PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI
NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo. Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere». Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
Pinocchio, l’Oca e il labirinto: sui significati della
favola.
La favola di Pinocchio è diventata, nel giro di un secolo o poco più, una
storia condivisa da un’intera cultura e oramai fatta propria anche da molte
altre. Viene naturale chiedersi il perché di tanta fortuna di un testo che,
nato in una situazione biografica, storica e letteraria ben precisa, farebbe
pensare ad una impossibilità di tradurne completamente il senso. Non è certo
una questione nuova, questa: fa parte di quell’appassionato dibattito che da
tempo cerca di indagare le ragioni per cui un classico è e rimane un classico,
per qualsiasi lettore di qualsiasi cultura.
Le
tante interpretazioni date a Pinocchio creano spesso l’impressione di essere
legate al contesto storico e culturale cui fanno riferimento. Solo qualche
esempio:
PINOCCHIO
MASSONE – Geppetto e Cavour
” Gli anni cari di Collodi, di De Amicis…in cui l’Italietta
aveva incominciato a farsi le ossa, a trovare uno stile, a trovare una misura
dì vita e di civiltà”.
Giovanni Spadolini
“Dirozzare le menti delle classi meno agiate, sottraendole
all’ignoranza ed alla speculatrice superstizione… nell’intendimento di
togliere i fanciulli dalle ugne del clero”. Rivista della massoneria italiana, 1873
PINOCCHIO
CATTOLICO – Geppetto e Dio
“Carlo Collodi ebbe la gran ventura di inserirsi, con la sua
fantasia, nel filone della verità. Anche Pinocchio, come tutti i capolavori
italiani, ha fondamento nella verità della dottrina cattolica”. PieroBargellini
“L’agonia di Pinocchio , appeso all’albero da tre ore… di
Cristo in croce riecheggia, perfino l’estrema nostalgia del Padre e il
desiderio di affidare a lui la vita fuggente: Oh babbo mio!… se tu fossi qui”..
“Non starò a dire quali interpretazioni abbia suggerito alla
critica psicanalitica il fatto che a Pinocchio il naso cominci a crescere
proprio davanti a Fatina!”
Gianni Turcheda
“Ravvisato quindi un collegamento iniziatico-sacrale
Pan-Priapo-Pinocchio, diviene ora più agevole… comprendere la fisionomia
rino-fallica del Burattino”.
Nicola Coco-Alfredo Zambrano
PINOCCHIO
ESOTERICO – Falegname o stregone
“Solitario, in quella stanza simile a un antro magico…
l’opera di Geppetto non è stata opera di intaglio… Il suo è stato un lavoro
di alchimia”.
Rodolfo Tommasi
“Leggiadro,
delicato, abissale è l’atto di leggere Pinocchio a un bambino. Portiamo
l’innocente tra le figure stesse che gli si parerebbero dinanzi in una radura
sacra… introduciamo il piccolo al culto della Fata o
Signora-degli-animali”.
Elémire Zolla
PINOCCHIO
POLITICO 1 – L’anarchico di legno
” E la sera… si sentiva passare, rassicurante, sul sonno di
tutti, il calmo passo doppio dei carabinieri. Non
ridete; dietro a Pinocchio io rivedo la piccola Italia onesta di
re Umberto”
Pietro Pancrazi
“Nel paese degli Acchiappacitrulli sono gli onesti, che
vengono senz’altro condannati… Un episodio che la dice lunga sulle venature
anarcoidi e sulla sfiducia nelle istituzioni di Collodi”. Gianni Turchetta
PINOCCHIO
POLITICO 2 – La new-economy ed il paese dei balocchi
“Ma
gli altri? Dico la folla silenziosa e smarrita che ogni mattina, da mesi,
quando apre il computer sul sito “Campo dei Miracoli” non trova più i
suoi zecchini, e bestemmia il giorno in cui ha creduto che davvero la vecchia
economia, quella fondata sulla maledizione del lavoro e del sudore, fosse
rimpiazzata da una nuova di zecca, nella quale dal denaro nasce il denaro,
ininterrottamente, per naturale clonazione?… La moneta come un seme di
cuccagna, da lanciare nel campo infinito della Chiocciola @ per vederlo
germinare, e generare intere foreste di fronde tintinnati d’oro… E infatti
Pinocchio esita, e si domanda, “a bocca aperta per lo stupore: ‘Ma com’è
mai possibile che diventino tanti?’” Michele Serra, da “Il Pinocchio delle Borse e il
barbiere di Agnelli”, Repubblica 16.03.2001 http://www.rutelli2001.it/dalpaesedeibalocchi.php
Se si rimane nell’ottica di comprendere la ragione della fortuna
di Pinocchio, nessuna di queste potrebbe a buona ragione essere definita come
un’interpretazione “classica”, ma solamente una delle tante possibili,
distinguibile eventualmente dal grado di autorità conferitole
dall’argomentazione o dall’autore.
Ma il numero e dalla varietà delle interpretazioni ci fanno
azzardare a muovere noi un suggerimento per una risposta alla nostra questione:
Pinocchio è senza dubbio una buona metafora, un buon modello per
spostare un discorso più o meno complesso sul piano delle immagini, per aiutare
a comprenderne il senso. Esistono però metafore create dalla letteratura che si
prestano più di altre ad entrare nell’universo linguistico e culturale umano,
perché possiedono alcune caratteristiche che le rendono archetipi, modi
generali di vedere il mondo, strutture concettuali fondanti della natura e
della cultura dell’uomo.
Ci viene in aiuto un piccolo libro di Carlo Lapucci, “Il libro delle
filastrocche” (Domino Vallardi editore), dove si legge un parallelo tra
la favola di Pinocchio ed i giochi della più antica tradizione: “Se si
collegasse la storia di Collodi con i giochi popolari come quello dell’Oca, Pela
il chiù, Carica l’asino (guarda caso Scaricalasino, con Bengodi e Cuccagna, è
un paese citato nel libro), il Gioco del Barone, ecc., vi si riconoscerebbero
immagini consuete, comuni al “Libro dei sogni”, come ai Tarocchi: il
Bagatto, il Matto, l’Impiccato, la
Pozza del Gambero, la Morte, la Prigione…”
Il gioco dell’Oca appartiene a quei giochi che sono una metafora
del vivere sociale e della comunicazione narrativa: un inizio ed una fine, la
presenza della natura e degli animali, l’impedimento al movimento (il carcere),
i pericoli, il caso (i dadi), e soprattutto il viaggio labirintico
dell’esistenza, con le sue imprevedibili direzioni.
L’idea di concepire Pinocchio come il percorso stabilito dal Gioco
dell’Oca o come una narrazione determinata dalle carte dei Tarocchi, oltre a
fare la felicità di Calvino e delle teorie strutturali sulla narrazione, ci
porta su un piano interpretativo con cui abbiamo più confidenza: la dimensione
narrativa del gioco (o l’essenza ludica delle storie), e il raccontare storie
come attività fondante della natura umana.
Pinocchio è un libro scritto per essere raccontato, per la
narrazione orale.
L’intersecarsi degli eventi di una favola, e di una storia in
generale, è un vero e proprio labirinto, una rete di possibilità virtuali
che ha bisogno, per esprimersi, del filo di Arianna, della guida di Virgilio,
dell’opera del narratore. Inoltre, “la fantasia popolare reinventa
liberamente poi queste immagini: il labirinto può diventare tanto una tela di
ragno, quanto un serpente, giocando quindi una partita più con
l’inconscio che con la razionalità che stenta a rintracciare l’identità delle
immagini”.
“Con lo smarrimento di
Pinocchio davanti al serpente siamo arrivati alla spirale, il simbolo del
labirinto che si trova verso la metà del libro, come verso la metà del gioco è
appunto lo smarrimento di colui che segue il percorso paradigmatico: è la selva
oscura dello smarrimento che si incontra nel “mezzo del cammin di nostra
vita”, smarrimento che l’eroe è destinato a superare in molti
modi, poiché si tratta di una prova vinta a suo modo anche dal burattino. Il
fatto che costituisca il centro è anche indice che il labirinto è l’elemento
che riassume e condensa l’intero…”
Le storie nascono da strutture di pensiero talmente conNATURAte al
vivere umano che costituiscono il mezzo più efficace (e talvolta più
scientifico) per conoscerne il produttore, l’uomo stesso. L’uomo vive di storie
ed in esse vi si riconosce; in alcune di queste molto di più, per il fatto che
vanno a pescare a fondo nella natura culturale dell’uomo, perché
recuperano immagini che sono a fondamento della conoscenza che l’uomo ha del
suo mondo: il senso di mancanza (sia esso povertà o solitudine o prigione), il
nascere, il morire, il rapporto di comunicazione con la natura e gli animali,
il perdersi, il pericolo, la pazzia, il desiderio, …
( tratto dal Periodico Due Sicilie
Novembre/Dicembre 2002 )
*****
1869:
ANTICONCILIO A NAPOLI
Nell’anno 1869, un anno prima della caduta definitiva dello Stato
Pontificio, il papa Pio IX indisse il Concilio Vaticano I° da tenersi dall’otto
di dicembre in Roma. Alla notizia, l’invidia e il sulfureo odio massonico ne
misero in gestazione uno antisimmetrico, in odio al Papa e alla religione
cristiana cattolica. Gli apostoli del vero avrebbero costituito un concistoro
di antilupi, si sarebbero cioè riuniti nell’Anticoncilio di Napoli (poi
miseramente abortito), promosso dal libero muratore conte Giuseppe Napoleone
Ricciardi. A codesti antilupi il Garibaldi, in data 11 ottobre da Caprera,
inviava un indirizzo di saluto e di incitamento che merita di essere riportato
per intero perché i nostri lettori si facciano un’idea precisa dei
sentimenti che il sublime grado 33 della consorteria massonica
italiana (in realtà, con qualche eccezione, carboneria, associazione di
rivoluzionari bombardieri) nutriva nei confronti della vera Chiesa e del
Papa:
“A’ miei amici e fratelli d’armi,
Una delle più solenni circostanze che mai abbiano illustrato la patria
dei Savonarola e degli Arnaldi, è certamente quella dell’anticoncilio, iniziato
dall’illustre Ricciardi e che avrà luogo nella grande metropoli italiana l’otto
dicembre di quest’anno.
In esso verranno rappresentate tutte le nazioni dai loro campioni del
diritto e del vero. Spettacolo sublime, vero simulacro della fratellanza umana,
e vera antitesi del concistoro di lupi, che avrà luogo in Roma, nello stesso
giorno! Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla
verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa
veramente alle affamate popolazioni); sull’eucarestia, cioè sul modo
d’inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet
qualunque. Sacrilegio, che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano
d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente
sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX.
Là nell’antica Partenope, si riuniranno gli apostoli del vero, gli
alunni di Galileo, di Newton, di Kepler, di Voltaire, di Franklin, gli
sterminatori delle torture e dei roghi, le superbe colonne della dignità umana.
Che contrasto!
E se questo secolo, ancor tanto amareggiato dall’arbitrio e
dall’oscurantismo, non dovesse presentare all’afflitta umanità che questo
consesso della libertà e della ragione, esso potrà contarsi tra i famosi della
storia del progresso umano.
Un giorno, e ben avventurato della mia vita, io, con non pochi compagni,
c’inoltrammo nel centro della grande metropoli, fidenti solo nel valore e nel
patriottismo del popolo napoletano. L’esercito borbonico occupava ancora i
forti, ed i posti più importanti della città. I cannoni erano puntati contro di
noi, e la fanteria altro non aspettava che l’ordine di fucilarci. Ebbene!
All’imponente contegno del gran popolo, noi dovemmo esser salutati cogli onori
militari dell’esercito nemico.
Un’altra volta, dal del palazzo della Foresteria, io diceva a
cotesto popolo: – Il più atroce nemico dell’Italia è il Papa.
Il popolo applaudì al veritiero mio detto; ed ha potuto persuadersi in
questi nove anni, ch’io non l’ingannavo.
Ebbene, vecchi miei amici e fratelli d’armi! Fra due mesi voi sarete
visitati da tutto ciò che il mondo ha di più rispettabile, l’eletta parte delle
nazioni, i rappresentanti dell’intelligenza e del diritto umano. E voi, vi
lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica, che gl’impostori
vi spacciano come sangue di S. Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti
anni.
Non sarà bene di frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno!
Ed i confessionali fatti a pezzi, e resi utili a far bollire i maccheroni della
povera gente… che ve ne pare?
Sì: disfacetevi di tutti questi emblemi delle vergogne italiane, ciò lo
potete fare. Non lasciate le vostre donne ed i vostri bimbi contaminarsi nella
bottega dei preti. E credetemi: sanando la piaga italiana del fanatismo, delle
superstizioni, voi spianerete la via dell’eliminazione d’altri malanni, più
formidabili in apparenza, ma che non potranno reggere senza il piedistallo
della menzogna.
Gl’illustri vostri ospiti torneranno nelle loro contrade, proclamando
che la patria del Tasso, di Masaniello e di Giordano Bruno, è ben degna
dell’iniziativa dell’emancipazione del diritto e della coscienza umana. Io con
tutta l’anima fo un appello a tutte le Società [massoniche, ndr] italiane che mi
onorarono col titolo di socio o di presidente onorario, a quanti in Italia
hanno cara la dignità del nostro popolo, nella certezza, che più la parte
culta, liberale e razionale della nazione, sarà rappresentata
nell’anticoncilio, di più lustro risplenderà la nostra patria, tra le sorelle
nazioni del mondo.
Io spero di più: che nelle cento città d’Italia per l’otto dicembre, si
riuniranno numerosissimi meetings ad acclamare i principii del vero, sostenuti
dall’illustre congresso di Napoli, ed a maledire le turpi menzogne e la cabala
infernale del Vaticano. G. Garibaldi”.
Il bellicismo ideologico, antiecclesiale, anticristiano, del Garibaldi,
che per il suo grado massonico avrebbe dovuto essere “Uomo trascendente”, cioè
un santo al di sopra delle umane passioni, non era una manifestazione
estemporanea ad incitamento dei figli della vera luce che avrebbero celebrato
quell’Anticoncilio. Anche nell’Inno romano la sua penna non era stata meno
leggera in fatto di anticlericalismo: “Giù le mitre, vergogna del mondo,/
giù le tiare, nel fango calpeste;…/ dei chercuti, orrenda setta,/ Roma nostra a
liberar!”. Nei suoi romanzetti poi (Il governo dei preti, Cantoni il
volontario, I Mille) i personaggi negativi, abietti, schiavi del ventre e
della lussuria, truculenti, incestuosi, sono, manco a dirlo, vescovi,
cardinali, preti, che, secondo la sua obliqua visione, avrebbero “fatto delle
nazioni tante belve che si distruggono barbaramente a vicenda” (discorso tenuto
a Frascati il 14 giugno 1875), travisando quelle che sono le vere radici
cristiane dell’Europa, nel cui seno anche lui era stato battezzato col nome
(francese!) Joseph. A questo sodalizio truculento dava degno rincalzo il
luciferiano Carducci, che salutava in Satana il Re del convito (Inno a
Satana).
L’anticlericalismo, abito mentale di quasi tutta la classe politica
liberale, sul piano pratico aveva portato nel Sud, come si sa, dopo il
1860, alla espropriazione dei beni ecclesiastici, alla rimozione, all’esilio o
all’incarcerazione una settantina di vescovi, in sostanza quasi tutto il corpo
episcopale del Regno, all’incarcerazione o alla fucilazione centinaia di preti,
e alla più nera miseria oltre 12.000 frati e suore, oltre che alla fame e al
sangue tutti i Duosiciliani in omaggio alla follia unitarista. Per i
nuovi padroni dello stivale, che s’adornavano il cappello con la fronda
dell’alloro risorgimentale, leva buona per ogni occasione di
arraffamento, esso era un’arma potentissima per controbilanciare anche le
tensioni antiunitarie, un cemento per l’unità della classe liberale che aveva
portato all’Italia una. Pian piano, però, a mano a mano che la situazione
politica interna era andata stabilizzandosi ed ormai esaurendosi la fase
delle espropriazioni, quel bellicismo cominciò a perdere i connotati più beceri
fino a diventare quasi irriconoscibile.
UN MANUALE DI MASSONERIA
Il libro Cuore definito, dallo scrittore Vittorio Messori, “manuale di
massoneria per il popolo” (Pensare la storia, Ediz. San Paolo, pag. 104), è un
esempio di quella trasformazione. Di Edmondo De Amicis, il Messori
riferisce che è provato essere stato quello <<un fratello a pieno titolo
della Gran Loggia torinese>> ed avvisa che <<Non c’era del resto
bisogno della prova dell’affiliazione per riconoscere subito l’impronta della
massoneria più classica nell’opera dello scrittore ligure-piemontese>>. E
si domanda: <<perché quello massonico è il pericolo che la Chiesa, con un
istinto significativo, avvertì subito come talmente insidioso da dedicargli il
maggior numero di condanne?>>. La risposta dello scrittore è abbastanza
convincente: <<Ma perché niente è in apparenza più rassicurante e
ragionevole – anche per un cristiano non scaltrito – dell’ideologia delle
Logge: amore per l’umanità con relativo impegno filantropico, fratellanza, tolleranza,
mutuo rispetto, universalismo non disgiunto dall’amor di patria, impegno per il
miglioramento morale proprio e degli altri; e così via>>. Esiste un
convergenza con i valori del Cristianesimo? <<Certo: ma con l’avvertenza
che ciò che caratterizza questa visione del mondo (che è quella che sta alla
base di organizzazioni pur rispettabili e non di rado meritorie come la Croce
Rossa, la Società delle Nazioni, certi club a diffusione internazionale) è
un’apparenza evangelica senza più la sostanza, la base. Un cristianesimo, ma
evirato, perché senza Cristo. “Religiosità” se si vuole: fondata però non sullo
scandalo e la follia del figlio di Dio che muore sulla croce, ma sulla
“ragionevolezza” di un Dio immaginato a sua misura dalla “sapienza” umana, un tranquillizzante
Grande Architetto dell’Universo, il Garante dell’ordine sociale (la massoneria,
non lo si dimentichi, fu sempre, ed è, fenomeno di aristocratici e di borghesi,
senza base popolare, che del resto non cerca, non vuole). La croce è segno di contraddizione,
divide; l’innocua idea di un “Dio” senza volto sembra unire. La reazione
cattolica (ma non la protestante…) dunque fu dura proprio per questo aspetto
ingannevole…>>. Quindi lo scrittore passa ad analizzare
<<l’aspetto di “manuale divulgativo” della ideologia del massone De
Amicis>>: <<la “morale” sembra davvero “cristiana”, ma non è
basata sulla fede nel Cristo (di cui mai si parla) né sull’attesa della Vita
Eterna, bensì sulla fede nell’Umanità e nel Progresso. Il processo di
svuotamento e di sostituzione è completo: non vi è alcun cenno, in Cuore, al
Natale, alla Pasqua, o ad alcuna altra ricorrenza cristiana. I soli accenni
religiosi sono lasciati, significativamente, alla madre di Enrico: cose da
compatire in quelle donne che, non a caso, non hanno accesso alle Logge… Le
antiche feste cristiane sono sostituite da quelle civili; il Vangelo dallo
Statuto e dai Codici; i santi dai padri della patria (Garibaldi, Vittorio
Emanuele, Cavour, Mazzini); gli ordini religiosi dall’Esercito, visto come
“fucina di virtù”; i martiri dagli eroi (il Tamburino sardo, la Piccola
vedetta lombarda); l’impegno ascetico dalle virtù del cittadino esemplare; il
Decalogo e il Discorso della Montagna dai buoni sentimenti su cui tutti
concordano; le processioni dalle sfilate militari>>…. Il Messori mette in
guardia e conclude: <<Non dimentichiamo però di giudicare l’albero dai
frutti: i ragazzi di Cuore, cresciuti in quel commovente clima filantropico,
saranno poi gli interventisti del 1914. Saranno gli “oscurantisti”, i
cattolici, che tenteranno di opporsi a quella che il papa (Benedetto XV, al
secolo Giacomo Della Chiesa, 1914-1922, genovese, ndr) chiamerà “l’inutile
strage”. Gli “amici dell’umanità” li troveremo in piazza a invocare “il
bagno di sangue rigeneratore”, in nome di quella patria che i De Amicis avevano
sostituito alla Chiesa. Tutta la svenevole melassa della pedagogia “nuova” di
cui Cuore – pur in perfetta buona fede – è manuale, era l’ideologia, non
dimentichiamolo mai, di quella borghesia europea che gestiva con mano spietata
gli imperi coloniali, schiacciando sotto il tallone dell’Occidente,
proclamatosi “faro del mondo civile”, ogni altra cultura, disprezzata come
inferiore>>, del quale “faro” anche i Duosiciliani hanno sperimentato la
“bontà” dal 1860 ad oggi.
NOZZE CHIMICHE
Dove dunque si parla apertamente, come in Cuore, si rivela, anche
per i non esperti, l’ideologia che intride il racconto. Più difficile è
invece scoprirne il messaggio laddove il linguaggio è criptico, nascosto cioè
“sotto’l velame de li versi strani” o figurato. Ma è soprattutto da tenere
presente che dove gli adepti a qualche dottrina occulta, o esoterica, parlano
chiaramente, lì non dicono assolutamente nulla, dicono invece tantissimo quando
parlano per enigmi. Ne dà conferma il libro dei Rosa Croce (anno 1459) “Le
nozze chimiche di Cristiano Rosacroce” (Chymische Hochzeit Christiani
Rosencreuz): Arcana publicata vilescunt; gratiam prophanata amittunt. Ergo: ne
Margaritas obijce porcis, seu Asino substerne rosas” cioè le cose arcane, rese
di dominio pubblico, si sviliscono e perdono la grazia se pervengono in bocca
profana. Non si gettino dunque le perle (Margaritas) ai porci e non si
sottometta agli asini un giaciglio di rose.
IL CARDINALE BIFFI E PINOCCHIO
In tempi recentissimi è apparso, del cardinale Giacomo Biffi,
arcivescovo di Bologna, un estratto di saggio critico, dal titolo Pinocchio
senza bugie. Nell’articolo, apparso sul Sole-24 Ore domenica 16 giugno 2002,
dedicato alla favola di Carlo Lorenzini autoappellatosi Collodi, l’alto prelato
afferma che: “Questo è un libro incantevole e misterioso”. L’affermazione
conferma, nella sua scarna sinteticità, l’impressione che se ne trae dopo
un’attenta lettura. Ma di estremo interesse è quel che il cardinale Biffi afferma
successivamente: “Si può ben supporre che la saltuaria stesura obbedisse a un
disegno tracciato preliminarmente e meditato con cura” e ancora: “resta
comunque da verificare in che senso e in che misura sia consentito ravvisare in
Pinocchio l’eco e quasi il “manifesto” della cultura
risorgimentale…>> ma conclude stranamente che <<nelle
avventure di Pinocchio non c’è la minima traccia degli avvenimenti che hanno
mutato l’assetto istituzionale d’Italia, nonostante che a tali avvenimenti Carlo
Lorenzini avesse partecipato in prima persona. Né è dato di percepire in quelle
pagine la più flebile eco dei convincimenti e delle passioni che hanno percorso
e animato l’epopea risorgimentale…In realtà, sarebbe meno lontano dal vero chi
trovasse nella narrazione l’atmosfera, per così dire “metastorica” e
“atemporale”, che è propria delle fiabe e delle parabole, le quali non
patiscono di essere cronologicamente situate>>. Bisogna convenirne,
in apparenza è proprio così: la favola pinocchiesca è stata sognata nella cornice
dei canoni classici dell’affabulazione, sul sentiero maestro già tracciato
dagli antichi favolisti, a partire dall’Asino d’oro di Apuleio. Ci si lascia
trasportare dalla ricca fantastica trama del racconto, dagli inverosimili
personaggi, dalle più inverosimili avventure, e, paghi del piacere che ne
riportiamo al termine della lettura, non si percepisce la tensione polemica,
violenta che la favola nasconde sotto velame fin dalle prime battute, velame
che è, come oggigiorno si afferma per certa pubblicità televisiva, di natura
subliminale. Come per la Divina Commedia, di cui Dante stesso afferma essere il
suo poema di natura ermetica (O voi ch’avete li’ntelletti sani, / mirate la
dottrina che s’asconde / sotto’l velame de li versi strani [Inf. IX, 61-63]),
anche la favola di Collodi ha i connotati di opera ermetica, per cui almeno due
chiavi di lettura sono possibili (ma se ne possono intravedere almeno cinque):
di manuale iniziatico per adepti e di polemica violenta nei confronti della
Chiesa se non addirittura di scontro ideologico con questa.
Nelle righe che seguono cercheremo di enucleare alcuni elementi di
carattere esoterico, propri delle dottrine ermetiche, e alcuni altri del
bellicismo ideologico contro la Chiesa cattolica, la fede cristiana e il Papato
che il Collodi vuole umiliare, ma anche spunti politici riflettenti le tensioni
del tempo.
IL NOME DEI PROTAGONISTI
Bisogna cominciare dai nomi dei protagonisti e in primo luogo da quello
del burattino. Quel nome, Pinocchio, con cui il burattino viene “battezzato” da
Geppetto, è programmatico. Ad un’analisi attenta e penetrando con la
vista oltre il velo della favola, una favola, si badi bene, essenzialmente
pagana, si trovano elementi di lettura molto preziosi per capire in che senso
si estrinsecherà la virulenza anticristiana, anticattolica, antipapale, dello
scrittore fiorentino, anche in riguardo al quale, facendo nostro quanto il
Messori afferma per il De Amicis, possiamo dire che “non c’è bisogno della
prova dell’affiliazione per riconoscere subito l’impronta della massoneria”.
Cos’è il pinocchio se non la mandorla, il frutto mangiabile del pino, albero
mediterraneo per eccellenza? Ancora oggi in Toscana, ma anche in certi luoghi
della Puglia, con tal nome si indica quello che commercialmente è noto col nome
di pinolo, un seme saporito che conserva dentro di sé il ricordo sottilmente
inebriante della resina dell’albero madre. Quel nome, se la metafora
cristologica del passo evangelico viene riconosciuta, ricorda il granello di
senape dei Vangeli, preso a similitudine per indicare la potenza escatologica
(Mt, 13, 31) del messaggio cristiano. Dunque Pinocchio è un seme che contiene
in sé potenzialmente una vitalità e un vigore immensi: perché diventi albero
occorre solamente che sia seminato nel terreno adatto, fra zolle ubertose e non
fra le aride pietre di un deserto. Quale sia questo terreno lo vedremo tra
poco.
Il nome Geppetto, l’artefice, o demiurgo, del burattino, strano in
apparenza, va letto come una variante di Giuseppetto, cioè diminutivo di
Giuseppe. Giuseppe, padre di Gesù, è colui che ai fedeli, nella iconografia
cristiana, regge il figlioletto, quasi del tutto nudo, sul braccio sinistro
mentre con la mano destra stringe una verga fiorita, questa da intendersi anche
come asse intorno a cui ruota il mondo cristiano. La lettura dell’immagine è
chiara: San Giuseppe falegname (notare l’attributo) è colui che è in grado di
rendere vivente ciò che è morto, cioè, fuor di metafora, è colui che è capace
(ri)dare vita spirituale e forza salvifica a coloro che lo mirano, cioè seguono
la dottrina (i vangeli), che si incarna nel figlio nudo, come dire che la
dottrina cristiana non nasconde messaggi occulti, in chiave ermetica,
intelligibili solo dagli adepti. Notare però che nella favola Geppetto non è
un semplice falegname, cioè un operaio non molto abile, che abbisogna e
adopera nel suo mestiere solo ascia e pialla, due strumenti utili in sostanza a
sgrossare il legno (Ohi! Tu mi hai fatto male!, grida il potenziale
Pinocchio quando maestro Ciliegia vibra il primo, che è anche l’ultimo, colpo
d’ascia sul pezzo di legno informe), ma un artista di gran lunga esperto,
un superiore intagliatore in legno capace di compiere con gli attrezzi della
sua arte non solo di dare movimento, quindi vita, ad un pezzo di legno in
apparenza morto, ma di produrre anche “una bellissima cornice ricca di
fogliami, di fiori e di testine di diversi animali” (cap. XXXVI). Le due
figure, S. Giuseppe e Geppetto, viaggiano quindi su binari paralleli ma
nel contempo divergenti e trasversali. Li accomuna: il nome, la facoltà
teurgica, la “parentela” tra l’aureola color oro che cinge il capo del santo e
la parrucca gialla con cui Geppetto copre la sua calvizie, segno inequivocabile
della sua antichità.
MAESTRO CILIEGIA: NON C’E’ MA C’E’
E maestro Ciliegia brontolone, fifone, falegname, colui che all’inizio
del racconto <<si sbertuccia>> ben bene con Geppetto? E’,
maestro Ciliegia, il più misterioso dei personaggi della favola
collodiana. Esso appare una volta sola: all’inizio del racconto, poi esce
definitivamente di scena dopo una solenne pellicciata e non se ne fa più motto.
Sembra un personaggio minore di cui non vale occuparsi, un personaggio
artificioso, stupido, inutile nella economia del racconto, tuttavia una specie di
araldo, un coreuta, che trascina sulla scena i personaggi maggiori cioè
Geppetto e il pezzo di legno amorfo da cui sarà tratto il burattino Pinocchio.
Sembra quasi, maestro Ciliegia, che dica: “ecco, ho fatto il mio dovere, adesso
vedetevela con loro, io sono entrato nella favola quasi per sbaglio”. Ed egli
rimane ai nostri occhi immobile, ibernato per l’eternità, in quel vano
contendere con maestro Geppetto, che nella lotta perde solo due bottoni, ma
lui, maestro Ciliegia, ne esce col naso graffiato, segno inequivocabile che
Geppetto, vecchietto arzillo, ha più vigore e dunque più capacità creativa. Di
tale differenza, ma anche del diverso spessore psichico e intellettivo di
questo maldestro stupido falegname, se ne era già accorto il Pinocchio ancora in
nuce, il Pinocchio potenziale di là da venire, ancora celato nel pezzo di
legno, celato cioè nel regno delle Madri, in attesa di pervenire al mondo
dell’essere, pezzo di legno ancora informe ma vitale, che per vendicarsi della
ottusità di maestro Ciliegia, che lo aveva sbatacchiato ben bene, si scaglia
“con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto” per far nascere un
secondo bisticcio tra i due vegliardi. Esce dunque di scena maestro Ciliegia
dopo essere stato graffiato ben bene sul naso. Ma la sua presenza, come ombra
gigantesca, è presente continuamente fino alla fine: egli è il referente
occulto di tutta la favola, dalla nascita, o meglio dalla creazione, del
burattino fino alla sua metamorfosi in fanciullo in carne ed ossa,
trasformazione che egli, maestro Ciliegia, non è in grado di compiere, perché
incapace di percepire la “vocina” che gli giungeva sì alle orecchie ma che non
captava né con la mente né con l’anima. Quella metamorfosi, che è lecito
definire metànoia, cioè capovolgimento mentale, porta dunque al passaggio dallo
stato vegetativo, primordiale, attraverso quello sensitivo, a quello
intellettivo.
L’ANIMA SECONDO ARISTOTELE
Ma non sono questi tre aspetti – il vegetativo, il sensitivo,
intellettivo – i tre aspetti dell’anima di cui ha trattato
Aristotele? Recita infatti l’ottimo Dizionario di filosofia edito dalla
BUR (1976) circa il De Anima del filosofo (pag. 490): “Conformemente alla sua
dottrina fisica, imperniata sulla distinzione tra materia e forma, ovvero tra
potenza e atto, Aristotele ritiene l’anima <<forma di un corpo naturale
che abbia la vita in potenza>>. Essa svolge tre tipi di attività,
vegetativa, sensitiva e intellettiva, le prime due in comunicazione con il
corpo, la terza separatamente da esso”. Importantissima la proposizione
“le prime due in comunicazione con il corpo”, che decodifica alla perfezione
l’allungamento del naso di Pinocchio, cioè la regressione dallo stato sensitivo
a quello vegetativo (o vegetale) quando il burattino combina una delle sue, dato
che questi due aspetti sono in comunicazione con il corpo, come vuole il
filosofo. Si spiega analogamente come il favolista ha voluto connotare la poca
virtù iniziatica di maestro Ciliegia, che nell’ultimo bisticcio con Geppetto ne
sortisce graffiato proprio sul naso: come dire che l’anima di costui, come
vedremo tra poco, partecipava ancora dell’aspetto vegetativo, e quindi per
forza di cose non sarebbe stato in grado, difettandogli la potenza teurgica, di
portare il pezzo di legno alla metamorfosi.
MAESTRO CILIEGIA UN DEMONIO
E se dunque Geppetto è il demiurgo creatore, maestro Ciliegia (a
proposito di questo frutto bisogna notarne la piccolezza senza dimenticarne il
colore, rossa come lo zucchetto e la mantelletta cardinalizi) non può che
esserne l’ombra, cioè il demonio, il male del mondo, secondo il dualismo
manicheo, dato che il falegname maestro Ciliegia è incapace di percepire la
flebile vocina del potenziale Pinocchio nascosto nel pezzo di legno grezzo. Lo
scrittore introduce maestro Ciliegia nel modo seguente: “ … C’era una
volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da
catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per
accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto
gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un
vecchio falegname, il quale aveva il nome mastr’Antonio, se non che tutti lo
chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre
lustra e paonazza, come una ciliegia matura…”. Il naso all’interno della favola
vuole esprimere la connotazione dello stato umano più elementare, più basso,
tangente lo stato vegetale. Esso, il naso, ha, infatti, tra l’altro, la
funzione di percepire gli odori, si comporta cioè come un radar capace di
ravvisare e di avvisare se gli effluvii ambientali sono compatibili con la
conservazione della vita, la parte vegetativa di ogni essere vivente, priva di
razionalità ma anche di sensibilità, perché proprio nelle sensazioni trovano a
loro volta le idee la prima radice. Allontanarsi dalla strada virtuosa,
soggiacere cioè alle tentazioni e alle forze istintuali e passionali, significa
produrre regressione in seno all’anima: Collodi, con immagine felicissima,
l’allungamento del naso, indica proprio tale transizione, cioè il passaggio
negativo da un gradino più elevato nel travaglio dell’anima verso la perfezione
a uno più basso, cioè vegetativo, che la riporta nei vortici della materia
bruta. L’immagine metaforica è concettualmente più espressiva di qualunque
descrizione verbale, un salto filosofico e di immaginazione meraviglioso.
Che cosa intende fare maestro Ciliegia (in cui i nostri lettori, messi
sulla strada e ormai smagati, dovrebbero ravvisare, sotto il velo della
metafora, la Chiesa Cattolica e il Papa) del pezzo di legno capitato nella sua
bottega? Un’opera morta, la gamba di un tavolo: ”Questo legno è capitato a
tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino” (cap. I). In
alternativa lo ritiene buono “per far bollire una pentola di fagioli”. La
cecità d’occhi e di mente di maestro Ciliegia/Chiesa è dunque, per il
favolista, assoluta: pur percependo la vocina, egli indirizza le sue ricerche
altrove, ad un armadio sempre chiuso in cui forse tiene riposti, o meglio nascosti
perché non sa più adoperarli, i ferri del suo mestiere (cioè, al di là della
metafora, gli “attrezzi” della sua arte teurgica e demiurgica, cioè salvifica),
al corbello dei trucioli e della segatura, alla strada…Un leit motiv massonico
che il Venerabile della Loggia italiana in esilio a Parigi, Ubaldo Triaca, il
12 marzo 1929, un mese dopo la firma dei Patti Lateranensi, ripeterà in un
documento inviato a tutte le Officine clandestine: “… il papa non è
purtroppo, o non è più, il capo di una Chiesa depositaria di un insegnamento
esoterico formante degli iniziati dediti al perfezionamento dell’umanità, ma è
semplicemente il guardiano di un dogma che esclude il progresso…” (R. Gervaso,
I fratelli maledetti, Casa Ed. Bompiani, pag. 306).
IL PANE E IL VINO
Al contrario, quali sono le intenzioni di maestro (attenzione, la parola
indica anche un grado massonico) Geppetto (cioè la Massoneria o il maestro
della Massoneria) circa il burattino che intende creare? “Con questo burattino
voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino”
(cap. II). Pane e vino: la metafora cristologica di quelli che sono gli
strumenti sacri della Messa è patente. Il pane e il vino come elementi di
sacralità, salvifici, sono parte dei patrimoni religiosi fin dai tempi
remotissimi. Anche Ulisse (in greco, Odüsseus, “colui che vede la strada [con
la mente]”, nome simbolico molto significativo, composto dei termini odòs,
strada, via, e òssomai, vedo con la mente, prevedo, pervenuto nel mondo latino
attraverso la variante Olüsseus, òlos, tutto, quindi Ulisse “colui che vede
tutto con la mente”) quando parte dall’isola dei Feaci (gli “splendenti”) reca
con sé pane e vino rosso, donatigli da Arète (in greco la “Virtù”) regina di
quel popolo, sposa felice di re Alcinoo (la “mente vigorosa”): “ E Arète
gli mandò dietro alcune sue schiave, / una recante un mantello pulito e una
tunica, / un’altra a portare l’arca massiccia mandava, / e un’altra pane e vino
rosso portava” (Odissea, XIII, vv. 66-69), versi di uno dei capitoli (“libri”)
più belli e misteriosi dell’Odissea che precedono di poco lo sbarco dell’eroe
ad Itaca (all’incirca la “terra pura”), nel porto sacro a Forchis, padre di
mostri, dove si trovano però un olivo frondoso, pianta sacra alla vergine Atena,
la Sapienza, nata dalla mente di Dio (Zeus, variante di Deus) e un antro
“amabile, oscuro, sacro alle ninfe che si chiamano Naiadi” con “due porte, /
una da Borea, accessibile agli uomini; / l’altra, dal Noto, è dei numi e per
quella / non passano uomini, degli immortali è la via” (vv.
109-112)(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1970). E non ci vuol molto
per intendere che sotto il velo del simbolo, il Poeta Omero comunica con
linguaggio ermetico il bivio a cui un’anima può trovarsi, il male (Forchis), e
il bene (l’olivo), la sapienza, pur dopo tante traversie ed essere quasi giunta
alla meta finale, al sospirato porto (la casa del Padre, Laerte, “colui che è
forte come la roccia”). E si intuisce che Ulisse imboccherà felicemente “degli
immortali la via”, perché “egli vede la strada”. Piace qui ricordare che Dante,
cavaliere Kadosh (“santo”) [ 30° grado della Massoneria scozzese] (René Guenon
L’esoterismo di Dante, cap. II, Ed. Atanòr, 1976) nel suo Poema [IV, 85-86]
presenta Omero con una spada in mano per significarne il ruolo di grande
Maestro iniziato, un gran prete, un jerofante mistagogo capace di guidare le
anime alla salvezza: l’arma, oltre che caratterizzarlo come maestro di
giustizia, lo individua anche padrone della perfetta conoscenza, per aver
tagliato cioè tutte le passioni carnali, le Erinni telluriche, e non perché
cantore delle armi, come erroneamente si argomenta. Si veda l’analogia
con il Buddha, che, mai cantore di armi, tuttavia è spesso rappresentato con la
stessa arma in mano.
LA LITE
Nella lite tra i due vecchietti, maestro Geppetto/Massoneria offende il
suo avversario con epiteti molto pesanti: bugiardo, asino, somaro, brutto
scimmiotto, termini che indicano il primo (“bugiardo”) la regressione allo
stato vegetale, sulla scia di quanto accade al naso di Pinocchio, gli altri
(“asino, somaro, brutto scimmiotto) regressione dallo stato razionale a
quello animalesco, sensitivo: in tutto ciò è palese l’accusa di incapacità
rivolta alla Chiesa Cattolica, di avere cioè fallito nella sua missione
salvifica: in questa missione, secondo la favola collodiana, il vuoto teurgico,
salvifico, viene colmato da Geppetto/Massoneria. Al contrario, maestro
Ciliegia, vecchietto svigorito e brontolone, al limite della demenza senile,
quantunque sbertucciato ben bene, si limita ad inveire col gentile nomignolo di
Polendina, come se fosse affetto dalla malattia demenziale nota come ecolalia.
Ma la polenta, sappiamo, è nutrimento di colore giallo, come il colore
dell’aureola che cinge il capo di S. Giuseppe. La lite iniziale tra il
falegname Ciliegia/Chiesa e l’intagliatore Geppetto/Massoneria adombra, senza
dubbio, le grandi tenzoni, non solo ideologiche, che queste due confessioni,
Chiesa e Controchiesa, hanno sostenuto l’una contro l’altra, da tempo immemorabile,
come indica anche l’età dei due bellicosi litiganti, entrambi calvi e
parruccati.
I VOLTI DI MAESTRO CILIEGIA
Ma maestro Ciliegia non esce di scena, come sembra ad una lettura
superficiale, difettante di chiave ermeneutica. Egli vien proiettato sulla
scena con altri volti, tutti negativi, disumani, perfino diabolici: egli è
(attenzione ai simboli) “il rivenditore di panni usati” (cap. IX), un essere
insignificante, che, acquattato dietro al burattino, desideroso di entrare nel
teatro (metafora del mondo) dei suoi simili per godersi lo spettacolo, acquista
da Pinocchio per quattro soldi l’abbecedario, procuratogli da
Geppetto/Massoneria, che ne avrebbe fatto un essere (massonicamente) istruito
(si noti per inciso che la parola abbecedario è coniata sulle prime tre lettere
dell’alfabeto, a, b, c; sarà un caso, ma tre sono i gradini che nel rito
massonico scozzese antico e accettato elevano un adepto a Maestro); egli,
maestro Ciliegia, è il satanico burattinaio Mangiafoco nei cui tratti
fisici e psicologici si assommano i danteschi demonii Cerbero “Li occhi ha
vermigli, la barba unta e atra / e’l ventre largo, e unghiate le mani”, Caronte
il “nocchiero della livida palude, / che ‘ntorno alli occhi avea di fiamme
rote” [ruote, ndr] (Inf. III, 98-99), l’iracondo Flegiàs (Inf. VIII,
18-24) e il mostro Gerione dal corpo di serpente, il mostro simbolo della frode
(Inf. XVII, 1-30): “Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che
metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno
scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a
terra: basti dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca
era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col
lume acceso di dietro, e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di
serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme” (cap. X); e con quella
frusta, fatta di serpenti, cioè di veleno come la coda di Gerione, e di code di
volpe, cioè di astuzia, si fa obbedire dai poveri burattini Arlecchino,
Pulcinella e compagni, che, agghiacciati dal terrore, “tremavano come tante
foglie”; egli è l’Omino (cap. XXXI), “ più largo che lungo, tenero e untuoso
come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva
sempre e con una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si
raccomanda al buon cuore della padrona di casa”, che trasporta su un carro,
“senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa
e di cenci”, Pinocchio, Lucignolo (vero nome Romeo!) ed altri ragazzi al Paese
dei balocchi nel qual paese, paese di vita spensierata, essi pian piano si
trasformano ognuno in asino, animale che, per lunga tradizione favolistica è
simbolo archetipico della perfetta ignoranza. Si noti che la parola “cenci” fa
tutt’uno con lo straccivendolo che, che all’inizio della favola, per quattro
soldi, cioè quasi per niente, acquista l’abbecedario. L’Omino è, insomma, colui
che travia i fanciulli, cioè i Massoni già fatti o in fieri, facendoli
regredire, precipitare, dallo stato razionale, illuminato, a quello animalesco,
sensitivo.
Maestro Ciliegia/Chiesa va dunque integrato con questi tre personaggi,
allo stesso modo che nell’Inferno dantesco i demonii, che atterriscono il Poeta
nel suo viaggio ultraterreno, altro non sono che la proiezione di Satana, anche
lui con tre teste.
MANGIAFOCO
Il capitolo in cui appare Mangiafoco è della massima importanza: merita
di essere approfondito perché da quell’incontro iniziano le vere e proprie
(dis)avventure del burattino.
Appena entrato in teatro, Pinocchio viene riconosciuto dai burattini
Arlecchino e Pulcinella, attori, ma anche schiavi prigionieri di
Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa: “Numi del firmamento! (notare l’esclamazione
pagana) Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio” urla Arlecchino
smettendo di recitare. Gli fa eco Pulcinella: “E’ Pinocchio davvero”. E tutti i
burattini: “E’ nostro fratello Pinocchio”. E comincia una indescrivibile
gazzarra in cui “gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti
dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza” si sprecano
(notare che le Costituzioni di Anderson affermano testualmente: “autentica
fratellanza”). Come mai i burattini si dicono tutti fratelli? Chi li ha
fabbricati? Anche loro, prima che divenissero burattini, erano racchiusi in
potenza in un pezzo di legno e avrebbero potuto seguire la strada che
percorrerà Pinocchio. E’ escluso, anche perché non è detto in nessun luogo, che
siano stati tutti fabbricati da maestro Geppetto/Massoneria e che siano caduti
nelle grinfie di Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa divenendone vittime e reclusi in
quella specie di campo di concentramento che è il teatro dei burattini. In
quella schiera vegetale è facile individuare tutti coloro che non si
redimeranno mai perché adescati dalla fascinazione potentissima che promana da
Mangiafoco. La loro è non solamente una fratellanza di sventura perché
costretti a recitare una parte che non è la loro, ma anche una fratellanza
ideale, massonica, almeno per coloro che eventualmente riuscissero a liberarsi.
E’ proprio quel che il burattinaio teme: “Perché sei venuto a mettere lo
scompiglio nel mio teatro?” egli grida col suo terribile vocione facendo
raggelare tutti i burattini-schiavi che tremano come tante foglie,
interrompendo ovviamente tutti gli abbracciamenti “della vera e sincera
fratellanza“ (massonica). Ma l’accusa del favolista è ancora più sottile e
tagliente: dando un nome preciso ai due burattini, Arlecchino e
Pulcinella, maschere topiche delle Venezie e delle Due Sicilie, fa anche capire
quali erano le regioni del nuovo regno d’Italia meno integrate in ambito
massonico e più ossequenti alla Chiesa Cattolica. Ma c’è di più. Oltre che da
Arlecchino e Pulcinella, Pinocchio è riconosciuto anche dalla signora Rosaura:
“E’ proprio lui – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla
scena”. Rosaura, in fondo alla scena, è dunque accanto al burattinaio
Mangiafoco, compagna se non sposa. Chi è costei, nominata solo in questo punto
della favola? In una commedia di Goldoni, Le donne curiose, in cui lo scrittore
difende ed esalta la Fratellanza massonica, Rosaura è la giovane ignorante e
credulona, convinta che entro le logge massoniche si tengano baccanali
sacrileghi. Dunque Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa è in buona compagnia, in
compagnia dell’ignoranza.
CHI E’ MANGIAFOCO
Come si sa Pinocchio rischia di essere abbrustolito da Mangiafoco, che
però, impietosito dagli strilli e dalle implorazioni del burattino, finisce per
fargli grazia della vita. Ma il crudele burattinaio, per portare a termine la
cottura di un suo montone allo spiedo, metafora della crapula che imbestia,
ordina che, al posto del graziato Pinocchio, sia messo al fuoco il povero
Arlecchino, il quale “fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono
e cadde bocconi per terra”. Lo scambio sacrificale fa scoccare in Pinocchio la
prima scintilla di umanità. Il burattino “andò a gettarsi ai piedi del
burattinaio e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della
lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:
– Pietà, signor
Mangiafoco!…
– Qui non ci sono
signori! Replicò duramente il burattinaio.
– Pietà, signor
Cavaliere!…
– Qui non ci sono
cavalieri!
– Pietà, signor
Commendatore!…
– Qui non ci sono
commendatori!
– Pietà, Eccellenza!
A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio fece subito il bocchino
tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a
Pinocchio:
– Ebbene, che cosa vuoi
da me?
– Vi domando grazia per
il povero Arlecchino”.
In questo dramma (dis)umano-vegetale è racchiusa, per il lettore ancora
scettico, la chiave che spazza via ogni residuo dubbio sulla comprensione della
favola: Mangiafoco non è signore, non è Cavaliere, non è Commendatore:
effettivamente all’interno della Chiesa questi titoli non esistono, ma, a parte
“signore” che è un titolo “laico”, Maestro, Cavaliere e Commendatore sono gradi
massonici: per l’esattezza nel rito scozzese antico e accettato: Maestro, nelle
Logge simboliche muratorie, in cui vengono assegnati i gradi primitivi o
simbolici, il 3° grado; nelle Logge di Perfezione il 4° (Maestro Segreto), il
5° (Maestro Perfetto), il 9° (Maestro Cavaliere Eletto dei Nove), il 12° (Gran
Maestro Architetto); negli Areopaghi o Consigli il 20° (Venerabile Gran
Maestro a vita); Cavaliere, nelle Logge di perfezione, il 9° (Maestro
Cavaliere Eletto dei Nove), l’11° (Sublime Cavaliere Eletto) e il 13°
(Cavaliere dell’Arco Reale); nei Capitoli, il 15° (Cavaliere d’Oriente o della
Spada), il 17° (Cavaliere d’Oriente e d’Occidente), il 18° (Cavaliere
dell’Aquila e del Pellicano); negli Areopaghi, il 21° (Cavaliere Prussiano), il
22° (Cavaliere dell’Ascia Reale), il 25° (Cavaliere del Serpente di Bronzo), il
28° (Cavaliere del Sole), il 30° (Grande Eletto Cavaliere Kadosh o Cavaliere
dell’Aquila Bianca e Nera); Commendatore, negli Areopaghi, il 27° (Gran
Commendatore del Tempio); nel Tribunale, il 31° (Grande Ispettore Inquisitore Commendatore).
Mangiafoco si commuove a sentirsi chiamare “Eccellenza”, titolo che si dava e
si dà specialmente ai gradi eccelsi della Chiesa Cattolica, a Cardinali e
Vescovi, cioè alle massime autorità spirituali di una diocesi. La parola
“Eccellenza” salva dunque il povero Arlecchino. Anzi quella “magica” parola fa
nascere addirittura amicizia tra Mangiafoco e Pinocchio.
IL DONO DEL BURATTINAIO
Alla fine, Mangiafoco, conosciute le povere condizioni economiche di
maestro Geppetto, regala al burattino cinque monete d’oro. Attenzione
però: non si tratta di un’opera di disinteressata bontà. Il dono di Mangiafoco
nasconde la serpe in seno, come dicevano gli antichi in cauda venenum, cioè
nella coda il veleno. Non si dimentichi che la sua frusta è costituita da
serpenti e code di volpe, cioè astuzia e veleno, e quindi le cinque monete
(zecchini) donate da Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa al burattino (incamminatosi
sulla strada della “redenzione” massonica) sono intrise – secondo il favolista
– di veleno. Ma, di grazia, che cosa vogliono rappresentare le cinque monete
d’oro? La risposta non può che essere trovata nei sacramenti che vengono
elargiti ai comuni mortali (i burattini del teatro di Mangiafoco) che si
affidano alla religione cristiana cattolica: battesimo, prima comunione,
cresima, matrimonio, estrema unzione. L’ultimo sacramento sarebbe inutile ai
fini della redenzione perché dato in extremis, quando ormai si è a un passo
dalla fossa: infatti una moneta viene consumata all’osteria del Gambero Rosso,
animale che, come si dice, invece di procedere in avanti, va a ritroso. Il
simbolo è più che evidente: in possesso degli zecchini d’oro donati da
Mangiafoco/Ciliagia/Chiesa, fallaci e maligni, si prende la strada del ritorno
allo stato vegetale. In contrapposizione, alla fine della favola, ad avvenuta
metamorfosi del burattino in fanciullo in carne ed ossa, la Fata dai capelli
turchini, proiezione di Geppetto-demiurgo/Iside, gli regalerà invece “quaranta
zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca” , dal chiaro significato metafisico ed
escatologico, in antitesi evidentissima con i miseri cinque donati da
Mangiafoco/Chiesa/Ciliegia, forieri di perdizione e quindi di caduta
dell’anima.
IL SEGRETO DEI NUMERI
Ma, possiamo domandarci, perché proprio quaranta? Il numero va inteso
come 33 + 7: dove 33 sono i gradi massonici del Rito Scozzese Antico e
Accettato e 7 le virtù etiche che devono costituire, e forgiano, l’abito
mentale dell’uomo superiore, vale a dire: il coraggio, la moderazione, la
magnanimità, la generosità, la mansuetudine, la franchezza, e soprattutto la
giustizia, che è la maggiore di tutte, aventi come fine il bene (Aristotele).
Non si può escludere, in via sussidiaria, che il numero 7 possa tuttavia
rappresentare anche i cieli, o sfere planetarie (ovviamente in senso figurato,
metafisico: Saturno [piombo, luogo delle tenebre, stato iniziale dell’anima
greve, ghiacciata, prigioniera della carne e del peccato, cioè dell’inferno],
Venere [stagno], Giove [bronzo], Mercurio [ferro], Marte [lega], Luna
[argento]
, Sole [oro, luce e simbolo di perfezione]) attraverso cui trasmutano
via via coloro che, convertendosi alla dottrina dei Figli della Luce, ne
percorrano i Misteri Minori (che mirano alla perfezione dello stato umano) e
Maggiori (che concernono la realizzazione degli stati sopra-umani), che passino
cioè dal grado di Apprendista (cioè burattino) a quello di Adepto – Uomo
trascendente, jerofante mistagogo che riesce ad aprire la porta del tempio di
Dio, dove la luce celeste e la verità consentono all’anima il ritorno alla vera
patria.
IL GATTO E LA VOLPE
Appena congedatosi da Mangiafoco, il burattino incontra sulla sua strada
il Gatto e la Volpe, cioè la frode moltiplicata, proiezioni della frusta del
burattinaio “fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme”, se
non il burattinaio stesso capace di trasformarsi come il Proteo omerico. I due
birbanti consigliano a Pinocchio di portare le monete nel paese dei
Barbagianni, cioè degli sciocchi, e di seminarle nel Campo de’ miracoli, cosa
che, ingenuamente, il burattino andrà a fare. Similia similibus: le monete
donate da Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa non potevano che essere seminate nel Campo
de’ miracoli, ma lungo la strada il burattino incontra gli assassini, in realtà
il Gatto e la Volpe mascherati, alle cui grinfie cerca di sfuggire. Scappa,
scappa, e non trovando scampo, si arrampica in cima ad un albero di pino, di
cui è seme, alla radice della sua esistenza vegetale, cioè al massimo della
regressione allo stato vegetativo, a cui lo portano gli zecchini, che si
rivelano, così, inutili dal punto di vista salvifico.
PINOCCHIO SALTA IL FOSSO
Sennonché saranno proprio gli assassini a bruciare la pianta, da cui
Pinocchio si salva con un gran salto. Ma quelli lo inseguono sempre: a
qualunque costo vogliono derubarlo del piccolo tesoro “quand’ecco che
Pinocchio si trovò improvvisamente sbarrato il passo da un fosso largo e
profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che
fare? <<Una, due! tre!>> gridò il burattino, e slanciandosi con una
gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma
non avendo preso bene la misura, patapunfete!… cascarono giù nel bel mezzo del
fosso”. Saltare il fosso tutto pieno di acquaccia sudicia, simbolo dei
“peccati” del mondo, come fa Pinocchio, creatura ormai incamminatasi sulla
strada massonica, o camminare sull’acqua in esso contenuta è un passo topico,
metaforico e metafisico, delle iniziazioni misteriche ed esoteriche. Si veda
anche quanto afferma Dante (Inf. IV, vv. 106-111) accompagnato dal suo guru
Virgilio: “Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte
mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello. / Questo passammo come terra dura;
/ per sette porte intrai con questi savi: / giugnemmo in prato di fresca
verdura”. Gli assassini, caduti nel fosso largo e profondissimo, riemersi
dall’acquaccia sudicia, ovviamente più sporchi di prima, non demordono
dall’inseguimento. “Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul
punto di gettarsi in terra e darsi per vinto, quando nel girare gli occhi
all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in
lontananza una casina candida come la neve”.
PINOCCHIO IMPICCATO
Ma alla fine il burattino viene acciuffato ed impiccato perché si
rifiuta di consegnare il suo tesoretto alle due canaglie metafisiche. A questo,
alla morte, lo portano dunque gli zecchini d’oro regalatigli dal perfido
Mangiafoco, proiezione, o per dirla con Jung, Ombra di maestro Ciliegia/Chiesa:
“A poco a poco gli occhi gli si appannarono… aprì la bocca, stirò le gambe e,
dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito” perché soffiava “un
forte vento di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava
in qua e in là il povero impiccato”, che, all’estremo respiro invoca il padre,
cioè colui, il maestro, che lo aveva tratto, anzi estratto, con gli attrezzi
della sua arte, dal legno informe dello stato vegetale: “Oh babbo mio se tu
fossi qui!…” (cap. XV). Questa morte di Pinocchio è morte iniziatica: un passaggio
di morte-rinascita, l’incantesimo da cui per il burattino sorgerà nuova vita.
E’ l’inizio della metamorfosi del burattino-adepto. Anche il viaggio
oltremondano di Dante è scandito da passaggi di morte-rinascita, da cui il
Poeta assurgerà a nuova, più profonda, consapevolezza interiore (es. Inf. I,
vv. 1-2; III, vv. 136; e soprattutto V, v. 142, “caddi come corpo morto cade”).
TRE GIORNI
Dalla nascita di Pinocchio fino a questa sua “morte” sono trascorsi tre
giorni, tre giorni in cui Pinocchio ha vissuto come un morto: notare bene
questo lasso di tempo. Nel terzo giorno Pinocchio ritorna alla vita, risorge,
lo riporterà in vita la Bambina (cioè la Fata) dai capelli turchini/Iside. Noi
a questo punto invitiamo i nostri lettori a leggersi, dei Vangeli, la parte
relativa all’agonia e morte di Gesù, che invoca il Padre, ma soprattutto il
Vangelo di Matteo (27, 45/46 ) e confrontarne i luoghi con quelli collodiani.
L’analogia tra i due racconti è stupefacente, dalla meteorologia, gli elementi
aerei che si scatenano, all’invocazione del Padre.
Un altro punto della favola che fa il paio col passo appena citato è
quanto vien narrato al cap. XXXIII. Qui Pinocchio, che per le sue male azioni,
si era trasformato in asino, aveva cioè patito e sperimentato la condizione
animalesca, condizione spirituale di gran lunga inferiore a quella di burattino
in fase di redenzione, si riburattinizza. Colui che lo aveva comperato
“condusse il ciuchino sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e
legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente
uno spintone e lo gettò nell’acqua. Pinocchio con quel macigno al collo, andò
subito al fondo…”. Dopo un po’ di tempo, il compratore pensando che l’asino
fosse affogato, lo tirò su per recuperarne la pelle e “invece di un ciuchino
morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo, che scodinzolava come
un’anguilla”.
MORTE-RINASCITA DI PINOCCHIO
Seconda morte-rinascita, metafora cristologica del battesimo. Che cosa
era stata per il burattino l’esperienza asinesca? “Una vergogna, caro padrone –
confessa Pinocchio a colui che era stato il suo padrone – che sant’Antonio
benedetto non la faccia provare neppure a voi!”. Questo scongiuro apotropaico è
il clou del bellicismo ideologico massonico: è l’accusa che la sventura asinina
vissuta da Pinocchio è stata opera di sant’Antonio, come fa intendere
l’avverbio neppure. Ma il nome Antonio, guarda caso, l’abbiamo visto essere il
vero nome di maestro Ciliegia, nome di frutto tanto dolce, tanto piccolo, ma –
secondo la visione del favolista Collodi – velenifero. Il potere diabolico di
maestro Ciliegia, con le sue proiezioni di
Chiesa/Mangiafoco/straccivendolo/Omino, è per tanti versi simile a quello di
Crise, il sacerdote di Apollo, che, nell’Iliade, fa nascere una pestilenza nel
campo acheo. Anche Lucio, il protagonista dell’Asino d’oro di Apuleio, dopo la
sua metamorfosi, si esprime con le stesse parole di Pinocchio: “Provai vergogna
di me, una vergogna tutta asinina, s’intende” (Metamorphoseon, XI, 23). Dall’analisi
dell’ermetismo della favola possiamo argomentare che l’unico vero massone del
secolo XIX in Italia, maestro di dottrina, fu Collodi; i consorti, quelli che
comunemente si autodefinivano massoni, erano in realtà, semplicemente, una
consorteria di carbonari rivoluzionari bombaroli che avevano mutato nome e
casacca.
IL PESCE-CANE E LA STELLA
Non si può in poche pagine analizzare tutti i passi simbolici di questa
favola pagana, così complessa ed ermetica, ad uso dei soli iniziati. Tuttavia
si rende necessario illustrarne ancora due passi fondamentali. Il Pesce-cane e
la stella. Pinocchio, ingoiato dal grande “terribile” animale, ritrova, nel
lungo oscuro e profondo budello del “mostro”, il padre Geppetto, cioè, ovunque
voi andiate, anche nei luoghi più oscuri, profondi e lontani, ritroverete la
Massoneria, che in questo particolare luogo della favola si ammanta del
tricolore: infatti Geppetto, “vecchietto tutto bianco, come se fosse di neve”,
ha davanti a sé una candela, infilata in una bottiglia di cristallo verde e
accesa che spande intorno luce (che sarà per forza rossa, dato che la
temperatura di combustione della candela non è molto elevata, avviene cioè con
emissione di radiazione rossa e infrarossa). (Si noti per inciso che anche
Beatrice si manifesta a Dante vestita con abiti dagli stessi colori, Purg. XXX,
31-33). Ma nello stesso tempo il verde è simbolo di speranza, speranza di
salvarsi dalle fauci del “mostro” Pesce-cane, e il colore di maestro
Geppetto “un vecchietto tutto bianco, come se fosse di neve o di panna
montata”(metafora cristologica) è indice di trasfigurazione cioè il
maestro, ingoiato dal mostro, nelle sue viscere si è trasfigurato (effetto del
pane e del vino di cui si è detto), ha raggiunto lo stato di Uomo trascendente,
cioè adepto trasformato in un centro irradiante Luce, messaggero o ambasciatore
del Logos, “il Figlio di Dio”, che discende nella materia (R. Guénon). Si
legga al riguardo quanto Matteo riporta a proposito della trasfigurazione del
Cristo: “Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la
neve” (Mt. 28, 3). Con la trasfigurazione di maestro Geppetto, il favolista
afferma dunque che solo nella comunione massonica gli adepti, i Figli della
Luce, possono pervenire all’illuminazione, cioè alla visione di Dio, alla
santità.
IL MOSTRO METAFORA DELL’INFERNO
Il mostro, da cui tra poco i due protagonisti emergeranno, è dunque
metafora dell’Inferno (non della biblica balena di Giona o di Moby Dick).
Essere stati da lui ingoiati adombra la discesa agli Inferi, cioè al regno dei
morti, ad imitazione del viaggio infero di Ulisse, Enea, Dante, e del primo di
tutti gli eroi mistici Gilgamesh, l’uomo divenuto carne degli Dei, “per due
terzi dio e per un terzo uomo” che, per la conquista dell’immortalità, attraversò
la montagna oscura lunga dodici leghe all’uscita della quale trovò il giardino
degli Dei e la luce di Shamash, il Sole, cioè la stella, che gli
abbagliava la vista col suo fulgore. La presenza di Geppetto nella bocca del
Pesce-cane ha un solo significato: la discesa agli Inferi non può essere fatta
da soli, deve essere preceduta e accompagnata dal Maestro, che svolge così il
ruolo di guru, jerofante mistagogo, ruolo che in Dante viene svolto da
Virgilio. Non stiamo qui a delucidare il simbolo astronomico del Pesce-cane
(parola scritta con un trattino di unione, un trattino molto importante) che ci
porterebbe molto lontano. Diremo solamente che richiama la costellazione dei
Pesci, sotto cui si trovava il sole nel secolo XIX, e quella del Cane Maggiore,
nella quale ultima arde Sirio, la stella più brillante del firmamento, ritenuta
da sempre ipostasi di Iside, la Gran Madre, Regina della notte, del cielo e del
mondo sotterraneo, ma anche, in Pinocchio, la Fata dai capelli turchini. I due,
maestro ed allievo, stanno per emergere dalla bocca del mostro e Pinocchio (è
lui che deve guardare) “affacciandosi al principio della gola e guardando in
su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di
cielo stellato e un bellissimo lume di luna”. L’apparizione della stella palesa
la fine del viaggio, cioè la metamorfosi dell’adepto, il compimento del
passaggio da Apprendista, a Compagno, a Maestro, a colui che possiede ormai la
perfetta conoscenza, la Gnosi, la conoscenza che permette di dare una risposta
al quesito: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo? La trasformazione è ormai
prossima e la visione della luna è un omaggio ad un altro aspetto di Iside, a
Proserpina, Regina dei morti, degli Inferi, che anche Enea (Eneide, VI, 142)
chiama bella (pulchra Proserpina). La presenza della stella, alla fine delle
traversie o prove affrontate e superate dall’eroe mistico, ha un solo
significato: siamo in presenza di un testo iniziatico. Vedi, esempio molto
esplicito e luminoso, nella Divina Commedia, la chiusa delle tre cantiche.
Anche nei Promessi Sposi di Manzoni, favola esoterica cristiana modellata
sull’Odissea di Omero, Renzo (cioè Manzoni)(cap. XXXIII, ultime righe)
“s’incamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un
brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale
e porta Nuova, e molto vicino a questa”. Dichiarazione questa, molto esplicita,
di ripudio della Massoneria, a cui lo scrittore era stato affiliato in
gioventù, come fa fede la stesura del suo Fermo e Lucia, cioè, anagrammando e
spostando la m e la a, Lucifero (cioè portatore di luce) A. M. (Alessandro
Manzoni)
ASPETTI POLITICI
Dalla favola di Pinocchio abbiamo enucleato alcuni elementi sufficienti
ad illustrarne gli aspetti apparentemente oscuri. Ma il mondo di Pinocchio è
anche un riflesso del mondo reale, ma alla rovescia, capovolto.
La favola non è del tutto apolitica e atemporale come vorrebbe il
cardinale Biffi. Oltre agli aspetti esoterici e al bellicismo antiecclesiale
precedentemente esaminati, è possibile anche un altro livello di lettura,
quello di critica del sistema politico dittatoriale instaurato dai savoiardi.
Nessuno scrittore, infatti, per quanto attento o impolitico, sfugge alla
dinamica politica e sociale del suo tempo.
L’operazione di Pinocchio, seminare le cinque monete nel Campo dei
Miracoli, a parte l’aspetto denigratorio dei sacramenti elargiti dalla Chiesa
ai laici, dal punto di vista economico (un simbolo ha sempre un significato
principale e vari significati accessorii, sussidiarii o complementari, ad
esempio nel caso specifico dei cinque zecchini donati da Mangiafoco possiamo
vedere anche una parodia della parabola cristologica dei talenti riportata nei
vangeli) non è una operazione industriale, bensì una speculazione finanziaria.
Quegli anni, anni della stesura e pubblicazione della favola, furono anni di
intensa speculazione economica ed edilizia, di scandali bancarii e di rapine a
danno dei meno abbienti tra cui la famigerata e spietata tassa sul macinato. Il
pranzo del Gatto e la Volpe all’osteria del Gambero Rosso, un luogo, come vuole
il nome, dove invece di andare avanti si va indietro, è un’accusa spietata
contro quel parlamento dittatoriale italiano che governava con gli stati
d’assedio e con le prigioni, stracolme di prigionieri politici nonostante la
patente di “democraticità” di cui si vantava e sproloquiava per via del
cosiddetto Statuto, osannato ma messo sotto i piedi.
LA GRANDE ABBUFFATA
Che cosa mangiano infatti il Gatto e la Volpe all’osteria del Gambero
Rosso? Cibo che in quei tempi si trovava quasi solamente sulle mense dei ricchi
borghesi: “Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non
poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro
porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita
abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
La Volpe avrebbe spilluzzicato qualche cosa anche lei: ma siccome il
medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una
semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre
ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per
tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di
lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il
cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca”
Politicamente il Gatto e la Volpe sono metafore non facilmente
estrapolabili. Quali personaggi politici siano adombrati sotto quelle due
sfingi non è dato sapere. E’ tuttavia molto probabile che in questa particolare
fauna di pappatori, Gatto e Volpe, siano da focalizzare il Savoia, la cui lista
civile (stipendio) superava di quattro volte quella della Regina Vittoria e di
cinque volte quella del Presidente degli Stati Uniti d’America, e il Primo
Ministro Depretis, ridottisi, da “titani” (non credeteci) del cosiddetto
risorgimento a biechi sfruttatori del popolo che si ribellava dando
violenti scossoni al sistema politico con conseguente caos sociale e caduta di
governi. Anzi il governo Depretis fece di più: quando nel 1878 in parlamento fu
ridiscussa la tassa sul macinato, approvò una legge che aboliva, per favorire i
contadini del nord, l’imposta sui cereali “inferiori” come il mais,
discriminando in tal modo i contadini del Sud, che coltivavano grano. La cosa,
in quel mondo ancora molto contadino, non era andata a genio ai parlamentari
(ormai) meridionali, sicché, quando nel 1879 la questione della tassa sul
macinato tornò in parlamento, ci fu chi ne trasse argomento per vendicarsi e il
governo Depretis cadde, travolto anche dagli scandali bancari. Ma risultò
ancora una volta Presidente del Consiglio un tale del nord, il Cairoli, e le
cose non cambiarono. Correva l’anno 1881 quando la favola vide la luce, ma essa
dovette avere un lungo travaglio intellettuale prima di essere portata alle
stampe. Qualunque fosse il governo in carica, in quell’intorno di anni i
tributi venivano ancora quasi sempre imposti dalla dittatura parlamentare (noi
siamo autoritari fino alle ossa, aveva affermato Giustino Fortunato) per
decreto invece che per legge, sempre più aumentati per coprire la voragine
senza fondo dei conti dello Stato, che spendeva oltre il settantacinque per
cento delle entrate in armamenti, una pacchia per le industrie del nord.
LA GIUSTIZIA SAVOIARDA
Per il Gatto e la Volpe il povero Pinocchio è costretto a pagare il
conto della loro crapula all’osteria, e sono loro, il Gatto e la Volpe,
che, successivamente, lo derubano delle restanti quattro monete d’oro
seminate nel Campo de’ miracoli, come dire che il popolo veniva spolpato fino
all’osso (rapine bancarie con finti fallimenti).
Pinocchio, dopo la truffa gattovolpinesca, fiducioso nella giustizia,
corre in tribunale per denunziare i due malandrini. “Il giudice era uno
scimmione della razza dei gorilla… lo ascoltò con molta benignità: prese
vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non
ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da
giandarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: – quel
povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e
mettetelo subito in prigione”. Nella giustizia, senza appello, dello
scimmione-gorilla (parodia del dantesco Minosse, savio giudice infernale) che
fa patire gli innocenti al posto dei rei, è sintetizzata la giustizia dei
regimi totalitari, da cui quello imperante in Italia, il savoiardo, non si
discostava in nulla. Anche la libertà, che Pinocchio recupererà, dopo ben
quattro mesi di gattabuia, è basata sullo stravolgimento di ogni principio
giuridico: per uscir di prigione il burattino sarà costretto a dichiararsi malandrino,
perché solo a costoro è concesso, a seguito amnistia, riottenere la libertà:
“Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io – disse Pinocchio al
carceriere.
– Voi no, – rispose il carceriere – perché voi non siete del bel numero…
– Domando scusa –
replicò Pinocchio – sono un malandrino anch’io.
– In questo caso avete
mille ragioni – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e
salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare”.
LA LEGGE SICCARDI
L’ordinamento giudiziario vigente in Italia all’epoca della
pubblicazione della favola era ancora quello, non tanto rispettoso dei diritti
civili, della legge Siccardi del 19 maggio 1851, reso molto più restrittivo dal
decreto Rattazzi del 13 novembre 1859, un decreto molto illiberale che
risentiva degli effetti della guerra “sostenuta” dal Piemonte in quell’anno
insieme a Napoleone III. Nel 1860 l’ordinamento giudiziario piemontese
risultava essere il più arretrato della penisola, ma fu imposto per diritto di
spada alle regioni conquistate. Le parole di Giuseppe Maranini, professore di
diritto costituzionale, riportate nel suo interessantissimo studio “Storia del
potere in Italia 1848 – 1867” (ed. Corbaccio, 1995) sono illuminanti
al riguardo: “Così quell’illiberale decreto, imposto di sorpresa e con scarsa
correttezza al regno di Piemonte, era destinato a diventare, per diritto di
annessione, lo statuto della giustizia dell’Italia liberata e unificata. Che la
rapida vicenda delle conquiste e delle annessioni plebiscitarie tra il 59 e il
61 potesse richiedere una momentanea sospensione delle garanzie liberali è
comprensibile. Grave è il fatto che quella sospensione venisse utilizzata per
dare all’Italia unificata il suo nuovo ordinamento giudiziario, un ordinamento
imposto dal potere esecutivo e interamente rivolto a subordinare la giustizia
all’esecutivo” (pag. 265). Col decreto Rattazzi i magistrati si trovarono a
svolgere il loro ruolo in condizioni molto più precarie rispetto al passato,
soggetti ai capricci del ministro dell’interno, arbitro del loro destino, che
poteva, in difetto di giudizi politicamente non conformi, trasferire, punire,
impedire avanzamenti. “Il povero magistrato che si ostinasse ad applicare
imparziale giustizia in materie di grave pregiudizio politico, poteva ormai
tenere in perpetuo le valigie pronte per lunghe peregrinazioni nelle allora
remotissime province del regno; e sempre che non gli accadesse di incappare in
qualche giudizio disciplinare” (pag. 266). A differenza dei comuni mortali che
potevano godere, in un processo, di un minimo di assistenza legale, il
magistrato caduto in disgrazia, o solamente sospettato di deviazione, veniva
sottoposto, con metodi canaglieschi, molto staliniani, a processo segreto, senza
difensore: “Ma il processo segreto, senza intervento di difensore, davanti a
magistrati essi medesimi esposti a insindacabile <<tramutamento>>
di sede per il bene del servizio, ed anche alle pericolose iniziative
disciplinari del pubblico ministero, costituiva una triste parodia di
giustizia…Se l’esecutivo con un regolamento deformava o violava una legge, il
magistrato era così obbligato a rendersi complice della deformazione o
violazione (pag. 267)… e la pubblica accusa era, in virtù delle leggi,
agli ordini del governo, fossero ordini di viltà oppure ordini di sopraffazione
e persecuzione” (pag. 274). Era questa dunque la giustizia estesa all’Italia
intera dal regime savoiardo. Un sistema stalinista privo di qualunque garanzia
costituzionale in cui poteva inserirsi liberamente l’azione sadico-criminale
(legge marziale) dei ferocissimi comandanti militari operanti al Sud che, con i
loro mortiferi pseudotribunali, decidevano del destino del popolo duosiciliano,
fucilando, imprigionando, deportando, senza che la magistratura meridionale,
terrorizzata, agghiacciata, tremante come i burattini del teatro di Mangiafoco,
potesse far valere un minimo di legalità. In questo sistema già privo di
garanzie costituzionali e giudiziarie poteva prendere corpo, nel 1863, la
criminale infame legge Pica-Peruzzi votata da un parlamento di canaglie
giacobine, legge che in solo sei mesi portò davanti al plotone di esecuzione
circa sessantacinquemila patrioti delle Due Sicilie. Era dunque questa triste
parodia di giustizia che Collodi metaforizza (e contrabbanda) nella
figura del giudice-scimmione, che incarcera gli innocenti e mantiene liberi i
rei, cioè mafiosi e delinquenti politici. Non si addice dunque a quella di
Pinocchio l’etichetta di favola metastorica e atemporale; essa, sia per
gli aspetti ermetico-massonici che per il bellicismo anticristiano e antipapale
ereditato dal 1848, e per la polemica sulla legislazione giudiziaria e sulle
truffe bancarie, è figlia verace del cosiddetto risorgimento.
Astutissimo, intelligentissimo, fu il Collodi, impegnato giornalisticamente,
nel camuffare, per salvaguardarsi da eventuali incriminazioni per crimen lesae
e per non rischiare la fucilazione funzionante a gogò, nel camuffare, si
diceva, in una cornice mitica le sue istanze polemiche contro leggi e
comportamenti vomitevoli di un parlamento e di un sovrano criminali, connivente
quasi tutta la classe baronale e borghese delle Due Sicilie, che aveva forse
fatto proprio il motto del principe Windischgrätz: “L’uomo comincia col
barone” (Der Mensch fängt beim Baron an)[UP1] .
Solo sotto il velo della metafora fiabesca, destinata in apparenza a bambini, e
pubblicata su un giornaletto per bambini, gli era possibile, in quei truci anni
di piombo, farsi intendere dai pochi che sapevano intendere e lasciare ai
posteri un messaggio critico, anche di suo non-collaborazionismo, alle future
generazioni. Solamente con la legge Zanardelli nel 1889 si pose in parte riparo
a quella pseudogiustizia, ma le tare di quest’ultima legge erano ancora tali e
tante che ”il fascismo ereditò un ordinamento giudiziario perfettamente
adeguato alle sue necessità e al suo indirizzo” (pag. 273).
Pinocchio è il simbolo dell’uomo; egli nasce da un pezzo di legno
rozzamente tagliato, ed è la materia, l’ignoranza, l’intelligenza; come un
neonato, andrà incontro ad esperienze, vicissitudini, traversie e guai, che
sono quelli della vita umana, che lo plasmano e lo modificano, i furbi ne
abusano, i malvagi lo tartassano, un grosso animale lo ingoia come ha già fatto
col babbo, ne escono, una fata l’aiuta ed infine diviene ragazzo, non più legno
ma essere umano; è un mutamento dovuto a innumerevoli colpi del male, e nella
sua nuova veste dovrà ancora misurarsi con esso, che è comune a tutti gli
uomini, procederà fra disavventure e difficoltà, aspirando alla felicità, come
tutti…
Pinocchio: da legno (materia, inerzia, ignoranza) a uomo (spirito,
volontà, sapienza). Dov’è il suo Paradiso Perduto? Potremmo localizzarlo per
lui, ma sarebbe ben triste, nell’essere burattino, legno, ignorante, inetto,
senza costruttiva esperienza del passato e senza consapevoli previsioni del
futuro. E d’altronde, dopo la fortunata (o sventurata?) trasformazione andrà
trovando conoscenza, esperienza, forza potere, emozioni e sentimenti, navigherà
fra i marosi d’una perenne tempesta, dovrà eliminare tutto il male possibile e
solo allora, se avrà successo, potrà trovare il suo Paradiso Cercato.
Trascorsi i primi undici anni
della mia vita a Pescia, praticamente ad un tiro di schioppo da Collodi, e
quindi posso dire di aver respirato l’aria di Pinocchio nel vero senso della
parola. Non solo Collodi era la meta di frequenti passeggiate a piedi,
tagliando per il colle e riscendendo dalla parte opposta con appena un’ora di
cammino, ma “Le avventure di Pinocchio” era allora spesso e
volentieri letto nelle scuole elementari, prima che sedicenti poeti o anonimi
cinesi vari infestassero i libri di testo e le “bibliotechine” di
classe.
Anche la vita quotidiana, e
non solo per quel che riguardava la scuola, faceva di questo personaggio un
essere ogni e sempre presente: nei rimproveri dei genitori… “studia o ti
crescono le orecchie lunghe e pelose”, nei consigli di una mamma
premurosa… “…butta giù la medicina sennò vengono i coniglioli neri a
portarti via”, o nelle serate fredde e buie d’inverno… “Sta’ attento
col caldano che ti bruci i piedi come Pinocchio”.
Poi gli anni passarono: io
venni via da Pescia e mi trasferii a Livorno, i termosifoni presero il posto
dei caldani di brace, inventarono le medicine al gusto di prugna e ciliegia e
se non studiavo l’unica cosa che cresceva erano i due sulla pagella. Ma
Pinocchio, il mio vecchio compagno di birichinate, non mi aveva abbandonato del
tutto: troppo era stato con me, durante le sassaiole sul greto del fiume, o
quando c’era da scaricare qualche vigna, o imbambolati e senza una lira davanti
a una giostra, a sognare il Paese dei Balocchi ed alberi ridondanti di zecchini
d’oro. Troppo lo avevo assimilato per poterlo dimenticare, e lui me. Purtroppo
i fatti della vita ci portarono a un distacco durato decenni fino a quando,
qualche tempo fa, capitandomi per caso un brano di Giuseppe Prezzolini lessi
“…Pinocchio, il più grande capolavoro della letteratura italiana”. Mi
tornò allora presente l’amico burattino e la voglia di rileggerne le avventure.
Andai in libreria e comprai un’edizione classica che assomigliava al vecchio
libro della mia infanzia. Cominciai a leggerlo quasi con vergogna,
nascondendomi alla vista dei miei figli e con l’intima preoccupazione che non
sarei riuscito a portare a termine quella lettura, così leggera, futile,
sciocca…
Non è andata così; anzi le
pagine mi scorrevano via ed ogni tanto mi fermavo a pensare e a rileggere,
analizzavo il testo attentamente come se esso ora mi parlasse in una lingua
nuova e mi svelasse cose che, quasi cinquant’anni prima, non ero riuscito ad
afferrare e comprendere… e quando finalmente, arrivato all’ultimo rigo, ho
chiuso il libro, dentro di me ho pensato “Pinocchio, tu sei mio
Fratello”.
Una nuova esaltante
lettura
Esistono secondo me due
chiavi di lettura per “Le avventure di Pinocchio”: la prima chiamiamola
“profana”, nella quale il lettore, certamente un bambino, prende
coscienza di quelle che io definirei “disavventure”, piuttosto che
avventure, del povero burattino di legno. La seconda è una lettura in chiave
massonica dove uno spiccato simbolismo si integra, pur senza sostituirla, in
quella che è la semplice e lineare narrazione dei fatti. L’appartenenza di
Carlo Collodi alla Massoneria, pur non comprovata da alcun documento ufficiale,
è universalmente riconosciuta e i riferimenti in tal senso sono numerosissimi.
Aldo Mola, non massone ma che comunemente viene definito come lo storico
ufficiale della Massoneria italiana, dà per certa l’appartenenza dello
scrittore alla Famiglia Massonica. Alcuni fatti biografici inoltre sembrano
convalidare questa tesi: la fondazione nel 1848 di un periodico liberale
intitolato “Il Lampione”, che come ebbe a dire il Lorenzini stesso
doveva “far lume a chi brancolava nelle tenebre”, la partecipazione
alle prime due guerre d’indipendenza, con i volontari toscani nel ’48 e come
volontario arruolato nell’esercito piemontese nel ’59, e la sua estrema
vicinanza ideologica con il Mazzini per la quale egli stesso si definiva
“Mazziniano sfegatato”.
Ma qual era allora
l’intenzione primaria del Collodi, comporre una storia per bambini o uno
scritto massonico?
Difficile rispondere, anche
perché se si tiene presente la prima stesura del libro “Storia di un
burattino”, che al capitolo XV°, sui 36 dell’opera definitiva, si
concludeva con la morte di Pinocchio impiccato alla grande quercia, non
possiamo parlare né di storia per bambini, perché essa non è certo divertente
né tanto meno didattica nella sua estrema truculenza; né possiamo vedere in
essa un alcunché di esoterismo massonico perché ne manca la filosofia di fondo.
Allora forse la risposta è in quei 20 centesimi a riga che lo scrittore
percepiva dall’editore. Ma nel 1881 il Collodi riprende il suo vecchio scritto,
lo cambia e lo amplia portando a termine quell’opera che tutti conosciamo.
C’era stato quindi nell’autore un ripensamento: da una storiella sterile, cupa,
senza speranza, era nata quella che diventerà nel volgere di pochi anni la
storia più famosa del mondo.
Pinocchio tra Libertà,
Uguaglianza e Fraternità
Rifacciamoci allora la
domanda: Comporre una storia per bambini o uno scritto massonico? Ritengo vera
e naturale la prima delle due ipotesi, ma altrettanto vero è che egli abbia
voluto descrivere e criticare uno spaccato della società del suo tempo ed è
infine naturale il fatto che egli abbia trasferito nella narrazione della
storia quegli elementi simbolici ed esoterici propri della cultura
dell’Istituzione di cui faceva parte, riuscendo a fondere i due elementi in
misura così profonda per cui questi ultimi possono risultare evidenti solamente
a chi, come l’autore, sia stato educato ad un certo modo di vedere e
interpretare le cose. Nel corso degli anni molti critici hanno dato del romanzo
un’interpretazione religiosa in senso cattolico; ultimo della serie il
Cardinale Giacomo Biffi: non mi sembra proprio, almeno che per religiosità non
si intendano quei concetti e quei valori, quali la bontà, la generosità, il
perdono, la famiglia, che sono alla base anche di ogni istituzione civile. Nel
romanzo però non appare nessun personaggio legato al mondo della religione, e
tutti sappiamo quale importanza non solo spirituale ma anche politica avesse la
Chiesa nell’800 e come essa cercasse di influire sulla cultura e
sull’educazione nazionale: sarebbe stato quindi normale che in una storia che
vede per protagonista un burattino-bambino che vive in un paesino di campagna,
si inserisse in qualche modo la figura di un prete, o come minimo si facesse
accenno a qualche attività connessa alla religione praticata: al contrario, di
preti, chiese, immagini sacre, feste, cerimonie e pratiche religiose, neppure
l’ombra, e direi che questo è stato deliberatamente voluto, anche perché il
Lorenzini non era certamente all’oscuro di manifestazioni e teorie religiose,
avendo studiato presso gli Scolopi per qualche anno.
Analizzando bene tutta la
struttura del libro, questa risulta imperniata su tre componenti fondamentali:
la LIBERTA’, perché Pinocchio è un essere libero che ama la libertà;
l’EGUAGLIANZA sia perché l’unica aspirazione di Pinocchio è di essere simile
agli altri sia perché nessun personaggio prevale sull’altro né per importanza,
né per rango o ceto sociale; la FRATERNITA’, perché questo è il sentimento
principale per cui agiscono i personaggi della storia nelle più disparate
situazioni.
Il Tempio di Pinocchio
Che cos’è quindi “Le
avventure di Pinocchio”? Apriamo il libro ed entriamo in un Tempio
Massonico, un Tempio dove sta per svolgersi la cerimonia più importante della
vita massonica, cioè un’Iniziazione, un’iniziazione completa, cioè nei suoi tre
gradi. E chi sta per essere iniziato? Pinocchio forse? No! …ma procediamo con
ordine.
“C’era una volta…”
– “un re….” – “no…, un pezzo di legno!”, o forse sarebbe
meglio dire “all’inizio c’è un Maestro”, Mastro Antonio, detto
Maestro Ciliegia che potrebbe essere benissimo il Maestro Venerabile di questa
ipotetica Loggia. Mastro Antonio è un bravo falegname che si trova tra le mani
un pezzo di legno; se fosse stato uno scalpellino avrebbe avuto certamente a
che fare con una pietra. Fatto sta che da questa “pietra” il nostro
Maestro vuole ricavarne qualcosa di buono, anzi di utile come una zampa di
tavolino: e così -dice il Collodi- prese un’ascia arrotata per cominciare a
digrossarlo. Ma il bravo Maestro falegname si accorge ben presto che quel pezzo
di legno, quasi informe, un semplice pezzo da catasta, non un legno di lusso,
ha però in sé nascosta una qualità eccezionale: è vivo; dovrà quindi servire a
qualcosa di più importante che non diventare una zampa da tavolino o finire
addirittura nel focolare.
“In quel punto fu
bussato alla porta” – “Si bussa da profano alla Porta del
Tempio”. Ed ecco entrare il nostro bussante, Geppetto.
Geppetto è un vecchietto
bizzosissimo, facile a diventare subito una bestia e non c’è più verso di
tenerlo, non è che la tolleranza sia il suo forte ma fondamentalmente è un
brav’uomo. A chi meglio di lui potrebbe il venerabile maestro Antonio affidare
l’incarico di digrossare quel pezzo di legno e farne qualcosa di buono? Ed è
così che Geppetto si porta il suo rozzo pezzo di legno, o se vogliamo la sua
pietra grezza, nella sua misera casa che guarda caso assomiglia molto ad un ,
“…una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala, una seggiola
cattiva, un tavolino tutto rovinato, un fuoco acceso ma dipinto, come dipinta è
la pentola dell’acqua che bolle, come altrettanto dipinto è il fumo che essa
manda fuori. Qui Geppetto compila il suo Testamento: fabbricherò un burattino,
lo voglio chiamar Pinocchio, il nome gli porterà fortuna; ho conosciuto una
famiglia di Pinocchi, tutti se la passavano bene… il più ricco chiedeva
l’elemosina. E, trovato il nome al suo burattino, Geppetto comincia a lavorare
a buono, armato di semplici arnesi e tanta volontà, in mezzo a tanti dubbi e a
tante speranze; passando attraverso varie difficoltà, riesce finalmente a
digrossare il pezzo di legno e a farne un burattino, un burattino perfetto nel
suo essere burattino, ma pur sempre un burattino. Nasce Pinocchio dunque, un
burattino di sani costumi, ma non del tutto formato, e suscettibile quindi di
essere spesso traviato dai richiami allettanti della vita profana. Da questo
momento in poi Geppetto e la sua creatura vivono quasi in simbiosi, l’artefice
si identifica con la sua opera, soffrono l’uno delle sofferenze dell’altro,
gioiscono delle reciproche speranze, affrontano le stesse traversie, sia pure
in modi e luoghi diversi. Nel capitolo VI°, mentre Geppetto è in prigione,
Pinocchio si trova ad affrontare un ventaccio freddo e strapazzone, una
catinellata d’acqua ed infine il fuoco che gli brucerà i piedi: aria, acqua,
fuoco… può essere tutto questo casuale?
Da Apprendista a Compagno
Sgrossata la pietra grezza,
Geppetto è riuscito a passare dal primo al secondo grado: ha fatto
indubbiamente progressi ma è ancora lontano dalla perfezione a cui idealmente
aspirava; egli comunque non è più il tipo irascibile descritto nei primi
capitoli, così come il burattino abbandona progressivamente la sua mentalità di
rozzo pezzo di legno per assumere, almeno a sprazzi, larvati comportamenti
mentali umani. Con i piedi rifatti, dopo essere passato attraverso la prova del
fuoco, Pinocchio comincia a fare dei ragionamenti: “Vi prometto, babbo,
che anderò a scuola, studierò e mi farò onore… imparerò un’arte e che sarò la
consolazione e il bastone della vostra vecchiaia”. Come non cedere a
simili prospettive? E così Geppetto pur di vedere la sua opera realizzata, e
lui stesso in essa, non esita un attimo a vendere la vecchia casacca per
comprare l’abbecedario, e da questo momento in poi tutto il succo della vicenda
sarà imperniato sulla scuola, sull’istruzione, sulla maturazione del burattino
fino alla completa trasformazione. Ma quante prove ancora, e tutte imperniate
sul trinomio aria-acqua-fuoco, dovrà egli affrontare?!?! Rischia di essere
bruciato nel barbecue di Mangiafuoco o di essere bruciato dal falò acceso dagli
assassini (Il Gatto e la Volpe), ondeggia al vento impetuoso di tramontana
impiccato alla Grande Quercia, si libra nell’aria a cavalcioni di un colombo,
si getta in mare per raggiungere il babbo, sarà gettato in mare sotto le
sembianze di ciuchino per essere affogato, e poiché attraverso queste prove
egli passerà dopo una qualche malefatta dovuta alle tentazioni della vita
profana, esse assumono una funzione purificatrice ed infatti da ognuna di
queste prove egli uscirà progressivamente sempre più rafforzato e migliorato.
Una fatina massonica
E la Fatina dai Capelli
Turchini? Possibile che di questo personaggio così importante ci siamo
dimenticati fin qui? No assolutamente, perché pur senza mai nominarla
direttamente essa è stata sempre presente; essa è l’anima della nostra
esposizione: essa è la personificazione della Massoneria, è l’espressione della
Ragione: i suoi interventi non sono ispirati né dalla fede, né dalla speranza
né tanto meno dalla carità. Essi sono improntati al massimo del Razionalismo,
una razionalismo esasperato nella sua semplicità (vedi cap. XXV°). Nella
narrazione la Fatina interviene per la prima volta quando, battendo tre colpi,
dà il segno per soccorrere Pinocchio appeso per il collo alla Grande Quercia:
lo accoglie nella sua casa luminosa e piena di delizie ma prima ha bisogno di
tre dottori che le confermino se egli è vivo o morto. Le diagnosi, sia pur
positive nel complesso, lasciano tuttavia adito a qualche perplessità per cui
il burattino deve prendere coscienza di che cosa vuol dire rimanere a vivere in
quella casa: Pinocchio ottiene lo zuccherino ma subito dopo deve ingerire la
medicina amara e di lì a poco la Fatina, raffigurata in questa prima
apparizione come una bambina, dirà a Pinocchio: “Tu sarai il mio Fratellino…”:
è tale la corrispondenza con il rituale di iniziazione che non è pensabile che
questo riferimento da parte del Collodi sia inconsapevole e casuale.
La seconda volta che
Pinocchio incontra la Fatina, questa non è più bambina ma è diventata donna ed è
a lei che Pinocchio esprime per la prima volta il desiderio di divenire un
bambino vero, un uomo. La Fata gli premette che dovrà superare alcune prove e
dovrà soprattutto e prima di tutto andare a scuola ed imparare; Pinocchio
promette, giura e… spergiura. Effettivamente il comportamento del burattino
sembra intraprendere la strada giusta, tanto che un bel giorno la Fatina gli
annuncia che il giorno dopo egli diventerà un bambino in carne ed ossa:
addirittura si prepara la festa e si fanno gli inviti, ma ancora una volta il
mondo profano attrae fatalmente Pinocchio trasportandolo nel Paese de’
Balocchi. Dopo questa paurosa esperienza avrà inizio la redenzione e Pinocchio
rivedrà solo indirettamente una terza volta la Fata dai Capelli Turchini ma
nelle sembianze di una capretta che lo assiste e cerca di aiutarlo mentre sta
per essere inghiottito dal pescecane, avviandosi così verso la sua catarsi
definitiva.
Da Compagno a Maestro
Entrando nelle fauci del
terrificante pesce, Pinocchio inizia il passaggio al terzo grado, la morte e la
definitiva rinascita. “Pinocchio -scrive il Collodi- battè un colpo così
screanzato da restarne sbalordito per un quarto d’ora”. Quando ritorna in
sé si trova immerso in un buio così nero e profondo da sembrare entrato in un
calamaio pieno d’inchiostro. Immerso in questa oscurità totale, con il terrore
di essere “digerito” dal pesce, finalmente Pinocchio vede una specie
di chiarore, un lumicino, “forse qualche compagno di sventura che aspetta
anche lui di essere digerito…”, “Voglio andare a trovarlo. Non
potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la
strada per fuggire?”. E così Pinocchio si mette a percorrere quella strada
indicata dal lumicino e, riporto testualmente, “più andava avanti, più il
chiarore si faceva rilucente e distinto”. Il burattino arriva finalmente
alla fonte di quella luce: è una candela accesa da Geppetto, raffigurato come
un vecchiettino tutto bianco in condizioni pietose. L’artefice e la sua opera
sono di nuovo insieme, uniti e pronti per vedere finalmente la luce che appare
loro sotto forma di un cielo stellato e un bellissimo lume di luna. Geppetto
viene preso a cavalluccio da Pinocchio e portato in salvo: l’artista torna alla
vita per tramite della sua opera.
Ora il burattino è pronto per
diventare uomo; la pietra grezza è stata completamente digrossata; manca
solamente l’ultimo passaggio, la levigatura. Pinocchio infatti comincia a
studiare e lavorare forte per suo padre e contemporaneamente manda i frutti
della sua fatica alla buona Fata che ha bisogno di lui anzi, per aiutarla,
rinuncia a comprarsi un vestito nuovo. E il momento è arrivato: una mattina
Pinocchio apre gli occhi e si accorge di non essere più un burattino di legno
ma un ragazzo; non è più in una capanna dalle pareti di paglia ma vede una
bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante; è
ricco perché i quaranta soldi mandati alla Fatina gli sono ritornati sotto
forma di quaranta zecchini d’oro: gli sono stati resi i metalli. Pinocchio
corre dal povero babbo nella stanza accanto e si trova davanti un Geppetto sano
e arzillo e di buon umore. E così il passaggio al Terzo Grado è compiuto,
l’iniziazione si è completata.
La scena si chiude nel Tempio
con il buon Geppetto che soddisfatto da una parte contempla Pinocchio divenuto
uomo, cioè la pietra ben squadrata e finalmente levigata, dall’altra osserva il
vecchio burattino di legno, appoggiato, rigirato, con le braccia ciondoloni e
le gambe incrocicchiate. In questo sta l’originalità del romanzo: Pinocchio non
ha subito una metamorfosi, non si è trasformato in “umano”: è nato
invece un nuovo essere ed il burattino è rimasto là quasi a testimoniare un
messaggio di continuità. E’ nell’ultima frase del romanzo, che il Collodi fa dire
a Pinocchio, che si racchiude e si concentra l’orgoglio di essere iniziato
Fratello Libero Muratore: “Com’ero buffo, quando ero un burattino! E come
ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…”.
Pinocchio
è stato uno dei grandi elementi unificanti della nazione italiana nella sua
adolescenza. Alla pari di Cuore; alla pari dei romanzi di Salgari. Ma con una
proiezione pìù duratura, meno contingente che ha scavalcato tutte le barriere e
riunito – con non decisive differenze e nuances – tutte le generazioni. Ora
anche Pinocchio è diventato sinonimo dì divisione e quasi di contrapposizione
fra un’Italia ideale e ancestrale – violentata dal Risorgimento – e l’Italia
come si è costituita nell’Ottocento, nel suo nesso nazionale, figlio di una
certa idea della omogeneità culturale linguistica italiana, che non ebbe mai
nulla di biologico, di razzistico (la nazione, non la stirpe e tantomeno la
razza: come altri risorgimenti nazionali del secolo XIX).
L’interprete
più impegnato e anche più tenace di un Pinocchio contrapposto alla morale
civile degli italiani e risognante l’Italia prerisorgimentale e preunitaria è,
e non da oggi, il cardinale Biffi, l’arcivescovo di Bologna, che a questi studi
si è dedicato con costanza e anche con puntiglio. Il suo recente discorso a
Bologna, nel centenario della morte dell’autore del burattino immortale, Carlo
Lorenzini, ha suscitato polemiche, reazioni e confutazioni anche marginali: ma
non è stato contestato nel suo nucleo di fondo, nucleo che è collegato a non
vero e proprio equivoco, in radice.
E’
l’equivoco sulle varie forme di opposizione e di critica allo Stato unitario,
così come si era realizzato nella versione moderata e monarchica. Secondo il
cardinale Biffi è “La crisi ideologica e spirituale del Lorenzini
all’origine del suo lavoro”, né “questo prodigio letterario sarebbe
mai nato senza la crisi che colpisce la nazione italiana contestualmente al
Risorgimento”. Il che può essere anche vero. Ma occorre domandarsi: quale
crisi? Da quale parte? E in vista di quali obiettivi? Quell’Italia, nata quasi
per miracolo e con l’aiuto, per dirla in termini collodiani, della Fatina dai
capelli turchini, fu respinta in blocco dai cattolici intransigenti e
contestata duramente dai repubblicani e democratici di sinistra, da cui
proveniva appunto il Lorenzíni. Le due opposizioni, come si direbbe: la
cattolica e la laica. Una temporalista e reazionaria, sia pure con larghe forme
di messianesimo sociale; l’altra progressista e democratica, finalizzata ai
grandi motivi della Costituente e della Repubblica (la tesi che prevarrà in
questo secolo). Opposizioni, l’una alternativa all’altra. Ogni confusione in
materia ci indurrebbe in gravi errori.
Carlo
Lorenzini, che si chiamò Collodi in omaggio al paese natale della madre da lui
adorata fino al punto di non sposarsi mai, era di origine mazziniana e
repubblicana. Il suo Dio era il “Dio e popolo”. Aveva combattuto nel
’48 a Curtatone e Montanara, guidato da un professore rivoluzionario e per i
tempi quasi “sovversivo” quale era Giuseppe Montanelli. Aveva
diretto, nella Firenze dei tanti e contraddittori tumulti fra ’48 e ’49, un
giornale satirico anticlericale e nettamente repubblicano e unitario, quale era
Il Lampione. E aveva percorso nel decennio della restaurazione la parabola che
fu di tanti patrioti del suo tempo, quella che porterà intere falangi della
sinistra ad accettare la “Società nazionale”, l’incontro con la
monarchia dei Savoia purché unificatrice. Che sarà poi la bandiera di Garibaldi
e dei Mille.
L’Italia,
in cui si consumerà l’esperienza centrale di Lorenzini scrittore, e scrittore
per l’infanzia, non era l’Italia sognata o sperata nel ’48 o nel ’59. “Oh
non per questo… “: aveva cantato Carducci, interprete massimo di quella
frustrazione e di quella amarezza. C’era la rivolta contro il fiscalismo
eccessivo (Sella sarà uno dei bersagli di Lorenzini). C’era la denuncia dei
legami – male antico – fra gruppi politici e gruppi affaristici. C’era la
scontentezza dei partiti e della loro frantumazione in gruppi personalìzzati e
quasi lottizzati. C’era la sfiducia nelle riforme anche dopo l’avvento della
sinistra al potere.
E’
rimasta celebre la lettera aperta di Collodi a Michele Coppino ministro della
Pubblica Istruzione: “Date retta a me che sono insegnante: meno
chiacchiere e più pane! Il proletario cencioso e affamato, che non ha da
portare alla sua famiglia altro nutrimento che pochi tozzi di cavolo raccattati
nella spazzatura, cosa volete che se ne faccia della vostra istruzione e dei
vostri libri?”. Il tutto sullo sfondo di una toscanità risentita, aspra e
in qualche punto vilipesa. Al punto da fargli proporre, a Minghetti,
l’abolizione della Toscana e la trasformazione nella regione
“Carolina” (quasi un motivo pre-Pinocchio). E da fargli dire dei
fiorentini, egli che ne era un interprete schietto e intero, “I morti
vanno lesti! Ma io conosco dei vivi che se ne vanno più lesti anche dei morti:
e sono i fiorentini”.
Di
questi “malanni” il libro Pinocchio è tutto intriso. Libro per
grandi, oltre che per bambini, esso offre uno spaccato della società italiana
in via di costruzione che parte da una finalità ideale, tipicamente mazziniana,
di una società migliore. La morale di Collodi è la morale dei Doveri dell’uomo.
Solo il lavoro può difendere l’uomo da tutte le tentazioni e da tutte le
perdizioni. Non è Pinocchio un libro di agiografia patriottica. La giustizia
esce male, perché male funziona in Italia; il tocco sui carabinieri non è un
tocco né affettuoso né incoraggiante. Il paese di Acchiappacitrulli finisce per
identificarsi, nella sua fantasia solo apparentemente scanzonata, con una
specie di sintesi dei mali italiani. L’impegno di Pinocchio è a redimersi; e la
“redenzione” operata dal burattino che diventa uomo è la redenzione
“laica” di chi si appoggia alle proprie forze, di chi fa leva sul
libero arbitrio, sullo sforzo individuale, sul lavoro. Segno distintivo,
appunto, del nuovo laicismo operoso su cui doveva fondarsi lo Stato italiano.
La
stessa Fatina dai capelli turchini è stata talvolta identificata col simbolo
religioso della Madonna, e non solo dal cardinale Biffi. E’ molto più probabile
che essa risusciti il mito della madre e lo collochi in una cornice del
“miracolo borghese”, di quella fede nella bontà connaturata all’uomo,
che toglie ogni margine alla trascendenza, che sostituisce fin dall’infanzia
Dio con le fate, il demonio con l’orco.
“Come
era possibile che diventasse popolare un’unificazione compiuta senza giovarsi della
forza spirituale antica e sempre nuova del cattolicesimo?” L’interrogativo
del cardinale Biffi si riallaccia a quelli di “Comunione e
liberazione”, si colloca nel quadro di un processo al Risorgimento, che
non esita a stabilire parallelismi fra Risorgimento e fascismo, fra
Risorgimento e “anomalia comunista” nella vita italiana. Sono gli
stessi temi del “federalismo” delle Leghe. Ma chi ricorda in questi
giorni che il tentativo federale c’è stato in Italia e si è spezzato nel necessario
universalismo del Papato? Chi ricorda il ’48-’49, che nacque neoguelfo e finì
repubblicano? Quando il ministero della Pubblica Istruzione ha assegnato a
giugno il tema sul neoguelfismo, abbiamo visto alla televisione tanti studenti
che dichiaravano di ignorare anche la parola. Con l’attuale scuola non ci
meravigliamo di niente. Ma il “neoguelfismo” fu la più impetuosa
febbre che abbia colpito l’Ottocento italiano. Si tentò in tutti i modi di
realizzare l’indipendenza della penisola d’accordo col Papa, immaginato
presidente di quella confederazione, dopo gli entusiasmi collettivi sollevati
da Pio IX. Il Pontefice mandò le sue truppe a fianco di quelle di Carlo Alberto
nella pianura padana, salvo richiamarle d’improvviso – con l’allocuzione del 29
aprile 1848 – non appena si delineò la scissione dei cattolici tedeschi e
austriaci, insofferenti di ogni Vaticano a dimensione nazionale italiana. Chi
lo ricorda? L’errore del cardinale Biffi è di confondere il temporalismo col
cattolicesimo. Il Risorgimento fu contro il potere temporale e, abbattendolo,
liberò la Chiesa dal più grande ostacolo alla sua universalità (come ha
riconosciuto Paolo VI). Non fu contro la religione dei padri che Manzoni
conciliò perfettamente con la scelta di Roma capitale e che compenetrò tutto il
filone cattolico-liberale sopravvissuto a ogni delusione, a ogni amarezza, a
ogni smentita.
Tiro
fuori dalla mia biblioteca un piccolo libricino postumo di Collodi, stampato
circa cinquant’anni fa. Si intitola: Biografie del Risorgimento, Ricasoli,
Cavour, Farmi, Daniele Manin. Proporrei a un editore di ristamparlo, e
dissipare ogni equivoco, in appendice a una nuova edizione di Pinocchio.
Anche
attraverso Pinocchio i valori di patria si conciliano con quelli di umanità. Ha
ragione Croce che collocò Pinocchio fra i grandi libri del secolo scorso.
“Il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità, ed egli vi si rizza
in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato:
fantoccio, ma tutto spirituale”. E su tutto vince “la forza morale
della bontà”. Ricongiunzione, questa volta, fra la morale cristiana delle
origini e la morale laica.
14
ottobre 1990 – Giovanni Spadolini
* Tratto
da G. Spadolini, Il mondo frantumato, Milano, Longanesi, 1992
Forse non tutti sanno che il “Pinocchio” di Collodi è un
racconto iniziatico velato sotto forma di favola per bambini. Già il nome
Pinocchio è un’allusione alla ghiandola pineale, cioè la manifestazione fisica
del “terzo occhio”: pin-occhio (occhio–pineale).
Un pezzo di legno, un burattino per l’appunto, a cui viene
insufflata un’anima e prende vita, ma che con varie prove (iniziatiche)
riuscirà alla fine a diventare un “Bambino Vero”. Facile comprendere che il
pezzo di legno animato, dotato di vita quindi, ma senza Volontà in quanto
burattino, è un’allegoria del sé inferiore; mentre, il Bambino Vero (Bambin
Gesù-Cristo) rappresenta la nascita del Cristo nell’uomo o Sé Superiore. Naturalmente, il grillo parlante, il gatto e
la volpe (corpo astrale e corpo mentale), e tutti i vari personaggi e le
situazioni del racconto hanno anch’essi un significato “esoterico”.
Pinocchio è un opera ricca di simboli, archetipi e
significati occultati nella gradevole maschera della fiaba.
Le Avventure di Pinocchio, è una favola ideata nel 1883 da
Carlo Collodi, il cui vero nome era Carlo Lorenzini. E’ la storia di un
burattino animato che dopo molte peripezie. Riesce a realizzare il sogno di
diventare un bambino in carne ed ossa. Oltre a essere una delle fiabe più
diffuse al mondo, Pinocchio è un capolavoro di simbolismo massonico-esoterico e
meta-comunicazione, grazie ad un soggetto e una trama capaci di racchiudere
molteplici chiavi di lettura.
CARLO COLLODI
Carlo Lorenzini nacque a Firenze nel 1826. Iniziò il suo
percorso letterario scrivendo su un giornale satirico da egli stesso fondato:
Il Lampione, periodico che dopo il lancio incorse nella censura e venne
chiuso. Ad un certo punto la sorte gli
sorrise, e da disoccupato scrittore Collodi fu assunto presso diversi ministeri
italiani, collaborò alla stesura di un vocabolario e fondò una nuova rivista,
La Scaramuccia, grazie alla quale iniziò ad occuparsi di composizione
teatrale. In quel periodo la sua
carriera assunse una piega singolare. Accettò – infatti – un incarico
ministeriale in qualità di censore teatrale, così che nel giro di una stagione
da censurato diventò censore. Dal 1875, dietro incarico dell’editore Paggi, si
occupò della traduzione per l’Italia delle più note fiabe francesi. Fu così che
apprese l’arte della composizione fiabesca. Nel 1881, sul primo numero del
Giornale per i Bambini – progenitore dei periodici per ragazzi – fu pubblicata
la prima puntata della sua celebre favola, con il titolo: Storia di un
Burattino. Tutte le puntate sarebbero state raccolte due anni dopo, nel 1883,
in un volume dal titolo Le avventure di Pinocchio. Quella di Lorenzini fu una vita
piuttosto normale, se si esclude il rapporto ambivalente con la censura, ed il
fatto che fosse un massone.
COLLODI E LA
MASSONERIA
Nel saggio Pinocchio, Mio Fratello, il massone Giovanni
Malevolti scrive di Collodi in questi termini:
“L’iniziazione di Collodi nell’ordine della massoneria,
sebbene non sia riscontrabile da documenti ufficiali, è universalmente
risaputa. Aldo Mola, un non-confratello che è generalmente definito come
storico ufficiale della Massoneria, ha espresso con certezza che Collodi facesse
parte della famiglia massonica. Inoltre molti eventi della vita di Collodi
confermano questa tesi. Innanzitutto la creazione nel 1848 di una pubblicazione
intitolata “Il Lampione”, che, come egli stesso affermava, ‘illuminava’ tutti
coloro che fossero nelle tenebre. E poi l’estrema ammirazione che nutriva nei
riguardi di Giuseppe Mazzini (massone e rivoluzionario di primissimo piano).”
“Ci sono due modi di leggere Le avventure di Pinocchio”,
prosegue Malevolti. “La prima è quella che chiamerei “profana” con cui il
lettore, molto probabilmente un bambino, impara a conoscere le disavventure del
burattino di legno. La seconda è una lettura fatta di simboli, in chiave
massonica.”
Le chiavi di lettura della favola collodiana sono perlomeno
tre. Una di stampo massonico, la seconda di stampo pedagogico, e la terza di
stampo politico-reazionario.
CHIAVE DI LETTURA
MASSONICA
Protagonista iniziale della storia dopo la parentesi di
mastro Ciliegia è mastro Geppetto, umile falegname solitario il quale non
avendo figli, decide di crearsene uno, intagliando una marionetta da un grezzo
pezzo di legno. Il suo burattino ha sembianze umane, ma è ovviamente privo di
vita.
Geppetto simbolizza il Demiurgo di Platone e dello
gnosticismo. La parola ‘demiurgo’ deriva dal greco: ‘creatore, artigiano.’ In
termini filosofici il Demiurgo è il ‘dio minore’, l’entità che crea esseri
imperfetti assoggettati alle insidie della vita materiale.
Geppetto realizza di avere bisogno dell’aiuto del Grande Dio
(Grande Architetto) affinché infonda nella marionetta il soffio vitale per
diventare un “bambino vero” o – in termini esoterici – un uomo illuminato.
La fata Turchina, emissaria e simbolo del Grande Dio, scende
sulla Terra per conferire a Pinocchio una scintilla della Mente Universale, il
“Nous” degli gnostici, attraverso il dono della vita e del libero arbitrio.
Sebbene sia vivo, però, Pinocchio non è un ancora un bambino vero, ma resta un
burattino di legno. Le scuole misteriche insegnano che la vita vera inizia solo
dopo l’illuminazione. Prima di essa, la vita non è che lento decadimento.
Quando Pinocchio chiede se sia diventato un bambino la Fata
gli risponde: “No, Pinocchio. Il desiderio di tuo padre si avvererà solo se
saprai meritarlo. Mettiti alla prova con coraggio, sincerità e passione, e un
giorno diventerai un bambino vero”.
I temi dell’autonomia e dell’auto-miglioramento si ispirano
ai dettami massonici: la salvezza dello spirito è qualcosa che deve essere
meritata attraverso auto-disciplina, conoscenza di se e forza di volontà. I
massoni simboleggiano questo processo con i simboli del Grezzo e del Levigato.
“Nella filosofia massonica il Grezzo è un’allegoria dei
non-iniziati; le persone prima dell’illuminazione. Il Levigato incarna un
massone che si adopera per ottenere una vita onesta e si sforza di ottenere
l’illuminazione.”
Loggia Massonica della Pubblica Istruzione,
Proprio come nella mentalità massonica il processo di
illuminazione è simboleggiato dalla trasformazione del Grezzo nel Levigato,
Pinocchio inizia il proprio viaggio come un pezzo di legno grezzo e cercherà di
smussare i suoi angoli per diventare finalmente un bambino vero. Nulla gli è
dovuto. E’ necessario che in lui abbia luogo un processo interiore-alchemico
che lo renda degno dell’illuminazione. Deve vivere la vita, lottare contro le
tentazioni, e – con l’aiuto della sua coscienza (impersonata dal Grillo
Parlante), deve trovare da solo la strada giusta. Il primo passo è quello di
andare a scuola (che nella interpretazione massonica è simbolo di conoscenza).
LE TENTAZIONI DEL
SUCCESSO E DELLA VITA PROFANA
Sulla strada di scuola Pinocchio incontra il Gatto e la
Volpe, che gli propongono la comoda strada del successo, attraverso lo
spettacolo. Ignorando gli avvertimenti della coscienza decide di seguirli, e
finisce per essere venduto a Stromboli(Mangiafuoco), il burattinaio. Pinocchio
conosce così il costo dell’apparente successo: non può tornare dal padre (il
Creatore), e i guadagni che produce finiscono tutti nelle tasche di
Stromboli(Mangiafuoco), il quale si dimostra cinico e brutale.
Dopo aver conosciuto la vera natura della ‘strada facile’,
Pinocchio si rende conto del triste stato in cui si trova: è schiavizzato come
un animale ed in balia di un burattinaio crudele.
Tornato sulla retta via, incontra Lucignolo, un ‘poco di
buono’ che lo invita ad accompagnarlo nel Paese dei Balocchi, luogo senza
scuola né leggi ove i bambini possono bere, fumare e distruggere qualsiasi cosa
a piacimento, il tutto sotto l’occhio vigile del Cocchiere.
Il Paese dei Balocchi in chiave massonica simboleggia la
vita profana fatta d’ignoranza, ricerca della gratificazione immediata e
soddisfazione dei più bassi impulsi. Il cocchiere incoraggia tale condotta in
quanto è il miglior metodo per creare degli schiavi. I ragazzi che si
abbandonano a tale stile di vita si trasformano in asini e vengono poi mandati
a lavorare in una miniera. Una cupa rappresentazione delle masse ignoranti
Quando Pinocchio inizia la sua trasformazione in asino, in
termini esoterici si avvicina al lato di se più bestiale, chiaro riferimento
letterario al racconto di Apuleio ‘La Metamorfosi’ (L’Asino d’oro), un classico
studiato nelle scuole misteriche.
L’INIZIAZIONE
Scampato alle disavventure del Paese dei Balocchi, Pinocchio
torna a casa per riunirsi a suo padre, ma la casa è vuota. Scopre che Geppetto
è stato inghiottito da una balena. Così il burattino decide di saltare nel mare
per farsi ingoiare a propria volta dalla balena, e ritrovare il proprio
Creatore. Questa è la sua iniziazione, in cui – una volta prigioniero della
balena – sceglie di fuggire dal buio della vita ignorante (simboleggiata dal
ventre della balena) alla illuminazione.
Anche qui Collodi si ispira ad un classico della letteratura
di iniziazione spirituale: il Libro di Giona. Si tratta di un mito
riscontrabile sia nel cristianesimo che nell’islamismo ed ebraismo, oltre ad
essere un caposaldo studiato in tutte le scuole misteriche.
Dopo mille difficoltà Pinocchio sfugge infine al buio
dell’ignoranza. Emerge dal ventre della balena come risorto, come Gesù Cristo.
Ora è un bambino vero, un uomo illuminato che ha spezzato le catene della vita
materiale per abbracciare il suo se superiore. La Grande Opera è stata
compiuta.
CHIAVE DI LETTURA
POLITICA – PROPAGANDISTICA
Chiunque abbia confidenza con la comunicazione occulta può
intuire tra le righe della favola di Collodi
la presenza di alcuni messaggi subliminali. Questa chiave di lettura
colloca la favola nel novero delle ingerenze politiche propagandistiche
prescolari.
“È stata tua la colpa allora adesso che vuoi?
Volevi diventare come uno di noi,
e come rimpiangi quei giorni che eri
un burattino ma senza fili
e adesso invece i fili ce l’hai!
E’ Stata Tua la Colpa, E. Bennato
IL BURATTINO
La prima differenza dalla lettura massonica risiede nel
concetto di ‘libertà.’ La metafora dell’individuo libero si riscontra nella
iniziale incarnazione del personaggio, burattino grezzo, vitale, curioso e
propenso ad assecondare le proprie attitudini.
Tale estrema libertà lo rende tuttavia un diverso; un non
appartenente alla comunità. La sua diversità è dipinta come un elemento
negativo al quale sia necessario rimediare reprimendo l’individualità,
obbedendo all’Autorità ed entrando a far parte della tribù.
IL GRILLO PARLANTE
Questa visione non identifica Il Grillo Parlante con
l’interiorità del personaggio. Il Grillo non è il simbolo della coscienza di
Pinocchio poiché fin dal momento in cui la Fata gli infonde il soffio di vita,
il burattino dimostra di possedere già una coscienza. Una coscienza “caotica”,
basata sulla curiosità, la vitalità, il disordine e la creatività
Tuttavia secondo il Grillo Parlante possedere una coscienza
caotica equivarrebbe a non possederne alcuna. Dunque il Grillo prescrive a
Pinocchio di snaturare la propria indole per potere diventare un bambino come
tutti gli altri.
Il simbolismo del Grillo Parlante ha perciò una valenza
differente rispetto all’altra lettura. Rappresenta la voce della Autorità; di
chi è preposto a martellare le menti giovani fino a che non assumano una
determinata forma che sia funzionale al meccanismo sistemico. Il Grillo sfoggia
un linguaggio forbito ed è inappuntabile nell’abbigliamento. Rappresenta le
voci che chiunque è destinato a udire fin dalla più tenera età. Famigliari,
insegnanti, istituzioni che sopprimono l’individualità per semplificare
l’adattamento al sistema.
LA SCUOLA
Di conseguenza l’abecedario e la scuola, piuttosto che mezzi
salvifici incarnano la cultura dominante, cioè uno degli strumenti con cui il
sistema plasma le individualità per ottenere la loro omologazione
“Vai, vai, e leggili tutti
e impara quei libri a memoria
c’è scritto che i saggi e gli onesti
son quelli che fanno la storia
fanno la guerra, la guerra è una cosa seria
buffoni e burattini, non la faranno mai!… “
E’ Stata Tua la Colpa, E. Bennato
LUCIGNOLO, IL GATTO E
LA VOLP
Considerandoli da un punto di vista più ampio è evidente
come tali personaggi incarnino il concetto di ‘estranei’: i non appartenenti
alla tribù (composta dal Grillo, Geppetto e la Fata Turchina). Ogni estraneo in
cui Pinocchio incorre nelle sue peripezie è infatti un personaggio negativo;
ognuno di essi tenta di sopraffarlo o di approfittare della sua buona fede.
Qui il messaggio ripropone un cliché riscontrabile in molte
fiabe: la necessaria sfiducia da nutrire verso tutto ciò che non sia
preventivamente avallato dal giudizio dell’Autorità.
LA TRASFORMAZIONE
Ironicamente – dunque – l’elemento meta-comunicativo finisce
per seminare nell’inconscio del lettore profano un concetto opposto rispetto a
quanto suggerisce la lettura superficiale del testo.
Adesso non fai un passo se dall’alto non c’è
qualcuno che comanda e muove i fili per te
adesso la gente di te più non riderà
non sei più un saltimbanco
ma vedi quanti fili che hai!… “
E’ Stata Tua la Colpa, E. Bennat
Da individuo libero e diverso (grezzo burattino), il
personaggio finisce per conformarsi agli schemi comuni, dopo avere smussato con
sofferenza gli angoli della sua diversità, convinto di avere così raggiunto la
libertà, quando in realtà è accaduto l’opposto.
CONCLUSIONE
Fin dal 1881 – anno in cui fu pubblicata in Italia e via via
nel resto del mondo – la favola di Pinocchio è entrata a far parte della
cultura prescolastica di molti giovani cittadini.
Quando – nel 1940 – Walt Disney decise di dedicare il suo
secondo lungometraggio alle avventure del burattino collodiano, la favola di
Pinocchio era già estremamente diffusa nella cultura pop di molte nazioni. Il
cartone disneiano contribuì però a renderla un vero e proprio must per le
giovani generazioni di tutto il mondo; una storia che sotto forma di narrazione
verbale, scritta, disegnata, recitata continua a raggiungere una ragguardevole
porzione di popolazione mondiale.
Personalmente ho ulteriormente sviluppato questa prospettiva
interpretativa trovando evidenti conferme a questa tesi. Possiamo enucleare tre
linee di approfondimento dell’opera: Pinocchio quale fiaba alchemica accennante
ad una trasformazione interiore e ontologica dell’essere umano; Pinocchio quale
gioco di architetture-itinerari estetizzanti-magici e mitologici, Pinocchio
quale insieme di parabole religiose e cristiane.
Per il primo aspetto risulta evidente che moltissime sono le
concordanze fra la struttura stessa dell’opera e i suoi tratti salienti con le
immagini-tipo e le dimensioni dell’alchimia: Il burattino appare quale materia
grezza universale già piena di vita propria che viene plasmata da un
demiurgo-architetto e la Fata appare quale Iside-Grande Madre, signora della
api, delle trasformazioni e degli animali.
Il legno stesso è segno della nave e del viaggio e Pinocchio
passa più volte attraverso i quattro elementi della natura alla ricerca perenne
della quintessenza! Viene infatti bruciato dal fuoco nei piedi e rischia di
essere del tutto bruciato per opera del gatto e la volpe nel bosco di notte,
naufraga due volte nell’isola della Fata e nel ventre del Pesce, vive
l’esperienza dell’aria due volte: appeso alla quercia grande e volando sul
colombo!
Si tratta quindi sempre di “prove iniziatiche” dove il
nostro protagonista rischia spesso al morte e ciò gli apre nuove vie e stadi di
maturazione interiore.
Per non parlare della trasformazione asinina simile a quella
di Apuleio. Ogni caduta segue una crescita, un allontanamento e un ritorno, in
un viaggio senza vero spazio e vero tempo, ma un viaggio mentale che segue un
percorso a spirale e ciclico!
Frequenti sono i segni simbolici: il serpente, il cane, il
pesce, fino ad arrivare alla manifestazione evidente dei significati occulti
contenuta nella ricetta magica per “moltiplicare l’oro”: acqua – terra e un
pizzico di sale. Ma è di facile conoscenza che il sale significa lo spirito,
l’acqua significa la mutazione/anima volatile e la terra significa il corpo o
il cuore.
È chiaro quindi che la centralità dell’oro (zecchini),
nascosta sotto il fragile ma abile velo essoterico del denaro borghese,
significa la ricerca della sublimazione spirituale, della pietra filosofale,
della palingenesi interiore.
Altre volte il velo si ala: quando il burattino, incatenato
come un cane (le trasformazioni simboliche avvengono anche in pesce e colombo)
sospira nella notte: “Oh se potessi rinascere un altra volta..!”
Uno dei temi centrali è quello della rinascita infatti! Il
mutar pelle per manifestare l’Essere.
Secondo la successiva prospettiva di tipo
letterario-magico-mitologico c’è da confermare il fatto che l’opera è ricca di
risonanze simboliche, sia classiche che medioevali.
Ad esempio il “pescatore verde” ricorda molto Polifemo (la
vita selvaggia e asociale nella sua brutalità e unidimensionalità elementare),
il burattino si mette gli zecchini sotto la lingua quando corre nella notte e
ciò ricorda immediatamente l’obolo a Caronte (e questo ci conferma come un
altro tema essenziale sia l’esperienza attiva della morte), il campo
dell’inganno della volpe e del gatto si chiama “campo dei miracoli”.
Si intende dire che sussistono molti parallelismi e come una
rete invisibile ma sensibile di relazioni fra i personaggi e le situazioni che
creano un’atmosfera magica e suggestiva. Ad esempio c’è un parallelismo fra
l’oscurità della selva dove vive la Fatina e l’oscurità del ventre del pesce:
due notti rischiarate da una luce magica!
Infine, sconvolgenti sono le trasformazioni della fata: da
bambina-fantasma a bambina sorellina, da donna viva e poi come morta a mamma di
Pinocchio.
Altri parallelismi/contrapposizioni sussistono fra mastro
ciliegia e il pescatore verde (omicidi per ignoranza) e fra l’omino e
Mangiafuoco (il finto buono e il finto cattivo). Ma anche nella scelta dei nomi
utilizzati è chiara l’impronta mitologica: da “Melampo” ad “Alidoro” fino alla capra
che ricorda quella del monte Ida che allattò Zeus!
Filosoficamente l’opera è tutto un teatro dialettico
abilissimo fra il libero arbitrio e il destino, fra la volontà e la necessità,
fra il sogno e la vita. Finisce infatti in modo prodigioso: una storia tutta
onirica si conclude nell’unico sogno “veramente” raccontato, un sogno teurgico
e taumaturgico che libera l’essere dal legno e lo restituisce alla sua vera
dimensione. Un sogno che ricorda quelli incubati nei Templi di Asceplio o
Demetra.
Dal punto di vista religioso è innegabile che anche in tale
dimensione i riscontri sono molteplici e profondi: Geppetto è falegname come
Gesù, e lo crea senza una donna. La fata è simile a Maria per il suo intervento
provvidenziale e per la sua strumentalità a Geppetto, mentre il pesce è simbolo
cristiano e ci ricorda il battesimo e la morte-rinascita.
Dopotutto la storia di Pinocchio è la storia della
ribellione e del ritorno al Padre: è un’espansione della parabola del figliuol
prodigo.
Pinocchio vive tutti i misteri della salvezza, dal battesimo
alla croce: appeso alla quercia grande, attraverso lo Spirito santo (il
Colombo).
Un capolavoro che non stanca mai e che è così grande da
poter accogliere le più differenti interpretazioni senza esaurirle.
Ce lo dicono gli stessi massoni questo, infatti sul sito
della loggia Hochma 182 leggiamo quanto segue in un articolo dal titolo
‘Pinocchio: una storia iniziatica’:
‘La fiaba di Pinocchio, notissima in tutto il mondo, in
quanto tradotta in moltissime lingue, è una fiaba tutta italiana. Scritta da
Carlo Lorenzini, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Carlo Collodi (la cui
appartenenza alla Fratellanza non è avallata da documenti ufficiali, ma
confermata dal suo pensiero e dalle frequentazioni massoniche), ha incantato e continua
ad incantare bambini ed adulti, aldilà della preparazione letteraria del
lettore; infatti può essere intesa secondo gli schemi della pur semplice
impostazione favolistica oppure interpretata nei suoi significati più reconditi
o velati. Essa costituisce una significativa metafora della vita e della
evoluzione spirituale. Descrive infatti il cammino dell’individuo dalla sua
nascita fino alla maturità.
La crescita di Pinocchio, dalla sua nascita e fino alla
trasformazione in bambino vero, contiene tutti i sentimenti ed i travagli
dell’animo umano: l’innato affetto reciproco tra genitore e figlio,
l’impertinenza del figlio verso il genitore, l’animo indulgente del genitore
verso il figlio, l’animo del bambino, che, seppure innocente, non sa resistere
alle tentazioni cacciandosi in un sacco di guai e coinvolgendo in ciò anche chi
gli vuole bene.
Tutto questo agli occhi del profano inconsapevole, ma da
iniziato il significato è profondamente diverso.
I contenuti esoterici nelle “Avventure di Pinocchio” sono numerosi,
e ad una attenta lettura la “favola” nasconde significati molto più profondi di
quelli che può cogliere un bambino. Gli eventi favolistici nascondono
significati e simbolismi che si rivolgono a chi è in grado di interpretarli.
Si scopre subito una favola nella favola, una favola diversa
dove il “burattino” deve apparire con tutti i suoi difetti, ed è costretto a
superare tutti gli ostacoli che gli si presentano per diventare “Uomo”.
Dal legno-materia prima, allorché è lavorato a regola
d’arte, emerge Pinocchio, burattino sì, ma che deve farsi uomo, e che pertanto
contiene già uno spirito umano inserito nel suo corpo ligneo.
Il burattino percorre dunque un percorso iniziatico che lo
deve condurre ad una profonda trasformazione di tutti i piani del suo essere.
Trasformazione resa possibile con il morire da profano e
rinascere quale iniziato.
Pinocchio viene impiccato, ma risorge… ed ecco la sua “morte
iniziatica” .
Pinocchio dopo essere stato impiccato è costretto a bere un
calice di bevanda amara (simbolo dell’amarezza dei rimorsi provocati da un non
adempimento degli impegni assunti) da tre medici che simbolicamente
rappresentano il Maestro Venerabile, I e II sorvegliante ed ai quali è dato il
compito della “cura” materiale ma soprattutto spirituale.
I simboli della Libera Muratoria sono molti e significativi:
dallo scalpello ed il maglietto di Geppetto, i cappucci neri dei conigli che si
avvicinano al burattino che non vuole ingoiare la medicina amara, il cappio con
cui il Gatto e la Volpe appendono Pinocchio alla Quercia grande, la barba di
Mangiafuoco che come un grembiule ne copre il petto e le gambe.
Nell’incontro di Pinocchio con gli altri burattini, essi lo
definiscono “fratello” e quando il burattino giunge nel teatro viene accolto
con clamore.
“E’ il nostro fratello Pinocchio […]vieni a buttarti tra le
braccia dei tuoi fratelli di legno!”.
La congregazione di burattini è capitanata da Mangiafuoco,
minaccioso ma dal cuore compassionevole, così come ogni buon Maestro, che si
prende cura dell’Apprendista. Egli,infatti, prima rimprovera e minaccia
Pinocchio affinchè questi possa comprendere l’errore fatto, ma poi, commosso,
gli ridona la possibilità di continuare il suo percorso, regalandogli le cinque
monete che il burattino sperpererà incautamente.
Pinocchio compie diversi Viaggi attraverso gli elementi
naturali per diventare Uomo; oltre ad attraversare l’elemento acqua e
l’elemento fuoco, viaggiando sul dorso del colombo attraversa l’elemento aria,
e poi tocca l’elemento terra quando approda alla sua agognata Spiaggia, nelle
vesti di un Pinocchio stanco ma sicuro e ormai pronto a rinascere sotto le
sembianze di un Uomo.
Nel ventre della balena che l’aveva ingoiato, Pinocchio
sembra trovarsi nella Camera di Riflessione: al buio per prepararsi al percorso
di rinascita. Quindi forse non è un caso che appena usciti dal ventre/Camera di
Riflessione, sul dorso del tonno, allievo e maestro insieme, quest’ultimo
facendogli superare il “mare” dell’inconscio, lo fa approdare finalmente alla
spiaggia che rappresenta il prendere coscienza di se’ e l’addentrarsi nella via
iniziatica.
Ed è così che il Burattino-Profano rinasce Uomo-Iniziato.
Un altro simbolo massonico è in relazione allo spoliazione
dai metalli, da parte del profano durante il rito di iniziazione, dovendo
questi consegnare tutto il denaro, in metallo o banconote, i gioielli e gli
oggetti metallici in suo possesso. Questa spoliazione simboleggia l’abbandono
dell’attaccamento alle idee preconcette e il distacco da ogni passione prima di
entrare nella loggia. La stessa cosa avviene a Pinocchio nel momento in cui
semina nella terra le monete d’oro , per la qual cosa dovrà continuare il suo
percorso al di là dell’attaccamento ai beni materiali e alle abitudini
fuorvianti. Solamente alla fine della cerimonia iniziatica i metalli vengono
restituiti; allo stesso modo il burattino, verso la fine del racconto, dona i
suoi quaranta soldi di rame che, appena diventato ragazzo, gli verranno
restituiti trasformati in monete d’oro. In questo modo, il suo patrimonio viene
moltiplicato, impreziosito e restituito come avvenuto arricchimento spirituale.
Poseguendo l’analisi della simbologia massonica, notiamo “la
benda”, che copre gli occhi dell’iniziando. Ciò significa che il profano non sa
vedere e ascolta troppo spesso le parole del mondo per cui, avendo bisogno di
una guida, egli si afferra consapevolmente all’individuo che gli si presenta.
Dal momento in cui l’iniziazione porta alla Luce, la benda gli verrà tolta
contestualmente.
Un simbolo pregnante del Tempio massonico è la volta
stellata, ove sul soffitto del tempio sono raffigurati il cielo, la notte e le
stelle. Ciò rappresenta il cosmo, in tutte le religioni, e ha lo scopo di
infondere serenità di spirito e di stimolare non tanto il sogno quanto invece
la meditazione. La volta stellata dei Templi massonici è, quindi, emblema di
universalità e di trascendenza perchè non frappone ostacoli tra il micro ed il
macrocosmo della spiritualità universale. In Pinocchio, troviamo l’evocazione
di ciò nel Campo dei Miracoli o Campo della stella, più volte citato, ove si
evidenzia la possibilità di una trasformazione: è qui, infatti, che il
burattino perde i metalli (monete).
Dietro la storia del burattino che cerca di diventare umano
vi è una storia spirituale profonda che affonda le sue radici nelle scuole di
Mistero e di Occultismo. Attraverso gli occhi di un iniziato, la raffigurazione
del burattino che doveva diventare buono e redarguito spesso con prediche sul
“non mentire”, diventa per l’uomo la ricerca dell’illuminazione e della
saggezza. I commenti brutalmente onesti sul contesto sociale in cui si muove
Pinocchio sono una raffigurazione cupa del nostro mondo moderno che prescrive,
forse, un modo per sfuggire alle sue trappole
La sua storia può essere paragonata a quella dell’uomo:
Pinocchio viene creato dal legno, quindi dall’elemento naturale. Egli stesso,
dalla sua nascita, ha un solo desiderio: non essere più un burattino di legno,
ma diventare un bambino in carne ed ossa. Un Uomo vero.
In effetti il burattino è l’emblema della passività, di
colui, cioè, che è manovrato da qualcun altro, di colui che non è protagonista
attivo nella propria Vita, ma che dipende dagli eventi che tirano le sue fila,
che non agisce quindi da uomo libero.
La Fata, la sua Anima, interviene spesso per tirarlo fuori
dai guai e, con l’aiuto di una bacchetta (anch’essa di legno) lo trasforma,
infine, in bambino, l’ Uomo vero.
Pinocchio è tutt’altro che una semplice favola; è un
capolavoro sempre attuale e così grande da poter accogliere le più differenti
interpretazioni senza mai esaurirle. E’ una parabola massonica.
Un’altra conferma la troviamo sulla rivista massonica ‘Il
Risveglio Iniziatico’ (Anno XXII, n° 3, Marzo 2010) sulla quale è presente un
articolo dal titolo ‘Pinocchio esoterico’ in cui c’è una parte intitolata
‘Pinocchio Massone’ in cui si legge:
‘Eh, già! Potrebbe essere sorprendente ma la lettura in tal
guisa mi sembra interessante da sottoporre, anche perché mette a nudo la
cultura massonica alla quale apparteneva il Collodi.
Pinocchio vien fuori dal lavoro che compie mastro Geppetto,
sgrossando un pezzo di pino: la similitudine con il lavoro che deve fare un
Apprendista d’arte, sgrossare la pietra grezza per farla diventare cubica, è
evidente.
Nella locanda dove si trovava, viene svegliato da “tre
colpi” alla sua porta; i fatidici tre colpi d’Apprendista e, nella storia,
affronterà i quattro viaggi dell’iniziazione attraverso i quattro elementi.
“Il campo dei miracoli” o “campo delle stelle” ricorda la
volta stellata del Tempio ed il burattino ne viene introdotto dal gatto, cieco,
e la volpe, claudicante. Il recipiendario, in Massoneria. entra in Tempio, per
chiedere la “luce”, bendato, cieco come il gatto del racconto, e col piede
sinistro scalzo, claudicante come la volpe.
Pinocchio si muove su piani orizzontali, da apprendista e
compagno, e solo una volta su quello verticale, da maestro, quando sale
sull’albero per nascondersi agli assassini. Qui, forse, il Lorenzini ha avuto
in mente di richiamare la setta di Djebel Ansarieh detta degli “Assassini”, i
cui membri erano grandi consumatori di Yhashish, da qui il nome, la quale era
l’equivalente dei nostri Templari e, si è scoperto più tardi, avere conoscenze
esoteriche, gradi e ritualità molto simili ai monaci guerrieri cristiani.
Nella tradizione massonica, che fa riferimento allo
scozzesimo, le colonne del tempio sono sormontate ciascuna da duecento
melagrani, quattrocento in tutto, guarda caso la fata turchina confeziona
quattrocento panini e prepara duecento tazze di caffè e duecento tazze di
latte: il bianco e nero del pavimento a scacchi posto all’interno del Tempio.
Il burattino deposita i metalli, gli zecchini d’oro, seppellendoli. Questo è
quello che fa un recipendario prima di essere ricevuto come Apprendista d’Arte.
Pinocchio va diverse volte “in sonno”, ciò avviene sempre
prima di un passaggio iniziatico: quando gli bruciano i piedi ed è, quindi,
impedito nel movimento e poco prima di essere impiccato alla quercia e,
soprattutto,quando diventa, finalmente, uomo.
Arrivato alla corte di Mangiafuoco chiama i nuovi amici
burattini fratelli ed è cosa reciproca. Infatti, quando giunge nel teatro viene
accolto con le seguenti parole “È il nostro fratello Pinocchio. Vieni a
buttarti tra le braccia dei tuoi fratelli di legno”.
A capo di tutto Mangiafuoco, apparentemente temibile e
terribile, il quale brandisce una frusta che assomiglia, a dir il vero, alla
spada fiammeggiante del Venerabile Maestro che la afferra a protezione della
Loggia e del suo segreto.
Egli la usa per portare ordine nel teatro-Tempio e, dopo una
sommossa e ristabilito l’ordine, concede il perdono, la gratificazione e la
salvezza. Mangiafuoco minaccia e incute terrore al burattino ma quando ritiene
che Pinocchio si fosse emendato degli errori fatti, gli consegna cinque monete
e lo lascia libero di continuare il suo percorso.
Il numero delle monete ricorda la stella fiammeggiante,
simbolo dei Compagni d’arte, a presupporre, probabilmente che, avendo superato
le precedenti prove, il pezzo di pino meritava un aumento di salario.
Successivamente Pinocchio viene inghiottito da un pescecane
e, seguendo una luce, ritrova nella pancia del pesce, dove è sistemato un
tavolino con una candela dentro una bottiglia di cristallo verde, papà
Geppetto.
Tutto fa presupporre al gabinetto di riflessione: il
tavolino, la candela, gli scheletri dei pasti del pescecane, il sale dell’acqua
marina, il nero del capace stomaco del predatore dei mari. Il verde della
bottiglia, invece, rimanda al colore sacro del Graal e dello smeraldo. Lo
smeraldo richiama alla mente le “Tavole di smeraldo” di Ermete Trismegisto,
testo importantissimo in Massoneria, ma il verde è, anche, esotericamente, il
colore dell’acqua. Lo spietato pescatore del racconto è, infatti, verde ma
anche verde è il serpente che sbarra la strada a Pinocchio, riprendendo così
una fiaba iniziatica del noto massone Goethe.
Dopo quest’altra avventura, avendo salvato dalla morte il
suo creatore e iniziatore, mastro Geppetto, essendo passato, ancora una volta,
nel gabinetto di riflessione (la prima volta vi era già stato quando, dal buio
della condizione di materia vegetale inerte, ottenne la “luce” divenendo
materia vegetale senziente) egli ottiene il definitivo aumento di salario: ora
lavorerà in verticale e non più in orizzontale. E’ diventato UOMO’ E’ evidente
dunque l’influenza occulta-massonica nel romanzo di Pinocchio. Una ragione in
più quindi per fare stare i vostri bambini lontani da Pinocchio.
Raccontate ai bambini le storie presenti nella Bibbia e non
le favole profane, e trasmettetegli gli insegnamenti sani presenti nella
Bibbia.
Chi ha orecchi da udire, oda.
«Un bambino che legga con tutto il cuore questo libro ne
esce trasformato. Diventa un’altra persona di cui non è lecito parlare».
Che genere di altra persona?
«Una persona con una mentalità da martire. In quale altro
libro si insegna al bambino a diffidare di tutte le autorità terrene? E chi
altro può vivere disdegnando quasi completamente la giustizia umana?».
«Ovviamente Pinocchio è la storia di un’iniziazione. Come le
Metamorfosi (Asino d’oro) di Apuleio. Il latino del grande retore diventa una
lingua infantile quando narra l’epifania di Iside, la madre universale, colei
che compare nei sogni se si sogna rettamente… Che poi in Collodi è la fata dai
capelli turchini, la prefigurazione della capra sullo scoglio nel mare in
tempesta, che compare nel libro molto più tardi, e che pure ha il pelo
azzurro».
Perché Collodi rappresenterebbe Iside come capra, oltre che
come fata?
«Iside, nel mondo pagano, è la grande mediatrice,
rappresentante di tutto il mondo animale, o meglio dell’indistinzione tra
animale e umano».
In effetti in Apuleio il protagonista è trasformato in
asino.
«Certo. Il che significa semplicemente che provengono dalla
cultura di base della cerchia massonica cui Collodi apparteneva. Vede, una
loggia di Firenze, al tempo di Collodi, non era luogo di modesta cultura. Certe
letture erano comuni, elementari addirittura. La massoneria ferveva di una
rinascita del pitagorismo antico ».
Vuol dire che la letteratura antica era un codice?
«Era linguaggio elettivo per comunicare all’interno
dell’ambiente massonico. E lì le cose su cui si posavano gli occhi si
trasmutavano. C’è un passo di Marco Aurelio: “Ricordati che colui che tira i
fili è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita
nostra, è Lui l’Uomo… Cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili
a marionette e nient’altro”. Si attaglia alla storia del burattino, ne è la
chiave».
Ma allora «Pinocchio» è un libro per bambini o una parabola
massonica?
«Entrambe le cose, è questo il miracolo. La semplicità della
lingua toscana in Pinocchio nasce dal fatto che Collodi sta trasmettendo una
verità esoterica è non può che esprimerla così, come la narrerebbe a un
bambino. È il ritegno di chi sta parlando di cose indicibili che produce questo
particolare linguaggio, in Collodi come in Apuleio».
In questa chiave esoterica, che significa il nome Pinocchio?
e Lucignolo? e il Gatto e la Volpe?
«In latino pinocolus significa pezzetto di pino. Per un
pagano è l’albero sempreverde che sfida la morte invernale. Lucignolo è un
Lucifero miserello, a misura di puer, cioè di pre-iniziato, e il Gatto e la
Volpe sono Legbà e Shù, grandi personaggi della mitologia africana che si
ritrovano anche nel Vudù. Allora si leggeva, e di libri sul Vudù l’America di
fine Ottocento era piena. Qualche massone d’oltreoceano poteva avere informato
Collodi. La vita di loggia è molto strana, è segreta e piena di incontri».
Vuol dire che «Pinocchio» non può comprendersi del tutto
senza conoscere la massoneria?
«No, voglio dire che Pinocchio continua un’antichissima
tradizione sotterranea della letteratura italiana. In rapporto ai rituali
massonici si chiarisce il significato della poesia medievale – Federico II,
Dante e Cavalcanti – così come l’esoterismo della Rinascenza in tutti quei
grandi che vissero l’integrazione di Bisanzio nella cultura occidentale ai
tempi del concilio di Ferrara e Firenze e intorno a Enea Silvio Piccolomini, un
grande gnostico: pensi alla lettera veramente esoterica che scrisse al sultano
ottomano, al neopaganesimo di Pienza… Tutti, anche gli alti prelati sanno che
dal culto di Iside deriva la Madonna, che la leggenda dei magi testimonia come
l’atto fondante della cristianità sia l’innesto dello zoroastrismo, come può
vedersi, proprio vicino a Pienza, nei rilievi della pieve di Corsignano!».
La prego, torni a «Pinocchio».
«Pinocchio, come dicevo, continua la lignée esoterica,
gnostica, isiaca e neopagana, nel senso più spirituale, che è al centro della
nostra letteratura».
Il che varrebbe a dire che la grande letteratura italiana è
essenzialmente massonica?
«Varrebbe a dire che spesso noi italiani ci lamentiamo di
non avere una letteratura all’altezza, ad esempio, di quella inglese o tedesca.
Ma il fatto è che la nostra migliore letteratura, quella laica, è sotterranea e
segreta, perché a differenza degli inglesi e dei tedeschi ha dovuto sottrarsi
alla censura dell’ala meno illuminata e elitaria della cultura cattolica».
PINOCCHIO
POLITICO 2 – La new-economy ed il paese dei balocchi
“Ma
gli altri? Dico la folla silenziosa e smarrita che ogni mattina, da mesi,
quando apre il computer sul sito “Campo dei Miracoli” non trova più i
suoi zecchini, e bestemmia il giorno in cui ha creduto che davvero la vecchia
economia, quella fondata sulla maledizione del lavoro e del sudore, fosse
rimpiazzata da una nuova di zecca, nella quale dal denaro nasce il denaro,
ininterrottamente, per naturale clonazione?… La moneta come un seme di
cuccagna, da lanciare nel campo infinito della Chiocciola @ per vederlo
germinare, e generare intere foreste di fronde tintinnati d’oro… E infatti
Pinocchio esita, e si domanda, “a bocca aperta per lo stupore: ‘Ma com’è
mai possibile che diventino tanti?’” Michele Serra, da “Il Pinocchio delle Borse e il
barbiere di Agnelli”, Repubblica 16.03.2001 http://www.rutelli2001.it/dalpaesedeibalocchi.php
Se si rimane nell’ottica di comprendere la ragione della fortuna
di Pinocchio, nessuna di queste potrebbe a buona ragione essere definita come
un’interpretazione “classica”, ma solamente una delle tante possibili,
distinguibile eventualmente dal grado di autorità conferitole
dall’argomentazione o dall’autore.
Ma il numero e dalla varietà delle interpretazioni ci fanno
azzardare a muovere noi un suggerimento per una risposta alla nostra questione:
Pinocchio è senza dubbio una buona metafora, un buon modello per
spostare un discorso più o meno complesso sul piano delle immagini, per aiutare
a comprenderne il senso. Esistono però metafore create dalla letteratura che si
prestano più di altre ad entrare nell’universo linguistico e culturale umano,
perché possiedono alcune caratteristiche che le rendono archetipi, modi
generali di vedere il mondo, strutture concettuali fondanti della natura e
della cultura dell’uomo.
Ci viene in aiuto un piccolo libro di Carlo Lapucci, “Il libro delle
filastrocche” (Domino Vallardi editore), dove si legge un parallelo tra
la favola di Pinocchio ed i giochi della più antica tradizione: “Se si
collegasse la storia di Collodi con i giochi popolari come quello dell’Oca, Pela
il chiù, Carica l’asino (guarda caso Scaricalasino, con Bengodi e Cuccagna, è
un paese citato nel libro), il Gioco del Barone, ecc., vi si riconoscerebbero
immagini consuete, comuni al “Libro dei sogni”, come ai Tarocchi: il
Bagatto, il Matto, l’Impiccato, la
Pozza del Gambero, la Morte, la Prigione…”
Il gioco dell’Oca appartiene a quei giochi che sono una metafora
del vivere sociale e della comunicazione narrativa: un inizio ed una fine, la
presenza della natura e degli animali, l’impedimento al movimento (il carcere),
i pericoli, il caso (i dadi), e soprattutto il viaggio labirintico
dell’esistenza, con le sue imprevedibili direzioni.
L’idea di concepire Pinocchio come il percorso stabilito dal Gioco
dell’Oca o come una narrazione determinata dalle carte dei Tarocchi, oltre a
fare la felicità di Calvino e delle teorie strutturali sulla narrazione, ci
porta su un piano interpretativo con cui abbiamo più confidenza: la dimensione
narrativa del gioco (o l’essenza ludica delle storie), e il raccontare storie
come attività fondante della natura umana.
Pinocchio è un libro scritto per essere raccontato, per la
narrazione orale.
L’intersecarsi degli eventi di una favola, e di una storia in
generale, è un vero e proprio labirinto, una rete di possibilità virtuali
che ha bisogno, per esprimersi, del filo di Arianna, della guida di Virgilio,
dell’opera del narratore. Inoltre, “la fantasia popolare reinventa
liberamente poi queste immagini: il labirinto può diventare tanto una tela di
ragno, quanto un serpente, giocando quindi una partita più con
l’inconscio che con la razionalità che stenta a rintracciare l’identità delle
immagini”.
“Con lo smarrimento di
Pinocchio davanti al serpente siamo arrivati alla spirale, il simbolo del
labirinto che si trova verso la metà del libro, come verso la metà del gioco è
appunto lo smarrimento di colui che segue il percorso paradigmatico: è la selva
oscura dello smarrimento che si incontra nel “mezzo del cammin di nostra
vita”, smarrimento che l’eroe è destinato a superare in molti
modi, poiché si tratta di una prova vinta a suo modo anche dal burattino. Il
fatto che costituisca il centro è anche indice che il labirinto è l’elemento
che riassume e condensa l’intero…”
Le storie nascono da strutture di pensiero talmente
conNATURAte al vivere umano che costituiscono il mezzo più efficace (e talvolta
più scientifico) per conoscerne il produttore, l’uomo stesso. L’uomo vive di
storie ed in esse vi si riconosce; in alcune di queste molto di più, per il
fatto che vanno a pescare a fondo nella natura culturale dell’uomo,
perché recuperano immagini che sono a fondamento della conoscenza che l’uomo ha
del suo mondo: il senso di mancanza (sia esso povertà o solitudine o prigione),
il nascere, il morire, il rapporto di comunicazione con la natura e gli
animali, il perdersi, il pericolo, la pazzia, il desiderio,
Free image/jpeg, Resolution: 1936×1452, File size: 492Kb, Pinocchio set drawing
Le
Avventure di Pinocchio
(di Collodi)
Ermando
Danese
Studiando questa scienza incognita, l’artista può
penetrare in un ambito inesplorato, ricco di cose da scoprire, abbondante di
rivelazioni, prodigo di meraviglie, e ricevere, infine, l’inestimabile Dono che
Dio riserva alle anime elette: la
Luce della Saggezza.
Con queste testuali parole del Maestro Fulcanelli
iniziamo lo studio esoterico della bella favola di Pinocchio.
«Nelle Avventure di Pinocchio» scrive Giorgio
De Rienzo «bisogna entrare discreti: leggendo con grande attenzione. Nel
leggere è bene abbandonarsi con naturalezza al racconto, è bene starsene come
in disparte, attenti e curiosi, certamente, riflessivi, ma non invadenti, tanto
meno impertinenti».
«C’era una volta…
Un re — diranno subito i miei piccoli lettori.
— No ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un
pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di
catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per
accendere il fuoco e per riscaldare le stanze».
All’inizio della fiaba si mette in evidenza
l’universalità del soggetto dei saggi, così comune che si trova presso
qualsiasi persona.
Fulcanelli scrive che «al primo piano del maniero di
Lisieux c’è, scolpito sul pilastro sinistro della facciata, un uomo primitivo
che solleva e sembra si voglia portar via un albero mal tagliato.
Questo simbolo, che pare assai oscuro, nasconde
tuttavia il più importante degli arcani secondari. Si tratta proprio del nostro
albero secco».
Questo tronco può e dev’essere rivitalizzato. Il
compito è affidato all’uomo d’aspetto primitivo e selvaggio. Nella scienza
ermetica esiste la famosa leggenda allegorica dell’Uomo dei Boschi, un essere
che vive in una sorta di selvatichezza e ricorre in molte leggende popolari. In
questo modo i Saggi hanno raffigurato l’individuo che vive fuori del
condizionamento di qualsiasi tempo e civiltà.
Da questo tronco dovrà venir fuori il bambino
ermetico e variante mistica del Bambinello di Natale.
«Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel
giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il
quale aveva nome mastr’Antonio se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia,
per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una
ciliegia matura».
Il naso che si eleva dal volto (terra filosofale o
mercurio filosofico) è una variante del menhir, e la sua punta rossa — che
ricorda il cappuccetto rosso indossato da una graziosa bambina di un’altra
meravigliosa favola — indica l’esaltazione e il predominio dello spirito sulla
materia.
«Appena maestro ciliegia ebbe visto quel pezzo di
legna, si rallegrò tutto, e dandosi una fregatina di mani per la contentezza,
borbottò a mezza voce:
— Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene
per fare una gamba di tavolino.
Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per
cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare
andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una
vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:
— Non mi picchiar tanto forte!
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro
Ciliegia».
Appena visto il pezzo di legno a tempo opportuno,
cioè appena scoperto la natura del soggetto dei saggi — lo spirito o psiche
comune a tutti gli uomini — se ne rallegrò e iniziò a digrossarlo.
Ma oltre all’artista egli interpreta il vegliardo
ermetico, simbolo d’illuminazione e, per estensione, di tutta la scienza
nascosta.
Punto fondamentale della favola, vi si rispecchia la
filosofia naturale che non chiede nulla di più dalle forze di un individuo,
infatti il “neofita” stesso assicura che non sarà picchiato tanto forte.
Tuttavia, si evidenzia la necessità della rivelazione e l’inevitabile impatto
sulla psiche.
«E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo
colpo sul pezzo di legno».
L’ascia mistica è un simbolo molto antico. Si
ritrovano asce di pietre nelle antiche sepolture. Françoise D’Eaubonne spiega
che «queste asce sono chiamate pietre da fulmini».
Fulcanelli rivela che «Basilio Valentino ha chiamato
la prima sostanza dell’Opera, pietra di fuoco. È il segno dello Spirito Divino
immortale e puro, simbolo della vita e del fuoco».
Ricordiamo che Ulisse si servì di dodici scure per
la prova con l’arco. Questo particolare insegna al ricercatore di centrare
tutti i simbolismi. Infatti, Ulisse, tendendo magistralmente il proprio arco,
scocca la freccia centrando il primo foro (lo spirito) e, di conseguenza,
centra tutti gli altri fori delle restanti scuri, cioè gli altri arcani della
filosofia segreta che sono, per analogismo, collegati fra loro.
Fulcanelli rivela che «lo spirito è il punto oscuro,
vero e proprio asse intorno al quale ruotano tutte le combinazioni simboliche».
Arriviamo, così, all’incontro tra i due vegliardi, i
due vecchi falegnami, compar Geppetto e mastr’Antonio.
«— Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?
— Le gambe — ».
È il pellegrino ermetico che ha camminato da solo,
con le proprie gambe, nell’autoconoscenza.
L’anonimo Adepto di Dampierre ha riproposto la
stessa scena — decorando il cassettone numero cinque della terza serie della
galleria alta del suo castello — indirizzandolo, però, a un vecchio religioso
che ha dedicato inutilmente l’esistenza all’Illuminazione spirituale e che
scopre la verità soltanto al tramonto della sua vita. Fulcanelli così riporta:
«Due pellegrini, provvisti ciascuno del proprio
rosario, s’incontrano in prossimità d’un edificio. — chiesa o cappella che
distinguiamo sullo sfondo — Uno di questi due uomini, assai vecchi, calvi, con
la barba lunga, vestiti allo stesso modo, sostiene il suo passo con l’aiuto di
un bastone, l’altro che ha la testa protetta da uno spesso cappuccio, sembra
provare una viva sorpresa dell’avventura, ed esclama:
.TROPT. TART. COGNEV. TROPT. TOST. LAISSÉ.
Troppo tardi conosciuto, troppo presto lasciato.
Si comprende perché lo sfortunato artista è
dispiaciuto per la sua ignoranza di una sostanza comune, che aveva a portata di
mano, senza aver mai pensato che essa potesse procurargli l’acqua misteriosa,
invano cercata altrove e tanto ardentemente desiderata, ma desolato d’aver
perso, in lavori inutili, il vigore fisico, indispensabile alla realizzazione
dell’Opera con questo compagno migliore».
Tuttavia, l’Iniziato Collodi, nel vecchio Geppetto,
non ha voluto simboleggiarvi l’uomo arrivato inutilmente al tramonto della
vita, ma l’antichità del soggetto dei saggi.
Infatti, ben presto i due vegliardi vennero alle
mani. È l’immagine del combattimento primitivo delle due nature contrarie
(psiche illuminazione).
«E riscaldandosi sempre di più, vennero dalle parole
ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si
sbertucciarono.
Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra
le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accorse di avere in bocca
la parrucca brizzolata del falegname.
— Rendimi la mia parrucca! — gridò mastr’Antonio.
— E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. —
I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro
la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici
per tutta la vita».
Le parrucche simboleggiano le proprietà delle due
nature. Nella psiche la superficiale grossolanità che sarà “catturata” e
distrutta dal solvente universale, e nell’illuminazione la parte che sarà
assimilata dallo spirito, secondo il loro scambio.
Cioè, secondo il principio ermetico, il volatile
diventa fisso e il fisso diventa volatile. Il materiale diventa spirituale
(spiritualizzato) e lo spirituale diventa materiale (assimilato).
Fulcanelli spiega che le due nature primitive (acqua
viva e mercurio) dopo il combattimento, «l’acqua diventata terra e il mercurio
zolfo. Il mercurio comune cambia di nome, col cambiare di qualità, e diventa il
mercurio dei saggi, l’umido radicale metallico, il sale celeste o sale
fiorito».
A questo punto avviene il secondo combattimento,
variante della seconda opera filosofale.
«Geppetto perse il lume degli occhi, si avventò sul
falegname; e lì se ne dettero un sacco e una sporta».
Perdere la luce degli occhi significa che
l’illuminazione è stata assimilata. L’accecamento di certi personaggi mitici
non possiede altro significato.
È l’occhio del ciclope Polifemo accecato da Ulisse.
Nella mitologia celtica, John Sharkey segnala che
«in una battaglia, Lugh sfracella l’unico occhio del re dei Fomori con una
pietra lanciata dalla fionda».
Si tratta di una variante allegorica del gesto
compiuto da Davide colpendo con una fiondata il gigante dei filistei Golia (primo
Libro di Samuele, XVII, 49), e la «pietra si fissò nella fronte di lui».
Nella mitologia greca si dice che l’indovino Tiresia
avesse perso la vista per aver svelato ai mortali i segreti dell’Olimpo.
Anche Omero, l’autore dell’Iliade e dell’Odissea,
si dice fosse cieco, ossia, tradizionalmente, per aver composto gli antichi
poemi esoterici.
«A battaglia finita, mastr’Antonio si trovò due
graffi di più sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto.
Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di
rimanere buoni amici per tutta la vita».
In questo secondo combattimento si evidenziano i due
segni (le due operazioni) che il naso ha acquisito grazie all’illuminazione che
ha perduto mortificandosi (conti pari). La pace dei due elementi consacra la
realizzazione del mercurio filosofico.
«Intanto Geppetto prese con sé il suo bravo pezzo di
legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa».
Il pellegrino ermetico, ricevuta l’illuminazione,
riparte zoppicando verso casa.
La ferita nella parte bassa del corpo ricorre in
diverse allegorie sacre e leggende profane.
Nella Bibbia (Genesi, XXXII), Giacobbe
fu ferito alla coscia da un angelo e vi lottò per tutta la notte (ermetica).
Venne in seguito chiamato Israele, che significa «lottare con Dio».
Evola scrive che «lo stesso re del Graal, che
attende la guarigione, zoppica o è ferito alla coscia. Egli, dopo essere stato
ferito, non ha altra occupazione possibile oltre il pescare, poiché ha
costatato la propria impotenza per altre attività. Nel Percival li Gallois,
l’amo con cui egli pesca è d’oro. Ma è anche detto che ciò che egli pesca,
quando i dolori lo tormentano non basta al suo bisogno».
L’allegoria insegna che le illuminazioni catturate
dall’oro filosofico, non sono sufficienti per lo scotto che bisogna pagare per
la nostra purificazione ed elevazione spirituale.
Il re, ormai ferito dall’illuminazione, è
impossibilitato nelle altre occupazioni mondane, e si dedica soltanto al
compimento della Grande Opera.
Fulcanelli scrive che «ora, la gioia dell’artista
risiede nella sua occupazione. In greco la parola khará, gioia, deriva
da khairo, rallegrarsi, godere di, compiacersi con, e significa anche
amare. E il lavoro dell’Opera rappresenta la sua più cara occupazione».
Sempre nei cicli del Graal, scrive Evola, l’artista
che si trova in questo stato è definito «“vivo e non vivo”; “vive e non vive”:
il re che è morto benché appaia vivo, ed è vivo benché appaia morto».
«La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che
pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice; una
seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella
parete di fondo si poteva vedere un caminetto di fuoco acceso; ma il fuoco era
dipinto e accanto al fuoco c’era dipinto una pentola che bolliva allegramente e
mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero».
La luce che solitamente prende la psiche grezza è
quella che passa sotto la scala filosofica. Essa è sempre seduta su una cattiva
abitudine e riposa ugualmente su una poca buona educazione, e si appaga
d’insignificanti attrazioni mondane. Per questo, sebbene tutti tentano di
apparire una persona civile, cioè avere un comportamento (fumo) corretto e
virtuoso, in realtà la pentola filosofica è falsa come lo stesso fuoco.
«Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli
arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino.
— Che nome gli metterò? — disse fra sé e sé. — Lo
voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una
famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi
i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva
l’elemosina».
Fulcanelli ci spiega che si tratta della «sostanza
miserabile appena materializzata, ma che lo contiene in abbondanza».
È la primitiva illuminazione appena materializzata.
Ricordiamo che anche il “vecchio” San Giuseppe,
tradizionalmente, si dice che facesse il falegname. È l’immagine del mercurio
comune che realizza il bambino Divino dal legno mistico.
La parola Pinocchio è sinonimo di pinolo, il seme
proprio del pino. La scelta di questo nome dipende dal fatto che questa pianta
è sempre verde.
Fulcanelli scrive che «la nostra acqua, dice Mastro
Arnauld de Villeneuve, prende il nome dalle foglie di tutti gli alberi, degli
alberi stessi e di tutto ciò che ha un colore verde, per ingannare gli
insensati».
Nella Genesi (I, 30) leggiamo: «A tutti gli
esseri, nei quali vi è l’alito di vita, Io do come nutrimento l’erba verde».
Appena terminato il burattino «Geppetto sentì
arrivarsi un calcio sulla punta del naso.
— Me lo merito! Dovevo pensarci prima! Ormai è
tardi! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta
il dovere! Dovevo pensarci prima!…».
Quando l’illuminazione colpisce la materia
filosofale (naso), il neofita si avvede degli errori commessi.
Krishnamurti ricorda che «negare ogni morale è
essere morali, perché la morale accettata è la morale della rispettabilità, e
ho paura che tutti noi desideriamo essere rispettati, che poi è essere
riconosciuti come bravi cittadini in una società marcia».
Si evidenzia la preoccupazione (charis) di
ogni Iniziatore, nel guidare i neofiti a superare il brutto periodo della
seconda operazione:
«Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva
muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un
passo dietro l’altro».
Come tutti sanno, Geppetto dopo finisce in galera,
cioè scompare dalla scena, e Pinocchio resta da solo in casa.
La prigione dell’Opera è una variante del vaso
filosofico o vergine madre.
Questa importante allegoria è spiegata assai chiaramente
da Fulcanelli:
«Generalmente si raccomanda d’unire “un vegliardo
sano e vigoroso con una vergine giovane e bella”. Da queste nozze deve nascere
un bambino. Uno di questi genitori, poi, resta sempre lo stesso, ed è la
vergine madre; il vegliardo, invece, deve, compiuto il suo ruolo, cedere il
posto a un altro più giovane di lui».
Ricordiamo che la materia vergine simboleggia la
psiche non ancora illuminata. Dopo aver ricevuto i «raggi del sole», diventa la
vergine madre o incinta.
A questo punto Collodi fa interpretare assai bene a
Pinocchio il neofita che al principio, ricevuta l’iniziazione, o la
rivelazione, stende ad accettarla “provando” a sfuggirla chiudendosi in se
stesso.
«Giunto dinanzi casa, trovò l’uscio di strada
socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si
gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella
stanza qualcuno che fece:
— Cri-cri-cri!».
Giorgio De Rienzo coglie assai bene il senso
nascosto in questa allegoria tradizionale. Infatti, scrive che «Pinocchio
all’inizio è tutta una voglia di sgarbi. I suoi primi atti di vita sono
anarchici, ribelli. Come se il burattino ci tenesse a mettere in chiaro le
cose: i suoi gesti di sfida, che prevengono a priori qualsiasi ipotesi o
progetto d’educazione, sono gesti che affermano soltanto un disegno insolente e
caparbio di totale libertà».
Sono i vari tentativi svolti da qualsiasi iniziato
per sottrarsi alla visione della verità, perciò si cerca di sbrancare l’uscio
durante la prima e delicatissima fase della seconda operazione filosofale.
«Noi siamo spaventati» diceva Krishnamurti «noi
resistiamo, noi siamo isolati dentro le nostre ideuzze, i nostri bisogni e i
nostri desideri, ovviamente.
Libertà significa libertà dalla paura. Significa
libertà da ogni forma di resistenza. Libertà significa un movimento non
isolato. Allora si può essere liberi, allora si è naturali».
Però, ormai, il seme di verità è stato seminato
sulla terra filosofale e, così, s’incomincia a fare i conti con la “voce” della
coscienza e «vide un grosso grillo che saliva lentamente su per il muro.
— Io sono il grillo parlante, e abito in questa
stanza da più di cent’anni. Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…
— Perché ti faccio compassione?
— Perché sei un burattino e, quel che è peggio,
perché hai la testa di legno —
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su
tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno lo scagliò contro il
grillo parlante. Il povero grillo ebbe appena il fiato di fare cri-cri-cri, e
poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete».
«Pinocchio è un mutamento continuo di umori»
aggiunge De Rienzo «che è tutto nel suo proprio parlare sempre variato di toni:
un dire “impaurito” prima, un gridare bizzoso poi, e ancora un replicare
spazientito e, alla fine, uno sbottare saltando “tutt’infuriato”».
Non si poteva meglio esprimere lo stato psichico
dell’individuo nelle sue caratteristiche reazioni durante il caos bianco,
mentre continua ancora la tempesta ermetica prodotta dallo scontro delle due
nature nella congiunzione primaria, fino alla pace del mercurio filosofico —
che si realizza lentamente — e che Pinocchio compie uccidendo il grillo con una
martellata o mazzuola degli antichi massoni.
«Intanto incominciò a farsi notte, e Pinocchio,
ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che
somigliava moltissimo all’appetito.
Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e di fatti
dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere,
si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello».
Le luci della mondanità cominciano a declinare e
incomincia la lunga notte ermetica. Il neofita non riesce ancora a distinguere
bene, sta ancora tra il vedere e il non vedere, tuttavia inizia ad avere
maggiore fame di conoscenza, di sapere.
La favola continua che Pinocchio si dette da fare
per trovare «qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla,
proprio nulla».
Questo nulla è di un’importanza estrema per la
pratica dell’Opera.
«Il mercurio filosofico» spiega Fulcanelli «unica
sostanza del Magistero, non può mai produrre il nulla se non muore, se non
fermenta e non va in putrefazione alla fine del primo stadio dell’Opera.
Estratto dal nulla, ne porta l’impronta e ne subisce
il nome: niente. Ma i Filosofi hanno scoperto che nella sua natura elementare e
disordinata, fatta di tenebre e di luce, di cattivo e di buono riuniti nella
peggior confusione, questo niente conteneva Tutto ciò ch’essi potevano
desiderare».
Lo stesso Polifemo, nell’Odissea (IX, 460),
dice che un “niente” lo ha accecato, uno con il nome di “Nessuno”.
Questo nulla è quello che Krishnamurti definisce «il
vuoto entro cui si attua il vedere. Bisogna avere questa qualità meditativa
della mente non solo occasionalmente, ma per tutto il giorno. E il Sacro
influirà sulle nostre vite non solo durante le ore di veglia ma anche durante
il sonno».
«Per l’appunto era una nottataccia d’inverno.
Tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo
pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente
e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli
alberi della campagna».
Nonostante questo tempo, Pinocchio si recò in paese,
«ma trovò tutto buio e deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa
chiuse; le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei
morti».
Pinocchio bussò ad una porta per un po’ di pane e un
vecchio, affacciatosi da una finestra, gli disse:
«— Fatti sotto e para il cappello. —
Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma
mentre faceva l’atto di pararlo, sentì pioversi addosso un’enorme catinellata
d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio
appassito».
A parte i fulmini, simboli d’illuminazione durante
la notte ermetica. La soluzione di questa parabola appare luminosa nelle parole
di Fulcanelli:
«È l’inizio attivo e dolce del fuoco di ruota,
simbolizzato dal freddo e dall’inverno, periodo embrionale, nel quale i semi,
chiusi nel seno della terra filosofale, subiscono l’influenza fermentatrice
dell’umidità. Sta per cominciare il regno di Saturno, emblema della radicale
dissoluzione, della decomposizione e del color nero».
«Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito
dalla stanchezza e dalla fame: e perché non aveva più forza di reggersi ritto,
si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un
caldano pieno di brace accesa.
E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano
di legno gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono
cenere.
E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se
i suoi piedi fossero quelli di un altro. Finalmente sul far del giorno si
svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.
— Chi è — domandò sbadigliando e stropicciandosi gli
occhi.
— Sono io — rispose una voce.
Quella voce era la voce di Geppetto».
In questa favola, in cui l’Autore pare non voglia
tralasciar nulla, troviamo pure l’inspiegabile paura di camminare con le
proprie gambe, bruciandocele nel crogiolo dell’indolenza, accordando agli altri
il compito di guidarci.
Krishnamurti consiglia:
«Voi dovete camminare con le vostre gambe, dovete
fare il viaggio da solo, e in quel viaggio dovete essere il vostro maestro, non
c’è nessuno che vi dica cosa fare.
Abbiamo bisogno dell’aiuto di qualcuno per essere
liberi dalla paura? Degli psicologi, degli psicoterapeuti, degli psichiatri, o
del prete, o del guru che dice: “Abbandonate tutto a me, compreso il vostro
denaro e starete perfettamente bene”. Voi avete decine di aiutanti, dai grandi
capi religiosi — Dio ce ne guardi! — giù fino al povero psicologo dietro
l’angolo».
Ma sul far del giorno — all’alba ermetica —
Pinocchio fu svegliato dalla voce del vegliardo Geppetto.
Il vecchio falegname gli dette da mangiare tre
frutti mistici — tre pere — immagini dell’intera Opera o della rivelazione
totale, e Pinocchio, «quand’ebbe finito di mangiare, si batté tutto contento le
mani sul corpo, e disse gongolando:
— Ora sì che sto bene!».
Geppetto fu costretto a rifargli i piedi, e
Pinocchio gli promise che sarebbe andato a scuola.
«— Per andare a scuola mi manca sempre qualcosa:
anzi mi manca il più e il meglio.
— Cioè?
— Mi manca l’Abbecedario».
Lo studio della scienza sublime — il più e il meglio
— è presentato sotto l’aspetto di un abbecedario, e certo non poteva essere più
espressivo di un libro preparatorio allo studio quello di un libro iniziatico.
Per acquistare quest’abbecedario, Geppetto «dové
vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e
rimendi, era tutta una piaga».
Ancora una volta si evidenzia la vecchia
personalità, misera e contraddittoria, che bisogna barattare per avere tra le
mani la scienza semplice e naturale.
Però, come scrive Fulcanelli, questa scienza
«all’inizio si cerca soltanto di evitarla e la si disprezza senza ragione». E,
infatti, Pinocchio cedette l’abbecedario per soli quattro soldi.
Un’altra bella immagine, che contempla pure questa
fiaba, è quella dell’uomo che ama soprattutto le scappatoie della vita, come le
definiva Krishnamurti: giochi, intrattenimenti, ecc.
Infatti, Pinocchio, mentre si recava a scuola, «gli
parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di gran cassa:
pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum, zum.
Si fermò e stette in ascolto.
— Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba
andare a scuola, se no…
E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava
prendere una risoluzione; o a scuola, o a sentire i pifferi.
— Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a
scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo, — disse finalmente quel monello
facendo una spallucciata».
Il fatto è, costatava Krishnamurti, «che la gente
non è seria. Giocano con le cose nuove, si divertono a passare da una cosa all’altra.
Credono che questo sia cercare, indagare, ma restano intrappolati nelle cose e
alla fine non ottengono che ceneri. Diventa sempre più difficile per gli uomini
essere seri, ascoltare, vedere ciò che sono, e non ciò che dovrebbero essere.
La maggior parte della gente dice: “Per l’amor di Dio, lasciatemi in pace! Ho
la mia casa, mia moglie, la mia macchina, la mia barca, e tutto il resto. Per
l’amor di Dio, non cambiate niente finché sarò vivo”.
Personalmente avverto un senso d’urgenza, perché
ovunque, in India, in Europa e in America, vedo inerzia, disperazione, il senso
che non vi sia speranza.
Il rapporto è di estrema importanza. Se nel rapporto
c’è conflitto, creiamo una società che ampli quel conflitto attraverso
l’educazione, attraverso i nazionalismi e tutto il resto. Una persona seria,
seria nel senso che si preoccupa e si impegna realmente, deve dare tutta la sua
attenzione al problema del rapporto, della libertà e della conoscenza».
Come arrivare a questa serietà collettiva? A questo
compito fondamentale? La soluzione lo indica l’Adepto Collodi che, in questo
punto della favola, passa alla tradizione millenaristica, la cui chiave
fondamentale sta nell’arrivo di Pinocchio nel gran teatro dei burattini..
«Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle
marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione.
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la
commedia era già incominciata.
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che
bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento
all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle
grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e
si trattavano di ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due
animali ragionevoli e due persone di questo mondo.
Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino
smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano
qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in modo drammatico:
— Numi del firmamento! Sogno o son desto? Eppure
quello laggiù è Pinocchio!…
— È Pinocchio davvero — grida Pulcinella.
— È proprio lui — strilla la signora Rosaura,
facendo capolino di fondo alla scena.
— È Pinocchio! È Pinocchio! — urlano in coro tutti i
burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. — È Pinocchio! È il nostro
fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!…
— Pinocchio, vieni quassù da me, — grida Arlecchino,
— vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! —.
A quest’affettuoso invito Pinocchio spicca un salto,
e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti
distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul
palcoscenico.
È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli
strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e
sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffio dagli
attori e dalle attrici. I burattini, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo
portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta e, accesi i lumi e i
lampadari, come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era
l’alba, e ballavano sempre».
Bellissima immagine del teatro mondiale dove gli
uomini-burattini si trovano, da un momento all’altro, pronti a scambiarsi un
carico di schiaffi e di bastonate. Ma all’alba della Nuova Era, o Età dell’Oro,
riconosciuto Pinocchio portatore della Verità, smettono di recitare il solito
dramma della vita e ballano ormai nella danza mistica della Grande Opera.
Questa umanità, l’Iniziato Charles Perrault, la fa
interpretare dalla Bella Addormentata:
«Poiché la fine dell’incantesimo era arrivata, la
principessa si svegliò e guardandolo con occhi teneri:
“Siete voi mio principe?” Gli chiese. “Vi siete
fatto molto aspettare!”».
«Chi starà attento al minimo di queste cose» scrive
Jean Cocteau «allora questi si sentirà dire:
“Ben arrivato! Da quanto tempo ti aspettammo!”».
Anche Canseliet attendeva impaziente:
«Da dove verrà, sul suo grande cavallo bianco,
l’inflessibile cavaliere della giustizia?
È davvero un danno enorme, per l’insieme degli
uomini, che non sia stato pubblicato il terzo libro di Fulcanelli, che
dipingeva la fine della gloria del mondo conformemente al suo titolo latino:
FINIS
GLORIAE MUNDI»
Nel Libro dei Morti (LXIV), il
cavaliere atteso precisa la sua venuta:
«Calcolando e tenendo in debito conto i giorni e le
ore propizie delle stelle di Orione e delle dodici divinità che le reggono,
ecco che esse congiungono le mani palmo a palmo, ma la sesta fra esse pende
sull’orlo dell’Abisso. Nell’ora della disfatta del demonio ecco che io giungo
quale trionfatore».
Lo stesso senso leggiamo nell’Apocalisse (X,
5 e segg.):
«Allora l’angelo alzò la destra verso il cielo e
giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli: “Non vi sarà più dilazione di
tempo! Ma quando il settimo angelo farà udire il suono della sua tromba,
allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato ai suoi servi, i
profeti”».
La chiave di lettura è data dalla precessione degli
equinozi. Alfredo Cattabiani ricorda che «il nostro pianeta, il cui asse è
inclinato rispetto all’attrazione solare, si comporta come un giroscopio
gigantesco che compia una rivoluzione ogni 25.920 anni.
L’inclinazione provoca un continuo spostamento
dell’equatore celeste che interseca il cerchio inclinato dell’eclittica lungo
una serie regolare di punti con moto uniforme da est a ovest. I punti dove i
due cerchi s’intersecano, sono i punti equinoziali. Il sole, pertanto,
percorrendo l’eclittica nel corso dell’anno, incontra l’equatore in un punto
che, col passare degli anni, si sposta lungo la fascia dei segni zodiacali.
Questo è quanto s’intende per precessione degli equinozi: essi “precedono”
perché si muovono in senso contrario a quello dell’ordine progressivo dei segni
zodiacali che il sole stabilisce nel suo percorso annuale. Il punto vernale,
che indica per tradizione l’inizio della primavera e dell’anno, si verificherà
via via in un segno dopo l’altro. Il che significa che il sole sorge assieme
alla costellazione rendendola invisibile. Da circa duemila anni si dice — per
comodità — che il sole equinoziale sorge nell’Ariete; ma è una convenzione
perché in realtà oggi il sole sorge nei Pesci e in futuro sarà nell’Acquario».
Ora, Giorgio Terzoli, grazie alla sua importante
scoperta, ci fa comprendere i passi profetici.
«La
Sfinge, la famosa statua del leone dal volto umano, si trova
accovacciata ai piedi della rampa precessionale di Chefren. Essa è
perfettamente allineata all’est vero, dove il sole sorge nei due giorni
equinoziali e fissava direttamente il suo corrispettivo celeste, cioè la levata
del sole equinoziale nella costellazione del Leone nell’anno 10450 a.C.[1][1] ed in quella precisa data, della costellazione del
Leone si vedeva solo la testa, il dorso e le spalle. Le stesse che appaiono
guardando la Sfinge
dal suo profilo da sud.
In quella data si verificò una congiunzione
particolarmente spettacolare, una congiunzione che coinvolgeva il momento del
sorgere del sole, la costellazione del Leone e il punto di transito sul
meridiano delle 3 stelle della cintura di Orione.
La
Sfinge e le 3 piramidi di Giza rappresentano questa
congiunzione celeste unica che segnala l’inizio dell’era precesssionale del
Leone e l’inizio del ciclo precessionale ascendente delle 3 stelle della
cintura di Orione.
Quindi la
Sfinge segnala l’ora precessionale e le 3 stelle della
cintura di Orione ci segnalano i minuti precessionali.
Le due lancette fermano l’ora di partenza del
messaggio il 10450 a.C.
La partenza del messaggio era fissata in maniera unica ed irripetibile
dall’evento astronomico sopraccitato».
Chiarito questo importante punto, Terzoli passa a
spiegare il passo profetico del Libro dei Morti:
«Le 12 divinità che reggono le stelle di Orione non
sono altro che le 12 costellazioni che incontriamo per effetto della
precessione.
“Ecco che esse congiungono le mani palmo a palmo”,
con il simbolismo questa immagine poetica ribadisce il lento incedere della
precessione. “Ma la Sesta
fra esse pende sull’orlo dell’Abisso”.
Quindi partendo dalla data di partenza segnalataci
dalla Sfinge e dalle tre stelle della cintura di Orione, possiamo contare che
ora precessionale ci viene segnalata: lasesta. Partendo ovviamente
dall’era del Leone che è la prima, Cancro la seconda, Gemelli la terza, Toro la
quarta, Ariete la quinta e infine Pesci la sesta, ora precessionale partendo
dall’era del Leone. Quindi, l’orlo dell’abisso è alla fine della sesta ora
precessionale, partendo dall’era del Leone, quindi la fine dell’era dei Pesci,
il nostro tempo».
È così chiarito l’enigma della grande attesa della
Sfinge. Lei ha atteso per millenni l’equinozio di primavera dell’era
dell’Acquario. Così, nella nostra epoca, all’equinozio di primavera, fissando
la costellazione dell’Acquario, torna allegoricamente a guardare se stessa,
poiché riguarda l’era della sua rivelazione, come conferma San Matteo (XXIV,
14):
«Quando questo Vangelo del Regno sarà predicato in
tutta la Terra
abitata, come testimonianza a tutte le genti, allora verrà la fine».
«La
Sfinge protegge e domina la Scienza», si legge
all’inizio de Il mistero delle cattedrali di Fulcanelli.
Terzoli ci segnala, inoltre, che il messaggio delle
piramidi e della Sfinge si ritrova, pressoché identico, nei templi di Angkor in
Cambogia.
«Mentre le tre stelle della cintura di Orione sono
state riprodotte sul terreno della piana di Giza, in Egitto nel punto più basso
di culminazione, il Nadir, le stelle della costellazione del Drago, sono state
riprodotte sulla terra con i templi di Angkor allo zenit, nel punto di
culminazione più alto, esattamente come esse si trovavano per effetto della
precessione degli equinozi nel 10450
a.C.
Lo stesso messaggio, gli stessi strumenti, la stessa
data di partenza (il 10450 a.C.
o l’era del Leone), la stessa data di arrivo (fra la fine dell’era dei Pesci e
l’inizio di quella dell’Acquario), le stesse similitudini, gli stessi numeri
per calcolare il fenomeno precessionale, gli stessi miti e la stessa identica
maniera di esprimersi tra due popolazioni, che secondo la scienza ufficiale non
hanno avuto nessun tipo di contatto.
Tutti gli autori, sia antichi sia moderni, che
trattano dell’argomento, non l’anno fatto se non sotto il velo dei geroglifici,
degli enigmi, delle allegorie e delle favole».
Infatti, Terzoli fa notare che il messaggio è
continuato nel tempo tra tutte le civiltà. Ecco due punti fondamentali:
«I Sumeri si stabilirono in Mesopotamia nel 4000 a.C., cioè all’inizio
dell’era precessionale del Toro.
In una loro raffigurazione troviamo il dio solare
Tesup, che indossa un copricapo con corna e sta in piedi davanti ad un toro.
Il carattere solare della divinità è ribadito dai
disegni del vestito e del copricapo, interamente cosparsi di simboli solari.
La posizione precessionale del sole è indicata dal
simbolo del toro, che indica l’era precessionale del Toro. Per precisione i
Sumeri ci segnalano che il sole si trovava all’inizio dell’era precessionale
del Toro, (4320 a.C.)
infatti, la divinità è sulla parte iniziale della costellazione del toro, cioè
le corna, indicandone così l’inizio.
La mano destra della divinità indica che sono già
passate tre ere precessionali (Leone, Cancro e Gemelli) e tre ne mancano alla
fine del messaggio (Toro, Ariete e Pesci).
Praticamente i Sumeri ci segnalano che la loro era
precessionale (inizio dell’era astronomica del Toro), è esattamente alla metà
del lungo messaggio che contempla ben sei ere precessionali.
Vediamo ora il messaggio aggiornato alla metà
dell’era astronomica dei Pesci. In una miniatura che si trova nella cattedrale di
Burgo de Osma (Soria, Spagna), realizzata attorno all’anno 1000 d.C.
Il soggetto della miniatura spagnola è quello
dell’Apocalisse di San Giovanni, infatti ritroviamo la bestia con le 7 teste,
indicante le 7 ere precessionali che il Sole deve attraversare per giungere
dall’era astronomica del Leone, all’inizio dell’era dell’Acquario. (Tutte le
teste della bestia hanno come diadema il simbolo solare.)
I 6 pesci
sotto la bestia nera indicano il lento incedere precessionale che il sole deve
attraversare prima di arrivare all’abisso, in cui è atteso dal grande serpente
o Dragone, alla fine dell’era precessionale dei Pesci (il settimo sigillo).
Il pesce nero, dove la bestia sta cavalcando, indica
chiaramente che nell’anno 1000 d.C. (epoca in cui è stata eseguita la
miniatura) il sole era all’incirca alla metà della costellazione dei Pesci. Gli
autori della miniatura sono perfettamente a conoscenza del messaggio
astronomico, infatti l’era astronomica precessionale, la metà della
costellazione dei Pesci è perfettamente in sintonia con la posizione del sole,
quando la miniatura è stata eseguita (il 1000 d.C.).
Le sette teste della bestia, con i simboli solari,
indicano la partenza del messaggio dall’era precessionale del Leone».
Collodi, lo spauracchio della “fine del mondo”, lo
fa interpretare da Mangiafuoco.
«All’apparizione inaspettata del burattinaio,
ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca.
Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano come tante foglie. Il
burattinaio era un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo.
Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che
gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la
pestava con i piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi
parevano due lanterne di vetro rosso col lume acceso di dietro, e con le mani
schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe
attorcigliate insieme».
Spesso la scienza ermetica è personificata in modo
brutto e spaventoso, perché reca la morte mistica. Ricordiamo la brutta strega
che donò la mela — simbolo di conoscenza — a Biancaneve, interprete
dell’umanità. La stessa popolare Befana non è meno brutta, anche se benevole
perché reca i doni… Fulcanelli ci insegna che si tratta della Madre pazza, «una
vecchia incappucciata e assai brutta. Ora la madre dei pazzi, la Madre pazza, non è altro che
la nostra scienza ermetica, considerata in tutta l’estensione del suo
insegnamento».
L’aspetto di Mangiafuoco ricorda quello del Baphomet
dei templari.
Fulcanelli segnala che anche l’anonimo Adepto di
Lisieux aveva scolpito, sul pilastro centrale del primo piano della sua
abitazione, «un’enorme testa che fa una smorfia, provvista d’una barba a punta.
Le gote, le orecchie, la fronte sono stirate fino a prendere l’aspetto
d’estensioni infiammate. Questa maschera fiammeggiante, dal ghigno poco
simpatico, appare incoronata e provvista di appendici a forma di corna
infiocchettate. Con le sue corna e la sua corona, il simbolo solare assume il
significato di vero e proprio Baphomet. Figura parlante, gravida
d’insegnamento, nonostante la sua estetica rozza e primitiva. Se per prima cosa
si ritrova la fusione mistica delle nature dell’Opera, non si è meno sorpresi
dall’espressione strana, che rispecchia un ardore struggente, espressa da
questo viso inumano, spettro del giudizio universale. E perfino la barba,
geroglifico del fascio luminoso e igneo proiettato verso terra, esprime sino a
che punto il nostro Sapiente possedesse la conoscenza esatta del nostro
destino…
La teoria ciclica, parallelamente alla teoria di
Ermes, vi è esposta tanto chiaramente che, a meno d’essere ignoranti e in
malafede, non si potrebbe mettere in dubbio la scienza del nostro Adepto».
«Il burattinaio Mangiafoco che (questo era il suo
nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella barbaccia
nera che, a uso di grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma
nel fondo, poi, non era un cattiv’uomo…
A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece
subito il bocchino tondo, e diventò, tutt’a un tratto, più umano e più
trattabile».
Bisogna accettare l’irrefutabile verità,
l’eccellenza della scienza di Ermes. Come insegna il Baphomet, questa
scienza ha posseduto sempre una doppia conoscenza esoterica, quella
dell’insegnamento filosofico per la realizzazione della Grande Opera, e quella
profetica riguardante l’Età dell’Oro.
Fulcanelli fa notare pure che le opere di Perrault,
«I racconti di mia madre l’Oca, sono delle favole ermetiche nelle quali
la verità esoterica si mescola allo sfondo dei Saturnales, del Paradiso e
dell’Età dell’Oro.
Nell’Età dell’Oro, l’uomo rinnovato, ignora
qualsiasi religione, rende solo grazie al Creatore, il cui Sole, la sua più
sublime creazione, gli sembra che ne rifletta l’immagine ardente, luminosa e
dispensatrice di bene. Rappresentante visibile dell’Eterno, il Sole è anche la
testimonianza visibile della sua grandezza e della sua bontà. In seno
all’irraggiamento dell’astro, l’uomo ammira le opere Divine, senza
manifestazioni esteriori, senza riti e senza veli[1][2]».
Quindi, Mangiafuoco, interpreta pure il soggetto dei
saggi. In questo modo, la barba che giunge fino a terra, è simbolo
d’illuminazione che si condensa, che si assimila. È nera per indicare la sua
mortificazione, la sua uccisione. È anche a guisa di grembiale, altro
importante punto della pratica, il senale, il seno che porta il bambino.
Quella barba Mangiafuoco se la calpestava coi piedi, emblemi dell’inferiorità.
La sua bocca larga come un forno, attrezzo
indispensabile nel lavoro alchemico. Gli occhi di vetro rosso. Fulcanelli
scrive che «la sibilla, interrogata sulla definizione di filosofo, rispose: “È
colui che sa fare il vetro”». Il colore rosso simbolo del fuoco e dello spirito
che ritroviamo fino alla sazietà, e la luce accesa di dietro, cioè quella
interna o interiore che è stata accesa.
La terribile frusta, che aveva in mano, è una
magnifica traduzione del caduceo, in cui i serpenti (volatile) e le code
(fisso) ripetono le trasformazioni delle due nature primitive.
Così, nel ruolo del soggetto dei saggi, Mangiafuoco,
«dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté più e lasciò andare un
sonorosissimo starnuto. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente
le braccia a Pinocchio:
— Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qui da me e
dammi un bacio. —
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno
scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio
sulla punta del naso».
È locuzione corrente augurare salute a chi
starnutisce, oppure, è usanza chiedere: «Hai guadagnato molti soldi?». Ai
bambini, invece, si augura loro di «crescere santi».
Il bacio sulla punta del naso si tratta, senz’altro,
di un capriccio del nostro Adepto e variante singolare del mistico bacio del
principe azzurro alla principessa.
Mangiafuoco che, come vuole il suo nome, è il
divoratore del fuoco solare — espressione ermetica dello Spirito Universale —
fece dono a Pinocchio di cinque monete d’oro, simboli di quintessenza, e
questi, lasciato la compagnia dei burattini «si mise in viaggio per tornarsene
a casa sua.
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che
incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e e
due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni
compagni di avventura. La Volpe,
che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto che era cieco, si
lasciava guidare dalla Volpe».
Il gatto e la volpe sono gli emblemi dei nostri due
principii: il fisso è interpretato dalla volpe, come insegna il duello
esoterico contro il gallo che si può osservare nella cattedrale di Parigi, e
riportato pure da Basilio Valentino, mentre, spiega Fulcanelli, che «sono i
baffi del gatto che hanno fatto dare questo nome al piccolo felino; non ci si
sogna neanche che essi nascondono un altro punto della scienza, e che questa
segreta ragione valse al grazioso animale, l’onore di essere elevato al rango
delle divinità egiziane».
L’identificazione più lampante ci è data dal fatto
che la volpe zoppica e il gatto è cieco. Il nostro Adepto fa comprendere
chiaramente che la causa è stata lo studio della scienza sublime.
«— Guarda me! — disse la Volpe. — Per la passione
sciocca di studiare ho perduto una gamba.
— Guarda me! — disse il Gatto. — Per la passione
sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi».
Tuttavia, nella tradizione del Chiliasmo, si
sottolinea la situazione del mondo, dove i “furbi” cercano sempre di
turlupinare gli “ingenui”. Così, quando Pinocchio tirò fuori le monete d’oro,
«al simpatico suono di quelle monete, la volpe, per un moto involontario,
allungò la gamba che pareva rattrappita, e il gatto spalancò tutti e due gli
occhi, ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non s’accorse di
nulla…
La
Volpe di punto in bianco disse al burattino:
— Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?
— Cioè?
— Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne
cento, mille, duemila? Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla
fortuna.
— Alla fortuna! — ripeté il Gatto.
— I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani
sarebbero diventati duemila.
— Duemila! — ripeté il Gatto.
— C’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo
dei Miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per
esempio uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi
con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera
te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino
germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che
cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi
di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.
— Sicché dunque — disse Pinocchio sempre più
sbalordito — se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina
dopo quanti zecchini ci troverai?
— È un conto facilissimo — rispose la Volpe — un conto che puoi
farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di
cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina ti
trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti.
— Oh che bella cosa! Gridò Pinocchio, ballando
dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò
per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri
due.
— Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e
chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!
— Te ne liberi! — ripeté il Gatto.
— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi
lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.
— Gli altri! — ripeté il Gatto».
Le ripetizioni del gatto insegnano che le
illuminazioni devono ripetersi frequentemente all’inizio della pratica.
Ricordiamo che soltanto queste aiutano la mente a stabilizzarsi nella verità,
nella pace dei due elementi.
Il Campo dei Miracoli non è altro che «il campo del
Signore che dà frutti immortali» del quale parla il cardinale Cusano.
La moltiplicazione degli zecchini equivale ad
un’altra allegoria ermetica. Fulcanelli ci dice che «la moltiplicazione può
essere realizzata grazie all’aiuto del mercurio, che nell’Opera ha il ruolo di
paziente. Mediante cotture e fissazioni successive. Il paziente funge da
ricettacolo e da vaso all’energia contraria della natura avversa».
Infine, la solidarietà e la bontà del gatto e della
volpe, possiedono la variante ermetica negli gnomi che, ricorda Fulcanelli,
«preposti alla guardia dei tesori minerali, vegliano senza sosta sulle miniere
d’oro e d’argento, sui giacimenti di pietre preziose. Il loro carattere è
benevole, le relazioni con loro estremamente favorevoli. Sotto questo aspetto
si comprende facilmente la ragione occulta dei racconti e delle leggende, nelle
quali l’amicizia di uno gnomo spalanca le porte delle ricchezze terrestri».
«Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della
sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso».
Fulcanelli insegna che «la seconda operazione è
assolutamente simile alla prima, e la terza operazione, eseguita come le altre
due, ci dà la Pietra
Filosofale».
Così, i tre principii (gatto, volpe e Pinocchio),
dopo aver camminato per tre volte durante la giornata filosofica, arrivarono
alla sera dell’Opera alla realizzazione finale (stanchi morti): il Gambero
Rosso, con il colore proprio della Pietra Filosofale.
Mentre Pinocchio dormiva all’osteria, «si trovò
svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta della
camera. Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era suonata».
A questo brusco risveglio iniziatico nessuno neofita
si è potuto sottrarre.
A mezzanotte nasce il Bambinello, la luce
manifestata nella materia. La tradizione popolare insegna che i fantasmi
sorgono a mezzanotte. I fantasmi simboleggiano coloro che “tornano” sempre,
cioè che si reincarnano.
Friedrich Heiler cita un illuminante verso delle
Upanishad:
«Anche chi è stanco del mondo dovrà tornarvi sempre
di nuovo».
Friedrich Nietzsche aggiunge:
«Ahimè, l’uomo eternamente ritorna! L’uomo più vile
ritorna eternamente».
Dante Alighieri[1][3] per bocca di Virgilio, chiede:
«Ma tu perché ritorni a tanta noia? Perché non sali
il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Soltanto grazie alla Grande Opera» conferma
Canseliet «è possibile sfuggire, quaggiù, al tracciato inesorabile della curva
fatale, dapprima ascendente, poi discendente e regressivo, e sottrarsi al
processo inevitabile della nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia, concluso
dalla decrepitezza e dalla morte».
La soluzione, quindi, è il risveglio iniziatico, o
dell’intelligenza.
Così, aggiunge Dante[1][4] che «nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai
per una selva oscura».
È la stessa cosa accadde a Pinocchio, una volta
fuori dell’osteria trovò il buio assoluto.
«Si può dire che partisse a tastoni, perché fuori
dell’osteria c’era un buio così buio che non si vedeva da qui a lì».
Questo passo ricorda, come scrive Canseliet,
«l’ingegnoso Hidalgo della Mancia — el ingenioso Hidalgo de la Mancha — La storia di
Don Quijote ci racconta per trasparenza quella del mercurio dei saggi, il cui
inizio si delinea molto singolarmente sin dal capitolo IV in cui Miguel
Cervantes ci parla “di ciò che avveniva al nostro cavaliere quando uscì
dall’albergo”.
Ciò che colpisce innanzitutto, in questa prima
impresa del cavaliere appena armato tale, sta in ciò che precisano le due
subordinate poste tra parentesi dall’autore:
(perché vi era anche una lancia appoggiata contro la
quercia cui era attaccata la giumenta)».
L’osteria simboleggia il luogo di ogni appagamento
psicologico che il neofita abbandona per atto d’intelligenza.
Quindi, fuori dall’albergo al neofita lo attende la
giumenta e la lancia. Nel medioevo, scrive Fulcanelli, per «accedere alla
pienezza del sapere, si inforcava metaforicamente la cavale, veicolo
spirituale, la cui immagine tipo è il Pegaso alato dei poeti ellenici».
La lancia, invece, gli serve per combattere contro
la rozza materia.
«Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare
una foglia. Solamente alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una
siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale
facendo un salto indietro per la paura, gridava: — Chi va là? — e l’eco delle
colline circostanti ripeteva in lontananza — Chi va là? Chi va là? Chi va là —
Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un
albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un
lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente
— Chi sei? — gli domandò Pinocchio.
— Sono l’ombra del grillo parlante — rispose
l’animaletto, con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là».
Gli uccelli notturni rappresentano il volatile che
si ripetono sul naso (fisso) di Pinocchio. Queste necessarie ripetizioni
durante la seconda operazione filosofale, le ritroviamo pure nell’eco, fenomeno
utilizzato sin dall’antichità.
Si narra che Narciso, non ricambiando l’amore della
ninfa Eco, costei si strusse d’amore per lui fino alla morte; allora Nemesi, la
dea della vendetta, fece innamorare Narciso della propria immagine riflessa in
una pozza d’acqua di sorgente dove anche lui trovò la morte.
Il significato è che Eco, la psiche, rispondendo,
trova la propria morte come la stessa illuminazione.
Fulcanelli insegna, pure, che «la materia prima,
quella che serve a preparare l’Opera, è chiamata specchio dell’arte».
Bella pure la simbologia della lampada trasparente.
Fulcanelli segnala che «Senior Zadhit rinchiude,
dentro una sfera trasparente, un agonizzante magrissimo. Henri de Linthaut
disegna su di un foglio del manoscritto l’Auror, il corpo inanimato d’un
re incoronato, steso sulla pietra tombale, mentre il suo spirito, sotto
l’aspetto di un angelo, s’innalza verso una lanterna perduta tra le nubi. Ed
anche noi, seguendo questi grandi Maestri, abbiamo sfruttato lo stesso tema nel
frontespizio del Mistero delle Cattedrali».
Spicca, per la sua forza espressiva, il disegno di
Henri de Linthaut. Qui si vede, infatti, la psiche rinnovata — perciò reso
angelo — che tende verso la
Lanterna o l’Illuminazione che, perduta tra le nubi, risulta
totalmente e assolutamente lontana da qualsiasi azione terrena che voglia
raggiungerla.
È lo stesso simbolismo che si ritrova nelle
Cattedrali. Fulcanelli spiega che queste «presentano, all’interno, quelle
ardite volte incrociate a sesto acuto, la cui invenzione appartiene totalmente
ai Frimasons, gli Illuminati costruttori del medioevo. In tal modo i
fedeli, nei templi medioevali, si trovavano posti tra due croci, l’una
inferiore e terrestre, sulla quale camminano — immagine del loro calvario
quotidiano — l’altra superiore e celeste, verso la quale aspirano, ma che
possono raggiungere soltanto con lo sguardo».
Questa croce terrestre — risultato delle nostre
passate azioni — scemerà man mano che si procede durante l’elaborazione
dell’Opera.
Infatti, la Scienza antica rivela che sebbene abbiamo tutti
il nostro scotto da pagare nel nostro Purgatorio, «dove l’umano spirito
si purga e di salire al Cielo diventa degno», come scrive Dante (I,5-6),
tuttavia questo Iniziato ci assicura che le scale scavate nel sasso (XII, 97)
diventano meno faticose quanto più si avanza verso l’alto (XII, 121 e segg.).
Arriviamo al punto in cui Pinocchio s’imbatte coi
briganti, o assassini.
«Si voltò a guardare e vide nel buio due figuracce
nere tutte imbacuccate in due sacchi di carbone, le quali correvano dietro a
lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi».
Gli assassini inseguirono Pinocchio per lungo tempo,
«e gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.
Intanto cominciava a baluginare il giorno e si
rincorrevano sempre.
Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio
sul punto di gettarsi a terra e di darsi per vinto, quando nel girare gli occhi
all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in
lontananza una casina candida come la neve…
Si affacciò alla finestra una bella bambina, coi
capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e
le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse
con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
— In questa casa non c’è più nessuno. Sono tutti
morti.
— Aprimi almeno tu! — gridò Pinocchio piangendo e
raccomandandosi.
— Sono morta anch’io.
— Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?
—Aspetto la bara che venga a portarmi via —
Appena detta così, la bambina disparve, e la
finestra si richiuse senza far rumore».
Come si sa, Pinocchio fu raggiunto dal gatto e dalla
volpe che, catturatolo, non riuscirono a rubargli le monete d’oro che si era
messo in bocca. Allora «gli legarono le mani dietro le spalle e, passatogli un
nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa
pianta detta la Quercia
grande… e gli dissero sghignazzando:
— Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si
spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca
spalancata».
«È il caso qui — scrive Canseliet — di avvicinare
cabalisticamente la parola francese chêne (quercia) non sibilato in
lingua d’öil, il termine greco chen, che indica l’oca e il cui
radicale, chainô, significa aprirsi, schiudersi (la vecchia quercia cava
di Nicolò Flamel) essere spalancato, avere la bocca spalancata».
Fulcanelli aggiunge che «la quercia è sempre stata
scelta, dagli autori Antichi, per indicare il nome volgare del soggetto
iniziale, come lo si trova in miniera».
Ricordiamo che pure il Vello d’Oro era appeso alla
quercia ermetica. La quercia cava è una variante esoterica del vaso dei
filosofi. Quindi, la bocca spalancata si traduce in mente aperta, intelligenza
risvegliata.
Bella pure l’allegoria di Pinocchio che fugge
inseguito da due figuracce nere. Egli interpreta il servus fugitivus
dell’Opera, mentre le due nature primitive (nere o assimilate) sono intende
sempre a catturarlo instancabilmente per tutto il lavoro del Magistero.
All’interno del bosco ermetico si trova la casina
bianca. La fantasia del nostro Adepto è encomiabile. Il soggetto che ci
interessa è puro e si trova in mezzo al “verde cupo”.
Fulcanelli, ricordandoci la purezza della donna
dell’Opera, scrive che «il mercurio filosofico nasce solo da una sostanza pura,
e Gesù nasce da una madre senza macchia».
E per essere più precisi, Fulcanelli spiega pure che
il mercurio filosofico, il nostro bambino ermetico, «è proprio lui che occupa
il ruolo della femmina nel lavoro». Infatti, è proprio questa sua natura che le
permette di catturare il fuoco solare.
Il nostro Adepto, puntuale, ci dice che si tratta di
una bella bambina dai capelli turchini o bluastri, geroglifici dei raggi solari
condensati. Ella si trova nella sua morte mistica con le mani incrociate nel
segno dell’illuminazione.
Tramite la bambina ermetica esiste una tradizione
piuttosto curiosa legata alle capigliature delle nostre bambine. È, infatti,
usanza farle un paio di trecce che ricordano il doppio mercurio dei saggi, ma
il recondito significato sta nelle trecce.
Fulcanelli insegna che «le trecce della capigliatura
è il geroglifico dell’irraggiamento solare, e indicano che l’Opera, sottomessa
all’influenza dell’astro, non può venir eseguita senza la collaborazione
dinamica del Sole. La treccia, chiamata in greco seirá, è adottata per
raffigurare l’energia vibratoria, perché presso gli antichi popoli ellenici il
sole si chiamava Seír».
Torniamo a Pinocchio appeso alla Quercia grande. San
Paolo (Galati III, 13) scrive: «Maledetto chi pende dal legno».
Canseliet aggiunge: «Totus mundus in maligno
(mali ligno) positus est; tutto il mondo è basato sul diavolo (sull’albero
del male)».
La quercia è stato introdotto con diritto di
cittadinanza fra le figure dell’iconografia ermetica per la durezza del suo
legno, che traduce la durezza di comprendonio, infatti, la scure (simbolo
d’illuminazione) spesso vi rimbalza.
Essere appeso, cioè essere sollevato da terra,
indica il distacco dalle cose terrene. Nel rituale dei fuochi di san Giovanni,
i rami che erano stati passati sul fuoco (illuminazione) venivano appesi alle
travi perché dovevano, in conseguenza di questo fatto, senza terra, senza
acqua, sospesi nell’aria, crescere, fiorire e fruttificare.
La corda dell’impiccagione è anche la cintura
d’iride che separa la testa (emblema del mercurio filosofico) dal resto del
corpo inferiore (grossolanità).
«In quel mentre che il povero Pinocchio impiccato
dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva ormai più morto che
vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra,
e impietositosi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava
il trescone alle ventate di tramontana, batté per tre volte le mani insieme, e
fece tre piccoli colpi.
A questo segnale si sentì un gran rumore di ali che
volavano con foga precipitosa, e un grosso falco venne a posarsi sul davanzale
della finestra.
— Che cosa comandate, mia graziosa fata? — disse il
Falco abbassando il becco in atto di riverenza: (perché bisogna sapere che la Bambina dai capelli
turchini non era altro in fin dei conti che una bonissima Fata che da più di
mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco).
Abbiamo visto che il grillo-parlante abitava da
cent’anni nella casa, ora la fata da mill’anni. Questi numeri appartengono alla
tradizione millenaristica. È un invito dell’Adepto a ciò che si osservi la
favola soprattutto sotto questo insegnamento.
La fata ricorre in molte favole e leggende popolari.
Giovanni Pansa scrive che «una grotta che si trova
tra le montagne gemelle di Campli e Civitella del Tronto (TE), è chiusa da un
macigno chiamato “Porta di Ferro”. All’interno si trova una fata intenta a
filare notte e giorno, e nello stesso tempo è posto a guardia di tre grossi
mucchi di prezioso metallo: uno di rame, l’altro d’argento e il terzo d’oro.
Bisogna penetrare in questa grotta durante la notte
profonda. Ogni tre anni. Nel primo anno prendi a tuo piacimento le monete di
rame, nel secondo le monete d’argento e nel terzo quelle d’oro».
La fata, quindi, fila per tutte e tre le operazioni
della Grande Opera.
La fata di Pinocchio ordinò al falco di togliere il
burattino dalla quercia. Dopo che il falco ebbe eseguito il compito, «allora la Fata, battendo le mani
insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un magnifico Can-barbone».
Questo cane ebbe il compito di andare a prendere il
burattino con una carrozza e lo trasportò dalla «Fata che stava aspettando
sull’uscio di casa, prese in collo il povero burattino, e portatolo in una
cameretta che aveva le parete di madreperla, mandò subito a chiamare i medici
più famosi del vicinato.
E i medici arrivarono subito, uno dopo l’altro:
arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante».
«La civetta» spiega Canseliet «è l’emblema della
saggezza e del suo fuoco segreto. L’uccello notturno fu consacrato a Minerva,
perché vede nelle tenebre. Straordinaria similitudine dovuta non alla vista, ma
al sesto senso che l’uomo non possiede, se non per mezzo dello specchio della
Natura».
Qui si trova il motivo nascosto perché popolarmente
si dà il nome di civetta alle donne che amano attirare l’attenzione degli
uomini. È il principio femminile che attrae quello maschile.
Il corvo fece la sua diagnosi:
«A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se
per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre
vivo!».
Ritroviamo lo stesso tema del vive e non vive dei
cicli del Graal.
Si noti pure la barba del cane, geroglifico
d’illuminazione proiettato verso terra.
Fulcanelli ci fa comprendere la similitudine tra il
cane e il corvo, scrivendo che «il Filosofo Artephius parla, infatti, del cane
di Khorassan e della cagna di Armenia, emblemi dello zolfo e del
mercurio genitori della pietra. Ma mentre la parola Armenos, che
significa ciò di cui si ha bisogno, ciò che è preparato e convenientemente
disposto, indica il principio passivo e femminile, il cane di Khorassan,
o zolfo, ricava il suo appellativo dalla parola greca kórax, equivalente
al nostro corvo».
Come abbiamo detto, questi particolari sono
sufficienti per dimostrare sia l’alta istruzione nei misteri dell’Arte sacra
posseduta dal nostro Adepto, sia la stessa conoscenza dei diversi geroglifici
adottati dai suoi predecessori. È quanto insegna il Vangelo di Matteo (XIII,
52):
«Per questo ogni scriba divenuto discepolo del Regno
dei Cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e
cose antiche».
Eliphas Levi scrive che «in Oriente, una setta di
cristiani gioanniti, pretendevano che i fatti narrati nei Vangeli non fossero
che delle allegorie di cui Giovanni (XXI, 25) dà la chiave dicendo che
“si potrebbe riempire il mondo di libri, se si scrivessero le parole e gli atti
di Gesù Cristo”; parole che, secondo essi, non sarebbero che una ridicola
esagerazione, se non si trattasse, infatti, d’una allegoria che si può variare
all’infinito».
«Appena i tre medici furono usciti dalla camera, la Fata si accostò a Pinocchio,
e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un
febbrone che non so dire.
Allora sciolse una certa polverina bianca in un
mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:
— Bevila e in pochi giorni sarai guarito —
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la
bocca, e poi dimandò con voce di piagnisteo:
— È dolce o amara?
— È amara, ma ti farà bene.
— Se è amara non la voglio.
— Da retta a me: bevila…
Pinocchio prese di malavoglia il bicchiere in mano e
vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a
ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
— È troppo amara! Troppo amara! Io non la posso
bere.
— Come fai a dirlo, se non l’hai nemmeno
assaggiata?».
Anche Dante[1][5] esclama: «Tanto è amara, che poco è più morte».
Questo è precisamente il libro dell’angelo dell’Apocalisse
(X, 9) che tiene il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra, e
che invita a mangiarlo:
«Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le
viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele».
«Noi sappiamo quanto costa barattare i diplomi, i
sigilli e le pergamene, in cambio dell’umile mantello del filosofo». Confida
pure Fulcanelli «A ventiquattr’anni, abbiamo dovuto bere fino all’ultima goccia
questo calice amaro. Col cuore in pena, vergognandoci degli errori commessi nei
nostri anni giovanili, abbiamo dovuto bruciare libri e quaderni, confessare la
nostra ignoranza e, modesti neofiti, abbiamo decifrato un’altra scienza sui
banchi di un’altra scuola».
Siccome questa scienza in bocca è dolce come il
miele, anche Pinocchio ricevette dalla fata una «pallina di zucchero», e dopo che
ebbe bevuta la medicina, e rimessosi, «la Fata gli disse:
— Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?
— Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!…
— E allora come mai ti sei fatto tanto pregare per
berla?
— Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo
più paura delle medicine che del male».
Dopo, a ogni domanda della fata, Pinocchio iniziò a
rispondere con una bugia, e ad ogni bugia il suo naso, che ha reso famoso il
burattino, si allungava sempre di più.
È l’immagine dell’egoismo esaltato dalla falsità.
Collodi l’aveva già fatto notare da quando Geppetto, rappresentante dell’uomo
comune, “costruiva il suo burattino per bene”.
«Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma
più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo».
«Saper di aver mentito e non giustificarsi, ma
vedere la realtà del fatto, questo è onestà» spiega Krishnamurti «e in questa
onestà c’è grande bellezza. La bellezza non urta nessuno. Dire di essere
bugiardo è un riconoscimento della realtà; è riconoscere un errore come tale.
Ma trovare ragioni, scuse o giustificazioni alla cosa è disonestà, e in questo
c’è autocommiserazione. L’autocommiserazione è la tenebra della disonestà.
Uno dice una cosa che non pensa, forse per dare una
parvenza di sicurezza, o perché è nervoso, timido, o si vergogna di dire una
cosa che realmente è. Così l’apprensione nervosa e la paura ci fanno disonesti.
L’onestà non è l’opposto della disonestà. L’onestà
non è un principio. Non è conformarsi, ma piuttosto la percezione totale di ciò
che è. E la meditazione è il movimento di questa onestà nel silenzio».
Dopo che la fata ebbe fatto tornare il naso a
dimensioni normali con l’aiuto degli uccelli — volatili — Pinocchio chiede di
poter rivedere suo padre — il Padre Celeste — e la fata gli assicura che «prima
che faccia notte sarà qui», alludendo alla sera dell’Opera, e per incontrarlo
gli consigliò di non perdersi: «Prendi la via del bosco e sono sicura che lo
incontrerai».
Durante il cammino nel bosco tornò a incontrare il gatto
e la volpe, questa volta non mascherati, e gli raccontò come degli assassini
l’avevano inseguito e impiccato.
«E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì
a due passi.
— Si può sentir di peggio? — disse la Volpe. — In che mondo siamo
condannati a vivere? Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini?».
Questo rifugio indica la zona di salvezza o di
misericordia del millenarismo che, come abbiamo visto, è ormai alle porte; e
l’Adepto ha cura di dire che la
Quercia era lì a due passi…
Fulcanelli, descrivendo l’obelisco di
Dammartin-sous-Tigeaux (Seine et Marne) scrive che «dalla parte meridionale si
può vedere l’immagine d’una vecchia quercia scolpita in bassorilievo.
Se interroghiamo la quercia di pietra, ci può
rispondere che i tempi sono vicini, perché essa ne è il presagio figurato. E
l’Iniziato al quale dobbiamo l’obelisco, ebbe cura di scegliere la quercia come
frontespizio della sua Opera, come prologo cabalistico di puntualizzare nel
tempo l’epoca nefasta della fine del mondo».
Giorgo De Rienzo scrive che «a Pinocchio
l’esperienza è negata, la capacità di collegare tra loro dati e indizi non è
concessa».
La conseguente situazione di una mente simile è che
può essere preda d’individui più scaltri. Infatti, il burattino si lasciò abbindolato
dal gatto e dalla volpe che tornarono a consigliargli di seminare le monete
d’oro. Ma Collodi ci fornisce pure un generale quadro di quanto avviene nel
mondo.
«Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a
una città che aveva nome “Acchiappacitrulli”. Appena entrato in città,
Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati che sbadigliavano
dall’appetito, e di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste
senza creste e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina di un chicco di
granoturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano
venduto le loro bellissime ali colorate, di pavoni tutti scodati, che si
vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti, cheti,
rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, ormai perdute per
sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri
vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro
qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio da rapina».
Ritroviamo, in quest’allegorico e parlante quadro,
l’immagine della situazione del mondo.
Krishnamurti afferma, al riguardo, che «voi siete il
mondo, il mondo che voi avete creato con la vostra ambizione, con la vostra
cupidigia, con i vostri interessi economici, con le vostre guerre. Suppliziare
gli animali per procurarvi il cibo. Voi l’avete costruito questo mondo, fa
parte di voi. Così voi siete il mondo e il mondo è voi; non c’è nessuna
divisione fra voi e il mondo.
Nel momento in cui ci sarà un cambiamento radicale
in ciò che siamo, porteremo la pace nel mondo. Vivremo liberamente — non
licenziosamente — ma felicemente, gioiosamente. Vivremmo tutti perfettamente al
sicuro. Saremmo tutti protetti, tutti avremmo cibi e case. Non vi sarebbero
guerre, saremmo tutti una cosa sola. Lui è mio fratello, io sono lui. Lui è
me».
Nella città simbolica, dunque, vivono gli accattoni,
cioè quelli poveri di alta scienza. Qui troviamo i cani, rappresentanti delle
forze dell’ordine e sempre pronti a difendere qualsiasi ordine costituito.
Poi vi sono le pecore, simboli del popolo laborioso
e sempre tosato, sia che viva sotto un regime cosiddetto democratico sia
totalitario. Le stesse galline starnazzanti, rappresentanti di quella parte del
popolo impegnata socialmente e politicamente, sono abilmente raggirate —
private di creste e di bargigli — da qualche uccellaccio da rapina.
Seguono gli artisti, simboleggiati dalle belle
farfalle, costretti, però, a vendere i loro talenti e adattarsi alla forma di
mercato corrente. Arrivano, poi, i cosiddetti nobili pavoni dell’aristocrazia,
anch’essi, comunque, scodati da qualche signorile volpe.
La classe dominante, dunque, e, per estensione, la
classe politica, è magistralmente indicata dalle perfide figure che occupano le
carrozze signorili. Il direttore di un settimanale scrive a proposito di tutta
la classe politica:
«Vogliono il potere, solo il potere. E per averlo
sono tutti in gara, dal più piccolo partito al più grande, pronti a scannare la
propria madre, a dire più bugie di Pinocchio e a tradire amici e parenti.
La politica, come la vediamo noi sudditi, è davvero
troppo sporca».
«In questo mondo c’è grande tormento» conferma
Krishnamurti «immenso dolore, guerra, brutalità, violenza; c’è la fame, di cui
non sapete nulla. L’uomo non ha ordine dentro di sé e quindi ciò che tocca
diventa sporco e caotico. La sua politica è diventata una raffinata
associazione per delinquere per il potere, una truffa individuale o nazionale,
un gruppo contro l’altro. La sua economia è immorale, nella libertà e nella
tirannia.
L’uomo d’affari, il politicante e quasi ogni essere
umano, segue, sotto la maschera della rispettabilità, i propri desideri e
appetiti nascosti.
Quello che la maggior parte della gente chiama
intelligenza, è semplicemente abilità in qualche attività tecnica, o furberia
in affari o inganno in politica.
Gli sconsiderati e gli stolti sono sempre accecati
dalle loro promesse e dalle loro speranze.
Abbiamo avuto capi in abbondanza, politici, economici, religiosi, settari, e
sono stati completamente impotenti, capi che hanno le proprie teorie, i propri
metodi, e ci sono migliaia di persone che li seguono, in tutto il mondo. Essi
possiedono veramente un’enorme ricchezza: non solo la chiesa cattolica romana è
ricca, ma anche i guru. Tutto si risolve in denaro.
Se i calcolatori, senza gli uomini politici, fossero
messi nelle mani di uomini buoni, potrebbero mutare l’intera struttura del
mondo. Tutti parlano di pace, ma la negano, perché ci può essere la pace, la
realtà, l’amore, solo quando non c’è alcuna divisione».
«Amore e verità, armonia e bellezza» scrive
Canseliet «ecco, riuniti in coppia, i quattro sostantivi che potrebbero servire
da divisa all’antica Alchimia, nel suo unico scopo di pace totale e di
misericordia infinita».
Nella città di Acchiappacitrulli non potevano
mancare i rappresentanti di quella parte del mondo cosiddetta religiosa, in cui
la bontà e la compassione, sentita da principio dai vari protagonisti, e
simboleggiati dal colore d’oro e d’argento delle penne dei fagiani, vengono
perduti, irrimediabilmente, nel cinismo e l’amarezza, accompagnati anche da
brutti rospi che sovente queste persone debbono ingoiare, e dei quali devono
tacere per non buttare discredito sull’ordine di appartenenza, e proseguendo,
quindi, cheti, cheti.
Particolare curioso, le figure che occupano le
carrozze signorili, nel loro lustro superficiale, cercano sempre di mostrarsi
gentili e garbati con il loro prossimo in una forma d’ipocrisia.
Krishnamurti afferma che «quelli che sono vanitosi, presuntuosi,
arroganti che si considerano tanto importanti, e si sentono soddisfatti della
loro conoscenza, o di quel che possiedono, hanno una mente che cerca di
coltivare l’umiltà. Non so se ve ne siete accorti.
Ma una mente piena di vanità, tesa a inseguire il
successo, perché è dal successo che trae la propria importanza e presunzione,
sia che si muova in campo scientifico, o religioso, o politico, non potrà mai
capire che esiste una qualità che è assenza completa di vanità».
Il gatto e la volpe convinsero Pinocchio a seminare
le sue monete d’oro, dopo andarono via e, prima di separarsi, la volpe gli
ricordò di tornare entro una ventina di minuti per trovare l’albero carico di
monete d’oro.
Fu proprio nella città di “Acchiappacitrulli”,
quindi, che Pinocchio si trovò turlupinato dal gatto e dalla volpe. Questi
personaggi, inventati dal nostro Adepto, sono diventati proverbiali. È lampante
il ruolo ch’essi interpretano in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo della
Terra: quella parte di persone impegnate con ogni mezzo possibile, senza la
minima ombra di scrupoli, e con più falsità, recitazioni e moine possibili, per
cerca di carpire la buona fede del loro prossimo.
Tutta questa umanità raggirata, poi, è
magistralmente incarnata da un pappagallo, anch’esso descritto con «poche penne
addosso».
Si sa che con l’epiteto “pappagallo”, popolarmente,
s’intende le persone che imitano le idee degli altri, ma nell’espressione del
nostro Iniziatore è ancora più profondo, indica il conformismo, il
condizionamento culturale in qualsiasi parte del mondo si nasca.
Tuttavia, Collodi lo pone all’esterno della città,
evidenziando, in questo modo, la figura di un “ricreduto” e lui ride, ormai,
sulla propria e l’altrui sorte. Pertanto, egli si rivolge con queste parole a
Pinocchio:
«Rido di quei barbagianni che credono a tutte le
sciocchezze e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.
— Parli forse di me?
— Sì, parlo di te, povero Pinocchio, di te che sei così dolce di sale, da
credere che i denari si possono seminare e raccogliere nei campi, come si
seminano i fagioli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto
le pene».
Pinocchio, vistosi raggirato dal gatto e dalla
volpe, «preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò defilato in
tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini che lo avevano derubato.
Il giudice era uno scimmione della razza dei
Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua
barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era
costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi che lo
tormentava da parecchi anni.
Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per
filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome il
cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.
Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese
vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non
ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can
mastini vestiti da giandarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai
giandarmi, disse loro:
— Quel povero diavolo è stato derubato di quattro
monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. —
Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra
capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a
scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in
gattabuia».
Non poteva mancare, nella città di “Acchiappacitrulli”,
pure il senso della giustizia umana, che il nostro Adepto ha puntualmente
riportato. Quante persone, in tutto il mondo, si riconoscono in Pinocchio per
aver subito piccoli o grandi ingiustizie dovute a discutibili leggi.
Tutto dipende dalla malattia del giudice, che è
antica quanto il soggetto dei saggi, e gli occhiali d’oro privi di vetri è la
variante ermetica, scrive Canseliet, «della mancanza di occhiali, cioè di
esperienza.
Experientia firmet lumina: che l’esperienza
ti fortifichi gli occhi, consiglia Michele Maier».
Colui che segue la Natura, continua Canseliet, dev’essere
«saggiamente munito di un bastone, di occhiali (perspicilia) e di una
buona lanterna.
La
Natura è la precettrice, più esattamente, l’iniziatrice del
filosofo che, grazie a lei può liberarsi dall’errore».
Accadde, però, che per festeggiare una vittoria
contro i suoi nemici, l’imperatore di “Acchiappacitrulli”, oltre ai
festeggiamenti «volle che fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti
i malandrini.
— Se escono di prigione gli altri, voglio uscire
anch’io —, disse Pinocchio al carceriere.
— Voi no, — rispose il carceriere, — perché voi non
siete del bel numero…
— Domando scusa, — replicò Pinocchio, — sono un
malandrino anch’io.
— In questo caso avete mille ragioni — disse il
carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo gli aprì le
porte della prigione e lo lasciò scappare».
Ognuno è libero di dare l’interpretazione che vuole
a questo passo che dovrebbe riflettere la situazione del mondo.
Una volta tornato libero Pinocchio si rimise in
cammino per tornare alla casa della fata, nella speranza di trovarvi pure il
suo babbo, ma lungo la strada incontrò «un grosso serpente, disteso attraverso
alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntita,
che gli fumava come una cappa di camino.
Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il
quale, allontanandosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un
monticello di sassi, aspettando che il serpente se ne andasse una buona volta
per i fatti suoi e lasciasse libero il passo alla strada».
Dopodiché, nel superare il serpente, «cadde così
male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte
su in aria».
Il serpente fiabesco ricorda di più, per usare le
parole di Fulcanelli, «l’athanor dal fumo leggero che si arrampica sulla
volta ogivale», che il drago ermetico.
Al riguardo dei monticelli di sassi, invece,
Giovanni Pansa spiega che «sono comunemente chiamati Galgal. In Francia li
denominano castellets o Molin de Joie. Quest’ultimo nome si dà a
quei monticelli di pietre formati dal getto costante dei pellegrini».
Lo si usava buttare pure nel luogo dove era morto
qualcuno, oggi tale pratica è stato sostituito dai fiori, ma il simbolismo
resta immutato. Le pietre, o i fiori, simboli d’illuminazioni rivelano la
moltiplicazione ermetica.
Fulcanelli segnala che anche «tra le attribuzioni
degli araldi rientrava quella di levare, in segno di vittoria o di avvenimenti
fasti, delle specie di monumenti commemorativi chiamati Monts-Joie.
Erano dei semplici monticelli o mucchi di pietre, dei monti di gioia».
Cadere a testa in giù, invece, ricorda la formula solve
et coagula, attribuito al demonio o a Lucifero (portatore di luce) che è
l’immagine dello spirito caduto o precipitato nella materia, perché la sua luce
ne venga fuori è necessario la precipitazione della grossolanità. Fulcanelli
precisa che «lo spirito si eleva e la materia precipita». Ed aggiunge che è la
stessa figura «di San Pietro, pietra vera e fluente sulla quale riposa
l’edificio cristiano. Perché è proprio lui, il primo apostolo, che detiene le
due chiavi incrociate della soluzione e della coagulazione; è lui il simbolo
della pietra volatile, resa fissa e densa dal fuoco, che la fa precipitare. San
Pietro, nessuno l’ignora, fu crocifisso a testa in giù…».
Sempre durante il ritorno a casa, Pinocchio, avendo
fame, cercò di cogliere un paio di grappoli d’uva, ma fu preso in una tagliola
messo da un contadino per catturare le faine che gli rubavano le galline.
Scoperto dal contadino, per punizione gli fece
prendere il posto del vecchio cane da guardia.
«— Se questa notte — disse il contadino —
cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove
c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero
cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti
e di abbaiare».
Questo semplice passo nasconde un’importanza
straordinaria. Fulcanelli scrive che «è la chiave della Grande Opera. Noël, nel
suo Dictionnaire de la fable, scrive che “il cane era consacrato a
Mercurio perché era il più vigilante e il più astuto di tutti gli dei”. È la
figura del cinocefalo (kinoképhalos), che ha una testa di cane, forma
mistica assai venerata dagli egiziani, che la diedero ad alcune divinità
superiori, ed in particolare a Tot, il quale, in seguito, diventò l’Ermes dei
greci, il Trismegisto dei filosofi, il Mercurio dei latini».
Essere sempre vigili, consapevoli è, in effetti, la
chiave del mistero. Evola, trattando sempre dei misteri del Graal, cita in
proposito:
«Alano — nella Terre Faraine — in mezzo a una
corrente travolgente ha fatto erigere un superbo castello per il Graal: Corbenic.
Questo è il castello della veglia perenne e della prova del sonno. Nessuno vi
deve dormire. Corbenic è “le palais aventureus” e ogni cavaliere
che vi dormì fu trovato morto l’indomani».
Il contadino è colui che si occupa dell’agricoltura
celeste, che lavora la terra filosofale, mentre il cane è il suo braccio
destro, il suo fuoco segreto che lavora per lui. Fulcanelli insegna che «il
fuoco è raffigurato tramite il braccio destro; e sappiamo abbastanza bene che
la locuzione proverbiale “essere il braccio destro di qualcuno”, si riferisce
sempre all’agente incaricato d’eseguire la volontà di un superiore, nel nostro
caso il fuoco».
Collodi fa anche notare che il vecchio cane da
“guardia” era in combutta con i ladri (faine), cioè, tradotto esotericamente,
significa che la sua vecchia attenzione era più rivolta verso il piacere della
materialità che la luce della saggezza.
Pinocchio catturò le faine imprigionandole nel
pollaio, richiudendovi la porta, «il quale, non contento di averla richiusa, vi
posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello».
Si tratta dello stesso gesto che compì Polifemo
nell’Odissea (IX, 240 e segg.), chiudendo l’antro con un grosso
macigno, imprigionando Ulisse e compagni che apostrofò come predoni.
I predatori, simboli della grossolanità che porta
via l’intelligenza (volatile), sono fermati dalla pietra ermetica, cioè quella
prima pietra sulla quale riposa l’edificio cristiano: l’intelligenza.
Ricevuta la grazia della libertà per il compito
svolto, Pinocchio tornò al bosco della Quercia grande, «ma, guarda di qui
guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella
Bambina dai capelli turchini…
La
Casina bianca non c’era più. C’era, invece, una piccola
pietra di marmo sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste
dolorose parole:
QUI GIACE
LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA DI
DOLORE
PER ESSERE
STATA ABBANDONATA DAL SUO
FRATELLINO
PINOCCHIO
Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate
alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra e
coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dette in un grande scoppio di
pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva
sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi
lamenti erano così strazianti e acuti, che tutte le colline all’intorno ne
ripetevano l’eco».
Si tratta di una variante della Mater dolorosa
ermetica. La materia grossolana che si strugge a beneficio della spiritualità,
grazie alle necessarie ripetizioni (eco).
Anche l’anonimo Adepto di Dampierre ha voluto riportare
questa tradizione decorando il cassettone numero sei della quinta serie.
Fulcanelli così descrive l’emblema:
«Una donna inginocchiata ai piedi di una tomba sulla
quale si legge questa parola bizzarra,
.TAIACIS.
mostra la più profonda disperazione.
Mostrando il suo dolore, con gesti disordinati, ella
rappresenta la madre dello zolfo; a lei si riferisce lo stesso vocabolo inciso
sulla pietra che ricopre il suo figliolo: Taiacis. Quella parola
barocca, nata, senza dubbio, da un capriccio del nostro Adepto, non è, in
realtà, che una frase latina dalle parole accostate tra loro e scritta al
contrario, in modo che dev’essere letta cominciando dalla fine: Sic ai at,
ahimé! In tal modo almeno… (potesse rinascere). Suprema speranza in fondo
al supremo dolore. Lo stesso Gesù dovette soffrire nella carne, morire e
restare per tre giorni nel sepolcro, per riscattare gli uomini e risuscitare,
in seguito, nella gloria della sua incarnazione umana e al compimento della sua
Divina missione».
Anticamente esisteva il rituale del pianto durante
la veglia funebre, l’allegoria della materia che si strugge per la spiritualità
uccisa, in questo caso indicato dal defunto, era tenuto da donne che
s’incaricavano di eseguirlo. Giovanni Stano segnala che nell’antica Roma queste
si chiamavano «prefiche: donne che, pagate, facevano il piagnisteo, si
strappavano i capelli, e ripetevano le lodi del morto».
Tornando a Pinocchio, «mentre si disperava a questo
modo, passò su per aria un grosso colombo, il quale soffermatosi, a ali
stese, gli gridò da una grande altezza:
— Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiù?
— Non lo vedi? Piango! — disse Pinocchio alzando il
capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della
giacchetta».
Anche nel battesimo di Gesù, ci dice San Marco (I,
10), che «Giovanni vide improvvisamente aprirsi i cieli e lo Spirito
Santo discendere su di lui sotto forma di colomba».
«Lo Spirito Santo» spiega Fulcanelli «è sempre
raffigurato da una colomba che sta volando, cioè in croce».
Ricordiamo che la croce è il simbolo per
eccellenza dell’illuminazione.
Ma
la concezione di Collodi è ancora più profonda, ed è la stessa degli Illuminati
costruttori del medioevo: le due croci, una inferiore e terrestre, — immagine
del nostro calvario quotidiano — l’altra superiore e celeste, verso la quale
aspiriamo, ma che possiamo raggiungere soltanto con lo sguardo.
La
colomba aveva incontrato Geppetto e poi era andata in cerca di Pinocchio.
«L’ho
lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare. Si fabbricava da sé una piccola
barchetta per traversare l’Oceano.
—
Quanto c’è da qui alla spiaggia? — domandò Pinocchio con ansia affannosa.
—
Più di mille chilometri.
—
Mille chilometri? O colombo mio, che bella cosa potessi avere le ali!…
—
Se vuoi venire ti ci porto io.
—
A cavallo sulla mia groppa. Sei peso di molto?
—
Peso? Tutt’altro! Son leggero come una foglia
Il
burattino, per evitare il pericolo di venir di sotto, si avviticchiò colle
braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura».
È
l’immagine delle due nature indissolubilmente avvinti, cioè che l’illuminazione
ha fatto grande presa sulla psiche.
È
quanto ci assicura San Matteo (XI, 28 e segg.) secondo le parole del
Cristo-luce:
«Venite
a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il
mio gioco sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e soave il
mio peso».
Così,
grazie alla comprensione, si pone fine agli interminabili conflitti psicologici.
Anche
il Saggio di Dampierre dedicò un emblema a questo tema, dedicandogli il
cassettone numero tre della quarta serie della galleria del suo castello,
sempre descritto dal Maestro Fulcanelli:
«Uscendo
da folte nuvole, una mano, il cui avambraccio è piegato, tiene un ramoscello
d’olivo. Questo stemma, di carattere morbido, ha come insegna:
1
.PRVDENTI.
LINITVR. DOLOR.
Il
saggio sa calmare il suo dolore. Il ramoscello d’olivo, simbolo della pace
e della concordia, indica l’unione perfetta degli elementi generatori della
Pietra Filosofale».
«Qual
è la causa del conflitto?» Chiede Krishnamurti «Su questo argomento sono stati
scritti volumi su volumi. Psicologi, psichiatri, terapeuti, e tutti gli altri
hanno dato spiegazioni verbali; milioni di parole sono state profuse a questo
riguardo, eppure noi, tutti, rimaniamo in preda al conflitto. Quando nella
mente, nel cervello c’è disordine, che è l’essenza del conflitto, il cervello
non può essere tranquillo, semplice, chiaro. Questo si può dare per scontato, è
una legge, come la legge di gravità, la legge per cui il sole sorge a oriente e
tramonta a occidente: se vi è un conflitto soggettivo o interiore deve esserci
disordine. E il cervello continuamente cerca un ordine — continuamente — perché
non può vivere nel disordine; quando c’è disordine non può funzionare con
chiarezza, bellezza, acutezza, al massimo della sua capacità».
Arrivati in riva al mare, la colomba lasciò
Pinocchio e se ne andò. I pescatori del luogo dissero che Geppetto era partito
a sua volta con una barca, additando verso il mare. Si vedeva in lontananza una
barchetta che, ben presto, una grossa ondata fece sparire. Il burattino si
tuffò per correre in aiuto di Geppetto e si trovò travolto dai marosi.
«Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in
tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte.
E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò,
tuonò spaventosamente e con certi lampi, che pareva di giorno.
Sul far del mattino, gli riuscì di vedere poco
distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare.
Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia:
ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi se lo abballottavano
tra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e
per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo
scaraventò di peso sulla rena del lido e si consolò col dire:
— Anche per questa volta l’ho scampata bella!
Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole
apparve fuori in tutto il suo splendore e il mare diventò tranquillissimo e
buono come un olio…
Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo, in mezzo a
quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia che stava lì lì
per piangere; quando tutt’a un tratto vide passare, a poca distanza dalla riva,
un grosso pesce, con tutta la testa fuori dall’acqua; il quale era un delfino».
Ormai sappiamo che al nostro Adepto piace segnalare
qualsiasi passaggio della via lunga: la sensazione che avverte Pinocchio di sentirsi
estremamente solo, è quella provata da qualsiasi neofita, vedendo che il mondo
che aveva prima conosciuto ha perso la sua importanza.
Krishnamurti conferma:
«Alla fine vi troverete soli, ma con la
comprensione, la consapevolezza interiore, vedendo chiaramente che tutto ciò,
in realtà, non ha senso. L’appartenere a qualcosa, a un gruppo, a una qualche
setta, può causare una soddisfazione momentanea, ma poi diviene alquanto
noioso, deprimente e sgradevole».
Ritroviamo, poi, la tempesta della prima congiunzione
nel mare ermetico che si conclude con l’arrivo sull’isola, col sole del
Magistero, con la calma propria del mercurio filosofico. Collodi fa notare che
ciò non dipende dalla nostra volontà: tale realizzazione è compito della
Natura.
Quest’ultima allegoria è strettamente corrispondente
alla descrizione che fa Fulcanelli del bassorilievo che decora la fontana del
Vertbois, a Parigi.
Così scopriamo che «l’isola non è nient’altro che
un’altra figurazione del pesce ermetico, nato nel mare dei Saggi — il nostro
mercurio che Ermes chiama mare patents — alcuni l’hanno chiamato delfino
e con altrettanta ragione. Il delfino, del quale vediamo emergere la testa nel
bassorilievo, possiede anch’esso un significato altrettanto positivo. Il suo
nome greco delfis, indica la “matrice”, e nessuno ignora che il mercurio
è chiamato, dai filosofi, ricettacolo e matrice della pietra.
Questo pesce misterioso è il pesce regale per
eccellenza, perché, si diceva, che era riservato alla tavola del re. Ma, in
verità, questa denominazione aveva soltanto carattere simbolico, perché il
figlio maggiore del re, colui che doveva a sua volta cingere la corona, aveva
il titolo di Delfino, che è il nome di un pesce e, ancor meglio, d’un pesce
regale».
Con questa catena allegorica, scopriamo pure il
motivo tradizionale per cui soltanto il figlio maggiore — il primo (prima
chiave) — del re poteva cingere la corona.
Il delfino con la testa fuori dall’acqua è pure la
variante allegorica di Gesù che cammina sulle acque, come scrive San Giovanni (VI,
17 e segg.):
«Saliti su una barca salparono verso Cafarnao,
dall’altra parte del mare. Erano già calate le tenebre e Gesù non li aveva
ancora raggiunti. Spirando un gran vento il mare era agitato. Dopo aver remato
per venticinque trenta stadi, videro Gesù camminare sul mare e avvicinarsi alla
barca e ebbero paura. Ma egli disse loro: “Sono io non temete!”. Vollero allora
prenderlo nella barca, e la barca subito giunse al luogo dov’erano diretti».
Tutti i testi posti sotto l’egida dell’Arte sacra,
ci ricorda Fulcanelli che «appartengono alle categorie dei libri chiusi,
ermetici, fatti per l’insegnamento orale, e per la comprensione dei quali sono
assolutamente necessarie delle notevoli conoscenze simboliche».
Abbiamo visto che la stessa isola rappresenta il
pesce. Il pesce lo si ritrova di rigore pure nelle diete rituali: nelle
vigilie, il venerdì, ecc.
«Facciamo notare» aggiunge Fulcanelli «che in alcune
basiliche bizantine, il Cristo, talvolta, era rappresentato come le sirene con
una coda di pesce».
Per quanto riguarda la sirena ricordiamo che
originariamente era rappresentata in aspetto di donna giovane e bella nella
parte superiore del corpo e di uccello nella parte inferiore, soltanto in
questa era il simbolismo è stato modificato, ma il significato è rimasto
immutato: la fanciulla è l’immagine della prima madre che genera il pesce.
Il pesce, dunque, non è stato soltanto un simbolo
importante del cristianesimo, ma anche di altre forme tradizionali, sempre per
segnalare la precessione degli equinozi con riferimento all’era dei Pesci.
«Come pesce Vishnu guida sulle acque l’arca
contenente i germi del mondo futuro» scrive Julius Evola «e dopo il cataclisma
rivela i Veda, i quali, attraverso la radice vid, sapere, indicano la
scienza per eccellenza; allo stesso modo che, paramenti sotto forma di pesce,
l’Oannes caldaico insegna agli uomini la dottrina primordiale».
Continuando con le sue avventure, Pinocchio «arrivò
a un piccolo paese detto “il paese delle Api industriose”. Le strade
formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende:
tutti lavoravano, tutti avevano qualcosa da fare».
Giorgio De Rienzo nota «una forte solitudine
sociale, un deserto di solidarietà o anche solo di amicizia fra gli uomini di
questo mondo».
«Jonathan Swift» scrive Canseliet «nel soggiorno di
Gulliver a Laputa, traccia un quadro lugubre della felicità atomica; cittadini
cenciosi che camminano frettolosamente nelle strade, gli occhi fissi e il volto
smarrito».
Si tratta sempre dello stesso quadro millenaristico
o attuale. Gli uomini cenciosi significa che sono poveri di alta scienza.
Purtroppo, afferma Krishnamurti, «la maggior parte
degli esseri umani è egoista. Sono inconsapevoli del proprio egoismo; è il loro
sistema di vita. E se si è consapevoli di essere egoisti, lo si nasconde con
grande cura e ci si conforma al modello della società che è essenzialmente
egoista».
Tuttavia, in questo paese Pinocchio tornò a
incontrare la fata non più bambina ma come donna.
«Ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi
farti da mamma».
In questo modo assumono l’interpretazione della
madre dell’Opera e del bambino ermetico.
Tuttavia, i simbolismi tornano subito a intrecciarsi
e Pinocchio, riprendendo il ruolo dell’uomo comune, chiede alla fata di poter
crescere.
«— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.
— Perché?
— Perché i burattini non crescono mai. Nascono
burattini, vivono burattini e muoiono burattini.
— Oh! Sono stufo di fare sempre il burattino! —
gridò Pinocchio dandosi uno scappellotto — Sarebbe ora che diventassi anch’io
un uomo…
— E lo diventerai se saprai meritartelo…
— La vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio
diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?
— Te l’ho promesso, e ora dipende da te!».
Per Collodi un vero uomo è soltanto la persona che
possiede una mente aperta, gli altri o sono burattini o animali ragionevoli.
Pinocchio pone pure alla fata la domanda
fondamentale, quella di poter incontrare suo “Padre”.
«— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?
— Credo di sì: anzi ne sono sicura».
Anche il Buddha diceva che «il fratello che con
ferma determinazione cammina nel nobile sentiero, è sicuro di venire alla Luce,
sicuro di raggiungere la
Sapienza superiore, sicuro di conseguire la suprema beatitudine
dell’Illuminazione».
Krishnamurti era della medesima idea: «Una mente che
cerca vi arriva inevitabilmente, una mente che sia conscia, che osserva ciò che
è in se stessa, è autocomprensiva, autoconoscente».
Tuttavia, sappiamo il motivo per cui questi
personaggi della via breve erano così ottimisti, ma la scienza ermetica dà
garanzie precise sul suo risultato?
«Se cerchiamo
il Grande Segreto» scrive Canseliet «è, certamente, nella speranza di trovarlo.
Ma, ahimè! non è necessariamente nel nostro destino che si arrivi al fine
supremo e che si acceda allo stato sublime…».
Mostrandoci, come esempio, quanto accaduto al Conte
de Gabalis e a De Cyrano Bergerac:
«Quale sconcertante similitudine si è verificata
nella vita di questi due autori, ambedue morti prematuramente e in modo
tragico, uno a 35 anni, per una terribile ferita alla testa, causata da una
trave lanciata da una finestra, l’altro a 38 anni, assassinato sulla strada di
Lione».
Per ricevere l’inestimabile Dono dalle mani della
Natura due fattori sono determinanti: la durata della vita dell’uomo e il suo
stato di maturità.
In media la Grande Opera si compie oltre i 60 ai 70 anni, ma
vi sono stati Adepti come Bernardo il Trevisano e lo stesso Canseliet, che
hanno superato di molto quell’età.
«La nostra», dicono i Saggi, «si tratta di una
professione di fede».
E la fede di Canseliet fu messa a dura prova, tanto
che all’età di 73 anni, come Adepto esposto agli occhi del mondo, scriveva:
«Già molto avanti negli anni, immaginiamo facilmente
la derisione nella disgraziata eventualità che ci sorprendesse la morte senza
che fossimo giunti al termine dei nostri sforzi, cioè senza che avessimo
ricevuto il Dono di Dio».
Si sa che la scienza prevede la realizzazione
dell’Opera al tramonto della vita dell’individuo. A questo proposito un fatto
curioso accadde a Krishnamurti, egli avendo ereditato il Donum Dei a 27
anni — per via Breve — se avesse compiuto il Magistero per via lunga, lo
avrebbe realizzato a 66 anni.
Infatti, a quell’età (1961), mentre si trovava
proprio in Italia soggiornando in una villa presso Firenze, di proprietà di
Vanda Scaravelli, questo Illuminato ebbe un’ulteriore e più grandiosa
esperienza, che non soltanto caratterizzò il resto della sua vita, ma lo spinse
a scrivere il suo famoso Taccuino, dove vi annotò:
«È strano come sia lontano il mondo e in quali
enormi profondità io sia penetrato».
A questo punto sorge un altro spinoso problema:
l’iniziazione di un individuo che ha superato gli ’anta. Infatti, questa è
un’età che, per la via lunga, è da considerarsi critica, dove, come afferma
Fulcanelli, «il tempo da impiegare, già notevole, diventa ancora maggiore…».
Tuttavia, anche a costoro la scienza chiede il
risveglio iniziatico o dell’intelligenza. Il cambiamento totale e profondo
dell’individuo.
«Per cambiamento» sosteneva Krishnamurti «non
intendo una modificazione superficiale, ma piuttosto una trasformazione, un mutamento nella struttura stessa della nostra
coscienza. Questo è un argomento della massima serietà. Non è cosa con cui si possa
scherzare . Deve essere la nostra vita, la nostra vocazione, la nostra
occupazione. Ci stiamo occupando della rivoluzione fondamentale della mente,
della struttura di noi stessi nella sua completezza, perché la mente riesca a
liberarsi da ogni forma di contraddizione; in modo che noi si possa essere non
solamente educati, ma anche esseri umani veri, maturi e profondi».
«Pinocchio diventò serio.
— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.
— Dicevo… — mugolò il burattino a mezza voce — che
oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi…
— Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per
imparare non è mai tardi».
«Che si sia vecchi o giovani» insiste Krishnamurti
«è adesso che il processo della vita dev’essere trasportata in un’altra
dimensione».
Una volta andato a scuola, Pinocchio, fu attirato
con un trucco da sette suoi compagni svogliati sulla riva del mare.
«Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da
specchio», c’informa Collodi per farci intendere di quale mare si tratta.
In breve, Pinocchio e i sette compagni passarono
alle mani.
«Il più ardito dei monelli gli gridò:
— Prendi intanto questo acconto e serbalo per la
cena di stasera.
E nel dir così gli appiccicò un pugno nel capo.
Ma fu come si suol dire, botta e risposta; perché il
burattino, come c’era da aspettarselo, rispose subito con un altro pugno: e lì,
da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito».
Si tratta di una variante allegorica dei due bambini
aggressivi e battaglieri raffigurati nella cattedrale di Parigi, ma con un
arricchimento simbolico. Infatti, qui sono sette contro uno, e il nostro Adepto
ha cura di farci sapere che «sono sette come i peccati mortali». È una
parafrasi del drago a sette teste che è impossibile uccidere con una semplice
spada ordinaria, ma soltanto con una spada magica (intelligenza). Infatti, ad
ogni testa abbattuta con l’uso di una spada comune, ne sorgeva prontamente
un’altra.
È ciò che la maggior parte della gente chiama
cambiamento, ma che in realtà si tratta di modificazione di uno stato ad un
altro stato (testa).
«Se il cambiamento ha motivazione, scopo, direzione»
spiega Krishnamurti «di conseguenza è solo una continuazione modificata di ciò
che è stato. Tale cambiamento è privo di senso».
«Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi
misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai
proiettili, e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a
scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i
Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il pulcino della Baccini e altri libri
scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva
sempre civetta a tempo, sicché i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano
tutti a cascare nel mare.
Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri
fossero buoni da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo aver
abboccato qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito, facendo
con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: “Non è roba per noi:
siamo avvezzi a cibarci molto meglio».
«Pare che Collodi non abbia un gran rispetto per i
libri altrui» nota Giorgio De Rienzo «e neppure per i suoi, se è vero che tra
gli altri mette anche i Giannettini ed i Minuzzoli che ha scritto proprio lui».
I pesci ermetici si cibano di ben altri “libri”.
Il cardinale Cusano scrive che «la scienza di questo
mondo, in cui si pensa di superare gli altri, è stoltezza verso Dio e, perciò,
rende superbi. La vera scienza, invece, rende umile. L’intelletto, costretto
dall’autorità degli scrittori, si pasce di un cibo non adatto e non naturale.
Tutti coloro che per primi si dedicarono a scrivere sulla sapienza, non
crebbero per il numero dei libri che allora non c’erano, ma divennero uomini perfetti
per un alimento naturale. E questi furono, per sapienza, di gran lunga
superiori agli altri che credono di aver fatto tanti progressi con i libri.
La sapienza grida all’aperto, nelle piazze, e la sua
voce risuona perché abita nelle regioni altissime».
Lucie Lamy, trattando dell’antica cultura egizia,
riporta questo profondo senso dell’antico insegnamento:
«Perché la conoscenza puramente cerebrale è
peritura, come perituro è lo strumento (ais, il cervello) con cui viene
acquisito».
Fulcanelli scrive in proposito:
«“Imbianca l’ottone e brucia i tuoi libri”, ci
ripetono tutti gli autori migliori».
Krishnamurti, da parte sua, aggiunge:
«L’ignoranza non è la mancanza di conoscenza ma di
autoconoscenza; senza autoconoscenza non c’è intelligenza. L’autoconoscenza non
è cumulativa come la conoscenza, l’apprendere avviene di momento in momento.
Io non so se abbiate mai meditato su che cosa sia
una buona mente. È forse quella che sa ritenere ciò che legge e funziona sulla
base della memoria? La nostra istruzione è la raccolta di una massa di nozioni,
e il computer fa questa raccolta più velocemente e con più precisione. È buona
la mente che come un disco ripete quello che le è stato detto? Questa è
l’odierna nostra educazione, imparare date per ripeterle al momento dell’esame.
Che bisogno c’è di una tale istruzione? Perché dovrei portarmi nella mente i
fatti? Si trovano nell’enciclopedia, nei libri, perché dovrei portarmi tutto
questo nella mente?
Ma a noi piacciono le spiegazioni, il sapere. E il
sapere è diventato una maledizione. Ecco, la percezione non ha niente a che
fare con il sapere. Verità e sapere non vanno insieme; il sapere non può
contenere l’immensità del Mistero.
Questa percezione non ha assolutamente nulla a che
fare con la conoscenza, con l’esperienza; non si arriva a quest’intelligenza
andando all’università».
Pinocchio, accusato di aver ferito un compagno, fu
arrestato dai carabinieri. Riuscito a sfuggire, corse verso il mare inseguito
da un cane che finì in acqua insieme a lui. Purtroppo il cane non sapendo
nuotare chiese aiuto al burattino.
«— Aiutami, Pinocchio mio!… salvami dalla morte!…
A quelle grida strazianti, il burattino, che in
fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione».
Salvato da morte sicura, il cane gli disse:
«Addio, Pinocchio, mille grazie di avermi liberato
dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è
fatto è reso. Se capita l’occasione, ci riparleremo».
Questo semplice passo nasconde una verità di
notevole importanza: la legge della Creazione, dove tutto ciò che si compie, in
bene o in male, è reso. La veste simbolica di questa legge è indossata dalla
Giustizia, il cui candore è rappresentato da una vergine che cinge una corona
d’oro e indossa una tunica bianca, ricoperta d’un ampio drappeggio di porpora.
La corona d’oro simboleggia la sovranità assoluta e la tunica bianca ripete la
purezza (la vergine stessa). L’ampio drappeggio di porpora raffigura la bontà,
la compassione, la sollecitudine: il vero senso della pietà.
Mentre Pinocchio nuotava nel mare fu catturato da
una grossa rete di un misterioso pescatore verde che viveva in una grotta.
«Invece dei capelli aveva sulla testa un cespuglio
foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi,
verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù.
Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal
mare, gridò tutto contento:
— Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una
bella scorpacciata di pesce!».
La caverna della roccia, la grotta, è una variante
del vaso ermetico. Conosciamo pure il significato del colore verde, la pietra
dei filosofi destinata a maturare, e della barba, geroglifico del fascio
luminoso proiettato verso terra.
Questo pescatore, quotidianamente, riceve la sua
razione di pesce (illuminazione).
Questo passo ci ricorda il pescatore Simone, ma
sappiamo pure che, costui, come qualsiasi altro comune mortale, non pesca nulla
nella notte.
Infatti, i Vangeli[1][6] ci assicurano che quando i discepoli andarono a
pescare, «quella notte non presero niente», ma dopo l’intervento del Cristo,
essi gettarono «la rete dalla parte destra della barca, e per la gran quantità
di pesci non erano più capaci di tirarla su, e riempirono due barche a tal
punto che quasi affondarono».
Il pescatore verde, dopo aver “pescato” Pinocchio,
non volendo sentire ragioni, voleva friggerlo in padella, quando il
provvidenziale intervento del cane, cui poco prima aveva salvato la vita,
l’affrancò da morte sicura.
«— Quanto ti devo ringraziare! — disse il burattino.
— Non c’è bisogno — replicò il cane — tu salvasti
me, e quel che è fatto, è reso. Si sa in questo mondo bisogna tutti aiutarsi
l’uno con l’altro».
Ricordiamo che per volontà del nostro Adepto la sua
favola dev’essere letta in chiave millenaristica. Si tratta, quindi, di un
preciso invito agli uomini della nuova Era.
Rievochiamo, a questo proposito, l’incomparabile
parabola del buon samaritano raccontata nel capitolo X del Vangelo di
Luca. Dove s’insegna che anche il “nemico” può essere il proprio prossimo,
ossia, letteralmente, il più vicino.
Pinocchio, tornato alla casa della fata, che era di
quattro piani, dopo aver bussato gli andò ad aprire, molto lentamente, una
lumaca.
«La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta
si aprì. Quella brava bestiola della lumaca, a scendere dal quarto piano fino
all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore».
È la
traduzione allegorica dei quattro elementi basici del Magistero, e la
lentissima evoluzione della materia filosofale nel cammino dei nove gradini
mistici.
La fata promise a Pinocchio che lo avrebbe reso un
vero bambino. Per festeggiare il grande avvenimento fu pensato d’invitare tutti
i compagni di scuola, «e la fata aveva fatto preparare dugento tazze di
caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori».
Riconosciamo qui il vaso ermetico con le due nature bianco e
nero (caffè e latte), ma molto più espressivo sono i panini, poiché indica che
la psiche si arricchisce sia interiormente sia di notevole sapere che è propria
della nostra scienza. Perciò Collodi fa notare che nell’iniziazione
s’incontrano due categorie d’individui:
«Alcuni accettarono subito e di gran cuore; altri, da
principio si fecero un po’ pregare: ma quando seppero che i panini da inzuppare
nel caffè e latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori,
finirono tutti col dire: “Verremo anche noi, per farti piacere”».
Il compagno prediletto di Pinocchio aveva il
soprannome di Lucignolo. Il nostro Adepto fa notare che questo era dovuto al
suo aspetto che «era tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da
notte».
È la luce che arde prima dell’alba, cioè la fiamma
volgare che arde nella mente dell’uomo comune.
Come si sa, costui stava attendendo un carro che lo
avrebbe dovuto condurre nel Paese dei Balocchi.
Pinocchio restò assai affascinato da questa storia
che attese con lui l’arrivo del carro.
«Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando
a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino… e sentirono un suono di
bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il
sibilo di una zanzara!…
Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il
più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.
Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini. Ma la cosa
singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro
ciuchini, invece di essere ferrati come tutti le altre bestie da tiro o da
soma, avevano ai piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca».
Il carro si muove nell’assoluta riservatezza e,
soprattutto, nel più assoluto silenzio o nel “mistero” (esoterismo).
Una variante tradizionale si ritrova a Monrupino,
piccolo centro vicino Trieste. Alberto Di Graci, scrive che «a Monrupino,
l’ultima domenica di Agosto si celebrano le “nozze carsiche”, la kràska-ohcet,
in lingua slovena.
Nella notte del sabato, vigilia delle nozze, avviene
l’avvio nel nome di Dio (Hodi-z-hogom) verso la nuova vita, simboleggiata dal
viaggio della promessa sposa, verso la casa dello sposo, in un carro trainato
da un bue, dove è collegata la dote, con ruote ricoperti di stracci, perché la
gente del borgo, un tempo, non doveva né sentire né vedere».
Il numero dei ciuchini, invece, riconduce alla
tradizione millenaristica, il nostro Adepto ha avuto cura di ricordare che si
tratta di dodici pariglie, equivalenti a 24 ciuchini. Essi indicano i 24
secoli. Fulcanelli scrive che «simbolizza i dodici secoli che costituiscono il
Regno del Figlio dell’Uomo e che succedono ai dodici precedenti del Regno di
Dio».
Quindi, questo particolare brano dev’essere
interpretato puramente secondo la tradizione del Chiliasmo, vale a dire, in
chiave profetica.
Occhio, dunque, a quanto leggiamo ora. L’Iniziato
passa a descrivere il conducente del carro:
«Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e
untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che
rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si
raccomanda al buon cuore della padrona di casa.
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano
innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da
lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente
nome di “Paese dei Balocchi”.
Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti
fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri, come tante
acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi
respirare: ma nessuno diceva ohi!, nessuno si lamentava. La consolazione di
sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né
libri, né scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non
sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno.
Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse
a Lucignolo e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo:
— Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in
quel fortunato paese?
— Sicuro che ci voglio venire».
Siccome il carro era troppo pieno, Lucignolo si mise
seduto sulle stanghe del carro e Pinocchio, che era ormai stato convinto pure
lui, provò a salire su uno dei ciuchini che, ribellandosi, lo gettò a gambe
all’aria con una musata nello stomaco, provocando un coro di risate negli altri
ragazzi.
«Ma l’omino non rise», ci dice Collodi. «Si accostò
pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio,
gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.
Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto
infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale.
Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò
tutt’e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò
il povero burattino in mezzo alla strada sopra un monte di ghiaia.
Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di
ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello, che, con
un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al
burattino:
— Rimonta pure a cavallo e non aver paura. Quel
ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline
negli orecchi e spero di averlo reso mansueto e ragionevole».
Questo particolare trova la sua variante in una
scena simbolica che si può ammirare a Notre-Dame di Parigi.
Si tratta, scrive Fulcanelli, di «un motivo
raffigurante un cavaliere disarcionato che si aggrappa alla criniera d’un
focoso cavallo.
Il cavallo, simbolo di rapidità e leggerezza,
indica la sostanza spirituale; il suo cavaliere indica la pesantezza del corpo
grezzo. Ad ogni ripetizione il cavallo disarciona il suo cavaliere, il volatile
abbandona il fisso; ma lo scudiero riassume nuovamente il comando, e così fin
quando l’animale estenuato, vinto e sottomesso, acconsente a portare quel
fardello ostinato e non può più liberarsene».
Finalmente vi fu la partenza, «i ciuchini galoppavano,
il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come
un ghiro e l’omino seduto a cassetta, canterellava fra i denti:
Tutti la notte dormono
E io non dormo mai…
La mattina, sul far dell’alba, arrivarono
felicemente nel Paese dei Balocchi».
Quest’altro paese prefigura ancora meglio i nostri
tempi. Abitato soltanto da “bambini” che amano giocare dalla mattina alla sera
in un chiasso assordante, è l’immagine eloquente degli attuali rumori del
mondo.
«Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo
da levar di cervello! Branchi di monelli dappertutto. chi giocava alle noci,
chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi recitava,
chi cantava, chi faceva i salti mortali… Insomma un tal pandemonio, un tal passeraio,
un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non
rimanere assorditi.
Su tutti i muri delle case si leggevano scritte col
carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci! (invece di
balocchi): non vogliamo più shole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso
Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili».
Tra le innumerevoli forme di svago che sono sorte a
dismisura in questo mondo, Canseliet denuncia quelle della «radio o la
televisione, dove in un ambiente dolciastro o eccitante, si forniscono a
sazietà voci smorte, urla, frenesia, chitarre ed english. Col pretesto
della Cultura e sotto la bacchetta autoritaria di alcuni specialisti vanitosi e
burloni, per lo più fioriscono una fraseologia che stordisce e una dialettica
completamente priva di sostanza, entrambe con l’unico scopo della beata
sterilità di cervelli in delirio».
Mentre Pinocchio continuava a giocare nel Paese dei
Balocchi, cominciò a crescergli le orecchie.
«Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita,
aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si
vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando si poté scorgere che i
suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole
di padule».
La mancanza di orecchie nel burattino è simbolo di
mancanza di ascolto, cioè, come diceva Krishnamurti, dell’arte di ascoltare.
Quando Pinocchio e Lucignolo si scoprirono tutte e
due con le orecchie asinine, «invece di restar mortificati e dolenti,
cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo
mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.
E risero, risero, risero da doversi reggere il
corpo».
«La parola umorismo» affermava Krishnamurti
«significa realmente ridere di sé. Abbiamo tante lacrime nei nostri cuori,
tanta infelicità, da poter guardare in noi stessi e ridere, osservare con
chiarezza e con serietà e tuttavia ridere, se è possibile».
Così, tutti e due furono trasformati in due ciuchini
proprio come quelli che tiravano il carro dell’omino, che procedeva nel
silenzio, o nel mistero (religione), il cui
piccolino e soffocato squillo di trombetta è proprio degli ordini
religiosi, nel loro modo di fare, nella loro caratteristica riservatezza, mostrando
pure un’eccessiva severità, dietro una maschera di dolcezza, verso quelli che
tirano il carro.
La causa che tutti i “bambini” che vanno col carro
diventano somari, dipende proprio dalle religioni organizzate, specie in questi
ultimi tempi, dove esiste l’insegnamento di uno dei rarissimi eletti della
Sapienza (Ars brevis), insegnamento che è lo specchio della filosofia
ermetica liberata dai simbolismi.
«E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era
il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva una
fisionomia tutta latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare
per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i
ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli
caricati sul suo carro, li conduceva nel Paese dei Balocchi, perché passassero
tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei
poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiare mai,
diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di
loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni
aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario».
«I riti, gli abiti, le continue ripetizioni, le
preghiere, è religione questo?» Chiede
Krishnamurti «O si tratta di grandi affari? Nell’India del Sud c’è un tempio
che guadagna un milione di dollari ogni tre giorni. Capite che cosa sto
dicendo? Ogni tre giorni quel tempio prende un milione di dollari. E chiamiamo
questa religione. È religione questa?».
Pinocchio, venne in seguito venduto al padrone di un
circo, e dovette imparare a spiccare “salti” e a “danzare” in modo che questi
potesse guadagnare molti soldi.
Collodi, come al solito, non si limita soltanto a
risaltare le istituzioni religiose, ma anche quelle politiche che, insieme,
governano i somari.
«Ciò è ovvio perché siamo noi che abbiamo fatto
questa società» continua Krishnamurti «questo mostruoso, brutto, immorale mondo
in cui viviamo. È diventato un grande circo, un circo di dolori, o un circo di
piaceri.
Ciò che l’uomo ha fatto all’uomo non ha limiti. L’ha
torturato, l’ha bruciato, ucciso; l’ha sfruttato in ogni modo possibile,
religioso, politico, economico.
Questa è stata la storia dell’uomo nei confronti
dell’uomo; l’intelligente sfrutta lo stupido, l’ignorante».
L’Adepto risalta pure il discorso che il direttore
del circo rivolge al pubblico: uno sproloquio fatto di frasi sofisticate e di
non senso totale.
In un testo scolastico leggiamo sul linguaggio dei
politici:
«È sempre più raro ascoltare discorsi politici
netti, precisi, puliti, chiari, in una parola, “comprensibili”. Addirittura si
è arrivati all’interpretazione del linguaggio di taluni parlamentari, come si
fa per Omero, Dante, Shakespeare!
Molti scrittori hanno espresso, nelle loro pagine,
un giudizio severo su quest’abitudine certamente non corretta e non civile
degli uomini politici; a volte, ricordatevi, l’ironia è più feroce di una
predica».
L’intera situazione di questo circo che è il mondo,
ce lo espone assai bene ancora Krishnamurti:
«C’è l’esercito, circondato dal muro
dell’autointeresse; e l’uomo d’affari, chiuso nella sua torre di vetro e
acciaio; e la massaia, che sfacchina per la casa aspettando il marito e i
figli. C’è il sovrintendente di museo e il direttore d’orchestra, e ciascuno
vive dentro un frammento di vita, e ogni frammento diviene straordinariamente
importante, senza alcun rapporto, anzi in contraddizione con gli altri
frammenti, e ha i suoi onori, la sua dignità sociale, i suoi profeti. Il
frammento religioso non ha rapporti con la fabbrica, e la fabbrica non ha
rapporti con l’artista; il generale non ha rapporti coi soldati, come il prete
non ha rapporto con il laico. La società è composta di questi frammenti, e i
cari benefattori e riformatori tentano di cucire insieme i pezzi rotti. Ma
mediante queste separative, rotte, specializzate, l’essere umano va avanti con
le sue ansie, le sue apprensioni, la sua colpa. In questo siamo tutti in
rapporto fra noi, non nei nostri campi di specializzazione.
Nella cupidigia, nell’odio e nell’aggressione
comuni, gli esseri umani sono in rapporto fra loro e questa violenza edifica la
cultura, la società in cui viviamo. Sono la mente e il cuore che dividono — Dio
e l’odio, l’amore e la violenza — e in questa dualità l’intera civiltà
dell’uomo si espande e si contrae».
Durante uno dei salti nel circo, il ciuchino
Pinocchio rimase azzoppato.
«La mattina dopo il veterinario, ossia il medico
delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per
tutta la vita.
Allora il direttore disse al suo garzone di stalla:
— Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo?
Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo.
Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore,
il quale domandò al garzone di stalla:
— Quanto vuoi di cotesto ciuchino zoppo?
— Venti lire.
— Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri
per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle
molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del
mio paese».
Il compratore mise un macigno al collo del ciuchino
e lo buttò in mare per affogarlo, ma i pesci divorarono la pelle d’asino del
quale il burattino era avvolto.
Canseliet scrive che «anche la focaccia di Pelle
d’Asino, dei racconti di Perrault, o di Mamma Oca, appare come un
simbolo della stessa sostanza in seno alla quale si sviluppa lentamente e
pazientemente l’embrione minerale.
Nel racconto allegorico, non riservato soltanto ai
bambini, ma anche e soprattutto ai piccoli, a quei parvuli che Cristo
comanda che si lascino avvicinare a lui, la focaccia è fatta da Pelle d’Asino,
e quindi proviene da questa principessa, invero, meravigliosamente bella».
Ritirato fuori dall’acqua il ciuchino, il compratore
si ritrovò legato il burattino che gli disse:
«Caro padrone, questa volta avete fatto i vostri
conti senza la Fata…
— E chi è questa Fata?
— È la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle
buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi e non li perdono mai
d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi
ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti,
meriterebbero di essere abbandonati e lasciati in balìa a se stessi».
È lo stesso significato delle parole dell’Eterno,
riportate dal profeta Isaia (XLIX, 15): «Può una donna scordarsi del suo
nato? Di aver pietà del figlio del suo ventre? Ma anche se una donna si
scordasse — IO NO — Io non mi scorderei».
Dopo quelle parole Pinocchio si rituffò in mare
sfuggendo, così, al compratore.
«Fatto sta che in un batter d’occhio si era tanto
allontanato, che non si vedeva quasi più: ossia, si vedeva solamente sulla
superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe
fuori dell’acqua e faceva capriole e salti, come un delfino in vena di
buonumore.
Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in
mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco: e su in cima allo
scoglio, una bella Caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di
avvicinarsi.
La cosa più singolare era questa: che la lana della
Caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata di due colori, come
quella delle altre capre, era invece turchina, ma d’un color turchino
sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina».
«Questa giovane capra» insegna Fulcanelli «non è
altro che il mercurio filosofico, nato dall’alleanza dei principii dello zolfo
e del mercurio, e che possiede tutte le facoltà richieste per diventare il
famoso ariete dal Vello d’Oro, il nostro Elisir».
Lo scoglio sulla quale si trovava la capra, non si
tratta d’altro che di quei «blocchi rocciosi emergenti dall’oceano» aggiunge
Fulcanelli «raffiguranti l’acqua grossolana e solidificata».
Collodi ha cura di avvertirci che era come marmo
bianco, per indicarci che la purificazione della grossolanità superficiale era
avvenuta.
Mentre si trovava ancora in acqua, Pinocchio venne
inseguito da un mostro marino.
«E sapete chi era quel mostro marino?
Quel mostro marino era né più né meno quel
gigantesco Pesce-cane, ricordato più volte in questa storia, e che per le sue
stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato “l’Attila dei
pesci e dei pescatori”. Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla
vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma
quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di
una saetta».
Il mostro marino raggiunse Pinocchio e lo inghiottì.
«Il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il
povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con
tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al
Pesce-cane, batté un colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un
quarto d’ora.
Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non
sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da
ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di
essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Stette in ascolto e
non senti nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso
alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel
vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere
che il Pesce-cane soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva
proprio che tirasse la tramontana».
Nella Bibbia (Giona, II, 1), leggiamo:
«Ma il Signore dispose che un grosso pesce
inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti».
Il neofita, divorato dalla scienza, precipita nel
buio totale, poiché sono state spente le luci della mondanità della sua
esistenza primitiva. Nonostante questo riceve sempre dell’aria, variante
dell’acqua viva.
Anche nei Vangeli[1][7] leggiamo che «venuto mezzogiorno si fece buio su tutta
la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù esclamò a gran voce: Eloì,
Eloì, lamà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?».
È il melius spe licebat dell’anonimo Adepto
di Dampierre.
Di questo si parla pure nelle avventure del Santo
Graal. Evola scrive che «una delle avventure più notevoli è quella del Castello
delle Meraviglie — Chastel Mervil — di cui in Wolfram è detto: “I combattimenti
che fin qui avete affrontato non erano che giochi da bambini. Vicende
angosciose ora vi attendono”. In molti casi, il castello, dopo che l’eroe l’ha
raggiunto e l’ha visitato, sparisce di colpo ed egli si trova su una spiaggia
deserta o in una foresta».
Infatti, lo studiare i simboli ermetici è stato un
gioco da ragazzi, e una volta trovata la verità (castello), questa sparisce,
cioè non si è certo realizzata l’Opera, lasciando l’ermetista piuttosto deluso
del risultato ottenuto.
Krishnamurti dice che «se vi rammaricate di aver perso
tutto senza aver guadagnato nulla, significa che non avete capito, e mostrate
di persistere nella strada dell’affermazione del sé che porta verso la
destinazione da essa stessa segnata: l’autodistruzione, la solitudine,
l’immaturità. Ma se vedete questa strada per ciò che realmente è, non solo alla
fine, ma al principio — che, del resto, è identico alla fine — diventerà
impossibile per voi camminarvi sopra.
Una volta conosciuto il pericolo può capitare che vi
mettiate piede in un momento di disattenzione, ma ve ne ritrarrete
immediatamente. Vederne lo squallore desolante significa abbandonarla.
Perciò quel che avete da fare è vedere che specie di
strada sia, dove conduca, che rischio rappresenti; vedere, e già camminerete in
un’altra direzione. Questo intendiamo quando parliamo di consapevolezza,
rendersi pienamente conto dell’esistenza e del significato di una simile
strada, percepire i mille movimenti della vita che, pur sembrando diversi,
portano sul medesimo cammino. E non tentare di scoprire o di trovarsi
sull’altra strada, perché si resterebbe in quella solita.
Non si può vedere quello che dovete fare, ma
soltanto quello che non dovete fare. La totale negazione del vecchio è il
cominciamento del nuovo. La nuova strada non si trova su una mappa; non può
essere segnata su alcuna. Tutte le mappe indicano soltanto le strade vecchie,
le strade sbagliate».
Gli studenti di secondo grado si trovano veramente
in una situazione assai delicata. Molte allegorie fanno riferimento a questo
fastidioso periodo del Magistero, dal quale dipende la futura Pietra
Filosofale.
Filalete conferma:
«Noi che abbiamo lavorato e che conosciamo il
procedimento, sappiamo certamente che non esiste lavoro più noioso della
seconda operazione. Per questa ragione Morien avvertì il re Calid che molti
saggi si lagnavano sempre della noia che quest’opera procurava loro… E ciò che
ha fatto dire al celebre autore del Secret Hermètique che il lavoro
richiesto per la seconda operazione era una fatica d’Ercole».
«Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un poco
di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al
mostro marino allora cominciò a piangere e a strillare: e piangendo diceva:
— Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che
venga a salvarmi?».
Dopodiché, «parve a Pinocchio di veder lontan
lontano una specie di chiarore.
— Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? —
disse Pinocchio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del
Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che
vedeva baluginare lontano lontano.
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano
in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un
odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza Quaresima.
E più andava avanti, e più il chiarore si faceva
rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu
arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola
tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di
cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse
di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni
pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano
perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe
un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un’ette non cadesse
in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e
invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e
sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e
spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai
più, mai più!».
Senza dubbio di Collodi possiamo dire le stesse
parole che Fulcanelli indirizzò all’anonimo Adepto di Dampierre, scrivendo che
i suoi «emblemi alchemici classificano il nostro Adepto tra i Maestri
sconosciuti più istruiti sui misteri dell’Arte sacra».
Infatti, soltanto questo passo nasconde un vero
tesoro per un decifratore d’enigmi, e confermano, se mai fosse necessario, la
provata abilità del nostro Adepto.
Pinocchio incomincia a camminare mettendo un passo
dietro l’altro. L’importanza delle ripetizioni della dottrina è tale che non
esiste altro per uscire dal caos bianco.
«Apprendiamo anche, in modo che lo studente non
ignori nulla della pratica», scrive Fulcanelli «che questa separazione o
sublimazione dello spirito, deve farsi progressivamente e che bisogna ripeterla
tante volte quanto lo si riterrà necessario».
Qui il Maestro fa intendere un altro particolare
fondamentale, infatti, precisa che «queste reiterazioni potranno essere
rinnovate tante volte quanto lo permetterà la materia».
Cioè, senza imbottire inutilmente la testa di
nozioni.
Collodi, per far comprendere in quale via cammina
Pinocchio, ricorda la mezza Quaresima.
La
Quaresima, caratterizzata da veglie e digiuni, esprime assai
bene il lungo lavoro filosofale e, specie nei primi tempi, fastidioso, per
questo motivo divenuto sinonimo di cose, persone, discorsi noiosi: «Lungo come
una Quaresima».
La mezza Quaresima indica la fine della seconda
operazione ermetica. Diversi rituali popolari ricordavano questo importante
punto della Grande Opera. Senza dubbio, quello più importante è il Segavecchia
di metà Quaresima, in cui un fantoccio rappresentante una vecchia — la nostra
Madre pazza — viene legata e tagliata esattamente a metà.
«Questa festa antichissima» spiega Alfredo Cattabiani
«si svolge nel cuore della Quaresima, al quarto giovedì».
Franco Cardini ci assicura che «la vecchia si brucia
ancora a Castel del Rio, tra Firenzuola e Imola, e bruciature o segamenti di
vecchie, si avevano un po’ dappertutto, da Verona a Brescia, alla Romagna, alla
Toscana, all’Umbria fino a Palermo, dove sin l’inoltrato XVIII secolo, c’era la Sirratadi la Vecchia, segata in due
parti uguali, da dove uscivano dolci, frutta secca e così via».
«Il verbo greco príô» spiega Fulcanelli
«significa sia segare, tagliare con la sega, sia stringere, serrare, legare
fortemente. Poiché è contemporaneamente segata e stretta, dobbiamo pensare che
l’ideatore di queste immagini abbia voluto indicare chiaramente il metallo e
l’azione solvente esercitata su di esso».
Segare, quindi, significa tagliare, separare il
sottile dal grossolano. E la cosa risulta facile se l’illuminazione ha fatto
una buona presa (serrato fortemente) sulla psiche.
Soltanto in questo modo si può sperare di giungere
al chiarore dov’era diretto Pinocchio. E più andava avanti e più il chiarore
aumentava di splendore.
La realizzazione della seconda operazione è
simboleggiata dal ritrovamento del padre vestito di bianco. Egli si cibava di
pesciolini assai vivi, ci dice Collodi, per far intendere l’acqua viva. La
candela che illuminava la scena era infilata in una bottiglia di cristallo
verde.
A questo proposito faremo notare che la base delle
candele era usanza, una volta, dipingerle di colore verde, eloquente immagine
della base della nostra Opera. Da qui deriva la popolare espressione di «essere
al verde». La fiamma della candela arde e disgrega la restante grossolanità.
Tra il vegliardo e Pinocchio vi fu un lungo
abbraccio con la sicura promessa che non si sarebbero mai più lasciati.
Indicando, così, l’indissolubilità del mercurio filosofico e base tangibile
della nostra pietra.
Dopodiché, Pinocchio e Geppeto decisero di fuggire
uscendo dalla bocca del mostro marino.
«Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto
vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a
bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e
guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un
bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
— Questo è il vero momento di scappare, — bisbigliò
allora voltandosi al suo babbo. — Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è
tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e
fra poco saremo salvi…
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano:
e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del
mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di
denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:
— Montatemi a cavalluccio sulle spalle e
abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io.
Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle
spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua
e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in
tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così
profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata».
Giorgio De Rienzo scrive che questo «è un passaggio
che ha fatto pensare (così ha scritto il Trompeo) ad “Ulisse che esce
dall’antro di Polifemo”, nell’Odissea».
E l’analogismo osservato da Trompeo è esatto. Ulisse
uscì dall’antro mentre era aggrappato al ventre dell’ariete ermetico, mentre
Pinocchio, come il dio-pesce Vishnu[1][8], nuota portando su di sé il seme della vita, variante
dell’arca che porta il seme di tutti gli esseri viventi. È la traduzione
nascosta della materia preparata che si allontana dalla rozza materia nella
calma della notte mistica, col favore della luna, la nostra luna ermetica
variante dell’acqua viva. Parmenide scrive che «quindi a buon diritto la nostra
acqua Divina è chiamata la “chiave”, la “luce”, “Diana” che rischiara le
tenebre della notte. Perché essa è l’ingresso di tutta l’Opera, la porta che illumina
ogni uomo».
A questo punto il nostro Adepto, per far meglio
intendere i tre principii ermetici, fa andare in soccorso dei due un tonno che,
prendendoli in groppa, li portò felicemente a riva.
Una volta a riva incontrarono il gatto e la volpe
caduti «nella più squallida miseria».
Pinocchio ricordò loro la grande legge della
Creazione:
«Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del
proverbio che dice: “I quattrini rubati non fanno mai frutto”… Addio,
mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: “La farina del diavolo va tutta
in crusca”. ».
Più tardi tornò a incontrare pure il grillo
parlante, e questa volta la grande legge fu per lui.
«— Oh! mio caro Grillino, — disse Pinocchio
salutandolo garbatamente.
— Ora mi chiami il “tuo caro Grillino”, non è vero?
Ma ti rammenti di quando, per scacciarmi di casa tua, mi tirasti un martello di
legno?…
— Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me… tira
anche a me un martello di legno: ma abbi pietà del mio povero babbo…
— Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma
ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo
mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser
ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.
— Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io
terrò a mente la lezione che mi hai data».
Pinocchio andò a lavorare da un ortolano girando il
bindolo del suo pozzo, per procurare del latte al suo vecchio padre.
Egli estraeva, così, l’acqua dal pozzo dei filosofi
che trasformava in latte.
Quella sorgente, spiega Fulcanelli «la mitologia la
chiama Libertha e ci racconta che era una sorgente di magnesia, e che nelle
vicinanze c’era un’altra sorgente chiamata la Roccia. Ambedue
scaturivano da una grossa roccia la cui forma somigliava a un seno di donna; di
modo che l’acqua sembrava colare da due mammelle come se fosse latte».
«— Finora questa fatica di girare il bindolo, —
disse l’ortolano, — l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero
animale è in fin di vita.
— Mi menate a vederlo? – disse Pinocchio.
— Volentieri.
Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un
bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro.
Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di
sé, turbandosi:
— Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è
fisonomia nuova!
E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto
asinino:
— Chi sei?
A questa domanda, il ciuchino aprì gli occhi
moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:
— Sono Lu…ci…gno…lo.
E dopo richiuse gli occhi e spirò.
— Oh! povero Lucignolo! — disse Pinocchio a mezza
voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava
giù per il viso».
«L’inutilità di una vita sciupata» diceva
Krishnamurti «della quale ci rendiamo conto soltanto nell’ora della morte, ma
allora sarà troppo tardi. L’assoluta mancanza di significato di una vita spesa
in un ufficio o in una fabbrica. Andare per cinquant’anni in ufficio, un giorno
dopo l’altro, e alla fine… la morte».
A questo proposito, congediamoci qui una breve
digressione.
Una ventina d’anni fa un vecchio scrisse su un
periodico, affermando che quando era bambino, mentre si trovava nella culla,
vedeva sulla parete di fronte un essere come un piccolo gnomo che tutto un
tratto s’ingrandiva fin quasi ad occupare l’altezza della parete.
Queste visioni si ripeterono più volte, e lo
spaventarono talmente che se le ricordò per tutta la vita.
Così, nella sua vecchiaia, sebbene non l’avesse mai
detto a nessuno, si decise a scrivere ad un giornale nella speranza di avere
finalmente una risposta alla questione che l’assillava da anni.
L’immagine ricorrente che vedeva era una proiezione
della sua mente e fa parte del condizionamento collettivo, come nei sogni. La
simbologia onirica, infatti, è composta in gran parte d’immagini appartenente
al condizionamento collettivo, e altre a quello individuale.
«In realtà accade questo strano, irrevocabile fatto»
afferma Krishnamurti «che noi siamo tutti fatti dello stesso stampo, che
facciamo esperienza della stessa angoscia, speranza, paura, morte, solitudine
che causano una tale disperazione. Così voi siete l’intera umanità».
Siccome gran parte della simbologia del nostro
patrimonio culturale è ermetica, così lui vedeva uno gnomo.
Lo gnomo, come abbiamo visto, è uno dei tanti
simboli con cui i Saggi hanno indicato la loro materia adatta a compiere la Grande Opera. È
presentato piccolo e deforme proprio perché deve ancora compiere la sua
evoluzione.
Françoise D’Eaubonne scrive che secondo la leggenda
«i nani prepararono i loro pasti nei fori dei menhir». Perché i nani o
gli gnomi debbono svilupparsi.
Quindi, il significato del messaggio che tanto ha
assillato quel povero vecchio era semplicemente fondamentale.
Il suo stesso essere lo invitava con tutta
l’importanza della situazione. Cioè lo invitava, ora che era tornato per
l’ennesima volta a reincarnarsi, a non sciupare più un’esistenza come aveva
sempre fatto, ma di compiere lo scopo dell’esistenza, che è quella di
realizzare la Grande
Opera.
Per concludere, un amico di chi scrive gli ha
assicurato che un uomo che viveva nella sua stessa cascina, da bambino vedeva
spesso di notte delle persone di bassa statura che si recavano con un
secchio a prendere l’acqua nel pozzo: la nostra acqua viva, cioè proprio come
faceva Pinocchio.
Così, Pinocchio ora, sistematosi in una capanna, si
occupava del suo babbo.
«Fatto sta, che con la sua buona volontà
d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a
mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di
più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un
vestitino nuovo».
Quando seppe che la stessa fata era malata, aumentò
il lavoro per curarla, intanto le inviò i quaranta denari che gli sarebbero
serviti per comprarsi il vestito nuovo.
«Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire,
gli parve di vedere in sogno la
Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato
un bacio, gli disse così.
— Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io
ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che
assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro
infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono
esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per
l’avvenire, e sarai felice.
A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò
con tanto d’occhi spalancati.
Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia
quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno: ma che
era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata
all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una
bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante.
Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto
nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.
Appena si fu vestito gli venne fatto naturalmente di
mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul
quale erano scritte queste parole: “La
Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i
quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore”.
Aperto il portamonete, invece dei quaranta soldi di
rame, vi luccicavano quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.
Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve
d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di
legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli
castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua
di rose.
In mezzo a tutte queste meraviglie, che si
succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era
desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.
— E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà
nascosto?
— Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un
grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con
le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da
parere un miracolo se stava ritto.
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe
guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
– Com’ero buffo, quand’ero un burattino!… e come ora
son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…».
Tutto l’insegnamento del grande Adepto Collodi
consiste nel trasformare un burattino in un uomo. Essendo un’istruzione
improntato al millenarismo, il suo insegnamento non si estende fino alla Pietra
Filosofale, ma si limita all’elaborazione della pietra dei filosofi.
L’essere umano deve finirla di essere una marionetta
e diventare un vero uomo, maturo, profondo e ricco di bontà.
Questo dovrà essere l’uomo muovo del Chiliasmo, o
della nuova Era.
In seno alla
divisione del lavoro una società particolare non può avere alcun compito
Ritorniamo ora, seguendo queste premesse, alla
Frammassoneria, per non staccarcene più, costruiamovi sopra alcune durevoli
conseguenze.
La Massoneria invero non può proporsi nessuno degli scopi, a
cui si dedica già notoriamente apertamente qualcuna delle classi, degli
indirizzi e ordinamenti esistenti nella società umana; essa non può voler
attraversare la strada, né procedere accanto ad alcun’altra associazione: poiché
in tal caso essa sarebbe superflua, in quanto volesse fare già quel che già
accade senza di essa. Né potrebbe addurre a propria scusa il fatto che la
pubblica istituzione, di cui volesse mettersi a fianco e adottare lo scopo,
fosse manchevole e difettosa. È cosa di mera usurpazione il voler far meglio in
via di occupazione secondaria ciò che altri non possono far meglio come loro
occupazione principale; è una pazzia il pronunciare sentenza di condanna sopra
istituzioni, che forse si conoscono soltanto secondo il loro aspetto esteriore,
e non secondo le inevitabili difficoltà che esse trovano nell’oggetto della
loro attività. Ciascuna di queste istituzioni in seno allo stato porta in se
stessa il germe del miglioramento e tende alla perfezione: per la Massoneria
può solo presentarsi, in generale, il problema, se vi è un’istituzione per un
certo scopo, c non come essa vi soddisfa; poiché di ciò altri hanno a curarsi.
Se essa volesse attivamente invadere un piano d’azione estraneo, non farebbe
che diffondere il disordine, e in pari tempo disturberebbe e devierebbe la sua
attuazione: sarebbe anzi sommamente nociva, in quanto dovrebbe oltre tutto far
ciò in segreto, poiché pubblicamente non si conosce alcun singolo ramo
dell’incivilimento umano ch’ella potesse intraprendere.
L’uomo savio e virtuoso non potrebbe sostenere una tal
società, qualora essa volesse occuparsi di questioni ecclesiastiche o
politiche, filosofiche erudite o commerciali: egli dovrebbe anzi, una volta
conosciuta la sua esistenza perturbatrice, giudicarla a fondo. E non
occorrerebbe altra maggiore fatica che di farla conoscere; poiché è supremo
interesse dell’intera società umana e di ciascun suo ramo, dello stato, della
Chiesa, del pubblico dotto c commerciante, di annientare una tale associazione,
tosto ché essa venga conosciuta.
Così resterebbe interamente c incondizionatamente escluso
dalla Massoneria ogni scopo di cui già si occupi una qualche classe sociale; e
sarebbe egualmente pazzesco e ridicolo
che i suoi membri si occupassero in segreto di fare buone scarpe, che di
riformare nel tutto o nelle parti lo stato. Ogni Massone, che volesse negare
ciò, porrebbe in non cale non solo il suo buon volere e la sua intelligenza massonica,
mail suo stesso buon senso.
Maun qualche scopo essa deve però averlo: altrimenti sarebbe
un vano, vuoto scherzo, l’uomo savio e
virtuoso tanto poco potrebbe occuparsene, quanto se essa si proponesse il
suddetto scopo dannoso.
Ma questo può essere solo uno scopo di tal genere, che la
maggiore società umana non abbia per esso alcuna speciale istituzione; uno
scopo per cui ella, giusta la natura dello scopo stesso e quella della società,
non possa avere alcuna speciale istituzione.
Poiché se la società potesse avere una tale istituzione,
all’uomo savio e virtuoso meglio converrebbe accogliere questa istituzione in
seno della grande società e farmela anzi scaturire, piuttosto che voler
promuovere il suo fine mediante una separazione da questa società. La natura
della grande società e dello scopo pertinente alla sua cerchia esigerebbe
incondizionatamente che egli richiamasse attenzione dello stato sopra questo
ramo sin qui dimenticato, e quasi non si riesce a concepire come, della sua
attività; allo stato egli dovrebbe poi, e di nuovo incondizionatamente, lasciar
piena libertà di pensare o no alle istituzioni corrispondenti; in nessun caso
potrebbe egli segregarsi con una società per dedicarsi attivamente a questo
scopo, perché egli non è fatto, assolutamente, per questa forma di attività.
Si domanda ora se può darsi un siffatto scopo, razionale e
buono, per il quale la maggiore società non possa, giusta la sua natura, avere
alcuna istituzione particolare, e quale sia questo scopo: l’unico scopo
possibile della Massoneria (considerata nel suo puro aspetto di società «separata»)
sarebbe così trovato.
L’evoluzione umana vien posta in pericolo dalla divisione del lavoro –
FICHTE
Ora, ciascun singolo si forma in grado eminente soltanto per
la condizione che ha scelto.
Dalla giovinezza in poi egli viene per sua scelta e per
circostanze accidentali determinato verso una forma di vita, e viene tenuta in
conto della migliore quell’educazione che prepara il ragazzo per la sua futura
vocazione nella maniera più conforme allo scopo; rimane posto in disparte tutto
ciò che sta nella
più stretta relazione con quella, o ciò che in lui non può,
come s’usa dire, essere utilizzato. Il giovinetto destinato a diventare un
dotto impiega tutto il suo tempo a imparare le lingue e le scienze, e proprio
con preferenza per quelle che sono necessarie per guadagnarsi il pane in avvenire,
quindi con minuziosa esclusione di quelle che richiede la formazione del dotto
in generale. Tutte le altre forme di vita e attività gli sono estranee,
com’esse [del resto] sono estranee l’una all’altra. Il medico ha rivolto tutta
la sua attenzione alla sola medicina, il giurista alla legislazione del suo
paese, il mercante a quel determinato ramo del suo commercio, il fabbricante
alla sola produzione del suo manufatto. Nel suo campo egli sa quanto occorre, e
anzi con maggiore chiarezza e fondatezza: questo [sapere] gli è quindi
particolarmente caro, e lo considera come sua proprietà acquisita; in esso vive
come nella sua casa paterna. E tutto questo è bene, ciascuno fa in ciò il
proprio dovere, e il tenore contrario non solo sopprimerebbe tutti i vantaggi
della società, ma sarebbe dannoso anche al singolo, come al tutto.
Ma da ciò sorge in tutti necessariamente una certa
incompiutezza e unilateralità, che, se non proprio necessariamente, almeno però
abitualmente si trasforma in pedanteria. La pedanteria, che ordinariamente si
confonde con la sola classe erudita, forse perché essa vi è più visibile, forse
perché vi si dimostra maggiore intolleranza, domina in tutte le classi sociali
e il suo principio fondamentale è
dappertutto il medesimo, cioè il seguente: di tenere in
conto di educazione generalmente umana l’educazione appropriata al proprio
stato particolare, e fare ogni sforzo per realizzarla. Così l’erudito pedante
stima solo la scienza e deprime ogni altro valore; le sue lezioni e
conversazioni in società di gente mista procedono allo scopo di comunicare ai
suoi uditori una particella della sua dottrina e farli bramosi della precisione
di pensiero ch’egli possiede. Il mercante pedantesco sprezza per contro
l’erudito e proclama: «non vi è che computo e denaro! il denaro è la soluzione
[del problema]
della vita ragionevole e felice». Il guerriero sprezza l’uno e
l’altro, stima soltanto forza fisica e agilità, coraggio bellico e difesa
dell’onore com’egli la intende, e non gli rincrescerebbe arruolare tutti quelli
che sanno battere il tempo di marcia. I teologi in modo eminente (poiché la
loro classe ha ottenuto fra tutte il maggior influsso, o per amore del cielo o
per timore dell’inferno) si affaticano, da quando hanno esistenza, a educare in
tutti gli uomini, fino giù ai ragazzi del villaggio, dei teologi ben fondati e
dei dogmatici di polso. «Mirate avanti tutto al regno di Dio, il resto è cosa
meschina!» dicono i teologi, e con loro tutte le altre classi sociali, e
sappiamo bene quello che intendono per il regno di Dio.
Così domina dappertutto una grande unilateralità, ora utile
e ora dannosa: così ciascun individuo non è soltanto un dotto, ma teologo o giurista
o medico, non è soltanto uno spirito religioso, ma cattolico o luterano, ebreo
o maomettano, non è soltanto un uomo, ma politico, mercante, guerriero; e così
dappertutto si impedisce, con l’educazione di classe più alta possibile, la più
alta possibile evoluzione dell’umanità, il sommo fine dell’esistenza umana;
anzi essa deve restar impedita, perché ciascuno è gravato dall’ineliminabile
dovere di educarsi il più perfettamente possibile per la sua particolare
occupazione, e questo è quasi impossibile se non si affronta il rischio
dell’unilateralità