QUESTO LIBRO

 

 

di  Biancamaria Puma

 

 

Questo libro di Biancamaria Puma è un contributo molto importante alla storia culturale e politica del nostro Paese. Esso può avere sugli studiosi il medesimo effetto che ebbe, nell’ultimo anno del secolo scorso, la pubblicazione degli inediti gramsciani. Penso alle celebri Lettere dal carcere di Antonio Gramsci che furono pubblicate, come Lettere 1926-1935 includendo le risposte della cognata Tatiana Schucht, solo nel 1999. Questo libro costituisce un passaggio importante per chi voglia praticare una nuova via di consulenza tra antropologia culturale e religiosa, biomedicina e psicoanalisi. Tale percorso è reso piu agile dal fatto che la psicoanalisi in questione a sua volta mette in atto una propria peculiare forma di ricerca sul campo, se non una vera e propria etnografia autonoma, manifestandosi come una scienza attenta alle persone nella pratica. Quei mondi disciplinari, seppure diversi, condivisero una comune sensibilità conoscitiva nel cogliere l’indole delle pratiche magico-religiose nella dimensione umana, esistenziale, culturale, talora nei rapporti di forza tra istituzioni visibili ed esperienze invisibili, tra materialità e spirito, tra istituzione e persona. E anche grazie a loro che le psico-antropologie odierne possono offrirsi come strumenti utili per comprendere le attuali forme di (ir)razionalismo e di (neo) oscurità, nonché i complessi magismi delle istituzioni e le stregonerie degli Stati nazionali contemporanei. In un percorso di studio e di ricerca di sicuro valore, destinato a sollevare nuovi interessi filologici e storici sulla vicenda peculiare della ricerca psico-antropologica dedicata agli aspetti magico-religiosi del Sud d’Italia, Puma ci mette a disposizione un materiale di grande importanza e lo fa con toni di incisività e chiarezza, con parole di amorevolezza e fiera rivendicazione del ruolo del Maestro. Sentimenti che traspaiono da una scrittura attenta alla documentazione e nondimeno appassionata e partecipe, che possono essere valorizzati alla lettura e che ci consentono di ricostruire, con maggiore dovizia documentale, una fase strategicamente importante della storia politico-culturale del nostro Paese.” (dalla Prefazione di G. Pizza)

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LA LUCE DELLE IDEE NELLA BELLEZZA DELLE AZIONI

Il tema della Gran Loggia 2024 scelto dall’attuale Giunta del Grande Oriente d’Italia guidata dal Gran Maestro Stefano Bisi, sarà: “La luce delle idee nella bellezza delle azioni”. Cogliendolo spunto dal filo conduttore della massima assise massonica italiana, che si terrà a Rimini il 5 e 6 aprile prossimi venturi e che vedrà, tra l’altro, anche la proclamazione del nuovo Venerabilissimo Gran Maestro Antonio Seminario vorreI riportare, in questo mio scritto, alcune brevi riflessioni sulla potenza che la luce delle idee può portare nelle nostre azioni. Il nostro Ordine, specie negli ultimi anni, si è spesso ritrovato a dover riflettere ed agire diviso tra alcuni concetti apparentemente distanti fra loro, se non addirittura, contraddittori. Mi riferisco alla memoria del nostro passato, alla necessaria lettura ed interpretazione del presente ed alla progettazione delle azioni per il futuro. Inoltre, è stato più volte chiamato a dover sciogliere una ambivalenza importante fra due diverse visioni. Una, di matrice prettamente illuminista, aica e laicista della Società, intesa nel senso più profondo del termine, quale autonomia culturale e politica contro ogni forma di clericalismo e di confessionalismo. L’altra, che si rifà, invece, ad una tradizione rituale e simbolica che si richiama alle sue più antiche e profonde radici iniziatiche e spirituali. Se vogliamo veramente lavorare per il bene dell’Umanità, se desideriamo operare per la realizzazione di un latomismo mondiale, di un’unica grande Patria di tutti i Liberi Muratori, una patria trasversale, transnazionale, capace di coagulare, armonizzare ed utilizzare le differenti sapienze figlie dei diversi luoghi della Terra, dobbiamo, nel prossimo futuro, affidarci alla forza delle nostre idee, le quali, come fari nella notte, ci hanno sempre indicato e continuano a mostrarci la strada da percorrere. Dobbiamo guardare al nostro futuro ricordando e facendo tesoro del nostro passato, perché una progettualità senza memoria è il progetto di una casa costruita sulla sabbia. Dovremo esprimere il meglio di noi stessi, tutti assieme, in una fraterna, grande catena di unione, in un egregore universale che isoli ciò che divide, per cogliere il bene presente in tuttele diverse istanze. Dovremo creare un “athanor” ideale che, con il fuoco rappresentato dalle idee fondanti il nostro Ordine, permetta di estrarre la Pietra Filosofale della nuova Massoneria del XXI secolo. E il fuoco di tale opera alchemica per il nostro ordine non può che venire dalla potenza delle nostre idee. II nostro passato, la nostra tradizione non sono affatto concetti statici e cristallizzati, bensì organismi viventi, forze dirompenti in continua evoluzione che ci forniscono le chiavi per aprire le porte del futuro, che ci aiutano a risolvere le grandi sfide che si parano davanti a noi per i prossimi anni. I nostri antichi simboli, nati per superare la mediazione e le limitazioni del linguaggio logico deduttivo, strumenti per creare un imprevedibile, a priori, nuovo intreccio di pensieri ed idee ci dovranno supportare, ancor di più che nel passato, per creare la Massoneria dei prossimi anni, alla ricerca della pietra oscura nascosta all’interno di ciascuno di noi, che dovremo continuare, incessantemente, a sgrossare. Così facendo, una volta ritrovata la nostra vera anima, le antiche idee potranno unirsi alle nuove istanze; la libertà del singolo, all’interno delle regole dell’Ordine, diverranno la libertà di tutti noi. Perché ogni Tempio interiore deve, necessariamente, aprirsi al mondo esterno, ma deve, altresì essere costruito rispettando ferree norme iniziatiche.
La luce delle nostre idee deve illuminare le zone d’ombra della nostra Società, non concorrere a rendere lanotte ancora più lunga e impenetrabile! Noi Massoni, costruttori di ponti, mai di steccati, dovremo ritornare ad essere un faro per la Societàe non, come a volte, purtroppo, avviene, un mero specchio del degrado profano. Dobbiamo ritornare ad essere l’avanguardia laica e spirituale del consesso civile, riprendendo e rafforzando i nostri principi iniziatici, fondamenti del nostro Ordine secolare. Solo così si potrà diventare esempio per il Mondo civile; solo così il sogno dei nostri Padri fondatori che tutti noi abbiamo condiviso al momento della nostra iniziazione, potrà diventare il sogno della Massoneria Universale. Tutti i Fratelli, ciascuno con le proprie diversità, peculiarità ed eccellenze, uniti in egregore, con la condivisa volontà di operare per ilnostro rinnovamento interiore e per il bene dell’Umanità. E’ questa la riflessione che io consegno alla Comunione Massonica, la vera potenza delle nostre idee che dovrà guidare le nostre azioni future

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NASCITA DELLA MODERNA MASSONERIA

NASCITA DELLA MASSONERIA MODERNA

 

 

L’uomo è sempre stato un costruttore e in nessun luogo ha svelato se stesso in modo più significativo che nelle sue costruzioni. Quando ci troviamo dinanzi ad esse – si tratti di una capanna di fango, della casa di un abitante delle scogliere, di una Piramide, del Partenone o del Pantheon – ci sembra di leggere nella sua anima poiché le sue costruzioni rivelano un senso dell’invisibile, le sue speranze, le sue paure, le sue idee, i suoi sogni… hanno sempre un riferimento al sacro, ricorrente in ogni tradizione a partire dall’Antico Egitto fino ad arrivare alle Corporazioni muratorie di età romana (collegia fabrorum) che mantennero la peculiarità di attribuire carattere di sacralità ai suoi membri, agli attrezzi di lavoro e all’Arte che veniva tramandata all’interno della stessa, come è anche attestato dalla simbologia rimasta a testimonianza di antichi riti muratori di morte e di rinascita.

 

Questa forte tradizione muratoria nata in seno ai collegia frabrorum non si perde con la caduta dell’impero romano, anche se per molti secoli sembra tacere. Alle soglie del secondo millennio, infatti, riappare con ancor maggior fulgore, nell’Europa cristiana con l’edificazione di chiese e cattedrali ad opera di liberi muratori che tali erano, pare, in forza di una bolla papale che concedeva loro il privilegio di muoversi liberamente per tutto il continente.

 

Fieri e gelosi di questa libertà così rara e inusitata in quei tempi di servitù e vassallaggio, i maestri muratori dell’XI costituirono vere e proprie gilde indipendenti dalle autorità e, al loro interno, ogni gilda veniva strutturata in tre gradi: gli apprendisti, che imparavano l’arte osservando e preparando i materiali; i compagni d’arte, che operavano fattivamente nell’edificazione delle opere; infine i maestri, che progettavano e sovrintendevano ai lavori.

 

Col passare del tempo, poi, molte gilde accettarono al loro interno anche membri non addetti al mestiere muratorio così che la   Operativa divenne lentamente sempre più ricca di elementi prettamente speculativi, spesso protetti dalla gilda stessa poiché portatori di una cultura non pienamente legittimata dagli ambienti ufficiali. Anche gli eredi della tradizione sapienziale rinascimentale si rifugiano nelle Logge muratorie, rendendole progressivamente delle vere e proprie Accademie in cui studiavano ritualità iniziatiche, arcane proporzioni numeriche tramandate dai Maestri Costruttori, ma anche antiche conoscenze alchemico-esoteriche di svariati Ordini cavallereschi.

 

Se le radici della Massoneria speculativa possono, quindi, farsi risalire all’innesto nelle corporazioni muratorie medievali di elementi ermetici e rosacruciani, la nascita della Massoneria moderna ha una data ben precisa: il 24 giugno 1717, con il costituirsi a Londra della prima Gran Loggia. In realtà, per comprendere come un episodio in fondo banale – il raggruppamento di quattro Logge che decidono di costituirsi in Gran Loggia – sia potuto assurgere a fatto di rilevanza universale, bisogna far riferimento a quel particolare momento storico e culturale che si stava maturando, soprattutto in Inghilterra, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo con l’avvento della seconda rivoluzione inglese e dei suoi valori di liberalismo politico-economico che sono tutt’oggi alla base della nostra civiltà.

 

È in questo identificarsi con quel clima culturale di “progresso” e di cosmopolitismo che la Massoneria propugna i principi cardine della libertà e della tolleranza, sicché l’uomo, liberato dalla schiavitù politica, dal fanatismo e dai pregiudizi, grazie alla Ragione, sarebbe potuto pervenire alla costruzione di un mondo migliore.

 

La Gran Loggia, dopo un primo periodo di stasi, si sviluppò rapidamente (nel 1725 si contavano 64 Logge) anche oltre l’Inghilterra. La prima notizia di un massone italiano, dopo la stesura delle Costituzioni di Anderson, si ha nel 1732, anno in cui, alla data del 4 agosto, il poligrafo Antonio Cocchi vergò nel suo diario d’essere stato iniziato in Loggia, a Firenze e da ciò possiamo dedurre che a quella data erano già attive delle logge in Toscana.

 

Per la verità la diffusione dovette essere in quel periodo assai rapida anche altrove, se nel giro di pochi anni abbiamo notizia di logge a Napoli, Verona, Roma, Firenze, Livorno, Pavia, Padova, Torino, Modena. La composizione sociale era per lo più di estrazione borghese o nobiliare, come anche in Inghilterra e in Francia: militari, magistrati, funzionari di corte, ecclesiastici vicini al giansenismo, liberi professionisti, commercianti, studiosi ed eruditi si riunivano nelle logge, attratti dall’ideologia liberale e dalle aspirazioni livellatrici ed egalitarie delle logge inglesi, ma anche dal fascino della riscoperta di definizioni e di ritualità di cui si era perso da secoli il ricordo.

 

 

Storia della Gran Loggia D’Italia

 

La Gran Loggia D’Italia si formò nel 1910 sotto la guida dell’allora Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Saverio Fera da un nucleo del Supremo Consiglio di Rito Scozzese Antico ed Accettato che il 24 giugno 1908 aveva lasciato il Grande Oriente d’Italia. All’origine della profonda divergenza, la mancata approvazione al parlamento del Regno d’Italia di una regolamentazione della istruzione religiosa nelle scuole elementari.

 

In realtà, da sempre all’interno del Gran Oriente d’Italia che raggruppava tutte le Logge del territorio nazionale esistevano due tipologie di linee rituali che convivevano: quella del Rito Simbolico propugnata dai massoni più sensibili all’impegno politico e i seguaci del Rito Scozzese Antico e Accettato che erano, invece, profondamente convinti che la massoneria dovesse essere unicamente una società iniziatica ed esoterica, votata, perciò, solo alla crescita di determinati valori umani.

 

Il contrasto, già vivo, si acuì appunto quando il Grande Oriente d’Italia pretese di imporre ai suoi iniziati che professionalmente erano anche deputati al Parlamento l’obbligo di seguire in politica le proprie direttive, spingendosi fino al punto di colpire quanti non si sarebbero adeguati alle stesse, stringendo accordi elettorali con la parte cattolica.

 

Il conflitto divenne acuto quando esplose il problema dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica. Il 21 febbraio 1907, l’on. Bissolati presentò una mozione che tendeva ad affermare il carattere laico della scuola elementare, vietando l’insegnamento religioso e il Gran Maestro Ettore Ferrari si impegnò a fondo per far prevalere codesta mozione, minacciando addirittura l’espulsione dalla Massoneria i numerosi Fratelli che sedevano in Parlamento, eventualmente inosservanti di quell’indirizzo.

 

L’Ordine fu così coinvolto in un’aspra lotta politica, rivelando la sua natura di partito, con un anticlericalismo viscerale, spesso sfociato in ateismo e, ancora più frequentemente, in contenuti blasfemi. Saverio Fera, dal vertice del Rito Scozzese, oppose la libertà di coscienza, con conseguente libertà di voto a favore di tutti i parlamentari. Da qui l’inevitabile scissione fra i due Corpi e l’affossamento del progetto della unificazione dei Riti che aveva tanto affaticato le due anime della massoneria italiana. A seguito di questo evento nacque la Gran Loggia d’Italia che nel 1910 portava il titolo distintivo di Serenissima Gran Loggia d’Italia (S.G.L.D.I.) e già nel 1915 contava più di cinquemila fratelli. Fin dal 1912 la Conferenza Internazionale dei Supremi Consigli di Rito Scozzese, riunita a Washington, la riconobbe come unica diretta discendente del Grande Oriente fondato dal Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato per l’Italia del 1805.

La S.G.L.D.I., come ogni altra obbedienza massonica, fu poi soppressa nel 1925 a seguito della promulgazione della Legge sulle Associazioni del governo di Mussolini. L’Obbedienza rinacque solo il 4 dicembre del 1943 in casa di Salvatore Farina in via Priscilla 56 a Roma, dove fu ricostituito un nuovo Supremo Consiglio ed eletto Sovrano Gran Commendatore p.t. l’avvocato Carlo de Cantellis che rimase in carica fino a quando la Capitale non fu liberata.

Seguirono i confusi anni del secondo dopoguerra, ove Gran Maestri e Sovrani Gran Commendatori si succedettero in un breve lasso di tempo: fra gli altri ricordiamo Pietro Di Giunta, Giulio Cesare Terzani, Ernesto Villa, Domenico Fransoni, Ermando Gatto, Tito Ceccherini. Il 24 giugno del 1962 si riunì a Roma la Grande Assemblea Elettorale che elesse Gran Maestro, con due soli voti contrari, Giovanni Ghinazzi; egli rimase ininterrottamente alla guida dell’Obbedienza fino alla morte, che lo colse il 14 novembre del 1986. Nei suoi ventiquattro anni di mandato Ghinazzi vide fondare 237 Officine, regolarizzarne 14, riemergerne 20. Inoltre, creò dal niente i rapporti fra la Gran Loggia d’Italia e numerose Comunioni straniere.

Il 22 giugno del 1965 la Comunione assunse la denominazione di Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Muratori (G.L.D.I. degli A.L.A.M.). Nella stessa data fu ufficialmente inaugurata le sede centrale di Roma, sita in Palazzo Vitelleschi in Via San Nicola de’ Cesarini 3, Area Sacra di Torre Argentina.

Alla morte di Giovanni Ghinazzi si susseguirono diverse reggenze durante le quali furono fondate la casa editrice EDIMAI e la rivista ufficiale denominata Officinae, fino all’attuale Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luciano Romoli, eletto il 30 novembre del 2019. Ciascun Sovrano ha offerto il proprio contributo navigando al meglio in acque spesso travagliate per un antimassonismo da sempre radicato nel Paese.

 

Gran Loggia d’Italia degli

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LIBERTÀ E MASSONERIA NELLA SOCIETÀ IN EVOLUZIONE


MESSAGGIO Dl PRESENTAZIONE
DEL GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D’ITALIA
VEN. FR. VIRGILIO GAITO
Carissimi Fratelli,
In parecchie Nazioni esiste una tendenza a considerare la Massoneria soltanto da un punto di vista filantropico, di associazione che si occupa di soccorrere i poveri, i malati, gli afflitti e questo è senz’ altro una delle cose più belle che la nostra Istituzione possa fare.
Ma dobbiamo riportarci alle nostre antiche tradizioni che si riallacciano alle Corporazioni dei Liberi Muratori costruttori dei templi di pietra. Ad esse sono subentrate le Logge speculative nelle quali i Massoni operano per la costruzione del Tempio ideale in cui l’iniziato si purifica e, giorno dopo giorno, raggiunge sempre più elevati gradi di perfezione e di conoscenza.
E proprio in virtù di questa particolare conoscenza noi siamo in grado di operare realmente al servizio dell’Umanità. Questa – e in particolare i giovani – ha oggi più che mai bisogno dei nostri Ideali.
Veniamo dalle spaventose esperienze di due guerre mondiali, di conflitü atomici, di deportazioni, genocidi, esperimenti scientifici sconvolgenti, stragi, conflitti etnici e religiosi che hanno pressoché annientato l’ alü•uismo, la generosità, lo spirito di solidarietà.
Viviamo dunque in un mondo caratterizzato dall’ edonismo, dal consumismo, dalla ricerca dell’ effimero e dalla sete sfrenata di dominio, non solo politico, ma soprattutto delle coscienze e delle scelte economicosociali dei popoli.
La libertà e la dignità dell ‘uomo vengono disinvoltamente calpestate e la mancanza di cultura rende intere popolazioni facile preda di furbi manipolatori dell’ opinione pubblica e dell ‘ andamento dei mercati.
Noi Massoni, che fin dalla prima esperienza dell ‘ Apprendista abbiamo imparato a distinguere attraverso l’ insegnamento del Maestro Venerabile quale sia la vera Luce, sappiamo che questa significa conoscenza e quindi cultura.
6 Agorà aprile-giugno 1997
E la cultura è ricerca continua della propria interiorità.
Ma tale ricerca può essere compiuta soltanto se si possiede la libertà.
Ma la libertà non può dissociarsi dalla dignità che si fonda sul rispetto profondo di se stessi e degli altri e su un convinto spirito di tolleranza.
Sono dunque queste conquiste straordinarie che un uomo può raggiungere nella sua vita e sono quelle che lo pongono in una posizione superiore e distaccata da cui egli può osservare con estrema obiettività tutte le problematiche del mondo che lo circonda individuandone gli aspetti negativi e le possibilità di soluzione.
Questa nostra caratteristica peculiare ci carica di una responsabilità verso l’ Umanità perché quell’ altruismo al quale ci ha esortato il Maestro Venerabile al momento della nostra Iniziazione deve spronarci a mettere a disposizione, non solo degli altri Fratelli, ma dell ‘ intero mondo profano, il patrimonio di conoscenze sublimi acquisito e di indicare con l’autorevolezza della straordinaria forza morale conquistata, la via del miglioramento e della salvezza degli uomini.
E questo compito deve essere sentito da ciascuno di noi in tutti gli aggregati sociali di cui facciamo parte apportando in essi il nostro equilibrio, la nostra preparazione, il nostro senso dello Stato. Ma in ogni nostra azione dobbiamo evitare di coinvolgere la nostra Istituzione come tale.
La Massoneria infatti non deve essere mai coinvolta in questioni di politica partitica o istituzionale, né in dispute religiose o teologiche perché essa deve rappresentare il centro di aggregazione di tutti gli uomini liberi e dediti al bene e al progresso dell’ Umanità.
In questo senso appare sempre valido il principio elaborato da Anderson che vieta le discussioni di politica e di religione nelle Logge. Tuttavia, poiché viviamo nel cosiddetto VILLAGGIO GLOBALE dove aspirazioni, bisogni, regole di convivenza sono ormai comuni a una moltitudine di uomini, i Massoni puri, che si riconoscono nella pratica e nella credenza degli stessi ideali, hanno il dovere di scambiarsi notizie, opinioni, suggerimenti per aiutarsi a vicenda nella ricerca delle soluzioni più idonee a beneficio di tutti.
Queste riflessioni, che già esprimemmo al II Convegno nazionale dei Gran Maestri tenutosi a Lisbona nel settembre 1996, sono oggi alla base del Simposio che il Grande Oriente d’Italia ha organizzato a Roma per i giorni 14, 15 e 16 novembre 1977.
In preparazione del III Congresso che avrà luogo a New York nel maggio 1998, abbiamo ritenuto molto importante che il Simposio di Roma dibatta principalmente il tema della “Libertà e Massoneria nella società in evoluzione” perché la libertà è connaturata al modo di essere del Massone ed è il bene ineludibile sul quale si fonda da sempre ogni società.
Poiché però il mondo del Terzo Millennio sembra avviato verso traguardi che non consentono l’ eguale realizzazione, con pari dignità, delle legittime e pure aspirazioni degli individui e dei popoli verso un mondo migliore e qualificato da vera fraternità, è indispensabile ed urgente che i Massoni riflettano sulla necessità che il valore essenziale della libertà venga difeso e fatto entrare nella coscienza di tutti a difesa del reale progresso dell ‘umanità.
Siamo certi che ognuno dei partecipanti al Simposio porterà il contributo della propria esperienza e dei propri saggi suggerimenti affinché la Massoneria possa essere sempre più apprezzata come apportatrice di pace, amore e unione nell’uguaglianza.
Arrivederci dunque a Roma a novembre. Fraternamente e sinceramente,

GRAN MAESTRO

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DARWINISMO E EVOLUZIONE

di
Silvio Nascimben
“L’evoluzionismo è solo un’ipotesi e la fede non è contraria. Non deve essere letta, però, in chiave materialista”. Con questo messaggio di Karol Wojtyla, alla Pontificia Accademia delle Scienze, viene ufficializzato il “darwinismo” e con esso tutte le teorie evoluzionistiche che fino ad oggi erano bandite dalla Chiesa.
In verità, già nell’ enciclica “Humani generis”, fu Pio XII ad affermare che il concetto di evoluzionismo era una “ipotesi seria” e non in contrasto con la fede cristiana, se non adottata come dottrina. Alla luce delle dichiarazioni di Giovanni Paolo II “che se ad originare il corpo umano è la materia vivente, e solo Dio può conferire all’ essere l’ anima spirituale”, di notevole interesse sono state le dichiarazioni di filosofi, scienziati, teologi e storici, concordi tutti, in buona sostanza, nel riconoscere lo storico ritardo con cui la Chiesa arriva, ancor oggi, ad ufficializzare le conquiste della scienza, nonostante l’eclatante scalpore che fece la riabilitazione di Galileo.
Ma cosa si intende per “darwinismo”?
Per darwinismo non deve intendersi il solo concetto di evoluzione della specie, concetto già enunciato nel Settecento e successivamente condiviso da J.B. Lamarck, nell’Ottocento, ma la spiegazione meccanicistica delle mutazioni spontanee, proposta da Darwin, e della loro ereditarietà. Sebbene l’ interpretazione darwinista sia stata molto contrastata, all’epoca della sua enunciazione, è oggi riconosciuta dalla scienza ufficiale.
Nel gioco dell’ evoluzione, la teoria darwinista nega l’intervento di qualsiasi fattore “interno” riducendo l’ immenso complesso delle mutazioni avvenute, nel corso dei millenni, ad un processo automatico di mutazioni, piuttosto complesso, che dà origine ad esseri viventi, in possesso di più adatti requisiti all’esistenza.
La teoria della adattabilità della sopravvivenza, secondo il principio evoluzionistico di Darwin, deve sostenere, però, l’impatto con strutture complicate che hanno creato non poche perplessità nei biologi. A causa della loro persistenza in varie specie viventi, essi sono stati costretti a considerare la presenza, nel processo evolutivo, di un principio “interno”. Un’ altra considerazione, che ha messo in crisi la teoria “darwinistica”, è la “non adattabilità” all’ ambiente che spesso non è in stretto rapporto con la “mutazione” più favorevole alla sopravvivenza. E’ il caso, ad esempio, di alcune mutazioni avvenute in alcuni rettili: gli arti anteriori divenuti “ali”. Pur nell ‘ adempimento di un miglior adattamento ambientale, la loro mutazione non è certo avvenuta dall’oggi al domani, bensì nel corso di millenni e con trasformazioni frazionate, dirette nella stessa direzione, che si sono successivamente addizionate presentando un arto che da zampa era diventato ala. La teoria darwinistica, a questo punto, va a farsi benedire perché nell’ affermazione del principio della “più favorevole adattabilità all’ ambiente”, non riesce a spiegare lo “status quo” di un essere vivente, il rettile, durante i millenni necessari alla completa trasformazione.
Non disponendo di arti, ormai lontani dalla originaria identità e prossime “potenziali ali”, quindi imperfette e inservibili, come ha potuto, il mutante, superare le non poche difficoltà di sopravvivenza e di ridotta adattabilità all’ ambiente, per le sopravvenute mutazioni? Il verificarsi di questo particolare stato di inadattabilità, nell’ uomo non avrebbe creato, come del resto è già avvenuto, situazioni al limite dell’estinzione per la sua innata predisposizione alla suddivisione dell’umanità, fin dalle origini, in classi sociali, selezionando gli intelligenti, i forti, coloro che erano più validi, e schiavizzando i più deboli, coloro che, non più utili, andavano eliminati per non intralciare il processo selettivo della specie.
Stessa considerazione, in contrasto col concetto di Darwin, è che per effetto delle mutazioni evolutive spesso il figlio non è più intelligente del padre, ovvero più forte e, quindi, più valido.
L’accettazione di questi principi, nonché la dimostrazione della impossibilità del passaggio della cellula vivente all’uomo, per sole mutazioni casuali, sia pure dopo milioni di anni, dimostrata dai matematici con il calcolo delle probabilità, comporterebbe una radicale rivoluzione della concezione della vita e della impossibilità della sua ricostruzione scientifica, mediante il processo meccanicista.
La unica e grande verità è che l’essere vivente vuole vivere ed è pronto, per la sopravvivenza, a sfruttare ogni occasione propizia pur di vivere al meglio, nel suo ambiente.
La verità, che nessuno potrà giammai confutare, è l’ ansia che scaturisce dall’attaccamento alla
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sopravvivenza, propria degli esseri viventi e, oserei dire, dei non viventi a causa della natura originaria, come la forza di gravità. Molto significativa fu la risposta di Edison, a chi gli chiese cosa fosse l’elettricità: “Non lo so, ma funziona”. Potremmo, a questo punto, concludere che scienza non è che “la scienza di utilizzare le cose, di cui si ignora la natura originaria, e farle funzionare”. L’ Uomo, stanco ormai di favole e di quelle leggende, che ebbero origine in un periodo molto confuso dell ‘umano genere, allora immerso in un mare infinito di ignoranza e superstizione, sebbene siano servite a frenare la violenza e i ben noti istinti umani di sopraffazione e di egoismo, si ritrova alle soglie del 3 0 millennio con un bagaglio di irrisoluti interrogativi. Pur plaudendo alla ennesima tardiva “conciliante assoluzione” della Chiesa, nei confronti di coloro che in nome della “scienza” hanno sfidato i suoi dogmi, l’ Uomo del nostro secolo, volgendo lo sguardo al cielo, continua a chiedersi: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”•

Da “Pensieri che vibrano ‘
Viale dei Tigli

Quel viale infinito, nel caldo pomeriggio di un ‘estate, tanti ricordi lontani e… un intenso profumo di tigli… Mi rivedo bambino, allegro, saltellante e Voi, che mi seguivate con lo sguardo, ancor turbati e muti per quel passato incerto, rosso di sangue e di tante privazioni, mentre accarezzavate, per noi figli, ambite mete. Come eran dolci, allora quelle carezze piene di amore, di sogni e di speranze, distratte poi, dal corso degli eventi. Si, ritornerò in quel caro viale, per riascoltar il canto, di quel fanciullo antico, ingenuo e spensierato così com’ero. E poi mi chiederanno, in molti, cosa ne è stato del passato e se il futuro esiste, o se il presente è solo un grande imbroglio
e se vivere, in verità, è una gran pena… Solo adesso, m’ accorgo, che il mio cuore è stanco, mi piace correr dietro al sogno di ritornar laggiù, per ritrovare voi, mano nella mano, come eravate allora giovani e belli, ed io, bambino, saltellante e gaio, corrervi intorno. .. Ma nell ‘immenso viale ora è già sera e solo il silenzio ricorda i nostri passi…
M’ accorgo tristemente, solo adesso, che il passato è già lontano e mai più torna. Volgo lo guardo intorno, incerto, e vedo solo ombre passeggiare in questo buio e infinito viale, mentre al cielo sale, intenso, come allora, il soave profumo di quei tigli…
Silnas

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LO SCOPO DEI SAGGI È LO SCOPO FINALE DELL’UMANITÀ


Ciò che vuole l’uomo saggio e virtuoso, ciò che è il suo scopo, è lo scopo finale dell’umanità. L’unico scopo dell’esistenza umana sulla terra non è né cielo né inferno, ma solo l’umanità, che quaggiù portiamo in noi, e la sua massima possibile perfezione. Diversamente da questo nulla conosciamo: e ciò che noi chiamiamo divino, diabolico, bestiale, null’altro è che umano. Quanto non è contenuto nello scopo della perfezione più grande possibile, quanto non si riferisce ad esso, o non ha rapporto con esso né qual parte né quale mezzo, non può costituire lo scopo di nessun uomo, c l’uomo saggio c virtuoso non può proporselo come scopo sia nel più generale che nel più particolare dei casi: ciò che sta sopra 0 sotto all’umanità, giace anche fuor della cerchia del suo pensiero, dei suoi sforzi, del suo agire. In una qualsiasi misura quello scopo viene alla luce in tutti gli uomini, senza che essi chiaramente lo pensino e lo perseguano di proposito, semplicemente pervia della loro nascita, c vien pure conseguito mediante la loro vita nella società: sembra come se non fosse il loro scopo, bensì un scopo unito a loro.
Ma l’individuo cosciente lo pensa chiaramente, esso è il suo scopo, ed egli se lo pone qual meta cosciente di tutto il proprio agire.” Come viene esso perseguito nella grande società umana? Forse tutto opera in favore suo direttamente e
senza deviazioni, con forze associate? Non pare. {La società] non pensa né lavora con la chiarezza e con la consapevolezza proprie dei singoli saggi: su lei pesano le colpe del mondo trascorso, e occupata com’è di questi peccati, essa appena ha tempo di lavorare per una posterità che a sua volta avrà da lavorare per un’altra. Essa deve sostenere la sua gran lotta con la natura ostinata e con il tempo infingardo; essa vuole acquistar vantaggio su entrambi, e intanto la sua attività È sottoposta a una condizione svantaggiosa, ma inevitabile: essa ha divisa in parti l’insieme dell’evoluzione umana, se ne è distribuite le varie branche e attività, e a ciascuna condizione sociale ha assegnato il suo campo speciale di collaborazione. Come in una fabbrica si risparmiano tempo c spese con ciò che il singolo
operaio per tutta la sua vita fa soltanto quella data forma di molla, di chiodo, ruota, o recipiente, dà soltanto quel dato colore, sorveglia e guida solo quella data macchina, c ciascun altro del pari per tutta la sua vita eseguisce la tal altra forma di lavoro, cui da ultimo riunisce in un tutto un capomastro
sconosciuto a tutti loro: egualmente procede [la cosa] nella grande officina dell’evoluzione umana. Ciascuna classe lavora e produce alcunché per tutte le altre, oltre a ciò che ciascuno dovrebbe fare per la propria parte e per la sua stessa persona: e quelle producono alla lor volta anche per lei ciò per cui
non ha né tempo né attitudine l’uomo ben altrimenti occupato per il loro benessere.
Al benessere e al perfezionamento del tutto guida ogni opera dei singoli l’invisibile mano della provvidenza. Così scende il dotto nelle profondità dello spirito e della scienza, per evocare alla luce ciò che dopo alcune epoche sarà a tutti facile e giovevole, mentre il contadino e l’operaio lo nutrono e lo vestono; l’impiegato dello stato fa valere il diritto, che senza di lui dovrebbe applicare la comunità
stessa, e il guerriero difende l’inerme, che lo nutre, contro la potenza straniera.
L’evoluzione umana vien posta in pericolo dalla divisione del lavoro
Ora, ciascun singolo si forma in grado eminente soltanto per la condizione che ha scelto.
Dalla giovinezza in poi egli viene per sua scelta e per circostanze accidentali determinato verso una
formadi vita, e viene tenuta in conto della migliore quell’educazione che prepara il ragazzo per la sua
futura vocazione nella maniera più conforme allo scopo; rimane posto in disparte tutto ciò che sta nella
piùstretta relazione con quella, 0 ciò che in lui non può, come s’usadire, essere utilizzato. Il giovinetto
destinato a diventare un dotto impiega tutto il suo tempo a imparare le lingue e le scienze, e proprio con
preferenza per quelle che sono necessarie per guadagnarsi il pane in avvenire, quindi con minuziosa
esclusione di quelle che richiede la formazione del dotto in generale. Tutte le altre forme di vita e
attività gli sono estranee, com’esse [del resto] sono estranee l’una all’altra. Il medico ha rivolto tutta la
sua attenzione alla sola medicina, il giurista alla legislazione del suo paese, il mercante a quel
determinato ramo del suo commercio, il fabbricante alla sola produzione del suo manufatto. Nel suo
campo egli sa quanto occorre, e anzi con maggiore chiarezza e fondatezza: questo [sapere] gli è quindi
particolarmente caro, e lo considera come sua proprietà acquisita; in esso vive come nella sua casa
paterna. E tutto questo è bene, ciascuno fa in ciò il proprio dovere, e il tenore contrario non solo
sopprimerebbe tutti i vantaggi della società, ma sarebbe dannoso anche al singolo, come altutto.
Madaciò sorge in tutti necessariamente una certa incompiutezza e unilateralità, che, se non proprio
necessariamente, almeno però abitualmente si trasforma in pedanteria. La pedanteria, che
ordinariamente si confonde con la sola classe erudita, forse perché essavi è più visibile, forse perché vi
si dimostra maggiore intolleranza, domina in tutte le classi sociali e il suo principio fondamentale è
dappertutto il medesimo, cioè il seguente: di tenere in conto di educazione generalmente umana
l’educazione appropriata al proprio stato particolare, e fare ogni sforzo per realizzarla. Così l’erudito
pedante stima solo la scienza e deprime ogni altro valore; le sue lezioni e conversazioni in società di
gente mista procedono allo scopo di comunicare ai suoi uditori una particella della sua dottrina e farli
bramosi della precisione di pensiero ch’egli possiede. Il mercante pedantesco sprezza per contro
l’erudito e proclama: «non vi è che computo e denaro! il denaro è la soluzione [del problema] della vita
ragionevole e felice». Il guerriero sprezza l’uno e l’altro, stima soltanto forza fisica e agilità, coraggio
bellico e difesa dell’onore com’egli la intende, e non gli rincrescerebbe arruolare tutti quelli che sanno
battere il tempo di marcia. I teologi in modo eminente (poiché la loro classe ha ottenuto fra tutte il
maggior influsso, o per amore del cielo o per timore dell’inferno) si affaticano, da quando hanno
esistenza, a educare in tutti gli uomini, fino giù ai ragazzi del villaggio, dei teologi ben fondati e dei
dogmatici di polso. «Mirate avanti tutto al regno di Dio, il resto è cosa meschina!» dicono i teologi, c
conloro tutte le altre classi sociali, e sappiamo bene quello che intendonoperil regno di Dio.
Così domina dappertutto una grande unilateralità, ora utile e ora dannosa: così ciascun individuo non è
soltanto un dotto, ma teologo 0 giurista o medico, non è soltanto uno spirito religioso, ma cattolico o
luterano, ebreo o maomettano, non è soltanto un uomo, ma politico, mercante, guerriero; e così
dappertutto si impedisce, con l’educazione di classe più alta possibile, la più alta possibile evoluzione
dell’umanità, il sommo fine dell’esistenza umana; anzi essa deve restar impedita, perché ciascuno è
gravato dall’ineliminabile dovere di educarsi il più perfettamente possibile per la sua particolare
occupazione, e questo è quasi impossibile se nonsi affrontail rischio dell’unilateralità.
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In seno alla divisione del lavoro una società particolare non può avere alcun compito
Ritorniamo ora, seguendo queste premesse, alla Frammassoneria, per non staccarcene più, ©
costruiamovi sopra alcune durevoli conseguenze.
La Massoneria invero non può proporsi nessuno degli scopi, a cui si dedica già notoriamente ©
apertamente qualcuna delle classi, degli indirizzi e ordinamenti esistenti nella società umana; essa non
può voler attraversare la strada, né procedere accanto ad alcun’altra associazione: poiché in tal caso
essa sarebbe superflua, in quanto volesse fare già quel che già accade senza di essa. Né potrebbe
addurre a propria scusail fatto che la pubblica istituzione, di cui volesse mettersi a fianco e adottare lo
scopo, fosse manchevole e difettosa. È cosa di mera usurpazione il voler far meglio in via di
occupazione secondaria ciò che altri non possono far meglio come loro occupazione principale; è una
pazzia il pronunciare sentenza di condanna sopraistituzioni, che forse si conoscono soltanto secondoil
loro aspetto esteriore, e non secondole inevitabili difficoltà che esse trovano nell’oggetto della loro
attività. Ciascuna di queste istituzioni in senoallo stato porta in se stessa il germe del miglioramento e
tende alla perfezione: per la Massoneria può solo presentarsi, in generale, il problema, se vi è
un’istituzione per un certo scopo, c non come essa vi soddisfa; poiché di ciò altri hanno a curarsi. Se
essa volesse attivamente invadere un piano d’azione estraneo, non farebbe che diffondere il disordine, c
in pari tempo disturberebbe e devierebbe la sua attuazione: sarebbe anzi sommamente nociva, in quanto
dovrebbe oltre tutto far ciò in segreto, poiché pubblicamente non si conosce alcun singolo ramo
dell’incivilimento umano ch’ella potesse intraprendere.
L’uomo savio e virtuoso non potrebbe sostenere una tal società, qualora essa volesse occuparsi di
questioni ecclesiastiche 0 politiche, filosofiche erudite 0 commerciali: egli dovrebbe anzi, una volta
conosciuta la sua esistenza perturbatrice, giudicarla a fondo. E non occorrerebbe altra maggiore fatica
che di farla conoscere; poiché è supremo interesse dell’intera società umana e di ciascun suo ramo,
dello stato, della Chiesa, del pubblico dotto c commerciante, di annientare una tale associazione,
tostoché essa venga conosciuta.
Così resterebbe interamente c incondizionatamente escluso dalla Massoneria ogni scopo di cui già si
occupi una qualche classe sociale; e sarebbe egualmente pazzesco € ridicolo che i suoi membri si
occupassero in segreto di fare buone scarpe, che di riformare nel tutto 0 nelle parti lo stato. Ogni
Massone, che volesse negare ciò, porrebbe in non cale non solo il suo buon volere e la sua intelligenza
massonica, mail suo stesso buon senso.
Maun qualche scopo essa deve però averlo: altrimenti sarebbe un vano, vuoto scherzo, © l’uomo savio
e virtuoso tanto poco potrebbe occuparsene, quanto se essa si proponesse il suddetto scopo dannoso.
Ma questo può essere solo uno scopo di tal genere, che la maggiore società umana non abbia per esso
alcuna speciale istituzione; uno scopo per cui ella, giusta la natura dello scopo stesso e quella della
società, non possa avere alcuna speciale istituzione.
Poiché se la società potesse avere una tale istituzione, all’uomo savio € virtuoso meglio converrebbe
accogliere questa istituzione in seno della grande società e famela anzi scaturire, piuttosto che voler
promuovereil suo fine mediante una separazione da questa socictà. La natura della grande società c
dello scopo pertinente alla sua cerchia esigerebbe incondizionatamente che egli richiamasse attenzione
dello stato sopra questo ramo sin qui dimenticato, e quasi non si riesce a concepire come, della sua
attività; allo stato egli dovrebbe poi, e di nuovo incondizionatamente, lasciar pienalibertà di pensare 0
no alle istituzioni corrispondenti; in nessun caso potrebbe egli segregarsi con una società per dedicarsi
attivamente a questo scopo, perché gi nonè fatto, assolutamente, per questa forma di attività.
Si domandaora se può darsi un siffatto scopo, razionale e buono, peril quale la maggiore società non
possa, giusta la sua natura, avere alcuna istituzione particolare, e quale sia questo scopo: © l’unico
scopo possibile della Massoneria (considerata nel suo puro aspetto di società «separata») sarebbe così
trovato. Vediamo.
Lo scopo di una società particolare può essere soltanto quello di risollevare a cultura umana universale l’unilateralità delle classi sociali
Verrò tosto a illuminare più da presso la vostra congettura che io pensi in qualche modo di porre la
Frammassoneria come fine a se; stessa, quando vi avrò posto innanzi, come chiave di volta di questa
serie di riflessioni, la seconda conseguenza della nostra precedente considerazione su la maggiore
società umana.
Abbiamo riconosciuto essere un male, che la cultura che si svolge dentro la maggiore società e a suo
vantaggio vada sempre del pari congiunta con una certa unilateralità e incompiutezza, la quale si
oppone alla evoluzione più alta possibile, ossia puramente umana, e impedisce il singolo uomo, come
intera umanità, di procedere felicemente verso la meta.
Ci è dato ora un scopo, che la maggior società umana nonpuò affatto prender di mira, in quanto esso le
sta benal di sopra e vien posto primieramente per l’esistenza della società [stessa]: uno scopo che può
venir conseguito solo uscendo dalla società e segregandosi da Ici, lo scopo di annullare gli svantaggi
della forma educativa nella maggiore società, e assorbire la cultura unilaterale per una particolar
condizione nella cultura generalmente umana, nella [cultura] universale dell’uomo tutto quanto come
uomo.
Questo scopo è grande, poiché ha per oggetto ciò che per l’uomo assume il massimo interesse; esso è
razionale, poiché esprime uno dei nostri più sacri doveri; è possibile, in quanto è possibile tutto ciò che
noi dobbiamo fare: ed è [invece] quasi impossibile, o almeno estremamente difficile, a conseguirsi
nella grande società, perché la condizione, la forma di vita, le relazioni [sociali] avvincono l’uomo di
legami sottili ma saldi, e lo attraggono, senza che egli se ne accorga, in una cerchia[invalicabile],
laddove egli dovrebbe procedere innanzi. Pertanto [tale scopo] è raggiungibile solo mediante una
segregazione dalla società: ma non mediante una segregazione perpetua, perché ne sorgerebbe una
nuovauniteralità, e perché con ciò andrebbero perduti per la società i vantaggi della cultura puramente
umana in qualche modo acquisita, e perché a questo soltanto si vuol mirare, a fondere insieme
entrambe le forme educative, c così innalzare la necessaria cultura di classe; bensì mediante il ritiro
nella solitudine, poiché questa rafforza la nostra unilateralità più che non la sopprima, e ricopre il
nostro cuore d’una corteccia egoistica; dunque soltanto con l’aderire a una società separata dalla
[società] maggiore, ma che non nuoce a nessuna delle nostre relazioni dentro a quella e che haricevuto
in sorte l’ufficio di metterci di tempo in tempo davanti agli occhi ed a cuore il fine dell’umanità, per
farne il nostro [scopo] pensato, e che lavora con mille espedienti a straniarci dalle nostre scostumanze
professionali e sociali, ad elevare la nostra culturaa [cultura] puramente umana.
Questo, o nessun altro, è lo scopo della società frammassonica, in quanto è certo che si occupano di
essa uomini saggi e virtuosi. Il Massone, che nacque uomo ed è passato attraverso l’educazione della
sua classe, attraverso lo stato c le sue rimanenti relazioni sociali, deve essere su questo terreno
nuovamente educato da capo a fondo per essere uomo. Ma ciò può essere soltanto lo scopo di una
società «separata»; e risponde quindi, per noi, al problema che avevamo impostato: che cosa è l’Ordine
Frammassonico in sé e per sé? Ovvero, se preferite, che cosa può essere?
«Peraltro, voi dite, questo scopo è da una parte troppo ampio, dall’altra troppo ristretto. Troppo ampio,
perché può essere conseguito per altre vie, con la meditazione, i viaggi, l’affaccendarsi in mezzo agli
uomini e nella vita sociale; troppo ristretto, perché nessuna società di qualsiasi specie può, secondo la
sua natura, operare il perfetto raggiungimento di esso». Quanto al primo punto, sul quale soltanto in
seguito verràtutta la luce necessaria, io rispondo perora sol brevemente così: l’uomo può staccarsi dal
cammino prefissato e prendere un atteggiamento che esorbiti dalla sua condizione; può imparare a
cancellare dalla sua personalità esteriore la pedanteria, ed elevare il suo modo di pensare a una
maggiore universalità che non prima. Mail suo intima rimane da tutto questo imperturbato: egli
continua sulla sua vecchia strada, pur dietro a siepaglie ed eleganti pareti. Mediante la mera riflessione
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egli può forse cancellare dentro di sé lo spirito di classe, ma anche conferire al suo carattere
individuale, che ancor più è diverso da quello della pura umanità, tanto maggiore caparbietà. Ciò che
deve essere qui operato in tutta serictà può avvenire solo in una società separata come noi l’abbiamo
dedotta, e come voi presto la concepirete, in mia compagnia, secondo la sua complessiva attività.
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Limiti di questa determinazione dello scopo: educazione alla libertà etica o alla sensibilità morale?
La seconda obiezione che avete accennata è più importante; e io aggiungo alla mia precedente
definizione dello scopo [massonico] questa significativa limitazione: in quanto una tale cultura
possibile mediante una società espressamente indirizzata a questo fine.
Vi è, infatti, una forma di cultura generalmente umana, in forza della quale ciascuno prende soltanto se
stesso, la sua coscienza e Dio per testimoni e giudici: è l’educazione alla libertà etica. Voi conoscete la
mia convinzione a questo riguardo. «Ciascuno che si creda onesto di fronte a se stesso, così scrivevo
altrove, alcuni anni fa, deve instancabilmente osservare se stesso e lavorare pernobilitarsi: il che deve
essergli diventato, in forza dell’esercizio, affatto naturale». Ma questa occupazione non sembra, giusta
la sua natura, esser capace di alcuna comunicazione.
Andai da un pittore, chio volevo veder lavorare: ed egli mi mostrò tutti i suoi dipinti, perfino quelli
ancora incompiuti; ma per quanto lo pregassi, egli non vi volle por mano sottoi mici occhi, e affermava
che le opere del genio riescono solonella solitudine. Questo mi trasse a considerare l’opera del genio
morale dentro di noi, e intuii la verità, che anche in ciò bisognava essere soli; trovai sempre più
confermato [il concetto] che il vero sforzo per nobilitarsi è assai timido e vergognoso, anzi si ritrae in
se stesso e non può affatto comunicarsi [ad altri]. Giammai avevo posto in questione il mio
miglioramento innanzi à me stesso: come potevo desiderare di metterlo tuttavia in discorso innanzi ad
altri! Bastava che io agissi diversamente, e che i mici amici, come io medesimo, conoscessero la
crescita della pianta solo dai suoi frutti. Pertanto non si deve mai portare alla luce il proprio
miglioramento, né abbassarsi mai a una mera confessione dei propri difetti, ma estirparli. Dobbiamo
provarne nausea: allora non staremo più a rigirarli per un verso e per l’altro, per esprimerli con esatte
ed eleganti determinazioni. Qualora si volesse, per un malinteso sentimento del dovere, obbligare anche
a questo, per un certo spirito eroico nell’amicizia (0 a favore di un fine sociale), si verrebbe soltanto a
prender confidenza con essi, a renderseli cari, per lo meno a non paventare più l’esistenza di difetti che
si sono così clamorosamente condannati, per lo meno a infiacchirsi nella confessione, in quanto la si
mettesse in conto di miglioramento ». E così è. Formare la propria educazione alla libertà etica per una
data condizione sociale, parlarne con altri, lasciarsi trascinare da loro al rendiconto e confessarsi a loro
o farsi confessare, scompiglia l’animo da capo a fondo: poiché ciò trae a deporre il santo pudore, a
diventare il più peccaminoso tipo di ipocrita, l’ipocrita verso se stesso; e unasocietà che si ingerivadi
questo condusse effettivamente al più tetro ascetismo monacale. Pertanto la Massoneria non ha niente a
che fare con questa forma di educazione alla pura umanità: come {non ha niente a che fare con essa]
nessuna società che non sia compostadi fanatici e che abbia compreso l’Oraziano:
Insani sapiens momen ferat, aequus iniqui,
Ultra, quam satis est, virtutem si pelai ipsa.!
tutto ciò che accade secondo una qualsiasi distinzione fra gli uomini, sia che miri alla capacità tecnica o
a conoscenze o alla virtù, è profano di fronte alla Massoneria: madi fronte a ciò che riguardala libertà
etica, la Massoneria stessa è profana e irreligiosa: poiché quella è il santo dei santi, in paragone del
quale il santo stesso è volgare. Questo solido concetto, interamente determinato e chiaro in sé,
dovremmo elevarlo assolutamente a canone della Massoneria e a principio di unacritica di ogni cosa
massonica, qualora avessimo da impiantare una critica siffatta.

(1) «porti il sapiente nome di stolto, e il giusto di iniquo quando egli ricerchi la virtù stessa virtù più di quanto occorre.»]. Il saggio si attira nome di pazzo, e Aristide diventa ingiusto, «tosto che egli pratichi stessa virtù più del giusto » [Wieland]; ovvero: quando egli ricerca la virtù stessa affannosamente per false vie
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Altra cosa è certamente, per accennare in breve anche questo, l’educazione dello spirito e [altra]
l’aspirazione alla sensibilità morale, la formazione dei costumi esteriori e dell’esteriore osservanza alla
legge. Questa appartiene senza dubbio alla Massoneria.
Ora voi avrete presente all’animo immagine della Massoneria, come essa è in sé e per se stessa, o può e
deve essere unicamente. Ma aggiungerò ancora alcuni tratti a questa immagine. Qui si raccolgono
invero, liberamente, uomini di tutte le classi e portano ad un sol cumulo la cultura che ciascuno poté
acquistare secondo la propria individualità, nella sua condizione. Ciascuno porta © dà quello che
possiede: la testa pensante concetti chiari e precisi, l’uomo d’azione capacità e agilità nell’arte del
vivere, il religioso la sua religiosità, l’artista il suo entusiasmo artistico. Ma nessuno dà [il suo
contributo] nella stessa maniera, in cui egli l’ha ricevuto nella sua classe sociale e nella sua classe lo
trapianterebbe.
Ciascuno lascia del pari da parte l’elemento singolo e specifico, c mette fuori ciò che egli ha realizzato
nel suo intimo come risultato: si sforza di dare il suo contributo in modo che possa pervenire a ciascun
membro della società: e l’intera socictàsi affatica a sostenere questo suo conato e a conferire appunto
così utilità generale e universalità alla sua cultura, fin qui unilaterale. In tal colleganza ciascuno riceve
nella stessa misura di quello che dà; appunto per via di questo, che egli dà, gli viene dato; ©
precisamente la capacità di poter dare.

Può valere la Frammassoneria come fine a se stessa?
Ora soltanto rispondo alla vostra domanda: “Non si può porre la Frammassoneria come scopo a se
stessa”; semplicemente perché essa mi porge l’occasione per alcune determinazioni complementari.
Voi siete giunti a questa idea, come da voi medesimi comprendete, paragonando la Frammassoneria
con la religione. Si può domandare, quale sia il fine della Chiesa: il propagamento della religione?
Senza dubbio, proprio di questa, poiché essa è meramente il risultato, l’esigenza dello spirito e del
cuore nella loro armonia, il frutto della nostra saggezza, il più alto fiore della nostra ragione, la dignità
della nostra natura. A che cosa deve essa ancora valere, o servire qual mezzo, che [altro] deve proporsi
a scopo finale? Così l’Ordine dei Liberi Muratori esiste per mantenere, per conservare la
Frammassoneria; essa pure non è buona per alcunché, ma buonain sé e per sé, non già mezzo per un
qualsiasi scopo. A che altro deve mai ancora mirare? Ciò ch’essa opera e può operare, ciò che essa ha
generato in lui e anche in altri deve generare, questo deve conoscere il vero Massone: e questo è
Frammassoneria.
Pertanto sarebbe vano, in generale, il ricercare un suo fine, come il rispondere a tal richiesta e
l’impostare il concetto d’un siffatto fine (come noi abbiam fatto); essa verrebbe adesistere in forza di
se medesima, dovrebbe assolutamente essere e sarebbe unaparte costitutivadell’assoluto.
E vi è un certo senso, in cui si può benissimo concepire questatesi e nel quale essa è vera e importante;
ma essa non sembra essere espressa in forma sufficientemente determinata. Si parla spesso, non
preciserò qui se con esattezza filosofica, di un senso ampio e amplissimo, ristretto e strettissimo delle
parole e delle proposizioni nella filosofia. Sicché ciascuno potrebbe dire: «se io chiamo la Massoneria
fine a se stessa, penso alla Massoneria nel suo significato più ristretto. Ma questa è per me appunto
quella cultura comune [a tutti], puramente umana, che tu hai posto come fine della Massoneria. Quindi
per me il suo fine è essa medesima».
Ciò è giusto in sostanza, ma le parole sono un po” oscure a comprendersi. L’uomo è fine ase stesso e
quella cultura puramente umana è una maniera di essere dell’uomo assolutamente postulata, quindi una
parte costitutiva di ciò che è fine a se stesso, ossia dell’assoluto. Ma si doveva pur da ognuno
riconoscere per espressioni equivalenti Massoneria e cultura universalmente umana? La sentimentalità
sonica (dopo che si abbia cioè spiegato a bella prima l’espressione nel modo teste concesso) può
essere chiamata fine a se stes ma suona poi tanto Massoneria, Ordine Frammassonico, quanto
sentimentalità massonica? La Massoneria non è una cultura o un sentimento, ma una società 0
colleganza. Non posso dire: il Fratello N. N. ha compiuto secondo la sua Frammassoneria questa
lodevole azione, ma essa è una provadei suoi buoni sentimenti massonici; ovvero: il signor N. N. ha in
sé la Frammassoneria, senza essere accolto nell’Ordine, sebbene egli può possedere la vera (massonica)
sentimentalità di una cultura universalmente umana. Ma poiché ora la parola «Massoneria» indica
associazione, essa non può essere chiamata fine a se stessa, ma soltanto mezzo, poiché l’associazione
peril fine prefisso è solo mezzo e non deve essere in senso assoluto, ma solo sotto la condizione di una
certa situazione del mondo, quale essa è pur ora presente.
Invero, soltanto perché lo scopo, che la società separata si propone, non può essere conseguito nella
grande [società] come essa è presente, verrà fondata la società: separata. Ma la più grande società non è
necessariamente così come essa è: può venir pensata nel campo della ragione affatto diversamente, per
lo meno senza la condizione più sopra indicata nella formazione dell’individuo: deve piuttosto
progredire del continuo verso il meglio, e questo meglio consiste, affatto particolarmente, anche
nell’uguaglianza e armonia della cultura di tutti gli individui. Se essa fa questo, nella stessa misura
appunto ch’essa in ciò progredisce la società, separata diventa meno necessaria; e quando quella ha
raggiunto la sua meta, [questa è ormai] superflua e inconsistente. Ora, di una cosa tanto relativasi può
dire che sia parte costitutiva dell’assoluto.
ma;
Si potrebbe replicare, che sia scopo di tutta l’umanità costituire un’unica grande colleganza, come
presentemente dovrebbe essere quella massonica. Ma la stessa mera esistenza della Massoneria
dimostra che ciò, che noi abbiamo chiamato fine in sé, non è ancora affatto conseguito.
L’esempio, di cui si fa uso per quella tesi, deve porre in più chiara luce il suo opposto. Si dice: nonsi
potrebbe ricercare un fine della religione (o più precisamente: della religiosità, del sentimento
religioso), ma invece un fine della Chiesa. Benissimo! solo che al concetto della religiosità appunto
corrisponde non già il concetto della Massoneria, mapiuttosto quello della cultura puramente umana; a
quello della Chiesa per contro [corrisponde] proprio quello della Massoneria, 0 (che poi è lo stesso)
dell’Ordine dei Liberi Muratori.
Massoneria significa dunque (per riassumere tutto in breve) nonil sentimento, bensì associazione: ma
questa, per generare quel sentimento, e condizionata da alcunché di accidentale, che appunto per questo
non potrebbe nemmeno essere € nel fatto non dovrebbe essere. La Massoneria non è quindi fine a se
stessa, tanto poco quanto, secondo quella particolare opinione, la Chiesa; e per l’una come per l’altra si
può, con tutti i diritti filosofici, ricercare i loro fini c determinarli in forma chiara e precisa.
Questo spero di aver fatto nei riguardi della Massoneria. Ma non siamo ancoraalla fine: non solo
dobbiamo ancora indagare che cosa e come operi la Massoneria tanto verso i suoi membri che verso il
mondo, ma altresì distinguere compiutamente lun dall’altro i principi fondamentali più sopra affermati
e applicarli più largamente, affinché essi diventino atti e sufficienti alla valutazione della situazione
presente della Massoneria e dell’attività massonica.

Che cosa opera la cultura massonica nel Massone: l’immagine dell’uomo maturo
Il nostro primo quesito sarà pertanto: che cosa opera l’Ordine nel Massone? Il secondo [invece]: quale
azione esercita esso sul mondo? Mi stringerò in breve, e potrò così accontentarmi di [dare] fruttuosi
accenni.
Se l’associazione non è intieramente vana ce inattiva, colui che vi si trova deve però, senza dubbio, stia
pure egli a quel livello della cultura che più gli talenta, avvicinarsi alla maturità assai più che non
avrebbe fatto lo stesso individuo, fuori dell’associazione. Nel caso dell’uomo sveglio e pronto ciò vale
anzi per ogni nuova relazione in cui egli entra. Io prendo qui maturità e pienezza di cultura
universalmente umana per termini equivalenti, e a buon diritto. La cultura unilaterale è sempre
immaturità: quand’anche da una parte dovesse essere eccesso di maturità, dall’altra però sarebbe
certamente, appunto atal uopo, aspra e acerba immaturità.
Il principale segno distintivo della maturità è la forza mitigata dalla grazia. Tutti quei suoi potenti
corrucci, quei larghi impeti e assalti sono le prime e anche necessarie tirate e scosse della forza che si
sta sviluppando; maessi non si constatano più, dopo che è compiuto lo sviluppo e si è pienamente
realizzata la bella forma spirituale. O per dirla coi termini retorici della scuola: una volta venuta la
maturità, l’ardita poesia si disposa alla chiarezza della mente e alla rettitudine del cuore, e la bellezza
entra in connubio conla saggezza e la fortezza.
Questa è l’immagine dell’uomo maturo ed evoluto, qual io lo concepisco: la sua mente è del tutto
chiara e libera da pregiudizi d’ogni specie. Egli signoreggia il regno dei concetti e stende il suo sguardo
sul dominio della verità umana più lungi ch’è possibile. Ma la verità è per lui, interamente, soltanto
una, solo un tutto unico ec indivisibile; nessuna parte di essa egli antepone ad un’altra. Anche la stessa
cultura dello spirito è tuttavia perlui solo una parte dell’intera cultura: e tanto poco gli va a genio di
farla finita esclusivamente con quella, quanto meno gli verrà in mente di fame a meno. Vede
benissimo, e non si fa ritegno di convenirne, quanto altri siano in ciò più addietro di lui; ma nonsi sdegna per questo, poiché sa quanto dipenda anche in ciò dalla fortuna. Non impone a nessuno la sua
luce, e tanto meno la mera apparenza della sualuce; sebbene egli sia sempre pronto a darne, secondo le
sue capacità, a ciascuno che lo desideri, e a darglicla in quella singola forma che gli è più gradita.
Tuttavia egli si tiene contento anche quando nessuno ha bramadei suoi lumi. È integralmente retto;
coscienzioso, forte contro se stesso nel suo intimo, senza dare esteriormente la minima importanza alla
sua virtù, né imporne agli altri la contemplazione mediante affermazioni della propria onorabilità c
sacrifici clamorosi e affettazione di alta serietà. La sua virtù è tanto priva di artificio e, direi quasi,
pudica, quanto la sua sapienza; il suo sentimento dominante presso le debolezze degli altri uomini è di
benevola compassione, non già, affatto, di sdegnoso corruccio. Egli vive fin di quaggiù nella fede in un
mondo migliore, e questa fede soltanto conferisce agli occhi suoi valore, significato e bellezza alla sua
vita su questa terra; ma egli non impone menomamente questa fede a nessuno, bensì la porta in sé,
come un tesoro nascosto.
Questa è l’immagine dell’uomo perfetto, Videale del Massone. Né egli bramerà una perfezione
maggiore di quella che l’uomo possa raggiungere, né vorrà vantarsene: la sua perfezione non può
essere altro che umana, e l’umana. Ciascun uomo deve esser compreso del dovere di accostarsi sempre
più sicuramente a questa mèta; se l’Ordine ha anche soltanto un poco di attività, ciascun membro deve
essere preso da questo moto di accostamento in forma ognorpiù visibile e con piena coscienza; questa
immagine deve ondeggiargli innanzi come ideale prefisso e ben prefisso e ben vicino al suo cuore:
dev’essere parimenti la natura in cui egli vive c respira.
È ben possibile che non tutti, anzi forse nessuno singolarmente di coloro, che si chiamano massoni,
raggiungano questa perfezione. Ma chi ha mai misurato la bontà di un ideale, o anche solo di
un’istituzione, da ciò che effettivamente ne conseguono gli individui?
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L’importante si è ciò che questi possono conseguire nelle condizioni stabilite; quanto poi l’istituzione
vuole e addita con ogni mezzo asuadisposizione, questo i suoi membri debbono conseguire.
Né io affermo che i massoni siano necessariamente migliori di altri uomini: tanto meno che nonsi
possa conseguire la medesima perfezione anche fuori dell’Ordine. Ben sarebbe possibile che un uomo,
nonmai entrato a far parte dell’associazione dei Liberi Muratori, somigli all’immagine sopra delineata:
e proprio in questi istanti ondeggia innanzi agli occhi della mia mente la figura di un uomo, nel quale io
la trovo eccellentemente attuata, e che pure conosce l’Ordine tutt’al più di nome. Malo stesso uomo, se
fosse diventato nell’Ordine, e per mezzo di questo, ciò che egli è diventato nella grande società umana,
sarebbe meglio capace di innalzare anche altri allo stesso suo grado, e tutta la sua cultura sarebbe più
socievole, più comunicabile e quindi anche nell’intimo suo essenzialmente modificata. Ciò che sorge
nella società ha maggior vita e forzaperla prassi che non quanto vien generato nella solitudine.
Questi sono gli accenni che volevo dare intorno all’attività dell’associazione dei Liberi Muratori soprai
suoi membri. E essa, deve operare il felice avvicinamento all’ideale più sopra determinato, 0 nulla
[deve] affatto: [perché] quanto sta più in alto di quello non può in generale essere attuato, e quanto sta
più in basso, può dappertutto essere attuato. Masi capisce da sé che i membri debbono essere sensibili
al suo benefico influsso; e, del pari, che le istituzioni debbono essere di tal natura, che tanto il più
quanto il meno sensibile si avvantaggi però e progredisca nella sua giusta proporzione.
E ora si presenta ancora il problema, se questa associazione operi anche sul mondo.

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CHE COSA OPERA LA CULTURA MASSONICA NEL MASSONE: L’IMMAGINE DELL’UOMO MATURO

Il nostro primo quesito sarà pertanto: che cosa opera l

‘Ordine nel Massone? Il secondo [invece]: quale azione esercita esso sul mondo? Mi stringerò in breve, e potrò così accontentarmi di [dare] fruttuosi accenni.

Se l’associazione non è interamente vana ce inattiva, colui che vi si trova deve però, senza dubbio, stia pure egli a quel livello della cultura che più gli talenta, avvicinarsi alla maturità assai più che non avrebbe fatto lo stesso individuo, fuori dell’associazione. Nel caso dell’uomo sveglio e pronto ciò vale anzi per ogni nuova relazione in cui egli entra. Io prendo qui maturità e pienezza di cultura

universalmente umana per termini equivalenti, e a buon diritto. La cultura unilaterale è sempre immaturità: quand’anche da una parte dovesse essere eccesso di maturità, dall’altra però sarebbe certamente, appunto a tal uopo, aspra e acerba immaturità.

Il principale segno distintivo della maturità è la forza mitigata dalla grazia. Tutti quei suoi potenti corrucci, quei larghi impeti e assalti sono le prime e anche necessarie tirate e scosse della forza che si sta sviluppando; ma  essi non si constatano più, dopo che è compiuto lo sviluppo e si è pienamente  realizzata la bella forma spirituale. O per dirla coi termini retorici della scuola: una volta venuta la maturità, l’ardita poesia si disposa alla chiarezza della mente e alla rettitudine del cuore, e la bellezza entra in connubio con la saggezza e la fortezza.

Questa è l’immagine dell’uomo maturo ed evoluto, qual io lo concepisco: la sua mente è del tutto chiara e libera da pregiudizi d’ogni specie. Egli signoreggia il regno dei concetti e stende il suo sguardo sul dominio della verità umana più lungi ch’è possibile. Ma la verità è per lui, interamente, soltanto una, solo un tutto unico e indivisibile; nessuna parte di essa egli antepone ad un’altra. Anche la stessa cultura dello spirito è tuttavia per lui solo una parte dell’intera cultura: e tanto poco gli va a genio di farla finita esclusivamente con quella, quanto meno gli verrà in mente di fame a meno. Vede benissimo, e non si fa ritegno di convenirne, quanto altri siano in ciò più addietro di lui; ma non si sdegna per questo, poiché sa quanto dipenda anche in ciò dalla fortuna. Non impone a nessuno la sua luce, e tanto meno la mera apparenza della sua luce; sebbene egli sia sempre pronto a darne, secondo le sue capacità, a ciascuno che lo desideri, e a dargliela in quella singola forma che gli è più gradita.

Tuttavia egli si tiene contento anche quando nessuno ha brama dei suoi lumi. È integralmente retto; coscienzioso, forte contro se stesso nel suo intimo, senza dare esteriormente la minima importanza alla sua virtù, né imporne agli altri la contemplazione mediante affermazioni della propria onorabilità e sacrifici clamorosi e affettazione di alta serietà. La sua virtù è tanto priva di artificio e, direi quasi, pudica, quanto la sua sapienza; il suo sentimento dominante presso le debolezze degli altri uomini è di benevola compassione, non già, affatto, di sdegnoso corruccio. Egli vive fin di quaggiù nella fede in un mondo migliore, e questa fede soltanto conferisce agli occhi suoi valore, significato e bellezza alla sua vita su questa terra; ma egli non impone menomamente questa fede a nessuno, bensì la porta in sé, come un tesoro nascosto.

Questa è l’immagine dell’uomo perfetto, ideale del Massone. Né egli bramerà una perfezione maggiore di quella che l’uomo possa raggiungere, né vorrà vantarsene: la sua perfezione non può essere altro che umana, e l’umana. Ciascun uomo deve esser compreso del dovere di accostarsi sempre più sicuramente a questa mèta; se l’Ordine ha anche soltanto un poco di attività, ciascun membro deve

essere preso da questo moto di accostamento in forma ognora più visibile e con piena coscienza; questa immagine deve ondeggiargli innanzi come ideale prefisso e ben prefisso e ben vicino al suo cuore: dev’essere parimenti la natura in cui egli vive c respira.

È ben possibile che non tutti, anzi forse nessuno singolarmente di coloro, che si chiamano massoni, raggiungano questa perfezione. Ma chi ha mai misurato la bontà di un ideale, o anche solo di un’istituzione, da ciò che effettivamente ne conseguono gli individui?

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L’importante si è ciò che questi possono conseguire nelle condizioni stabilite; quanto poi l’istituzione vuole e addita con ogni mezzo a sua disposizione, questo i suoi membri debbono conseguire. Né io affermo che i massoni siano necessariamente migliori di altri uomini: tanto meno che non si possa conseguire la medesima perfezione anche fuori dell’Ordine. Ben sarebbe possibile che un uomo, non mai entrato a far parte dell’associazione dei Liberi Muratori, somigli all’immagine sopra delineata: e proprio in questi istanti ondeggia innanzi agli occhi della mia mente la figura di un uomo, nel quale io la trovo eccellentemente attuata, e che pure conosce l’Ordine tutt’al più di nome. Malo stesso uomo, se

fosse diventato nell’Ordine, e per mezzo di questo, ciò che egli è diventato nella grande società umana, sarebbe meglio capace di innalzare anche altri allo stesso suo grado, e tutta la sua cultura sarebbe più socievole, più comunicabile e quindi anche nell’intimo suo essenzialmente modificata. Ciò che sorge nella società ha maggior vita e forza perla prassi che non quanto vien generato nella solitudine.

Questi sono gli accenni che volevo dare intorno all’attività dell’associazione dei Liberi Muratori sopra i suoi membri. E essa, deve operare il felice avvicinamento all’ideale più sopra determinato, o nulla [deve] affatto: [perché] quanto sta più in alto di quello non può in generale essere attuato, e quanto sta più in basso, può dappertutto essere attuato. Masi capisce da sé che i membri debbono essere sensibili al suo benefico influsso; e, del pari, che le istituzioni debbono essere di tal natura, che tanto il più quanto il meno sensibile si avvantaggi però e progredisca nella sua giusta proporzione.

E ora si presenta ancora il problema, se questa associazione operi anche sul mondo.

 

 

 

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PER UNA DOSSOLOGIA MASSONICAGIA

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DI Raffaele K. Salina
Illustrazione del mito della Caverna di Platone in un ‘incisione del 7604 di Jan Saenredanì. I prigionieri immobilizzati davanti al muto, incapacitati nel guardare indietro, fissano la parete e vedendo delle ombre, in realtà ombre di manichini proiettate dalla luce di una torcia, credono che esse siano vere figure umane

In questo articolo ci si propone di tracciare le coordinate per una possibile dossologia massonica. L’obiettivo fondo è quello di valorizzare in questo senso alcune formule rituali usate nei lavori di Loggia per metterne ulteriormente in evidenza la profondità simbolica. Qui ci limitiamo al rituale attualmente in uso presso il GO’ ben sapendo che altri rituali, come quello Emulation, utilizzano formule che possono essere ricomprese in questo ambito.
La dossologia cattolica
A questo scopo dobbiamo necessariamente partire dalla sua definizione in ambito cristiano-cattolico. Secondo l’Enciclopedia cattolica la dossologia è il corpus di alcune specifiche formule di lode a Dio usate nel contesto della liturgia, Il termine deriva dal greco ôoioÀovia, composto dalle parole 564a che significa «opinione» ma anche «lode» e Aovia «discorso» quindi, nel nostro caso, «formula di lode». ln specifico per dossologia si intende, sempre secondo l’Enciclopedia cattolica: «Una formula liturgica o scrittura usata per lodare, glorificare o rivelare Dio uno e trino o distintamente te tre Persone della Trinità. La formula presente nel passo evangelico del battesimo di Gesù in Matteo 28,1 9 [Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo N.d.A.] presenta un esempio del nominare le tre persone in ordine parallelo».
Doxa e Episteme
Partendo da questa etimologia possiamo già avanzare alcune analisi sulla natura della dossologia cattolica e cominciare a tracciare possibili analogie con alcune formula usate in Massoneria. Per farlo dobbiamo richiamare l’affermazione di Platone per il quale la conoscenza si muove tra due livelli principali: la déxa, nella sua accezione di «opinione», che pertiene dunque al campo del sensibile, e l’epistéme, il sapere fondato sui principi intelligibili, le essenze eterne della Realtà. A loro volta, queste due forme si suddividono in altre, sino a formare un complesso schema gnoseologico, nel quale si parte dalla percezione delle immagini riflesse, la d6xa appunto, per arrivare all’intuizione delle idee pure. Qui è già evidente il nesso che lega le due forme della conoscenza ed anche il possibile passaggio dall’una all’altra.
Per illustrare questi passaggi, e chiarire come la maggior parte dell’umanità percepisca solo le parvenze della realtà intellegibile – la mâyâ dei fenomeni direbbero gli induisti – Platone introduce il mito della caverna (La Repubblica 514 b 520 a), descrivendola come un luogo in cui i soggetti sono incatenati e possono così vedere unicamente le ombre riflesse sulla parete davanti a loro, percependo anche suoni o movimenti generati da qualcosa o qualcuno che muove o anima oggetti posti su un muretto alle loro spalle, illuminati da una luce proveniente dall’esterno. Quando infine qualcuno riuscirà a liberarsi dalla prigionia, arriverà a vedere prima gli oggetti reali che producono le ombre, e poi la luce originaria che tutto illumina ed anima.
La complessità del mito e le sue interpretazioni esulano da questo breve articolo, ma il riferimento è opportuno, perché la caverna platonica ha rappresentato, sin dalla nascita della fiIosofia Greca, l’apologo più coerente ed esemplificativo della relazione tra opinione e conoscenza, illusione e consapevolezza, vedere e visione (epopteia).
Ciò che a noi interessa è, allora, evidenziare il nesso che esiste tra un vedere all’inizio falsato da una percezione puramente sensibile, ed il suo progressivo spostamento verso la visione nella luce della Verità intelligibile. M. Cacciari sintetizza questa relazione in un passaggio del suo Metafisica concreta: «Anatogia si darebbe tra vista e mente, ed è quella ‘classica’: la vista sta alle cose visibili, come il noûs sta alle cose intelligibili. In questo caso la relazione si direbbe intrinseca, poiché posso realmente attribuire ai due termini un carattere comune: come la vista fa vedere le cose sensibili, così il noûs rende chiaro, illumina, permette di conoscere ciò che i sensi consentono solo di toccare. Come senza vista le cose visibili resterebbero ignote, o meri percepta, così, se il noûs non agisse, ci resterebbero oscure le verità intelligibili. L’organo della vista e l’intelletto• noûs si riferiscono entrambe, substantialiter, al vedere. [ . .
L’indicibilità del Principio rende impervia la ricerca di quelle forme in grado di connettere i fenomeni, ovvero quelle con• nessioni tra gli eide che ci mette in grado di cogliere i fenomeni stessi come un Tutto e non solo come u n mucchio di apparenze. Certo, con le apparenze, tutti noi abbiamo a che fare all’inizio della nostra esperienza. La luce, tuttavia, penetra sino in fondo al pozzo in cui siamo gettati dalla nascita, altrimenti mai avremmo potuto neppure iniziare il cammino».
Non a caso, affinché il soggetto possa cominciare ad uscire da questo stato di “minorità percettiva”, qualcosa deve aiutarlo. La passività dell’incatenamento va rotta con un passaggio ad un altro piano: un percorso iniziatico che sarà doloroso e rischioso. La rete dell tabitudine, Io sgomento nel comprendere il vecchio stato illusorio ma il non aver ancora piena contezza delle implicazioni esistenziali del nuovo, le responsabilità che nascono dal possedere una conoscenza più lucida, ebbene tutto questo configura una condizione difficile da affrontare e Forte è, allora, fa tentazione di tornare sui propri passi, al mondo riflesso ma rassicurante delle ombre, della comune déxa: per molti è meglio restare alla catena insieme agli altri che rischiare l’isolamento nella luce della verità. E dunque, come dicono tutte le tradizioni sapienziali, ogni transito da un livello ad un altro di consapevolezza richiede adeguamenti sostanziali, una vera e propria trasmutazione del proprio essere; questo, testimoniato in sommo grado da Socrate con la sua morte, è il prezzo da pagare per essere realmente liberi?
Immediata l’analogia con la morte iniziatica ed il mito di Hiram che caratterizza il passaggio al grado di Maestro. Ma qui ci preme evidenziare come sia in qualche modo necessario proprio partire dalla déxa per arrivare all’epistéme: nel nostro caso percorrere il cammino che, muovendo dal simbolo fonico delle formule rituali, indica la strada verso la luce della verità iniziatica. Ecco perché possiamo, in questa prospettiva, parlare di una dossologia massonica in quanto alcune formule utilizzate durante i rituali dei tre gradi, rappresentano proprio questo possibile percorso verso verità più profonde. Concludendo la parte teorica possiamo dire, dunque, che esiste un progressivo passaggio analogjco-anagogico, dal vedere alla visione, cioè dallo sguardo sui percepta sensibili alle verità intellegibili.
Questo significa che la dossologia cristiano-cattolica mira evidentemente, con le sue «formule di lode», prima a “fissare” l’attenzione del fedele sulle verità dogmatiche, che dal nostro punto di vista possiamo paragonare ai percepta platonici, per poi preparare, mercé l’accettazione di questi stessi dogmi, l’animo alla fede nella potenza trascendentale di Dio in vista della Salvezza. Nel caso della Libera Muratoria, invece, attraverso le sue formule dossologiche, si tende ad un risultato diverso: prima attivare l’attenzione dell’iniziato verso fa sua ricerca esoterica, per poi lasciarlo libero di percorrerne la valenza simbolica sino alla Liberazione. Utile, a questo punto, richiamare brevemente la differenza tra Salvezza e Liberazione, che rappresenta il vero piano di distinzione tra la via del credente religioso e quella dell’iniziato. La prima è per così dire

discendente e tende alla purificazione dell’anima concessa da parte della divinità in vista di un trapasso verso la vita eterna al Suo cospetto; la seconda è invece ascensionale ed ha come scopo Io scioglimento dell’essere dai vincoli delle passioni ter rene in vista di una riunificazione del sé individuale con quello Universale.3 ln sintesi possiamo dire che le formule dossologiche sono, sia nella liturgia ecclesiale sia in quella massonica, espressioni che si inseriscono appieno nella successione anagogica dei simboli nei rispettivi percorsi rituali.
Formule dossologiche cristiano-cattoliche.
E’ interessante, anche ai fini della nostra trasposizione massonica, capire come e perché nasce fa dossologia cristiano-cattolica. I primi esempi di dossologia risalgono al IV secolo con lo scopo di contrastare l’eresia ariana.
L’arianesimo è una dottrina trinitaria di tipo subordinazionista, elaborata dal monaco e teologo Ario (256-336), condannata come eretica. Tale dottrina sostiene che il Figlio sia un essere che partecipa della natura del Padre, ma in modo inferiore e derivato (subordinazionismo), negandone così quella consustanzialità che sarà poi dogmatizzata nel Concilio di Nicea (325) attraverso il Credo niceno-costantinopolitano: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio ]
Alla base della tesi di Ario, permeata di neoplatonismo, vi era invece la convinzione che Dio, principio unico, indivisibile, eterno e quindi ingenerato, non potesse condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria essenza divina. Per questo le prime formule dossologiche sono rivolte solo a Dio Padre, o a Lui attraverso il Figlio e «nello» o «con lo» Spirito Santo. La cosiddetta dossologia finale o conclusiva è usata nella preghiera eucaristica, che costituisce il momento centrale della Messa, con la formula: «Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen».
A partire da questo periodo viene elaborata una dossologia finale inerente alla celebrazione eucaristica. Un esempio è la formula: «Ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen» oppure, derivata dalla consuetudine ebraica «È tua è la gloria nei secoli dei secoli. Amen». Altre forme finali significative si trovano nel Nuovo Testamento in Romani 1 1 ,36: «Poiché da fui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen» come pure nell’introduzione di Saluto e augurio e in Efesini 321 : «A lui sia la gloria nella chiesa in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen». Qui è l’Amen che sigilla per cosi dire la formula ed il suo significato per il credente.
Per una dossologia massonica
Date queste premesse è interessante cercare di delineare i primi rudimenti di una dossologia massonica, coerente con la ritualità Libero Muratoria, a partire dalle formule comuni che troviamo nei rituali dei vari gradi.
La prima formula dossologica maggiore, analoga per intento a quella «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» che apre il rito eucaristico, è certamente «Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo». Da qui l’orientamento del rito massonico svela in pieno il suo intento, ponendo l’iniziato in una posizione di rispetto e di ascesi, ma non di subordinazione, nei confronti del Principio creatore universale al quale vengono dedicati i lavori. Il G.A.D.U., in effetto, è un principio descrittivo e non prescrittivo.
E dunque, va sottolineato che il legame tra la formula Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo e la tradizione Massonica va ritrovato ed apprezzato nel nesso simbolico tra il mestiere in oggetto ed il Principio universale del quale essa è espressione. In altre parole, sperando di essere chiaro in un passaggio
fondamentale: la formula dossologia rivolta al Grande Architetto deve essere assunta come «supporto» del percorso iniziatico di modo che esso risulti, per così dire, una applicazione contingente dei principi stessi, immutabili ed eterni, meta-umani, ai quali si riferisce e dai quali trae la sua ispirazione.
La formula viene ripresa anche alla chiusura dei lavori per sancire che tutto il rituale, ed anche la parola circolata tra le colonne, è stata dedicata alla Gloria dell’Uno. La seconda serie di formule dossologiche maggiori possono essere considerate le invocazioni pro. nunciate dalle tre luci all’accensione ed allo spegnimento delle stesse in relazione al ruolo della Sapienza della Bellezza e della Forza. Qui è la Luce stessa della conoscenza prima emessa, irradiata e sostenuta dai tre principi che viene prima evocata, solve, poi, per così dire, fissata, coagula, nel cuore dell’iniziato. Un analogo intento nel panorama dossologico cristiano-cattolico è certo reperibile nel: «Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose».
Altra formula dossologica massonica che può essere considerata alla stregua dell’Amen, è il «Tutto è giusto e perfetto» pronunciato dal Primo Sorvegliante alla fine del giro dei Diaconi o dall’Oratore come conclusione del suo intervento. Stessa valenza ha il «Ho detto» alla fine delle parole pronunciate dai Fratelli.
Conclusioni
Come detto in apertura, non vi è, in queste brevi riflessioni, nessuna pretesa di esaurire un argomento che, però, abbiamo perlomeno voluto proporre come ulteriore arricchimento dei significati simbolici delle nostre formule rituali. II parallelo, che individua sia le convergenze sia le differenze, con la dossologia cristiano-cattolica, ci è parso interessante non solo dal punto di vista storico, quanto per evidenziare ancora una volta le apparenti similitudini che intercorrono tra due vie che, in realtà, viaggiano su binari paralleli. Certo dalla ritualità cristiano-cattolica c’è molto da imparare, noi pensiamo, introducendo appropriatamente certe analogie, nei debiti distinguo che le differenziano, anche perché, spesso, studiando il simile si capisce meglio la natura dell’uguale.

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ALCHIMIA E PROTOCHIMICA: IL “CAPUT MORTUM

ALCHIMIA E PROTOCHIMICA: IL “CAPUT MORTUUM”
(Paolo Galiano)

L’Alchimia è arte complessa e di difficile comprensione per chi vi si accosta da un angolo di interpretazione errato: l’errore più diffuso è quello di ritenere tutte le forme di Alchimia solo una sorta di ingenua e primitiva lavorazione dei metalli e dei vegetali, una prechimica o protochimica dalla quale nascerà dopo molteplici tentativi l’attuale scienza della Chimica. Ad opporsi a tale identificazione, che mette sullo stesso piano l’Alchimia spagirica con l’Alchimia anagogica o spirituale, è il particolare utilizzo che viene descritto in certi trattati degli scarti dei metalli che ogni buon fonditore o chimico butterebbe via senza esitazione: il caput mortuum.

Fig. 1: Johannes de Sacrobosco, Sphaerae coelestis et planetarum descriptio, ms alfa.x.2.14 della Biblioteca Estense di Modena [[licenza per uso non commerciale: https://www.bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-alfa.x.2.14.html), immagine modificata]

La discussione tra chi considera l’attuale Chimica la vera essenza dell’Alchimia e chi invece ritiene l’Alchimia un’arte anagogica da cui solo secondariamente derivano applicazione scientifiche è di antica data. Per i primi le preparazioni alchemiche sono tentativi di ottenere preparati chimici sempre più puri da sostanze minerali, vegetali e animali con tecniche che nel corso dei secoli si sono andate affinando fino a ottenere quei risultati che costituiscono la base della moderna Chimica. In definitiva l’Alchimia non sarebbe altro che una prechimica o protochimica che man mano si purifica da orpelli religiosi e superstiziosi fino a compiere il definitivo passaggio a scienza esatta. Con questo non si vuol dire che tutti i trattati di Alchimia nascondano un significato spirituale e vadano letti in tal modo, ma non è possibile generalizzare e applicare il concetto di «alchimia eguale protochimica» a tutta l’Alchimia, generalizzazione superficiale causata dall’imperfetta preparazione di certi storici, anche perché in virtù di una tale concezione si giunge a distorsioni nell’interpretazione degli scritti alchemici: uno degli esempi più evidenti è nella trasformazione del termine sal armoniacum in sal ammoniacum o sale di ammonio operata da tanti studiosi contemporanei dei processi metallurgici.

Il sal armoniacum è così chiamato nei trattati alchemici almeno fino al XX secolo, esso è così chiamato sia in Alchimia anagogica sia in Alchimia spagirica per la sua capacità di mettere «armonia» tra le sostanze alle quali viene aggiunto consentendone l’unione e la transmutazione, come spiega alla fine del XVII secolo Le Doux[1]: «Il sale armoniaco dei Filosofi è il loro mercurio perché è ciò che dà armonia agli elementi e lo spirito che produce tutte le cose».

In epoca più recente, all’inizio del ‘900, Fulcanelli[2] spiega il nome «sale armoniaco» con parole simili a quelle scritte da Le Doux: «Il sale ammoniaco dei saggi, o sale d’Ammone (αμμωνιακος) cioè dell’Ariete, un tempo veniva scritto, con maggior veridicità, harmoniac, perché realizza l’armonia (ἁρμονία, riunione), l’accordo tra l’acqua ed il fuoco, e perché è il mediatore per eccellenza tra il cielo e la terra, lo spirito e il corpo, il volatile e il fisso».

Quanto detto mette in luce uno degli abusi interpretativi commessi da taluni studiosi nelle loro trattazioni sull’Alchimia, ma ciò che è ancora più grave è la limitatezza delle loro conoscenze delle opere alchemiche, delle quali probabilmente conoscono solo quelle utili alla conferma delle loro tesi, mentre non hanno posto alcuna attenzione a testi fondamentali nella formazione del pensiero alchemico occidentale, quali il Pretiosum donum Dei, lo Speculum alchimiae, il De leone viridi e altri trattati attribuiti ad Avicenna (il De alchimia) e a Frate Elia (il Vademecum).

Se li avessero letti avrebbero rilevato certe curiose (per loro) considerazioni riferentisi al significato del cosiddetto caput mortuum, faeces o «cenere», i residui che restano sul fondo dei vasi dopo le operazioni di distillazione.

Il metallurgo che con pazienza e fatica ha sminuzzato il materiale originario da cui estrarre il minerale che gli interessa, lo ha distillato negli alambicchi più e più volte e poi lo ha messo nel forno per calcinarlo per ottenere l’oro, o quale sia la sostanza che cerca di ottenere, nella sua forma più pura possibile alla fine cosa fa? Mescola il prodotto purificato con le scorie che sono avanzate rovinando in tal modo tutto il lavoro fatto per settimane o per mesi! Un comportamento che non è compatibile con l’idea di un’Alchimia protochimica. Eppure nessuno tra gli studiosi rileva un tale intervento, che chiaramente è contrario a ogni lavorazione di carattere scientifico.

Quest’ultimo passaggio necessario a completare l’Opera è descritto in modo chiaro e inequivocabile nei trattati fin dal tempo degli alchimisti greci, se la citazione attribuita da Frate Elia nel Vademecum[3] ad Archelao è estratta in modo corretto da uno dei suoi lavori:

E così afferma il detto dei filosofi che dice che l’argento vivo è il servo fuggitivo e poi rubicondo, e in questa forma il servo rubicondo sposò una moglie nera, e posti nella fossa e portati agli inferi generarono un figlio biondo. Appare chiaro che il servo rubicondo è la Pietra sopradetta, la moglie nera è il piombo, la fossa è il vaso, l’inferno è il fuoco, il figlio biondo è il sole generato dagli elementi predetti[4].

Anche l’alchimista Ibn ‘Umayl[5], vissuto in Spagna o in Egitto nel X secolo, nella Tabula chymica sottolinea la necessità della «cenere» per portare a compimento l’operazione alchemica: «Ha detto Hermes: ‘L’acqua è il fermento per realizzare l’oro e i corpi sono la loro terra e il fermento dell’acqua divina è la cenere, che è il fermento dei fermenti’»[6].

Nell’Alchimia di lingua latina già vi si accenna nell’opera a nome di Morieno Romano, il Dialogo di Morieno con il re Khalid, della fine del XII secolo (che sia un’opera araba tradotta il latino o viceversa un’opera latina tradotta in arabo), là dove l’autore del trattato scrive che «l’endica è il segreto di tutti questi (sapienti), ed è chiamata mozath thimia, cioè feci e quindi immondizia»[7].

Il ruolo delle faeces è descritto nel Tractatulus dello pseudo Avicenna con le parole «non disprezzare la cenere», frase ripetuta da altri autori:

Non devi disprezzare la cenere, perché Dio le restituisce la liquefacibilità e alla fine il Re sarà incoronato per volontà divina con la corona rossa … Infatti il composto non si ha senza matrimonio e putrefazione, e il matrimonio è unire il sottile allo spesso, e putrefare, tritare, assare e irrigare finché non siano insieme mescolati e fin quando divengano una sola cosa[8].

Nel Pretiosissimum donum Dei l’importanza delle faeces è ugualmente sottolineata con le parole dell’anonimo Filosofo nel commento alla Figura 10: «Calcinare non è altro che togliere l’umidità e trasformare in cenere. Si bruci dunque senza timore finché sia fatta la cenere. Perché quando sia stata ottenuta la cenere avrai unito in modo ottimale (le sostanze). Quindi non disprezzare questa cenere ma restituiscile l’umidità [lett. il sudore[9]] che ne è uscita … Ciò che uscì da esso [l’acqua della distillazione] riconduci sopra di esso [il corpo ridotto in cenere], finché sia fissato e non se ne separi per mezzo del fuoco, cioè quella nigredo che (è stata) separata dal corpo sia ricondotta sopra il suo proprio corpo da cui è uscita e diventi un solo corpo» [10].

Questa cenere è ciò che rimane dalla calcinazione della materia prima nell’Opera al Nero, come scrive lo Speculum alchimiae attribuito a Fate Elia:

Il calore, agendo sulla (materia) umida, genera in primo luogo la nigredo, e l’albedo si opera nella citrinitas, e invero aspettati questo nella decozione del piombo, poiché in primo luogo il nero si trasforma in cenere, poi in bianco, quindi in citrino, da ultimo in minio rosso[11].

L’autore che nel XIII secolo ha più a fondo esaminato il riutilizzo del residuo delle operazioni alchemiche è stato Raymundus Gaufredi, tredicesimo Ministro generale dei Frati minori, nel trattato De leone viridi[12] a lui attribuito. L’autore raccomanda più volte di conservare i residui (faeces) delle operazioni che via via si stanno compiendo (ad esempio si veda c. 214v: semper faeces quas faciet reserva cum aliis faecibus), perché le «feci» sono «fuoco», quindi non materiale da scartare e gettar via ma da conservare con cura per sottoporle, come si legge nella seconda parte del trattato, a un’accurata distillazione per estrarre da esse un «olio» che è anch’esso «fuoco», in quanto contengono il sulphur occultum contenuto nella materia prima, il piombo o Saturno che è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum attribuito a Frate Elia: «I predetti filosofi testimoniano che l’oro perfetto non può esser fatto se non con il piombo … è il vero segreto dell’oro e chiamano quest’oro oro dei filosofi»[13].

Il segreto della preparazione dell’oro-Sole è quindi nella sua riunione finale con gli scarti, i residui della lavorazione del piombo-Saturno: in essi si trova un materiale che unisce la terra e il fuoco, i due elementi di segno opposto rappresentati dagli apici della stella a sei punte formata dall’incrocio di due triangoli, il cosiddetto sigillo di Salomone.

Scrive Raimondo: «Occorre notare che i residui che sono rimasti in luogo del fuoco è il fuoco, come sopra si è detto, racchiudente in sé due elementi, cioè la terra che nasconde e il fuoco, questi sono due elementi fissi che non fuggono il fuoco» (c. 215v).

Da notare che faeces est ignis, «i residui è il fuoco», non è un errore di stampa. Si tratta di una particolare regola grammaticale del latino che l’autore del trattato segue (il che evidenzia come si trattasse di persona colta ed esperta della lingua in cui scriveva), costituente un esempio di plurale singolativo[14].

Le faeces, dopo la separazione dell’aqua clara che è il «mercurio dei filosofi» (c. 214v), vanno essiccate, tritate e distillate con l’aceto (cioè un solvente forte) fino a espellere ogni impurità e divenire una sostanza di colore rosso o citrino, da cui si estrae un olio rosso che è il sulphur occultum (c. 215r), il principio maschile contenuto nei residui dopo che da essi è stato separato il mercurio, principio femminile.

Le faeces sono la materia riportata al suo stato elementare, ciò che rimane del corporeo dopo l’estrazione dell’anima mercuriale che lo vivifica, e che deve essere disgregato (“l’inimico … che tutto si disfaccia” si legge nel sonetto Solvete i corpi in acqua) per liberare le forze di pura potenza di cui è sostanziato, raffigurate dai “vermi” della Figura VI del Pretiosum donum Dei, forze che non devono essere disperse ma vanno reintegrate nell’unità finale dell’Opera. Questo perché in Alchimia minerale il piombo o Saturno è l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come si legge nel Vademecum: «Se preparato in altro modo [cioè non dal saturno-piombo] è malato»[15].

Con le sue parole Raymundus indica il segreto dell’Opera alchemica: le operazioni sui metalli sono metafora della via che l’alchimista deve seguire se vuole giungere alla perfezione completa delle tre componenti dell’essere umano, corpo fisico, animico e spirituale, e nulla va eliminato se non le impurità che costituiscono un impedimento in quanto legate alla sua individualità. Si riporta in questo modo una parte di ciò che è stato creato dalla Natura alla sua forma principiale originaria operando quella che si potrebbe definire una «redenzione» della materia, senza dare alla parola un significato religioso ma solo quello etimologico di «riscatto, recupero», in quanto scopo dell’alchimista è quello di portare a compimento il lavoro che Dio stesso ha lasciato incompleto:

Il Creatore creò i quattro Elementi in germe [lett.: nello sperma], dette ad essi un periodo stabilito nel quale si perfezionassero e dopo il quale fossero compiuti per mezzo della Sua sapienza e forza, e quest’opera non è altro che il segreto dei segreti di Dio, che Egli stesso offrì ai filosofi.[16]

Nell’Alchimia metallurgica il paziente lavoro sui metalli che sono imperfetti, «malati», li transmuta in oro, unico metallo perfetto e senza alcuna «malattia», da cui l’uso della parola «medicina» per indicare sia il risultato dell’operazione finale, sia il medicamento spagirico che può curare le infermità umane. L’azione concreta di perfezionamento, o meglio di compimento, della creazione della Natura (per questo l’Alchimia fu anche definita philosophia manualis) è possibile per le corrispondenze tra il microcosmo che è l’uomo e il macrocosmo nella sua interezza, come Mirca Eliade nel trattare dell’Alchimia indiana:

L’alchimia indiana non è una prechimica ma una tecnica solidale con gli altri metodi della ‘fisiologia sottile’ elaborati dall’Hatha-yoga e dal tantrismo … Nessun dubbio sulla realtà delle operazioni alchemiche non si tratta di speculazioni ma di esperienze concrete effettuate nei laboratori sulle diverse sostanze minerali e vegetali … Piante, pietre e metalli, proprio come il corpo dell’uomo, la sua fisiologia e la sua vita psico-mentale, costituivano i diversi momenti di uno stesso processo cosmico[17].

Lungi dall’essere solamente una tecnica per l’elaborazione di nuove sostanze chimiche, l’Alchimia nel suo aspetto anagogico si rivela al lettore attento come un mezzo sottile per raggiungere uno stato di perfezione non solo dell’anima e dello spirito ma anche del corpo stesso.

NOTE
[1] Gaston Le Doux de Claves, Dictionnaire hermetique, contenant l’explication des termes, fables, enigmes, emblemes et manieres de parler des vrais philosophes. Accompagné de deux traitez singuliers … par un amateur de la Science, a Paris, chez Antoine D’Houry, rue Saint Jacques, devant la fontaine Saint Severin, au Saint Esprit, MDCXCV, s. v. Il testo, che nell’edizione del 1695 non ha il nome dell’autore, è anche citato come Gaston Le Doux de Claves e William Salmon.
[2] Fulcanelli, Le dimore filosofali, Roma 1973, vol. I, p, 205. Nella prefazione alla prima edizione dell’Ottobre 1925, scritta dal discepolo Eugene Canseliet, Fulcanelli è detto «già da molto tempo non più tra noi».
[3] Il Vademecum è un trattato di Alchimia spagirico-sapienziale di cui sono conosciuti venti manoscritti, sedici dei quali riportano nell’introduzione come autore il nome di Frate Elia, secondo Ministro generale dell’Ordine dei Frati minori.
[4] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Pal. Lat. 1267 c. 17v; per la traduzione e il commento del manoscritto si veda Paolo Galiano (a cura di), Frate Elia: il Vademecum, Roma 2019. Il nome di Archelao, alchimista bizantino vissuto tra il Vi e il VII secolo, viene esplicitamente riportato in altri codici del Vademecum, quale il ms Vat. Lat. 4092 della stessa Biblioteca, c. CLXXXIIIIr.
[5] Muhammed Ibn ‘Umayl al-Tamîmî, alchimista di lingua araba noto nel mondo latino con il nome di Senior Zadith (latinizzazione del suo titolo Sheik al-Sadik) o di Zadith filius Hamuel, la cui opera, Kitāb al-Mā’ al-Waraqī wa’lr dar an-najmiah (Libro dell’acqua d’argento e della terra stellata), venne tradotta in latino nei codici e poi stampata in numerosi testi, tra cui ricordiamo in particolare Philosophiae chymicae IV vetustissima scripta, Francoforte, 1605 (consultato 06/11/2017 in: Stiftung der Werke von C.G.Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7153). A volte sia nei mss sia nei testi a stampa si trova solo una parte di quest’opera con il titolo Epistola solis ad lunam crescentem.
[6] Vetustissima scripta p. 31.
[7] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 23.19 Aug. 4°, c. 18r (traduzione integrale e commento in Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, a cura di Paolo Galiano, Roma 2021). Il monaco bizantino Morieno, a cui è attribuito il trattato, sarebbe vissuto nell’VIII secolo e, dopo aver studiato l’Alchimia con Stefano, uno dei primi alchimisti greco-bizantini, ad Alessandria d’Egitto, avrebbe scelto di ritirarsi sui monti vicino Gerusalemme, secondo quanto scritto nel Dialogo. Nel coevo ms Latin 7158 della Bibliothèque Nationale di Parigi c. 201va è specificato che endika id est faeces ignis, nome che sarà ripreso nel De leone viridi di Raymundus Gaufredi. Morieno spiega che l’endica «è l’aria … essa conviene in modo adatto a tutti i corpi, perché li vivifica e li predispone a non essere confusi dalla combustione ma trasferisce qualcosa di loro ad altri corpi e impedisce il calore del fuoco» (c. 16v), cioè possiede la funzione intermediatrice propria del sal armoniacum.
[8] Pseudo Avicenna, Tractatulus … in octo capitula (inc.: In primo capitulum dicam de Mercurio), cap. V De Fundatione seu etiam Fusione Aquae super terram suam, in Jean Jacques Manget, Bibliotheca chemica curiosa, seu rerum ad alchemiam pertinentium thesaurus instructissimus, Coloniae Allobrogum (Ginevra) 1702 (Stiftung der Werke von C.G. Jung, Zürich, https://dx.doi.org/10.3931/e-rara-7378), p. 630a.
[9] L’utilizzo del termine sudor per indicare l’umidità estratta dal corpo durante il trattamento si trova in molti testi alchemici come, per esempio, nella canzone Est fons in limis (Nam bene mundatum / proprio sudore lavatum), un breve trattato in versi di autore anonimo che si legge in un grande numero di codici e di incunaboli (testo e commento in Paolo Galiano (a cura di), Lo Speculum alchimiae di Frate Elia, Roma 2016, pp. 75-80).
[10] Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, ms Guelf. 77.2 Aug. 8° del XV secolo, c. 10r (traduzione integrale e commento in Paolo Galiano, Il Pretiosum donum Dei, pp. 101-102).
[11] Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms C.2.567 c. 7r, in Paolo Galiano (a cura di), La arte dell’Alchimia, Roma 2018, p. 197 (traduzione e commento del ms di Firenze del 1491). Lo Speculum è di sicuro anteriore al Donum Dei, il quale lo cita più volte e in modo così ampio che circa un quinto del trattato è costituito da frasi tratte da esso.
(12] Il trattato è attribuito a Raymundus Gaufredi, e se sua fosse l’opera sarebbe stata scritta prima del 1310, data della scomparsa dell’autore; il De leone viridi ci è pervenuto in manoscritti databili fin dal XIV secolo (London, British Library, ms Sloane 2327 e Oxford, Bodleian Library, ms 119). Rimandiamo per l’argomento delle faeces a Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, a cura di Paolo Galiano, Roma 2020 (traduzione e commento del ms Guelf. 433 Helmst. della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel), in particolare sulla tradizione manoscritta e a stampa pp. 37-51.
[13] Vaticano, Biblioteca Apostolica, ms Pal. Lat. 1267, XIV sec., cc. 17rb-17va, traduzione e commento in Paolo Galiano (a cura di), Il Vademecum di Frate Elia, Roma 2019, pp. 50-51.
[14] Si veda Raimondo Gaufredi, Trattato del Leone verde, pp. 96-97.
[15] Bologna, Biblioteca Universitaria, ms 104, datato 1476-1484, c. 243r (Il Vademecum di Frate Elia, p. 70).
[16] Ms Guelf. 23.19 Aug. 4° di Wolfenbüttel, c. 15r (Morieno Romano, Dialogo tra Morieno e re Khālid, pp. 149-150).
[17] Mircea Eliade, Arti del metallo e dell’alchimia (trad. italiana Torino 1980 e 2018 di Forgerons et alchimistes, Parigi 1977), pp. 120 e 122-123.

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MAESTRI DI VITA

Chiamiamo Maestri di vita coloro che insegnano l’arte del vivere. Con le loro dottrine e il loro personale esempio influenzano l’esistenza di una vasta moltitudine di esseri umani. Nel tempo e nello spazio. I loro insegnamenti – autentici percorsi di spiritualità – incidono profondamente su tutta la vita di chi li ascolta e li segue, con l’intenzione e la volontà di ripercorrere le orme del maestro prescelto secondo il modello della sequela o imitatio. Questi seguaci si denominano discepoli. All’evidenza, non possono poi essere confusi con gli allievi di quanti (semplici docenti, professori, o istruttori) si limitano invece a insegnare la loro arte, senza avere alcuna pretesa di influenzare il resto della vita dei loro alunni, studenti, apprendisti. Riproporre all’attenzione di quanti sono alla ricerca di un senso per la loro vita gli insegnamenti di questi antichi maestri, si noti, non è un vago esercizio della memoria. Né un gesto di curiosità, quale può essere quello di un turista che si attarda in un paese remoto. Né, meno che mai, è un far rivivere il pensiero di personaggi storici autorevoli. All’opposto, significa offrire concreti strumenti utili alla crescita spirituale di chi è incamminato su questa strada. Come perspicuamente ha insegnato Aristotele quando ha scritto: “non stiamo indagando per sapere cosa è la virtù, ma per diventare virtuosi, dato che altrimenti l’indagine non sarebbe di alcuna utilità” (così in Etica Nicomachea n. 2, 1103 B). Appunto, inutile, perché una volta conosciuto l’esempio, a nulla serve, se poi non lo si vive. Ciò che in questi Maestri di vita desta poi la più viva ammirazione è l’assoluto rispetto della libertà e della indipendenza, tanto del discepolo quanto del maestro. Questi, infatti, lungi dall’imporre percorsi esistenziali, si limita, all’opposto, semplicemente a proporli con l’intento evidente di fare diventare il discepolo ciò che è realmente. Il loro insegnamento genera infatti autenticità, che, palesemente, è proprio l’opposto di quanto causa la supponente autorità, fonte di prevaricazione, conformismo e morte spirituale. Questa indipendenza e libertà si estende poi perfino al suggerimento di abbandonare la dottrina proposta, una volta divenuta inutile. Come insegna, ad esempio, Buddha con la nota parabola della zattera, che, utile a travalicare il fiume, diviene addirittura un peso da abbandonare una volta raggiunto il suo scopo con successo. O, sempre per esemplificare, come predicava Zarathustra che, mentre scendeva dalla montagna seguito dai suoi discepoli, raccomandava a ciascuno di loro di ascoltare le sue parole, ma di prendere la propria strada. Rimane comunque incontestabile che gli insegnamenti etici e spirituali proposti costituiscono esempi preziosi di indubbia utilità per quanti sono orientati a dare alla propria esistenza un senso preciso. Di fronte alla pluralità dei modelli di vita proposti dalla Storia si pone il problema di quale fra essi scegliere. Siamo dell’avviso che, nella scelta, riveste un ruolo decisivo il rapporto che ciascuno di noi ha con la propria esistenza. Sicché, chi è indotto a gustare la vita come un dolce sapore non potrà che guardare con favore all’insegnamento di Socrate, affascinato dalla meravigliosa ricchezza della esistenza. Oppure a quello di Confucio che, credendo convintamente nella vita, mirava a unire gli esseri umani in un sistema coeso al fine di generare armonia nella convivenza sociale. Chi, invece, avverte la necessità di rinunziare alla vita non potrà che far capo a Buddha per essere sostanzialmente questo il suo insegnamento, come è attestato dalla forma di vita proposta ai suoi discepoli, chiamati a essere monaci e perciò destinati a rinunziare agli elementi strutturali della vita: il lavoro, la sessualità, la famiglia, la curiosità intellettuale, i divertimenti e, perfino, la dimensione estetica con l’obbligo di rasarsi il capo. Chi, infine, è governato dal più radicale pessimismo non potrà che far capo all’insegnamento di Schopenhauer e Leopardi. Si parva licet, sia poi consentito all’autore di queste note succinte di manifestare il proprio ottimismo nei confronti della esistenza, perché quello che la vita ci ha dato e continua ancora a darci rinnova ogni giorno l’incanto. Siamo poi perfettamente consapevoli che il pessimismo, proprio perché esseri umani, ha da sempre i suoi motivi. A noi sommessamente sembra però che debba riconoscersi prevalenza all’ottimismo. E non già per una predisposizione psicologica. E neppure per un comandamento di fede. Quanto invece perché, nonostante i nostri limiti e i nostri errori, conserviamo sempre una insopprimibile attitudine al bene. Da come si è argomentato l’inciso, per quel poco che può interessare, ne segue la personale preferenza per quei maestri – Socrate in primis – che nutrono stupore nei confronti della meraviglia che colora la vita tanto degli uomini, quanto del creato da essi abitato. La vita eccede qualunque dottrina. Non può, pertanto, escludersi il fatto che nel tempo si muti il maestro, e perfino più di un maestro. Con la conseguenza di uno o più cambi di indirizzo nella sequela intellettuale morale e spirituale. Né può destare meraviglia il fatto che, di questo o di quel maestro, si finisca per accettare soltanto un singolo insegnamento, o anche più di uno, visto che si è inclini a accogliere ciò che è più consentaneo alla propria natura. Il che però avviene, inoppugnabilmente, soprattutto perché nessun maestro ha raccolto in sé tutti gli aspetti costitutivi della umanità. In tutti i loro insegnamenti, oltre a talune intime contraddizioni, è possibile infatti riscontrare pure alcuni limiti precisi. Uno dei maggiori dei quali è poi sicuramente la tendenza a valutare negativamente la natura femminile. Però, non così per Socrate. Né per Gesù che, fra i propri discepoli, annoverava pure donne. Se, per concludere sul punto, nessun maestro ha lasciato una dottrina tale da insegnare l’esistenza perfetta, occorre allora guardare a quel deposito di preziosa ricchezza come a un laboratorio etico e spirituale dove attingere insegnamenti e spunti per creare un proprio originale modello di vita. Il che, da altro verso, ribadisce che quello più importante di tutti è il Maestro interiore, che è, appunto, quello che nasce e si evolve su basi arricchenti, come frutto del duro, severo lavoro quotidiano, volto a sviluppare l’umano che esiste in ogni uomo. In via di corollario, ne esce però riconfermata l’utilità di tutti i precedenti maestri, anche se provvisori e parziali, posto che tutte quelle dottrine costituiscono, quanto meno, una proficua fonte di ispirazione. Dove l’utilità è poi doppia. Innanzitutto perché la conoscenza e il governo di noi stessi è lavoro troppo impegnativo per essere svolto in solitudine. Col rischio, perciò, di non conseguire risultati apprezzabili. Anche a causa della confusione etica e teoretica che caratterizza i nostri duri giorni, orfani di valori perduti, privi di nuovi, che si rifiutano di apparire all’orizzonte. Sicché, ancor più delle generazioni precedenti, necessitiamo degli insegnamenti dei grandi maestri del passato. In secondo luogo, perché i risultati ottenuti con il nostro solitario impegno finirebbero, molto verosimilmente, per coincidere con verità etiche già note, oltre che definitamente acquisite. Donde la totale inutilità degli sforzi, quando porsi sulle spalle di giganti consente invece di costruire su solida roccia un proprio sistema etico di vita, almeno soggettivamente appagante. Il compito precipuo del massone è quello di trasformare se stesso in altro da sé, sviluppando al massimo grado l’umano nel quale consiste la sua specificità di uomo. In quest’opera, autenticamente ciclopica, il massone deve guardare agli antichi maestri con devozione e gratitudine per consolidare quello proprio interiore, per certo il più importante di tutti, per essere proprio quest’ultimo la guida più sicura nella costruzione della propria vita etica e spirituale.

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