allàbreccià aperta dai bersaglieri di Lamarmora nel cuore del potere temporale, e infine si raccolse sul Campidoglio, sotto la statua del tribuno Cola di Rienzo, per onorare la-sede del laico governo capitolino.
Chi osò sprezzante il Gran Maestro della massoneria Ernesto Nathan, che fu anche sindaco di Roma dal 1907 al 1913: “Questi monumenü sono più maestosi di quelli che una turba di gente raccogliticcia visita per ottenere indulgenza”.
Questo il testo, da cui traspare chiaramente una malcelata censura nei confronti di una istituzione che irrideva ai sentimenti, agli usi, alle credenze di un’altra istituzione facendone una sorta di caricatura.
Non a caso una studiosa attenta come Maria I. Macioti in un saggio sui controgiubilei pubblicato sulla rivista “Iter” ha riproposto a sua volta questi avvenimenti del 1900.
Cosa c’è di vero in tutto ciò?
E’ nota la difficoltà di rapporti che vennero ad instaurarsi tra lo Stato italiano, nato ufficialmente nel 1861, e lo Stato della città del Vaticano che rifiutò di riconoscerne la legittimità fino alla firma dei Patti lateranensi del 1929. Ed è altrettanto noto come queste vicende abbiano reso estremamente complessa la storia dei primi decenni dell’Italia unita dando origine a quel movimento che va sotto il nome di anticlericalismo. Movimento di opposizione al potere politico gestito dalla chiesa cattolica in Italia e non già al cattolicesimo come religione.
Proprio per problemi di politica interna il Vaticano celebrò il Giubileo del 1875 in tono molto minore, mentre l’organizzazione di quello del 1900 provò la lealtà del governo italiano che, trovandosi per la prima volta di fronte ad un evento religioso di carattere internazionale, dimostrò la sua tolleranza favorendo in ogni modo il libero svolgimento delle celebrazioni. Questura, Comune e Vicariato lavorarono insieme permettendo la riuscita dell’anno giubilare.
In questo contesto due forze avrebbero cercato di impedire un quieto svolgimento degli eventi: i cattolici intransigenti e la massoneria. Gli uni e gli altri impegnati a criticare gli aspetti conciliatoristi dell’Anno Santo. Una serena ricostruzione degli eventi non sembra suffragare questa tesi.
In quel 1900 il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia era Ernesto Nathan appena rieletto per il secondo mandato. Presentando alla Giunta il programma che intendeva perseguire, all’11 0 punto si legge:
“In presenza dell’anno santo prendere in considerazione i diversi progetti messi innanzi dai vari partiti liberali e scegliere quelli che abbiano una nota eminentemente nazionale e diano speranza di felice successo”.
Nessuna crociata dunque veniva suggerita ai fratelli dal loro Gran Maestro che sperava invece di riuscire ad inaugurare ufficialmente nel corso di quell’anno la nuova sede di Palazzo Giustiniani, significativo punto di approdo di una Istituzione in piena espansione.
In quelle stanze avrebbero trovato collocazione gli uffici del Grande
Oriente, del Supremo Consiglio, della Gran Loggia del Rito Simbolico, le Sale e il Tempio per le Camere Superiori, il Tempio massimo, la grande sala delle conferenze. In realtà i lavori si protrassero ben oltre il previsto e l’inaugurazione avvenne il 21 aprile del 1901, con un anno di ritardo.
Qualche mese dopo, il 22 aprile 1900, parlando innanzi a quello che oggi è il Consiglio dell’Ordine, Nathan ribadì che la Massoneria non restringe la sua azione alla lotta anticlericale [.. .]; di ben altra ampiezza erano infatti i suoi progetti.
La prima grande manifestazione anticlericale prevista nell’anno giubilare era la celebrazione del terzo centenario del rogo di Giordano Bruno cui repubblicani, socialisti, massoni e liberi pensatori diedero ampio risalto.
Antonio Labriola, il caposcuola del socialismo scientifico in Italia, tenne all’interno dell’università un ciclo di lezioni “Sul destino storico di Giordano
neaAgorà gennaio – marzo 2000 19 Bruno” che accese gli animi degli studenti che cercarono di raggiungere Campo dé Fiori scontrandosi con gli agenti di polizia. Ci furono colluttazioni e alcuni arresti.
Il 17 febbraio, si legge su un quotidiano, a campo dé Fiori, attorno al monumento a Giordano Bruno v’erano pattuglie di carabinieri e di guardie. Gli ordini, a quel che pare, erano severissimi, perché se qualcuno si fermava per poco presso la cancellata del monumento era invitato a circolare. Tuttavia fu permessa l’apposizione di qualche corona.
Da questi brevi cenni sembra chiaro che l’autorità politica era ben decisa a non permettere alle forze anticlericali di turbare le celebrazioni giubilari, né d’altro canto il GOI intervenne ufficialmente, anche se appare indubbio che tra le 1500 persone accorse ad ascoltare il fratello Labriola i massoni non dovevano essere pochissimi.
I mesi successivi trascorsero senza altri incidenti fino al 20 settembre, data particolarmente sentita dalla massoneria italiana che ha voluto sempre celebrarla con particolare solennità.
Era prassi organizzare un corteo che raggiungeva Porta Pia dove, davanti alla “breccia”, si tenevano i discorsi ufficiali. Diventato sindaco di Roma, Nathan tenne alcuni celebri discorsi in quelle occasioni, il più discusso dei quali fu quello del 1910 che creò un serio incidente diplomatico con il Vaticano.
Non sembra però che il GOI abbia sfruttato la coincidenza per creare l’incidente. Se andiamo a leggere il resoconto degli eventi di quella giornata riferito dal quotidiano cattolico intransigente “La vera Roma” possiamo constatare che tutto si svolse senza incidenti e senza grande affluenza di gente. Alcuni massoni, si può leggere, parodiando a loro modo le visite giubilari, si recarono nelle “quattro basiliche civili” che erano rappresentate dal Pantheon, dal Gianicolo, da Porta Pia e dal Campidoglio, eletti per l’occasione luoghi di culto del mondo laico.
Anche in questa occasione la polizia vegliò perché nulla turbasse i pellegrini presenti in città
Due mesi dopo, durante un breve soggiorno in Sardegna, Nathan sarebbe tornato sull’argomento affermando che sarebbe forse stato opportuno indire un giubileo laico.
Tutto qui? Sembrerebbe di sì stando ai documenti. E allora come si spiega il fatto che a cento anni di distanza è stata data tanta importanza ad un evento tanto trascurabile?
A me sembra che la notizia sia proprio l’assenza di una vera notizia.
Mi spiego meglio. Un certo intransigentismo cattolico ha “gonfiato” l’azione, la potenza, la reale possibilità di incidere nella società dei massoni ben oltre ogni più ottimistica o pessimistica possibilità.
Si sono segnalate posizioni di potere improponibili, come, ad esempio i presunti 300 deputati massoni del parlamento italiano, reali solo nella denuncia di Civiltà Cattolica.
La contrapposizione ottocentesca tra queste due realtà è stata tanto radicale che ancora oggi ne viviamo culturalmente le conseguenze.
Ecco perché studiando il giubileo del 1900, il primo giubileo svoltosi dopo l’unità, si è voluto trovare a tutti i costi una opposizione della massoneria a questo rito cattolico. Opposizione che in verità non mi sembra ci sia stata.

20 neaAgorà gennaio – marzo 2000

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I MASSONI E IL GIUBILEO DEL 2000

I massoni e il Giubileo del 1900
di
Anna Maria Isastia
ue grandi storici del novecento hanno scritto che la storia è sem pre storia contemporanea qualunque sia l’argomento trattato, perché lo studioso lo affronta con la cultura, la sensibilità, gli strumenti conoscitivi del suo tempo e non dei secoli passati.
Anche la scelta degli argomenti di ricerca non è mai casuale, ma è dettata da uno stimolo o da una motivazione che deriva dall’attualità, e questo sia nel caso che il ricercatore sia consapevole, sia nel caso che la scelta si presenti apparentemente occasionale.
In questo primo scorcio di 2000 due temi si sono imposti all’attenzione degli studiosi: l’anniversario della morte di Giordano Bruno, avvenuta a Roma il 17 febbraio 1600, di cui cadono i quattrocento anni, e la storia dei Giubilei.
La vastissima bibliografia degli scritti di e su Giordano Bruno non ha impedito la pubblicazione di nuovi volumi e una particolare attenzione al personaggio, anche a motivo del pentimento manifestato dai vertici cattolici per gli eccessi del passato.
Quanto al Giubileo non si contano più le pubblicazioni sul tema, che è stato ed è affrontato da tutte le possibili angolature, con articoli su quotidiani e periodici, opuscoli, libri di tutti i prezzi e tutte le dimensioni.
In questo oceano di parole, la mia attenzione è stata attratta da una notizia che ho letto più volte in differenti contesti, riferita sempre con lo stesso taglio critico, su un preteso contro giubileo che sarebbe stato organizzato dal Grande Oriente d’Italia nel 1900 a Roma.
La notizia viene riportata in un libro sul Giubileo pubblicato da Francesco Sisinni; dal “Corriere della sera” in un articolo del 25 aprile 1999 intitolato 1900, lo sberleffo dei Massoni al Papa; dalla rivista “30 Giorni” che, a fine novembre, ha proposto, in una storia a puntate dei Giubilei, la stessa ricostruzione dei fatti.
Si tratta di un fatto marginale cui viene però dagli autori attribuita una importanza tutt’altro che secondaria. Ed è proprio questo aspetto a renderlo interessante per lo studioso della storia della massoneria.
Si può dunque leggere che “il Pontefice e la sua Corte sono stati oltraggiati da un controgiubileo profano, e le timidissime aperture (vaticane e della politica cittadina) per raffreddare la “questione romana” non sono riuscite a raffreddare il forte spirito anticlericale che serpeggia in città. Il peggio accadde il venti settembre, quando la Massoneria festeggiò la ricorrenza dell’ingresso delle truppe italiane a. Roma, avvenuto trenta anni prima, con un corteo che, motteggiando i riti giubilari, si spostò in pellegrinaggio tra “quattro basiliche laiche” della città.
L’irriverente processione partì dal Pantheon, perché ospitava la tomba di Vittorio Emanuele II re d’Italia, puntò sul colle del Gianicolo rendendo omaggio a Giuseppe Garibaldi che aveva dato una spallata definitiva ai papalini, proseguì fino a Porta Pia, cioè proprio allàbreccià aperta dai bersaglieri di Lamarmora nel cuore del potere temporale, e infine si raccolse sul Campidoglio, sotto la statua del tribuno Cola di Rienzo, per onorare la-sede del laico governo capitolino.
Chi osò sprezzante il Gran Maestro della massoneria Ernesto Nathan, che fu anche sindaco di Roma dal 1907 al 1913: “Questi monumenü sono più maestosi di quelli che una turba di gente raccogliticcia visita per ottenere indulgenza”.
Questo il testo, da cui traspare chiaramente una malcelata censura nei confronti di una istituzione che irrideva ai sentimenti, agli usi, alle credenze di un’altra istituzione facendone una sorta di caricatura.
Non a caso una studiosa attenta come Maria I. Macioti in un saggio sui controgiubilei pubblicato sulla rivista “Iter” ha riproposto a sua volta questi avvenimenti del 1900.
Cosa c’è di vero in tutto ciò?
E’ nota la difficoltà di rapporti che vennero ad instaurarsi tra lo Stato italiano, nato ufficialmente nel 1861, e lo Stato della città del Vaticano che rifiutò di riconoscerne la legittimità fino alla firma dei Patti lateranensi del 1929. Ed è altrettanto noto come queste vicende abbiano reso estremamente complessa la storia dei primi decenni dell’Italia unita dando origine a quel movimento che va sotto il nome di anticlericalismo. Movimento di opposizione al potere politico gestito dalla chiesa cattolica in Italia e non già al cattolicesimo come religione.
Proprio per problemi di politica interna il Vaticano celebrò il Giubileo del 1875 in tono molto minore, mentre l’organizzazione di quello del 1900 provò la lealtà del governo italiano che, trovandosi per la prima volta di fronte ad un evento religioso di carattere internazionale, dimostrò la sua tolleranza favorendo in ogni modo il libero svolgimento delle celebrazioni. Questura, Comune e Vicariato lavorarono insieme permettendo la riuscita dell’anno giubilare.
In questo contesto due forze avrebbero cercato di impedire un quieto svolgimento degli eventi: i cattolici intransigenti e la massoneria. Gli uni e gli altri impegnati a criticare gli aspetti conciliatoristi dell’Anno Santo. Una serena ricostruzione degli eventi non sembra suffragare questa tesi.
In quel 1900 il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia era Ernesto Nathan appena rieletto per il secondo mandato. Presentando alla Giunta il programma che intendeva perseguire, all’11 0 punto si legge:
“In presenza dell’anno santo prendere in considerazione i diversi progetti messi innanzi dai vari partiti liberali e scegliere quelli che abbiano una nota eminentemente nazionale e diano speranza di felice successo”.
Nessuna crociata dunque veniva suggerita ai fratelli dal loro Gran Maestro che sperava invece di riuscire ad inaugurare ufficialmente nel corso di quell’anno la nuova sede di Palazzo Giustiniani, significativo punto di approdo di una Istituzione in piena espansione.
In quelle stanze avrebbero trovato collocazione gli uffici del Grande
Oriente, del Supremo Consiglio, della Gran Loggia del Rito Simbolico, le Sale e il Tempio per le Camere Superiori, il Tempio massimo, la grande sala delle conferenze. In realtà i lavori si protrassero ben oltre il previsto e l’inaugurazione avvenne il 21 aprile del 1901, con un anno di ritardo.
Qualche mese dopo, il 22 aprile 1900, parlando innanzi a quello che oggi è il Consiglio dell’Ordine, Nathan ribadì che la Massoneria non restringe la sua azione alla lotta anticlericale [.. .]; di ben altra ampiezza erano infatti i suoi progetti.
La prima grande manifestazione anticlericale prevista nell’anno giubilare era la celebrazione del terzo centenario del rogo di Giordano Bruno cui repubblicani, socialisti, massoni e liberi pensatori diedero ampio risalto.
Antonio Labriola, il caposcuola del socialismo scientifico in Italia, tenne all’interno dell’università un ciclo di lezioni “Sul destino storico di Giordano
neaAgorà gennaio – marzo 2000 19 Bruno” che accese gli animi degli studenti che cercarono di raggiungere Campo dé Fiori scontrandosi con gli agenti di polizia. Ci furono colluttazioni e alcuni arresti.
Il 17 febbraio, si legge su un quotidiano, a campo dé Fiori, attorno al monumento a Giordano Bruno v’erano pattuglie di carabinieri e di guardie. Gli ordini, a quel che pare, erano severissimi, perché se qualcuno si fermava per poco presso la cancellata del monumento era invitato a circolare. Tuttavia fu permessa l’apposizione di qualche corona.
Da questi brevi cenni sembra chiaro che l’autorità politica era ben decisa a non permettere alle forze anticlericali di turbare le celebrazioni giubilari, né d’altro canto il GOI intervenne ufficialmente, anche se appare indubbio che tra le 1500 persone accorse ad ascoltare il fratello Labriola i massoni non dovevano essere pochissimi.
I mesi successivi trascorsero senza altri incidenti fino al 20 settembre, data particolarmente sentita dalla massoneria italiana che ha voluto sempre celebrarla con particolare solennità.
Era prassi organizzare un corteo che raggiungeva Porta Pia dove, davanti alla “breccia”, si tenevano i discorsi ufficiali. Diventato sindaco di Roma, Nathan tenne alcuni celebri discorsi in quelle occasioni, il più discusso dei quali fu quello del 1910 che creò un serio incidente diplomatico con il Vaticano.
Non sembra però che il GOI abbia sfruttato la coincidenza per creare l’incidente. Se andiamo a leggere il resoconto degli eventi di quella giornata riferito dal quotidiano cattolico intransigente “La vera Roma” possiamo constatare che tutto si svolse senza incidenti e senza grande affluenza di gente. Alcuni massoni, si può leggere, parodiando a loro modo le visite giubilari, si recarono nelle “quattro basiliche civili” che erano rappresentate dal Pantheon, dal Gianicolo, da Porta Pia e dal Campidoglio, eletti per l’occasione luoghi di culto del mondo laico.
Anche in questa occasione la polizia vegliò perché nulla turbasse i pellegrini presenti in città
Due mesi dopo, durante un breve soggiorno in Sardegna, Nathan sarebbe tornato sull’argomento affermando che sarebbe forse stato opportuno indire un giubileo laico.
Tutto qui? Sembrerebbe di sì stando ai documenti. E allora come si spiega il fatto che a cento anni di distanza è stata data tanta importanza ad un evento tanto trascurabile?
A me sembra che la notizia sia proprio l’assenza di una vera notizia.
Mi spiego meglio. Un certo intransigentismo cattolico ha “gonfiato” l’azione, la potenza, la reale possibilità di incidere nella società dei massoni ben oltre ogni più ottimistica o pessimistica possibilità.
Si sono segnalate posizioni di potere improponibili, come, ad esempio i presunti 300 deputati massoni del parlamento italiano, reali solo nella denuncia di Civiltà Cattolica.
La contrapposizione ottocentesca tra queste due realtà è stata tanto radicale che ancora oggi ne viviamo culturalmente le conseguenze.
Ecco perché studiando il giubileo del 1900, il primo giubileo svoltosi dopo l’unità, si è voluto trovare a tutti i costi una opposizione della massoneria a questo rito cattolico. Opposizione che in verità non mi sembra ci sia stata.

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BREVI CENNI STORICI SULLA MASSONERIA A TARANTO

BREVI CENNI STORICI SULLA MASSONERIA A TARANTO
di
Francesco Guida
In Puglia, secondo lo storico A. Luccarelli, la Massoneria viene introdotta negli anni 1788-89 dai Principi di San Severo di Napoli. Secondo lo storico P. Palumbo, in particolare, il primo insediamento massonico si ha in Martina Franca ad opera di due emissari di Padova e Roma.
Ed a Taranto? Secondo lo storico Tommaso Pedio, già nella seconda metà del Settecento, si segnala la prima presenza di una loggia. Allo stato delle ricerche, è possibile sapere che in questo periodo l’unico massone risulta Filippo Ceci.
La visibilità del movimento massonico si manifesta in occasione dei moti del 1799, per la repubblica partenopea, che portarono a Taranto l’ albero della libertà.
Uno dei principali artefici di quella brevissima stagione di libertà, durata appena un mese, fu il sacerdote don Giovanbattista Gagliardo, giacobino, ritenuto massone da qualche storico, unitamente alla sapiente quanto diplomatica regia dell ‘ arcivescovo Giuseppe Capecelatro.
Nel periodo napoleonico, inviato da Giuseppe Bonaparte, Re di Napoli, venne a Taranto il generale bresciano Giuseppe Lechi, quale comandante del Terzo Reggimento della seconda “Armata di osservazione del Mezzogiorno” e tra la fine del 1804 e gli inizi del 1805 fondò due logge: “Della Filantropia”, loggia militare che venne trasferita nel 1805 a Lecce, e riconosciuta dall ‘appena costituito Grande Oriente d’Italia, con sede a Milano.
Giuseppe Lechi dette incarico a Giuseppe La Gioia, già coinvolto nei fatti repubblicani del 1799 e successivamente tra i capi carbonari protagonisti dei moti del 1821, in Terra d’ Otranto.
La Gioia riunì in breve tempo “sei compagni tra parroci, monaci rinomati e giovani di letteratura e soda morale”, con questi fu ricevuto dal Fratello Rossi, e quindi elevato agli alti gradi della “Della Filantropia”. Tra i Fratelli fondatori è doveroso citare il sacerdote Giuseppe Ceci, anch’egli coinvolto fatti del 1799, noto repubblicano, che lasciò un museo di reperti storici, andato poi distrutto, ed il sacerdote Saverio Trippa, di Carosino.
Questa loggia ebbe sin dall’inizio enormi difficoltà di operare, stretta tra il timore di infiltrazioni spionistiche e le persecuzioni della polizia borbonica.
Con la costituzione del Grande Oriente d’Italia, retto dal viceré Eugenio Bonaparte, a Taranto risulta operante solo la loggia “L’ Amica dell’Uomo” rappresentata dal venerabile La Gioia. Con Gioacchino Murat, che costituisce nel 1810 il Grande Oriente di Napoli, a Taranto nasce la loggia “La Nemica dell’Ambizione” ad opera di Nicola Libetta e don Saverio Trippa, che assume la carica di Venerabile ed anch’ egli successivamente capo carbonaro.
Con il termine dell’avventura napoleonica nel 1815, anche la Massoneria, già in una fase critica col regime francese che voleva asservirla ai propri disegni di controllo del potere, subisce una battuta d’ arresto. L’ideale di una patria indipendente accantona l’ impegno di ricerca esoterica a favore dell’ azione politica. La massoneria che era stata finora retaggio della classe aristocratica ed alto borghese cede il passo alle sette di azione politica, che richiedevano strutture agili ed adepti di ogni condizione sociale.
E’ il momento della Carboneria, le cui radici, in parte riferibili alla Massoneria, diventa un movimento trasversale nella società del tempo.
Anche a Taranto dal 1816 al 1848 si registrò una proliferazione di sette rivoluzionarie, quali quella degli “Agricoltori del Galeso” e quella dei “Figli di Pitagora” per citare le più note e numerose. Nel 1837 si costituisce una setta della federazione della Giovine Italia, la creatura di Giuseppe Mazzini, fondata da massoni tarantini quali Nicola Mignogna, Giuseppe Carbonelli, Tommaso De Vincentis, oltre al Fratello Brindisino Cesare Braico ed al noto massone leccese Giuseppe Libertini, e organizzata a Taranto da Giuseppe e Raffaele Cimino. Nel 1848 si costituì un comitato liberale presieduto dall’ avv. Giuseppe De Cesare e composto dall’avv. Domenico Savino, dai fratelli Raffaele ed Ignazio Lucarelli, da Pietro Acclavio, Luigi Carbonelli, Luigi Ayr, Nicola Galeota, Orazio Carducci Atenisio.
Faceva parte di una delle due sette (qualcuno afferma “logge” postulandone l’esistenza) operanti a Taranto, con sede in palazzo Carducci, mentre l’ altra era Sita a palazzo Buffoluti (l’ odierno Palazzo Galeota).
Anche l’impresa dei Mille a Marsala vide la partecipazione dei patrioti tarantini, tra i quali i noti massoni Nicola Mignogna e Vincenzo Carbonelli, che mandarono una delegazione di 44 volontari al massone Garibaldi.
La cronaca ci tramanda i nomi di alcuni di essi: il padre cappuccino Aurelio Perrone da Massafra, l’ architetto Gaetano Piccione, Francesco Valente, l’ avv. Egidio Pignatelli, Antonio Petruzzi, i fratelli de Gennaro, Francesco Jurlaro, Nicola Galeandro, Tommaso Catapano, Riccardo Agostinelli.
AEsaurita la sua spinta rivoluzionaria con l’ Unità d’Italia l’ ambiente patriottico diventa l’humus ove ritrova vigore la Massoneria. A seguito della costituzione del Grande Oriente d’Italia nel 1859, la Massoneria si ramifica organicamente in tutto il regno.
La prima loggia nel periodo post-unitario fu fondata l’ 1.8.1865 col titolo di “Archita” da Giuseppe Libertini, leccese, segretario di Mazzini, alto esponente della massoneria e deputato al Parlamento. Retta dal patriota Pietro Acclavio, con l’ ausilio dell ‘ avv. Domenico Savino, riunì nel suo ambito la nuova generazione dei notabili tarantini, quali l’ avv. Carlo Primicery, Luigi Carbonelli, i fratelli Nicola e Francesco Portacci, Francesco Paolo Carelli, Francesco De Bellis.
Anche a Taranto si avvertì nella società civile I ‘ influsso di massoni che operarono per il miglioramento delle condizioni di vita ad ogni livello. Parlamentari massoni contribuirono alla istituzione dell’ Arsenale e della Ferrovia. Grande attenzione è stata indirizzata verso il progresso attraverso la cultura e la lotta all ‘ ignoranza, vedendo in prima linea massoni come il preside del Regio Liceo “Archita” Edoardo De Vincentiis, 33 del R.S.A.A. e membro della Giunta dell’Ordine nel 1912 sotto la Maestranza di Ettore Ferrari, il preside dell’Istituto “Pitagora” Emidio Ursoleo, il docente di storia Pasquale Ridola, il docente di scienze Luigi Ferrajolo, il prof. Attilio Cerruti, il massimo poeta tarantino contemporaneo Emilio Consiglio. Massoni sono stati promotori e fondatori della sezione della Società “Dante Alighieri”, della sezione della Croce Rossa Italiana, della Umanitaria Croce Verde, dell ‘ Università Popolare “Nazario Sauro”, del Comitato di Assistenza e Beneficenza, per citare le maggiori e più longeve, insieme a molteplici iniziative minori, come la prestazione professionale a favore dei poveri (ad esempio si cita l’opera del dott. Matteo Fago, che riservava due giorni alla settimana per visitare gratuitamente i poveri), oltre che di varie società di mutuo soccorso tra lavoratori.
A cavallo del nuovo secolo la Massoneria assunse la fisionomia di movimento transpartitico, consentendo I ‘ adesione dei propri esponenti in ogni schieramento politico. E’ un periodo di profonda trasformazione della società italiana, rappresentato anche dalla proliferazione dei partiti.
A Taranto i massoni furono tra i fondatori ed i promotori di quasi tutti i parHi tranne quello clericale: I ‘ avv. Aurelio Marchi per i radicali, Guglielmo Baldari per gli anarchici, Luigi Ferrajolo e Pompeo Lorea per i socialisti, Cesare Mormile per i nazionalisti, l’ avv. Pasquale Imperatrice per il primo Fascio da combattimento.
Massoni furono deputati al Parlamento, sindaci, consiglieri comunali anche di schieramenti differenti, che nella diversità di idee politiche si ritrovavano la sera nell ‘unità iniziatica della comune ricerca esoterica nel tempio massonico.
Dopo la loggia Archita, che sciolta dopo qualche anno di operatività, ricostituita nel 1874 e poi ancora sciolta nel 1880, sorse nel 1882 la loggia Archimede, da questa nacque nel 1907 la loggia Giulio Cesare Vanini, che nel 1911 gemmò la loggia Prometeo, nel 1913 la ricostituita loggia Archita. Per ultima, nel 1921 sorse la loggia Nazario Sauro.
La crisi della Massoneria esplose con il periodo giolittiano, da allora iniziò un’ agonia che il regime fascista non fece altro che accelerare spegnendo la fiaccola delle libertà.
Il 14 settembre 1924 alle ore 14,30 una squadraccia fascista devastò la casa massonica Sita al primo piano di palazzo Marturano in via Giovinazzi angolo via Pitagora, distruggendo mobili, suppellettili e documenti.
Ma, come il mitico uccello della Fenice che risorge dal fuoco così la Massoneria riaccese la fiaccola dopo il lungo sonno fascista e la tragedia della seconda guerra mondiale.
Il grave danno prodotto dal lungo oblio consistette soprattutto nella confusione sulla identità e sulla legittimità massonica. La Massoneria italiana aveva vissuto nel 1908 una dolorosa scissione, dando vita ad un’ altra Obbedienza, la Serenissima Gran Loggia d’Italia, detta di Piazza del Gesù, dal toponimo della sua sede per distinguersi dall’ altra, detta di Palazzo Giustiniani.
Con la ripresa del dopoguerra la famiglia giustinianea tenne sostanzialmente salda la propria identità ed organizzazione mentre quella di Piazza del Gesù si frantumò in mille rivoli, ciascuno dei quali rivendicava legittimità di unica depositaria della tradizione muratoria. Anche a Taranto, accanto alle due logge giustinianee, “Prometeo”, che riprese i lavori nel 1944, e “Vanini” nel 1947, oltre alla loggia “Archita”, che nata dalla scissione del Fera nel 1908 fu ricostituita nel 1946 sotto l’obbedienza di Raoul Palermi, e successivamente si sciolse per dar vita alla loggia “Raoul Palermi”.
D’ altro canto sorsero altre cinque logge di cui un’ altra Obbedienza di discendenza di Piazza del Gesù, via della Mercede n. 12. Prima fra queste logge fu la “Garibaldi” fondata dal Fr. Giuseppe Vozza, 33 del R.S.A.A. cui seguì la “Fiume” nell’aprile del 1946, la “Nazario Sauro” e la “Battisti” nello stesso anno, la “Mazzini” nel 1947.
Le vicende delle logge tarantine sono un’alternanza di dissoluzioni e ricostituzioni, di fusioni e di
scissioni. Le cinque suddette logge passarono nel 1950 all’Obbedienza di Palazzo Giustiniani, ma la convivenza non fu tra le più serene considerando anche che avevano sedi differenti per le riunioni (le giustinianee il tempio di via Leonida e le altre quello di via Gorizia).
Nei primi anni 60 lo scenario massonico vide fra i protagonisti più attivi il Prof. Terenzio Lo Martire, direttore didattico di scuola elementare, iniziato durante il fascismo nella clandestinità, affiliato nel dopoguerra alla loggia Battisti, prima all’ Obbedienza di Piazza del Gesù poi in Palazzo Giustiniani. Lasciata quest’ ultima fondò una propria Obbedienza, la Gran Loggia Madre degli Illuminati di Puglia e Lucania “Stella d’ Oriente” alla Valle dell’Ofanto, riconosciuta dalla Federazione Massonica Europea di R.S.A.A., con sede in Genova e retta dal duca Attilio Armandi di Levissano. Deluso anche da questa famiglia, fonda nel 1960 la Serenissima Gran Loggia Madre degli Illuminati di Puglia, Lucania e Calabria, aderendo all ‘ Associazione Federativa Massonica europea con sede in Ginevra, per il riconoscimento internazionale, oltre da alcune Grandi Logge Statunitensi, e dal Movimento Italiano per la Riunificazione Massonica, a livello nazionale. Fu altresì fondatore di una rivista massonica a diffusione interregionale che fu pubblicata dal 1958 al 1963.
Con la riunificazione delle due maggiori Obbedienze nel 1972, a Taranto, alla famiglia di Palazzo Giustiniani si aggiunse la loggia “Giuseppe Vozza”, l’unica di provenienza da Piazza del Gesù.
A seguito della nuova scissione del 1974, a livello nazionale, non si verificarono particolari sconvolgimenti dell’ assetto massonico. Infatti, a Taranto la situazione rimase immutata.
Col tempo, comunque, venne ricostituita ed è tuttora operante una loggia della discendenza di Piazza del Gesù, un gruppo capeggiato dal generale Ghinazzi, distaccatosi nel 1961 dall’ originario ceppo, retto poi dal commercialista Renzo Canova ed attualmente dal dott. Franco Franchi. Il cosiddetto scandalo P2 non provocò nelle logge tarantine alcun serio sconvolgimento oltre alla naturale e consueta necessità dialettica, in quanto fedeli all ‘ impegno di perfezionamento iniziatico e di miglioramento dell ‘ umanità.
Con la crisi del 1991 , dovuta all’ abbandono della Comunione di Palazzo diustiniani da parte del Gran Maestro Giuliano Di Bernardo, la massoneria tarantina visse un momento di particolare sofferenza per il tradimento del suo massimo vertice.
Divenne, però, salutare occasione che, seppur dolente nel vedere una decina di Fratelli allontanarsi (per costituirsi non in loggia, ma in un gruppo trasfertista fedele al transfuga, e che ogni mese doveva raggiungere a proprie spese una città centro-meridionale per partecipare ai lavori rituali) rinsaldò I ‘ Oriente di Taranto nell ‘ impegno e nei fini della più pura Tradizione Muratoria. Con comprensibile soddisfazione e con serena conferma della giustezza della propria scelta di coerenza I’ Oriente di Taranto ha constatato il rientro di un fratello e I’ iniziazione di un profano proveniente dalla Gran Loggia Regolare d’Italia, a fronte di altre attenzioni di pari delusi.
Nella Famiglia di Palazzo Giustiniani sono sorte dagli anni 70 la loggia “Pitagora”, la “Enea Crucioli” (sciolta nel 1995), la “Fenice” (sorta nel 1995) e per ultima, la ricostituita “Archita” (1997). •

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LA LIBERAZIONE DELLA GRECIA NEL 1821

(SECONDA PARTE)
LA LIBERAZIONE DELLA GRECIA NEL 1821
IL CONTRIBUTO Dl ALCUNI LIBERI MURATORI ITALIANI
di
Stephanos Colaghis

Conte Alerino di Consola Palma
Il liberale giurista Conte Alerino di Consola Palma (1776 – 1851), di origine piemontese, arrivò nell’isola di Ydra nel 1824.
Combatté al fianco dei greci e diede il suo prezioso contributo all ‘ organizzazione dello Stato Ellenico. Era molto amico di Praìdis e di Mavrokordatos. Benché amnistiato in Italia, preferì rimanere in Grecia. Fece una brillante carriera come giudice fino a divenire membro della Corte di Cassazione.
Mori a Syros, il 1851.
La tradizionale fese massonica di Alerino di Consola Palma si riscontra nel blasone di famiglia , costituito da una stella a 8 raggi, portante nel centro un cuore con le lettere MCM (mia carissima madre) a simboleggiare l’ amore per la patria. In un nastro stretto che avvolgeva il cuore vie era incisa la scritta in latino molto nota ai massoni di alto grado: “Oppressa resurgit” (La libertà oppressa risorge).
Generale Giuseppe Rosaroll (1775 – 1825)
Il generale Giuseppe Rosaroll, di Napoli, era massone di alto grado e carbonaro. Entusiasta combattente della libertà, venne nel Peloponneso e con l’ aiuto di Sissinis addestra un Corpo di Cavalleria militare a Gastuni e collabora con Romey e Scarpa allo scopo di aiutare i greci contro i turchi. Trasferito in seguito a Nafplio, si ammala e muore nel novembre del 1825.
Fotakos Chrissanthopoulos descrisse nelle sue Memorie le commoventi ultime ore di Rosaroll: “Con le lacrime agli occhi, abbracciò e baciò i suoi cinque figli, Marcello, Scipione, Mario, Cesare e Camillo, che erano tutti di età inferiore ai 18 anni. Prima di spirare diede loro la sua ultima raccomandazione di combattere la tirannia…”.
I figli di questo grande combattente della libertà, rimasero a Nafplio senza più la protezione del genitore e senza mezzi economici. A seguito di loro richiesta essi fecero ritorno in Italia il 24 novembre 1825, a spese del governo greco.
Giovanni Samoilo
Il medico Giovanni Samoilo giunse con la sua famiglia nel Peloponneso, nel 1823 e venne nominato Medico della Guarnigione di Neocastro, nel giugno del 1824.
Dagli scritti che si trovano nell’ Archivio Generale dello Stato, si evidenzia la sua qualifica di massone e la sua permanenza di tre anni in Grecia.
Scarpa Giuseppe
Giuseppe Scarpa venne nel Peloponneso insieme al tedesco Conte Norman, nel febbraio del 1822. Entrambi contribuirono al rafforzamento della Fortezza di Neocastro ed alla riorganizzazione della sua guarnigione. Nell’ aprile del 1822, Giuseppe Scarpa si arruolò volontariamente, con il grado di caporale, nel Battaglione dei Filelleni e in seguito prestò giuramento, col grado di sottotenente nel Corpo Ordinario di Tarella. Prese parte alla battaglia di Petta, di Palamidi a Nafplio (novembre 1822) e ancora in otto battaglie, fino al 1824. Nello steso anno torna in Italia e continua ad aiutare i greci in vari modi.
Nel 1825 tornò nuovamente in Grecia, insieme al generale Rosaroll. Dopo la morte di Rosaroll, avendo egli già ottenuto il grado di Capitano, il 22 dicembre 1825, fece una richiesta al Governo Ellenico allo scopo di far concedere all ‘ esercito ordinario, uno speciale armamento lancia-baionetta, proposto in precedenza dal generale Rosaroll. Nell’ agosto 1828, prestò servizio nel nuovo esercito ordinario, riorganizzato dal Governatore di Grecia, I. Kapodistrias.
Scarpa venne ferito nella battaglia di Kranidi e morì nel 1829.
Per la sua attività massonica, vi sono le testimonianze del Fr. Neofitos Nikitopoulos che ebbe a frequentarlo nell ‘isola di Salamina, nel 1826.
Bruno Francesco
Il dott. Francesco Bruno era amico del Conte Gamba e fu medico curante di Lord Byron a Messologhi. Cavallo Giovanni Battista
Giovanni Battista Cavallo, capitano nell’esercito ordinario di Faviero, fu a capo della Settima Compagnia che prese parte alla spedizione militare di Karistos. Santarosa (1783 – 1825)
Annibale Santorre Derossi di Pomarolo Conte di Santarosa, nacque il 1783 a Savigliano di Savoia.
Da giovane fece la carriera militare, con suo padre che era colonnello.
Col passaggio del Piemonte sotto i francesi, Santarosa lasciò la carriera militare e si occupò dello studio dei classici e della politica. Il 1811, all’età di 24 anni, viene eletto Sindaco di Savigliano, e poco dopo viceprefetto della città di La Spezia.
Collaborò con Mazzini, Gioberti, ed altri patrioti liberali per i moti del 1815, che videro i piemontesi insorgere contro gli austriaci. Divenne Ministro della guerra nel Primo Governo libero italiano.
Dopo la sconfitta del piccolo esercito piemontese a Novara, Santarosa venne condannato a morte. Riuscì a salvarsi fuggendo in Francia, Svizzera e Inghilterra dove conobbe Cousin, Ugo Foscolo, Faviero, Maison e molti altri filelleni e greci.
Il 10 dicembre del 1824, arrivò a Nafplio con un suo amico, Colegno, per incontrarsi con Kunduriotis ed altri membri del Comitato Greco di Guerra.
Amante delle antichità greche, considerò suo primo dovere visitare Epidavros, Egina ed Arene. Con commovente rispetto, si inginocchiò davanti alle rovine del Parthenone e, visitando Thission, incise su di una colonna il suo nome, come si può vedere anch’oggi. Era questa un’usanza molto diffusa tra i filelleni che si recavano a combattere in Grecia.
Indossando la fustanella greca, combatte come semplice soldato accanto ad Alessandro Mavrokordatos, nel Peloponneso. Riuscì, attraversando lo schieramento dell ‘ esercito turco-egiziano di Imbrahim, ad entrare nella fortezza assediata di Neikastro.
Il suo contributo nella lotta contro i turchi fu veramente grande, non solo sui campi di battaglia ma anche per i suoi efficaci interventi presso i suoi compatrioti massoni Romey, Scarpa ed altri che allora prestavano servizio nell’ esercito di Imbrhim Pascià, per avere informazioni militari.
Il 16 aprile 1825, Santarosa, cadde combattendo eroicamente contro i turchi nella piccola isola Sfactiria di Pios, insieme al Ministro della Guerra di Grecia, Anagnostaras e i viceammiragli A. Tsamados e S. Sahinis, rifiutando di arrendersi.
Alla richiesta, Santarosa rispose così: “Noi moriremo, ma i nostri popoli vinceranno”.
I suddetti italiani, liberi muratori, non furono i soli che vennero a combattere in Grecia.
E’ noto che diciannovesimo secolo il popolo italiano e quello greco, si sollevarono quasi contemporaneamente contro i rispettivi tiranni. Però, mentre la lotta italiana venne soffocata nel sangue con il consenso e l’intervento della Sacra Alleanza, in Grecia, benché la strada sia stata brusca, spinosa e cruenta,
Agorà settembre – ottobre 1997
la ribellione poté sopravvivere grazie ad un greco, libero muratore, Ioannis Capodistrias, Ministro degli Esteri dello Zar. Il continuo ed efficace intervento di questo famoso diplomatico, grande avversario dell’ austriaco Metternich della Sacra Alleanza. Capodistrias venne eletto Primo Governatore di Grecia e riuscì a portare all ‘ attenzione internazionale, la lotta dei greci. Dall’altra parte, non poteva essere sottaciuto il contributo ellenico al Rinascimento Culturale d’Italia, con l’istituzione di Accademie e Scuole per gli studi classici, con la traduzione di molti scritti di autori greci, come “L’ Odissea” di Omero, tradotta da Ippolito Pindemonte nel 1805, “L’Iliade” da Vincenzo Monti nel 1810.
Molti erano i greci che avevano completato i loro studi in Italia, come Capodistrias, Mustoxidis, Salomos, Mantzaros e Theofilos Koridalefs che erano membri attivi, come il poeta Kalvos, della Società Segreta dei Carbonari.
Scrittori, pittori, musicisti ed altri uomini di cultura e di arte italiana, non hanno mancato di dare, attraverso i loro lavori, battaglia e sostegno per la liberazione della Grecia, dai Turchi.
Nello stesso tempo, furono tanti i patrioti italiani che, condannati alla penaài morte dai Tribunali italiani, trovarono nella povera Grecia la salvezza, protezione ed ospitalità. La Grecia divenne la terra ideale per dimostrare le loro decisione di combattere i tiranni, così come avevano fatto nella loro patria.
Ed ecco perché molti Fratelli italiani, fedeli all’ideale di libertà, che la Massoneria ha sempre propugnato come immutabile diritto di tutti popoli, vennero a combattere al fianco dei loro Fratelli greci. E furono in molti a dare anche la loro vita.
Alla loro cara memoria dedichiamo tutta la riconoscenza di noi greci ed il loro ricordo rimarrà sempre vivo nella nostra memoria.
Particolarmente appropriati mi sembrano i versi di Dante, che nella Divina Commedia dice così:
“Sono venuti in terra straniera, cercando la libertà, il più prezioso dono, come lo conoscono quelli che per questo dono hanno sacrificato la loro vita”. •

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2001: UNA PORTA SPAZIOTEMPORALE, TRA PASSATO E FUTURO. . .

L’uomo odierno, come del resto i suoi progenitori della preistoria, vive immerso in un’atmosfera di propensione religiosa nei confronti di forme e cose che non riesce a spiegarsi razionalmente.
Le scatenanti e incontrollabili manifestazioni della Natura, pur nel rispeto di una certa ciclicità, come per le stagioni, e ciò pertanto in parte prevedibili, sfuggendo al controllo umano, furono per l’uomo delle caverne collegate al volere di una Entità superiore e, di conseguenza, intese come messaggi del divino creatore d’ogni cosa.
L’innato atteggiamento mentale umano ad accostarsi al mondo dell’inspiegabile, poi, ancor più stimolato dal recondito desiderio di tramandare ai posteri le tracce delle sue progressive conquiste, dalle incisioni rupestri dei cavernicoli ai monolitici menhir, dai templi e le Piramidi di Gizah e quelle Maya, dal labirinto di Creta con le architettoniche testimonianze dell’antica Grecia alle cattedrali, ha fatto sì che tutto il percorso evolutivo dell’uomo fosse contrassegnato da segnali chiari e forti, difficilmente decodificabili dai più, ma accessibili soltanto da coloro che non ne fossero stati degni.
L’uomo, ad un certo punto, si accorse di poter occultare in ogni opera realizzata non solo il potenziale immaginativo che scaturiva dal prodotto C) artistico ma, cosa ancor più stimolante, un arcano messaggio che solo pochi eletti, e in possesso della giusta chiave di lettura, avrebbero in un giorno lontano decodificato. L’impiego di questo selettivo metodo di comunicazione con i posteri, da quel momento, divenne sempre più utilizzato anche, e soprattutto, per difendere le individuali conquiste sapienziali dei Maestri.
La chiave d’interpretazione dell’opera divenne così il passe-partout di lettura di ermetici segreti. E, ciò pertanto, figure geometriche, come quelle tracciate sulle pareti di caverne, dolmen, omphalos ed imponenti realizzazioni architettoniche, entrarono a far parte, come era logico che fosse, dell’infinita catena di simboliche testimonianze che costellano il lungo percorso dell’umanità.
In verità, l’influenza di sconosciute forze positive e avverse, potenziate soprattutto dall’intenzionale apporto emotivo conferito dall’esecutore di quel tempo, interagiscono misteriosamente. Malgrado i secoli trascorsi, infatti, l’opera-simbolo continua ad esercitare il suo iniziale magnetismo al punto tale da influenzare, talvolta, persino il percorso evolutivo dell’uomo. Ed ecco che Il simbolo, rafforzato ancor più dal misterioso messaggio che in esso si racchiude, diventa una “porta arcana” di accesso verso una dimensione spazio-temporale in cui presente, passato efuturo sono un tutt’uno.
Non è casuale l’esigenza di rivisitare, anche se spesso lo facciamo con la mente, episodi e luoghi legati agli anni di vita vissuta. La cosa strana è che avvertiamo un inspiegabile impulso, quasi un’attrazione fatale, che ci spinge ad andare oltre, l’esigenza forse, di oltrepassare la barriera convenzionale di quel primo giorno di nostra vita per scoprire da dove proveniamo, chi veramente siamo, e qual è la nostra meta futura.
A questo punto, però, ci accorgiamo stranamente del fascino inspiegabile che certi luoghi emanano, degli inspiegabili stati emozionali che essi producono, decisamente estranei all’ambiente circostante. Immer 4 nel particolare stato di animazione sospesa che ne consegue, quasi per incanto, tutto ciò che ci è intorno diventa nebuloso, e svanisce. Ad un tratto, l’opera-simbolo che è dinanzi a noi, immersi nel ruolo di moderni temponauti, austera per il segreto in sé racchiuso, risveglia nella nostra mente quel messaggio iniziale inciso sul portale del Tempio di Iside: “Sum quidquid fuit, est et erit…nemoque mortalium velium detraxit”.
Questi simboli meravigliosi, che tanti segreti hanno ancorao da svelare, sono l’incommensurabile patrimonio di verità velate che i grandi maestri sapienziali, iniziati nei sacri templi della , hanno voluto tramandare all’umanità.
Il linguaggio silente delle pietre, il magnetismo dei siti eretti in luoghi mai scelti a caso, le raffigurazioni simboliche, le allegorie, gli indecifrabili crittogrammi, la collocazione delle opere nel preciso rispetto dell’orientamento degli astri, l’osservanza e l’applicazione della geometria e della matematica nel calcolo dei rapporti di costruzione, non sono semplici coincidenze, come qualche sprovveduto vorrebbe far credere…
Migliaia di anni sono ormai trascorsi, secondo il calcolo del tempo terrestre, dalla comparsa dell’homo sapiens di quest’ultima preistoria, e l’uomo contemporaneo ha appena sfogliato le prime pagine del grande libro della storia dell’uomo.
Il 2001, potrebbe, a mio modesto avviso, essere il simbolico appuntamento di quel radicale cambiamento, tanto atteso dall’Umanità, soprattutto alla luce delle eclatanti conquiste della scienza – tasselli di antiche verità dimenticate – che si susseguono a ritmo sempre più incalzante.
E’ utopistico sperare di vedere debellati, una volta per sempre, gli endemici mali che affliggono i popoli della Terra come, ad esempio, la violenza che dilaga senza sosta, la fame, l’inquinamento ambientale, e così via. ?
Sono tanti, troppi forse, e di vitale importanza, i quesiti in attesa di risposte chiare ed inequivocabili dall’Uomo del terzo millennio, come ad esempio per la clonazione e l’eutanasia.
Sono altresì fermamente convinto, e non potrebbe essere altrimenti, che il presupposto iniziale per affrontare con serietà i problemi primari dell’Umanità, e soprattutto senza dispersive dietrologie, non prescinda dal decisivo accantonamento di tutte le ideologie che imprigionano il libero pensiero e la libertà, come quelle che si legano alle religioni ed agli interessi personali di coloro che praticano la politica.
Dal sereno confronto di pensieri, idee, e conoscenze individuali, che potremmo definire il primo gradino di un’ascesa collettiva e responsabile nel rispetto degli altrui convincimenti, potrà nascere quella volontà fortemente protesa verso il miglioramento ed il benessere di tutti, senza più sopraffazioni ed egoismi personali.
Le testimonianze del nostro passato, frattanto, immobili nei siti che gli antichi maestri scelsero per la loro edificazione, osservano silenziose il frenetico dimenarsi degli uomini che inseguono, come nel passato, effimere ed illusorie conquiste.
All’alba del 2001, stranamente, il segreto di un antico nostro progenitore forse venuto dalle stelle, ermeticamente racchiuso nel simbolo più complesso ed arcano dell’Universo che noi chiamiamo “uomo”, ci appare meno lontano…e, come sempre in occasione di un nuovo anno che nasce, ci riscopriamo più ricchi di proponimenti buoni, e di speranza…
Silvio Nascimben

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LA DAUNIA PRIMA DEI DAUNI IDENTIKIT Dl UN POPOLO MISTERIOSO

O
di
Pino Bruno
I viaggio che vi proponiamo comincia più o meno millecinquecento anni prima di Cristo nel territorio che oggi è compreso tra il promontorio del Gargano, il Subappennino Dauno e il Tavoliere di Puglia. Una zona coperta allora di fitti boschi, a cui si alternavano gli appezzamenti strappati alla foresta e resi coltivabili, grazie anche alle numerose sorgenti per l’ approvigionamento idrico. Il clima era temperato e continentale. A quei tempi il fiume Ofanto era un grande collettore di acqua. Il suo corso era navigabile e al suo sbocco in Adriatico c’era un fitto sistema di lagune e saline, insomma, condizioni particolarmente favorevoli agli insediamenti umani.
E’ nel territorio appena descritto che incontriamo il popolo degli ipogei raccontato in questa mostra. Archeologi ed antropologi affidano alla nostra conoscenza una civiltà dedita ad un’ agricoltura evoluta e alla caccia, con una sua struttura sociale in transizione, ben organizzata, come confermano alcuni indicatori di ruolo e di rango ritrovati nelle sepolture. Un popolo che conosceva l’arte della guerra e, quasi certamente, l’uso delle tecniche per imbrigliare i cavalli e della costruzione del carro leggero. Una civiltà che aveva perfezionato l’arte della ceramica e della tessitura e si era aperta a fitti scambi culturali e commerciali con i popoli dell’ Egeo e dell’ altra sponda dell ‘ Adriatico.
Tra le tante tracce che i detective dell’ antico hanno portato alla luce ci sono vasti magazzini per conservare derrate alimentari di pregio, quali vino e olio, segno di intensi traffici con i navigatori micenei. Un popolo, infine, che aveva sviluppato nel sottosuolo un profondo e, per molti versi ancora indecifrabile, rapporto religioso con le divinità della natura, con i sacrifici rituali ed i cicli naturali della morte e della rinascita. Particolarmente intenso il culto degli antenati, come attesta, negli ipogei funerari, la mancata rimozione delle sepolture più antiche. La costruzione degli ipogei conferma l’esistenza di un’ organizzazione sociale estesa a più villaggi vicini, per l’ impegno massiccio di manodopera e di strumenti di lavoro.
Facciamo allora uno sforzo d’immaginazione e pensiamo a questi uomini, a queste donne che gli esperti ci dicono essere alti tra i 171 – 172 centimetri – gli uomini – e 158 – 159 – le donne.
Un popolo, dicevamo, che è riuscito ad evolversi anche grazie al mix di fattori genetici e ambientali particolarmente favorevoli. Alimentazione sana, ricca di fibre, con ridotto consumo di carboidrati e zuccheri semplici: le malattie dentarie attecchivano con difficoltà e le popolazioni della Daunia avevano una bocca certamente più sana rispetto a quelle dell’Egeo.
Uomini ambidestri o addirittura mancini, che facevano uso di giavellotti o arpioni, alcuni di loro fondisti impegnati in intensi allenamenti. Uomini che cacciavano o coltivavano la terra o realizzavano pregevoli manufatti in ceramica o gioielli in ambra, faïence e pasta di vetro. Uomini che avevano ideato rasoi a doppia lama con manico a giorno, sorprendentemente attuali. Uomini che sapevano come difendere il territorio dai nemici: abbiamo testimonianze di una guerra o di una battaglia particolarmente cruenta, per un improvviso aumento di morti in età adulta, sepolti con pugnali e spade in bronzo. E queste donne dallo stile di vita più sedentario, che filavano e tessevano. Ecco, tra loro, la Signora delle Ambre, con il suo ricco corredo funerario di collane, anelli e orecchini. Una donna elegante e raffinata. Una signora di rango. L’ ambra, a quell’ epoca, aveva la stessa valenza che oggi ha l’ oro per noi. Questa rara resina fossile veniva dal nord Europa. Dai paesi che si affacciano sul Baltico. In tempi di commercio elettronico e shopping on line, le distanze ci fanno sorridere. Ma se seguiamo sulla carta geografica il percorso che dal Baltico porta fino al basso Adriatico – la via dell’ ambra – possiamo figurarci la complessità di tale operazione commerciale. il lungo viaggio attraverso il reticolo di vie d’ acqua che caratterizzava l’ Europa centrale. D’ altronde la presenza dell’ avorio e della pasta vitrea fa pensare ad un’ altra rotta di scambio, quella verso il Mediterraneo orientale.
Cultura, commercio e -perché no – anche scambi genetici con le popolazioni egee e dalmate. L’archeologia e l’antropologia ci confermano che per la Puglia i rapporti con l’altra sponda dell’ Adriatico e con il Levante non sono storia degli ultimi anni. E semmai la cronaca ad avere la memoria corta, se continua a stupirsi e ad allarmarsi per le migrazioni periodiche, più o meno di massa, che caratterizzano i drammatici avvenimenti sociali e politici dei Balcani. Dal popolo degli ipogei della Daunia possiamo ricevere una lezione di storia. E di civiltà.•
(Pino Bruno – Giornalista Rai)

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LA SACRA ARTE DELL’ALCHIMIA – PAOLO GALIANO (EDIZIONI SIMMETRIA

SACRA ARTE DELL’ALCHIMIA – PAOLO GALIANO (EDIZIONI SIMMETRIA)

Nella sua impresa di rivalutazione della figura di Frate Elia, Generale dell’Ordine Francescano ed uno dei primi alchimisti occidentali, Galiano con questo terzo lavoro, dopo la traduzione dello Speculum alchemiae nella sua forma abbreviata da un manoscritto del XVI sec. e del Pretiosum donum Dei nella redazione del XV sec., offre la traduzione dello Speculum alchimiae in forma integrale trascritto da un codice del XV sec. della Biblioteca Nazionale di Firenze, un’opera cospicua che si potrebbe per diversi motivi attribuire a Frate Elia ed invece quasi sconosciuta ai lettori interessati come agli specialisti di storia dell’Alchimia, i quali quasi ignorano questo autore e che solo negli ultimi anni, grazie soprattutto a studiosi italiani come Partini, Capitanucci, Pereira e Rossetti, ha cominciato ad essere conosciuto.

Questo testo, ampiamente citato in manoscritti ben più noti come il Pretiosum donum Dei e i Rosarium philosophorum, ha la peculiarità di essere un’opera di Alchimia “teorica” più che “tecnica”: pochissime le cosiddette ricette presenti nel testo, nel quale sono esposti i sette gradi dell’Opera alchemica con la precisazione dei tempi, dal Solstizio d’Inverno al Solstizio d’Estate, in cui attuare le operazioni che devono essere eseguite da chi vuole giungere all’Oro alchemico, non oro materiale, come spesso specifica l’autore dello Speculum, ma Oro trascendente, fusione del corpo, dell’anima e dello spirito in una sola entità in cui il corporeo è spiritualizzato e lo spirito è corporeificato nella realizzazione del “corpo di gloria” o Androgine perfetto.

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LA PORTA SANTA

LA PORTA SANTA
di
Loredana Morandi
Rivodutri, delizioso borgo di origine medioevale, è custodita la Porta Santa il cui studio mi ha più volte sorpresa per la sensazione di contatto virtuale con il maestro custode della soglia. Rispecchiando l’intenso messaggio voluto dall’ideatore, la complessa trama concettuale, che si riesce ad assorbire solo dopo attento studio, appare nel suo aspetto antropologico di incredibile semplicità. Oracolo e interprete di questo monumento è la Palma, antica pianta dioide del lontano Cretaceo, da sempre assunta fra le più antiche civiltà del Mediterraneo a simbolo di sacralità.
Il Portale, la cui datazione si colloca fra la fine del cinquecento e l’inizio del seicento, è pregevolissimo sotto il profilo artistico. Dalla complessa costruzione sinergica dei simboli nel manufatto possiamo intuire la profonda spiritualità e la cultura enciclopedica, tipica del Rinascimento, dell’ignoto Ideatore, quasi certamente un religioso. erudito scriveva correntemente il latino e il greco, usandoli in chiave di cabala fonetica con il volgare. Quindi le lingue usate sono tre, alle quali possiamo aggiungerne una quarta contando anche il messaggio dello hieroglyphica o messaggio criptico del simbolo. Il metodo del tre anzi quattro è legato agli insegnamenti biblici e al libro dei Proverbi dell’ Antico Testamento. L’aspetto didattico didascalico o per meglio dire la oraziana ut picta poesis di emblemi, testi e luoghi alchemici, è una tipologia concettuale che ben si sposa, per il Portale di Rivodutri, con la tradizione orale. Il messaggio del Portale si esplica nei bassorilievi delle sei formelle/emblema, di cui quattro sono racchiuse in cornice ottagonale e due in cornice ellissoidale, più i due capitelli e le due pietre base degli stipiti.
Dal punto di vista iconografico le formelle/emblema sono di ispirazione cinquecentesca, ma in alcuni casi reinterpretate e riprodotte con l’estro e la genialità dell’ideatore. Una sottile trama di piccoli simboli, esterni alle cornici, confermando il messaggio delle formelle, ne consente la sinergia. All ‘esterno del portale vi è una formella isolata contenente il filo a piombo, realizzato con una piccola foglia di palma, simbolo di rettitudine e di approfondimento della conoscenza. Lo strumento può indicarci conie risolvere l’acrostico v.i.t.r.i.o.l.: visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidiem.
I simboli principali contenuti nei due capitelli sono il pitagorico Pentalpha e la Pax Christi. Un anello, simbolo di fede e di nozze, racchiude la stella a cinque punte: il pentacolo (da pantaculum: piccolo tutto) nel quale possiamo iscrivere le Christi vulnera, il cui culto risale al 1200 e l’uomo, come risulta da numerosissimi studi sulle armoniche proporzioni della figura umana. Nell’epigrafe: QD ME SA (L) N DEVS una elle in abbreviazione paleografica ci consente di leggere due parole in una, san persanus e salu per salus. Quindi un saluto e una attribuzione della salute a Dio, come era in uso presso i greci. Il versetto evangelico corrispondente all’epigrafe ce lo conferma: qui Ine sanusfecii(Giovanni 5, I I ), si riferisce alla guarigione dello storpio. La Pax Christi, chiarissimo simbolo paleocristiano. realizzato con due sottilissime foglie di palma spiega con l’epigrafe: I P S E. E’ un rimando ai versetti biblici dal libro del;a Genesi 2. I I ipse est qui circuii ornnetn terrayn… ubi nascillf} e dalla lettera di San Pao{o a} ; i 36 c.v ipso, et ei in IPSO ontni(/. consapevole duplice natura e d, vina.t il fidiùlc spirituale da oro. sottolineando un intento cesnoologico nel portale. i due capitelli dividono il cielo/arco-macrocosmo dalla essi sono di per sé una identificazione di questo concetto. [l pentaipha. inteso in chiave cristologica, e un richiamo agli innumerevoli testi ermetici in cui il Re Elixir viene associato all’immagine di Cristo Risorto, realizzazione massima dell’Opus, ma in una fase ad essa precedente cioè la Nigredo. Infatti i chiodi appaiono nel disordine dello studiolo dell’ angelo pensieroso in Malincolia I di Durer. Più fedelmente alla tradizione nel Cristo velato del Sanmartino, raffigurazione del Mercurio filosofico inattivo nel ventre/athanor naturale della terra, i tre chiodi della Passione appaiono accanto alla corona di spine intrecciata sette volte (21 è il numero delle lavorazioni che deve subire il mercurio filosofico, si veda anche il libro studiato da Flamel). L’anello è quindi da considerarsi inteso in chiave urobotica di cosmo-tempo antecedente il fiat lux, ma anche come decalogo della legge cosmica incisa sulla pietra di smeraldo, che ne orna il castone. Da qui si può lanciare l’analogia mito ermetica con la terra, regno di Saturno custode del Cristo/lapis, antecedente l’ordine cosmico istituito da Giove palesato dalla iscrizione del glifo PX nei sei vertici dell’esagramma salomonico O. Pentalpha e il Sigillo Sapientiae sono raffigurati nel libro letto da quello che sembra un cabalista ebraico nella xilografia frontespizio di un noto testo pubblicato a Roma nel 1665. Il Pentalpha e la Pax Christi, sono i capitelli che introducono alla lettura dell ‘ intero portale, nel quale l’ aspetto teologico e l’immagine mito-ermetica si alternano indissolubilmente nella simbologia, quasi fossero un incessante solve et coagula cosmico. Alchimia scienza più terrena, che cura i metalli imperfetti è loro mediatrice. Lasciandoci influenzare da tale mistero, potremmo dire che siamo alla porta della “Civitas Solis” di Campanella (anno 1613) o all’ingresso so dell’hortus conclusus dove ha sede la DomusSapientiae, dato che il Portale introduce ad un delizioso piccologiardino. àNell’aspetto strutturale enell ‘ aspetto concettuale, gli stiPiti sembrano irradiare l’imma-gine del quadrato, che evolve la propria struttura nel cerchio,attraverso la figura geometrica ottagonale di alcune cornici comepunto intermedio, le cornici ellittiche così risultano esserepunti tangenti del semicerchio occulto che completa I ‘ arco/cer-chio-cielo. Le formelle degli stiPiti contengono la narrazione an-tropologica e cosmo-elementare esempli ficata dalle fasidell ‘Opus alchemico. Il quadrato, nùicrocosmo dell’ uomo contie-ne il labirinto da attraversare per giungere al sacro sacello, lamensa della Sapienza che si trova nel Templum (Prov. cap. 9).
L’ Arco/cielo è formato dadue splendide foglie di una leggiadra e femminile Phoenixdactilifera, carica di frutti, che come le ali di una novellapurpurea fenice si congiungono verso la chiave di volta, rafiü-gurante il Cuore fiammeggiante. L’immagine, espressione del-la cosmogonia neoplatonica di Proclo, sembra pietrificare nel- l’arco il primo volo del mitologico uccello all’alba del creato. Il Cuore ne è energia vivificante e creatrice al centro dell ‘Universo conosciuto. Trino et Uno questo cuore, che ha tre fiamme o tre foglie di palma è per J. Dee, che rivisita la cosmogonia bruniana il punto centrale e la monade, il trascendete Uno Intelletto e Anima plotiniano da cui hanno origine tutte le cose. Come lo Spiritus Sanctus questa mercuriale quinta essenza permea e anima il cosmo come l’alito di Dio Rouach Elohim. Il Kircher lo avrebbe definito anima mundi vita rerum. Racchiudono il cuore due piccole foglie di palma intrecciate che rappresentano le mani dell ‘ uomo (da palmus), che congiunte in preghiera possono catturare il respiro dell’Universo ed essere con esso una cosa sola (epigrafe VNA RES).
Nillïle tutelare dell ‘ Arco è uno stupendo Giano/Rebis coronato, raffigurato cioè nella acquisizione cristiana (Prov. 4, 9). Custode delle porte e dei crocicchi, esso vigila dall’ alto del portale, sorta di Saturno re de! Tempo e di un antico regno aureo e perduto, che con il suo magico Tirso avvolto di pampini e grappoli cruva ci regalerà ottimi raccolti e buon vino in autunno. Identificandolo con bacco/Dioniso, – eternai?ente giovane e nello stesso tempo vecchio, diviene la rappresentazione iconograiica della duplicità dell Intelletto Dl vino come tramandataci dai testi neoplatonici.
Nella accezione cristiana, questo Giano di cui la corona simbolo di eternità è ‘il sigillo, rappresenta lo sponsale del Cristo Risotto e la sua Chiesa e anche la tradizione popolare dei due San Giovanni, il battista e I ‘Evagelista, custodi il primo dell ‘ Antico Testamento e il secondo del Nuovo Testamento. Nell ‘ Opus il Rebis androgino per metà uomo e per metà donna, rappresenta la polarità delle due nature maschile attiva e femminile passiva, le nozze chimiche dello Zolfo re rosso con il Mercurio regina bianca. Dall’unione del Sole e della Luna nasce l’Uomo nuovo manifestazione del Creato, che pone i suoi piedi sul mondo della materia. Apparentemente immota pietra quest’uomo, agricoltore degli immensi campi celesti, emana la radiosa osservazione della luce del creato e dice silenziosamente a noi e di noi, uomini della terra, il geroglifico del e infinito.•
Loredana Morandi, nata a Roma nel marzo del’63, è pronipote del Professor Luigi Morandi letterato e filologo, che fu volontario con Garibaldi nel 1867 a Mentana, precettore di Vittorio Emanuele III fino ai 16 anni dell’allora Principe di Napoli ed infine nominato senatore a vita nel 1905.Oggi la studiosa Loredana Morandi si sta occupando del restauro filologico del Portale di Rivodutri ed è, come lei stessa si definisce una donna, che lavora felicemente madre di quattro figli. Attualmente è stata nominata Advisor dell’Assemblea Speranza n o I delle giovanissime Rainbow for Girl di Roma dove svolge anche ruolo di segretaria, dal Capitolo Sirio n o 6 delle Stelle d’Oriente di Roma. Deputy per l’Italia dell’Ordine Internazionale delle Rainbow for Girl e dell’Ordine Internazionale De Molay è il Prof. Paolo Messina.

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