LA MISTERIOSA ISOLA DEI QUATTRO MAESTRI

LA MISTERIOSA ISOLA DEI QUATTRO MAESTRI

di

Silvio Nascimben

Non tutti sanno che l’Irlanda dei Celti, che gli antichi Greci consideravano limitrofa perché situata all’estremo settentrione, era divisa nell’ antichità in “quattro regni” che ne cingevano, a loro volta, un altro, molto importante, collocato al centro.

Per questa ragione, in passato, l’Irlanda era denominata, spesso, “Isola dei Quattro Maestri”

Riteniamo utile riportare una considerazione di René Guénon, sull’ argomento: “Mai questa denominazione, come pure quella di “isola verde”, serviva a definire, ancor prima, un’ altra terra, oggi sconosciuta, molto più a settentrione -la scomparsa Ogigia – forse, o piuttosto Thulé, che fu uno dei principali “centri spirituali” dell’epoca, se non lo stesso “Centro supremo”.

Ritroviamo in un testo cinese, altre testimonianze ed una in particolare, quella del filosofo Chuangtse, recita: “L’ Imperatore Yao si affaticava molto credendo per questo di ben regnare. Ma, dopo aver visitato i Quattro Maestri, nella lontana isola di Tiu-Chee, dovette riconoscere di aver sbagliato tutto. Perché la forma perfetta rimane l’indifferenza del superuomo, che lascia girare la ruota cosmica, senza curarsene”

LA TERRA DEI BEATI VIVENTI

Altri significativi riferimenti si possono riscontrare anche nella mitologia indiana dove “l ‘ isola bianca”, delle lontane regioni iperboree, veniva definita come “la terra dove soggiornano i beati viventi”._Dalle svariate definizioni, in verità, mai generose di particolari, formulate dai tanti studiosi della “regione iperborea”, sembrerebbe che l’alone di mistero, ad essa legato, ispiri in misura minore l’immaginazione che non la scomparsa di Atlantide.

Questo tema affascinante ci viene proposto da due opere: “La Porte sous les eaux”, di John Flanders, e da un capolavoro, immeritatamente poco conosciuto, del grande Abraham Merrit, valente scrittore americano: “Dwellers in the Mirage”.

Sulla base di alcuni fatti concreti, di cui Merrit era venuto a conoscenza, in una regione ancora inesplorata dell’Alaska, miracolosamente preservata dai ghiacci, per effetto del vulcanismo, sopravvivrebbe, a detta di alcune tribù nomadi, l’ antica civiltà degli Iperborei.

Ciò spiegherebbe il ritrovamento occasionale, in quella regione, di alcuni tronchi di alberi, di specie tropicale.

IL TEMPIO Dl STONEHENGE

Secondo un’ antica tradizione, il Tempio megalitico di STONEHENGE non venne edificato nel luogo dove attualmente si trova bensì nella terra degli Iperborei.

Dando ascolto a questa leggenda, però, ci si imbatte in due evidenti interrogativi:

– il trasporto delle gigantesche stele megalitiche e le conseguenti difficoltà tecniche – le conoscenze astronomiche e tecniche che i misteriosi maestri-costruttori.

L’errore, poi, di considerare le civiltà megalitiche, primitive e grossolane, nonostante abbiano avuto un periodo di vita di molti millenni, ha sempre distolto l’ attenzione dei ricercatori che spesso, considerate le difficoltà di riscontro, preferiscono non squarciare l’ alone di leggenda legato, quasi sempre, a queste misteriose civiltà del passato.

La misurazione effettuata nel 1961, con il Carbonio 14 (Isotopo radioattivo del Carbonio, la cui presenza in un reperto organico, misurata in percentuale, consente di datare quest’ultimo con notevole precisione) su alcuni frammenti di legno provenienti dal Tumulo di Saint-Michel, la piccola collina di Tumac, ha fornito una datazione che va dal 7030 al 2920 a.C.

Affascinante, e apparentemente inspiegabile, rimane il legame “uomo e pietra megalitica”; alla luce della conoscenza odierna, l’osservazione attenta di massi enormi lavorati non riesce a fornirci l’esatta risposta della loro ignota collocazione, in certi determinati luoghi, proprio in considerazione degli strumenti ed i mezzi di cui disponevano.

Ciò vale per le gigantesche statue dell’Isola di Pasqua, le Piramidi, Stonehenge, Carnac, ecc. ecc. La scienza sacra dei Druidi, molto antecedente alle invasioni celtiche e risalente alla misteriosa civiltà dei “costruttori di megaliti”, teneva conto dell’ esatta conoscenza di “leggi occulte della natura” che reggono, in perfetto equilibrio, la diffusione delle invisibili correnti magnetiche, nel seno della Terra.

MENHIR E DOLMEN

Laddove una di queste forze si congiunge con una corrente d’ acqua, troviamo spesso, un “menhir”, mentre un “dolmen, a due o tre pilastri”, quasi sempre, indica una corrente tellurica si dirama in due o tre flussi.

Tutto ciò lascia presupporre che i Druidi, furono i depositari della arcana dottrina dei Maestri misteriosi, venuti da chissà quale angolo sperduto dell ‘Universo, e che vissero con gli uomini, nel periodo megalitico, e ne fossero, a loro volta, diventati maestri.

Varrebbe la pena penetrare meglio il significato di “omphalos”, che vuol dire “ombelico”, o meglio, “corridoio” che collega I ‘uomo al “transfinito”.

Uno di questi luoghi misteriosi è nei pressi di Bari, esattamente a Sovereto. Esistono le correnti magnetiche sotterranee, vi è un “menhir” e, poco lontano, a Bisceglie, un “dolmen”.

Forse, solo allora, potremmo spiegarci I ‘ ermetico significato dell ‘ indissolubile legame: Pietra grezza – Uomo maestro – Pietra lavorata.•

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APPUNTI PER UNA TEORIA ED ETICA DELLA CONOSCENZA MURATORIA

APPUNTI PER UNA TEORIA ED ETICA DELLA CONOSCENZA MURATORIA

di

Giuseppe Schiavone

  1. Le vie della ricerca

2.1. La via delle scienze fisiche

Le scienze fisiche hanno come oggetto di ricerca la natura, ivi compreso l’ uomo nella sua dimensione di essere di natura, considerato cioè metodologicamente come struttura bio-psichica (escludendo la sua dimensione spirituale, che è oggetto di altra ricerca). Si rivolgono alla realtà visibile, fenomenica; alle cose percepibili dai sensi direttamente o attraverso sofisticate strumentazioni.

Il metodo proprio delle scienze fisiche procede attraverso l’osservazione e l’ analisi di un oggetto (il fenomeno è da studiare), indipendentemente dal soggetto. Perciò tale metodo si dice oggettivo, sperimentale, analitico, impersonale.

Consiste nell’investigazione analitica e sperimentale di un fenomeno e nella ricerca della sua causa fisica (ad esempio, lo studio della caduta dei gravi e la scoperta della legge di gravità).

Per i corretti esiti scientifici di questa ricerca è necessaria la competenza tecnica, ma non l’affiatamento etico, che non incide sul procedimento, né sui risultati della sperimentazione. Semmai qui l’etica subentra nella fase di utilizzo degli esiti della ricerca medesima, ma non durante il suo svolgimento.

Lo sviluppo della scienza prevede l’uso metodico della verifica (attraverso la ricostruzione sistematica del fenomeno e l’accertamento veritativo d’ogni procedimento); l’accrescimento dei poteri dell’uomo (che si realizza congiuntamente, per un verso, con l’ ampliamento della conoscenza, per altro verso, con le conseguenti applicazioni tecnico-pratiche); l’ obiettività e l’ impersonalità della ricerca; I ‘ accettazione del carattere puramente strumentale e funzionale delle ipotesi e delle teorie, le quali sono accolte senza settarismo e, quando l’ interesse della ricerca lo esiga, abbandonate con disinvoltura, serenamente.

La verifica sperimentale si dispiega per il tramite di alcuni fondamentali passaggi metodologici, consistenti:

1) nella raccolta di numerosi materiali provenienti dall ‘osservazione accurata del comportamento del fenomeno (o dei fenomeni) in esame;

2) nel mettere a confronto detti materiali, ovvero nel procedere nella loro descrizione (indicando non le proprietà essenziali di una cosa, ma i caratteri estrinseci, anche se propri, e tali da permettere di distinguerla dalle altre), sia in rapporto al già conosciuto sia in rapporto a ciò che non si conosce;

3) nel catalogarli e riordinarli secondo tavole di classificazione;

4) nel ricercare le costanti e le cause specifiche dei fenomeni in oggetto;

5) nello scartare e annotare a parte le variabili, risalendo al motivo di tale incostanza;

6) nell ‘enunciazione di un’ ipotesi in grado di dare la spiegazione, eventualmente inserendola anche in nuovo sistema interpretativo;

7) nella verifica dell ‘ipotesi;

8) dopo di ciò, se il passaggio “7” risulta positivo, ovvero confermato, si ha la spiegazione del comportamento necessario del fenomeno, cioè la formulazione dei principi generali e, quindi, della legge; se, viceversa, il passaggio “7” risulta negativo, ovvero non verificato ma falsificato, bisogna tornare al punto di partenza “1 ” e ricominciare.

Ciò implica: a) il principio di autocorrezione permanente, ovvero il riconoscimento della scienza come un processo essenzialmente auto-emendabile, per cui nessuna sua proposizione (comprese quelle relative alle nozioni di base e compresi i principi stessi del metodo) è data per definitivamente accertata;

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  1. b) il principio di interdipendenza tra il momento dell’elaborazione razionale dei dati; c) il principio di applicabilità tecnica, in forza del quale il progresso della conoscenza scientifica non è separabile da quello dei mezzi tecnici, in particolare degli strumenti necessari alla sperimentazione.

Alle origini, nella Grecia del VI sec. a.C., scienza e filosofia nacquero come un’unità indistinta, ma i progressi ulteriori della ricerca scientifica e il presupposto antimetafisico delle filosofie moderne hanno portato alla distinzione delle discipline che dalla filosofia via via si sono differenziate e alla circoscrizione di due diversi ambiti: 1) quello delle scienze naturali e matematiche; 2) quello delle scienze umane o dello spirito.

Tale distinzione comporta la classificazione delle scienze (individuazione della specificità d’ ogni scienza e dei loro possibili rapporti di dipendenza e di correlazione) e la diversificazione e specializzazione del metodo proprio d’ogni campo di ricerca.

Da qualche tempo si parla pure di inter-discipline (come la fisico-chimica, la biofisica, la biochimica, ecc.), che si inseriscono tra le discipline tradizionali. Anch’esse, comunque, sono obbligate ad avere un loro specifico metodo di ricerca, che è dato dal risultato della coniugazione di più metodi.

La conoscenza scientifica, nel tempo, è venuta mutando in rapporto all’evoluzione delle scienze e della filosofia. Il modello classico della scienza come vera e propria “filosofia naturale”, e cioè come conoscenza delle essenze e delle relazioni d’interdipendenza necessaria fra le cose, ha subito nel corso del pensiero moderno molteplici revisioni riduttive (da Bacone a Newton, da Hume a Kant, dal positivismo al neopositivismo). La descrizione razionale del “come” dei fenomeni è apparsa sempre più chiaramente l’ unico obiettivo possibile dell ‘indagine scientifica, mentre la risposta al “perché” ha perduto a poco a poco rilevanza o è stata addirittura dichiarata priva di senso, specie quando essa comporti il ricorso a entità occulte o a ipotesi inverificabili (o apparentemente inverificabili secondo i metodi d’indagine ufficialmente accreditati). La preoccupazione di evitare ogni infiltrazione di assunti dogmatici (e metafisici) ha avuto come suo esito estremo la riduzione della scienza a sistema di convenzioni, stabilite secondo criteri economici o funzionali (Poincaré, Le Roy, Mach, Bergson, Croce, con intenti accentuatamente limitativi; mentre sul piano del formalismo neopositivistico, Carnap, Neurath, Reichenbach, Morris, ecc.).

Recentemente però, la nascita delle geometrie non-euclidee, la definizione dei limiti della meccanica classica e soprattutto il principio di indeterminazione hanno offerto argomenti suggestivi anche a chi ha voluto mettere l’accento sul fatto che sia i postulati sia gli esiti delle scienze non sono per nulla da considerare definitivamente veri, ma anzi aventi permanenti caratteri di incertezza: C’è, in questa visione meno trionfalistica della scienza, il presupposto teorico che esistano forme di conoscenza altra (ovvero di conoscenza alternata), come l’ intuizione, il giudizio storico e simili, fornite di un contenuto globale che la scienza deve ammettere di non possedere, impostata com’è sull’analisi del “particulare”.

In questo quadro, è perciò probabile che le conoscenze umane di ogni tipo debbano essere accolte senza pregiudizio, quanto meno come provvisori tentativi e fallibili congetture. Così come la superiorità critica dello scienziato (si da essere più vicino alla figura del saggio) debba consistere nella sua capacità di trarre tutte le conseguenze dell ‘ accettazione di un tale limite, fino all ‘ affermazione di un ‘ apertura e di una tolleranza nei confronti di tutti i “metodi” e “forme di conoscenza”, purché metodologicamente corretti e rigorosamente controllati nella loro individuale specificità, ovvero nel loro intrinseco logos.

2.2. La via religiosa

La via religiosa (detta anche “via umida”) in senso proprio si basa sulla trasmissione della rivelazione della volontà divina attraverso canoni dottrinari. Perciò non richiede una personale ricerca razionale, un approfondimento scientifico del fatto religioso, anzi bandisce la ragione, ch’è sostituita dalla fede. “Credo quia absurdum” diceva Tertulliano. Perciò questa via è dogmatica, monoculturale, spesso intollerante.

Eliminando la ragione (che peraltro è propria dell’essere razionale), essa s’appalesa come via devozionale: Per cui la tensione verso la conquista di stati di perfezione superiori avviene attraverso la fede e l’imitazione di un modello esemplare, per esempio la vita di un santo, soprattutto quella di Cristo (imitatio Christi). Cerca di purgare la psiche con tecniche di pentimento o confessionali. E’ espiatoria. Il fedele si affida a Dio, si mette nelle sue mani; si pone in posizione passiva, di fiducia cieca, di attesa paziente. Vive nel mondo cercando di non essere del mondo. Pratica la mortificazione della carne e dell’ anima, per eliminare le passioni. Pratica I ‘ astinenza, i fioretti, la supplica. Chiede l’ intervento divino su di sé, senza cercarlo in sé. Il soggetto, pertanto, non cresce di per sé, ma in virtù della grazia; o, in subordine, in forza della legittimazione (assoluzione) che gli dà il suo sacerdote (il confessore). Perciò il soggetto non è mai autonomo, ma sempre sottomesso. •

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CONSISERAZIONI SULLA PARAPSICOLOGIA (p.p.)

 

Il termine “parapsicologia” e di origine recente, ed e stato molto probabilmente coniato per dare

una “patente di rispettabilità” a tutta una serie di studi e ricerche in un campo che precedentemente (nel

XIX secolo e nella prima parte del XX) era detto “meta-psichica”.

Il nuovo termine offre il vantaggio della eliminazione delle due metà del vecchio, entrambe

troppo compromesse dalle varie correnti spiritualistiche, e di avere al loro posto introdotto una

“parentela” con una disciplina (la Psicologia) accettata nel dominio “ufficiale”.

Con ciò si intende dire che si e voluta portare anche nel mondo accademico quella parte della

conoscenza umana che ha a che fare con i rapporti diretti (e non “normali”) tra fatti psichici

sperimentati da persone diverse, oppure tra fatti psichici e fatti fisici (relativi sia allo spazio, che alla

materia e all’energia, che al tempo); la parapsicologia si interessa, infatti, dell’insieme di tutti quei

fenomeni in cui un pensiero o “forza psichica” ottiene un effetto. sensibile, obiettivamente registrabile,

ma non spiegabile in alcun modo con mezzi fisici, anzi sovente in contraddizione con le leggi note alla

scienza contemporanea.

Il fatto che un tale dominio di ricerche sia stato effettivamente accettato dalla scienza ufficiale, o

almeno da alcuni esponenti qualificati di essa, segue dalla istituzione di cattedre in parapsicologia in

diverse università; inoltre, un fenomeno nettamente parapsicologico quale l’ipnosi viene correntemente

utilizzato e studiato in molte Facoltà di Medicina di tutto il mondo.

A lato di questi studi disinteressati si hanno poi ricerche sovvenzionate dai governi delle grandi

potenze mondiali per fini di natura politica, sulle quali non è però dato conoscere molto, essendo esse

spesso coperte da segreto militare.

Accanto alla accettazione ufficiale, ormai avvenuta, anche se in modo parziale, e che, almeno nel

primo caso, è da qualificarsi senz’altro come positiva, vi è però da considerare l’atteggiamento

generalmente assunto verso la parapsicologia. Questo è spesso, anche in persone di notevole livello

intellettuale, irragionevolmente scettico; irragionevolmente, in quanto lo scetticismo e in genere solo il

frutto di una cattiva informazione, quando non è, con una certa malafede rifiuto di informazione, tanto

da portare ad un atteggiamento pregiudizialmente negativo.

Può essere interessante osservare che alla formazione di questo atteggiamento hanno fortemente

contribuito fattori di diversa origine, quali il dogmatismo filosofico di orientamento positivista e

neopositivista, derivato soprattutto dall’Illuminismo e quindi dai “trionfi” della scienza del secolo

scorso (quando sembrava che i “meccanismi” che muovono l’Universo fossero tutti stati sviscerati),

come pure il dogmatismo religioso volto a difendere lo “status quo” del potere temporale della Chiesa

Cattolica, fondato sulla superstizione e portato avanti dall’Inquisizione con la “caccia alle streghe”. E’

stata in particolare quest’ultima che ha creato in Europa un clima nettamente avverso ai fenomeni p.p.

ed alle relative ricerche, portando a ritenerli “accettabili” solo sotto forma di miracoli attribuibili a

qualche Santo o all’intervento diretto di Dio.

In ogni caso, che li si voglia riconoscere.; oppure no, il fatto è che i fenomeni p.p. esistono (non

vi e praticamente nessuno che, spesso nell’ambito della propria famiglia, non sia. qualche volta venuto

 

 

a con-tatto almeno. con fenomeni di telepatia e chiaroveggenza). E’ di conseguenza del tutto

inconsistente la tecnica dello struzzo dell’ignorarli. o, peggio ancora, del semplicemente negarli;

peraltro essi non debbono costituire il pretesto per cercare, come spesso succede, di fermare i progressi

della scienza, cosa del resto molto difficile. Essi dovrebbero invece, come ci si sforzerà di mostrare nel

seguito, portare avanti un quadro generale di sintesi della conoscenza umana, come tante tessere dei

mosaico che e l’Universo in cui viviamo (o almeno quella parte di cui possiamo vere esperienza).

Parapsicologia e metodo scientifico

La p.p. può venire suddivisa in due campi, non nettamente delimitati, che secondo l’uso

anglosassone vengono indicati con le sigle PK ed ESP; la prima deriva dai termini “mente” e “moto”, e

comprende tutti quei fenomeni che comportano azioni sulla materia o sull’energia (spostamenti, o

creazione, o disintegrazione di oggetti, aumenti o diminuzioni di temperatura, ecc.) la seconda, invece,

da “extra sensorial perception” e riguarda principalmente l’acquisizione di conoscenze per canali

diversi da quelli consueti dei sensi.

Il secondo campo potrebbe considerarsi come caso particolare del primo, qualora si volessero

ridurre le percezioni a semplici (almeno in linea di principio) trasmissioni di “quanti” fisici di

informazione.

L’opinione di chi scrive, soggettiva e personale, quindi discutibile, è che le cose non siano affatto

così semplici; senza scendere in particolari, si può pensare che la conoscenza relativa a fatti fisici sia

questione tanto di particelle materiali ed onde elettromagnetiche, quanto soprattutto di “cose” non

appartenenti al mondo fisico, quali le strutture astratte, sia logiche, che non. Tale punto di vista esula,

però, da questo contesto e meriterebbe di essere discusso a parte.

Vi sono pure due modi sostanzialmente distinti di studiare i fenomeni p.p. dal punto di vista

scientifico. Il primo, iniziato alla scuola del dott. RHINE (Duke University) è quello di provocare in

laboratorio i fenomeni (ad esempio tramite carte o dadi) su cui si applicano i consueti mezzi statistici e

matematici delle scienze empiriche (metodo sperimentale di GALILEO); il secondo e invece quello di

raccogliere una casistica di fenomeni spontanei, accertati fuori da ogni possibilità di dubbio, e da

questi cercare (per induzione) di trarre deduzioni di validità generale.

Dei due metodi il primo è certamente più accettabile scientificamente, ma comporta dei notevoli

rischi in quanto i fenomeni p.p. sono essenzialmente fenomeni isolati e sporadici (anche quando

presentano un relativo carattere di regolarità) ed inoltre sono legati in un modo notevole al soggetto

che sperimenta, il quale, in generale, “soffre” della atmosfera innaturale di un laboratorio.

I risultati ottenuti in presenza di questi “blocchi inibitori” finiscono spesso con l’essere, anche

quando ce ne sono, notevolmente artificiosi; ciononostante, essi sono già in grado di fornire notevole

campo di meditazione.

Il secondo metodo permette, invece, di tenere conto di una grande quantità di fenomeni

estremamente variati; spesso ci si deve basare su delle testimonianze, a volte rare e molto dilazionate

nel tempo, quindi poco affidabili scientificamente; segue che sono abbastanza rari i fenomeni spontanei

in grado di superare le barriere di controllo, spesso assurdamente pignole.

Vi è poi il fatto che chi tende ad assumere il secondo atteggiamento tende anche, con il tempo, a

formulare teorie generali che spiegano i fenomeni stessi in modo molto rigido (addirittura quasi

dogmatico), mentre i casi a disposizione sono molto limitati, ed inoltre non è nemmeno detto che

esistano leggi generali, del tipo di quelle della fisica, alle quali i fenomeni p.p. obbediscono.

La mia opinione su questo punto e che non esistano leggi di questo tipo; prima di tutto perché

nemmeno la fisica o la chimica pretendono di formulare leggi universalmente valide, ma soltanto

relazioni funzionali tra le varie variabili fisiche, aventi un forte valore di probabilità, nel senso

che non si asserisce affatto che un sasso lanciato per aria deve necessariamente cadere a terra, ma solo

che e estremamente probabile che avvenga così; per di più, le leggi fisiche sono ritenute valide soltanto,

per così dire, sulla “misura umana”, ossia ne per il microcosmo (particelle elementari), né per il

macrocosmo, come provano le osservazioni e le più avanzate ipotesi dei moderni fisici teorici.

Inoltre, proprio per la natura statistica delle leggi fisiche, è evidente che i fenomeni p.p. possono

venire considerati (quando si vuole fare un discorso di carattere scientifico, e non iniziatico) come

anomalie delle leggi note. Tale punto di vista comporta come conseguenza la eliminazione delle

contraddizioni con le teorie razionali della scienza, pure evidenti ad uno sguardo superficiale (un caso

molto esplicito è forse il fenomeno degli apporti medianici in relazione alla legge di conservazione

dell’energia).

Vi è però da osservare che la “ipotesi statistica” ha a sua volta un punto abbastanza debole: se i

fenomeni p.p. debbono essere considerati anomalie statistiche in un universo di “regolarità”, allora è

molto difficile dare ragione della loro frequenza altissima: esistono infatti persone, o intere epoche, o

luoghi molto vasti (e non pochi, per ognuno dei tre) per i quali i fenomeni p.p. sono esperienza

quotidiana e comunemente accettata. Al riguardo, è noto il caso di un’isola della Polinesia in cui le

comunicazioni tra gli abitanti avvenivano normalmente tramite telepatia (il “rito” seguito era quello di

rivolgersi ad un qualunque albero, e pregarne lo spirito di portare il messaggio alla persona voluta).

Tale consuetudine è caduta con l’avvento delle moderne comunicazioni di tipo occidentale, e gli

abitanti dell’isola, richiesti sul perché non usano più del vecchio mezzo, rispondono ad esempio che

non è più necessario, oppure che non è più il caso di disturbare lo spirito degli alberi, o altre

argomentazioni analoghe.

Un altro esempio, ancora più illuminante, è il seguente, riportato da alcuni ricercatori della

Society for Psychical Research. In alcune regioni del Galles, tradizionalmente i fenomeni p.p. erano

all’ordine del giorno. Negli ultimi tempi essi si sono fatti molto più rari, e gli abitanti del posto,

interrogati al riguardo, sono restii a parlare della cosa, ed asseriscono che si tratta di “cose

sconvenienti”, “cose non buone”, “cose che possono provocare dei fastidi” e così via. E’ evidente

l’impulso inibitorio che ha fatto rientrare nella “normalità” una situazione la cui normalità era ben altra.

Per inciso, ciò getta luce anche sulla “delicatezza” dei fenomeni di cui ci stiamo occupando, nello

stesso senso in cui, in precedenza, si è detto che i soggetti “soffrono” l’atmosfera dei laboratori. Ebbene,

fatti del genere di quelli sopra. riportati non portano sicuramente acqua al mulino della “ipotesi

statistica”.

Gli ostacoli al metodo scientifico

Accenniamo ancora ad alcuni elementi, che rendono abbastanza ardua l’applicazione dei metodi

scientifici tradizionali alle ricerche p.p.; abbiamo già visto sopra come le necessità “asettiche” del

metodo possono nuocere alle condizioni necessarie (per quanto riguarda il soggetto) affinché il

fenomeno avvenga. Vediamo ora altri due punti di una certa importanza.

  1. AFFIDABILITÀ DELLE TESTIMONIANZE.- Questo e un problema abbastanza delicato, anche

per la stessa Psicologia: è infatti ben noto come sia difficile ottenere testimonianze veramente

attendibili anche su fatti comuni della vita quotidiana, quali ad esempio gli incidenti stradali, o cose più

banali ancora. Entrando nel campo della p.p., se si tiene conto delle enormi. possibilità della

suggestione (auto, o eteroindotta, facendo generalmente leva su convinzioni non coscienti e “desiderio

di credere”), la quale fa pure parte, imparentata con l’ipnosi, della p.p. , ed inoltre del fatto che molte

persone possiedono notevoli, doti p.p. di cui non sono coscienti, e che vengono sistematicamente

soppresse per adeguarsi alle necessità della vita sociale, e chiaro che ogni discorso sulle testimonianze

personali è destinato a perdere qualunque validità, nel senso che ogni volta che si voglia invalidare una

testimonianza non sarà difficile trovare delle argomentazioni che permettano di farlo, qualunque essa

sia. Vi e poi un discorso a parte sulle testimonianze di origine “oggettiva”, cioè elettrica o meccanica,

quali fotografie, registrazioni, ecc.; disgraziatamente, tutta quella classe di fenomeni p.p. che va sotto la

sigla PK getta un forte dubbio anche su di esse. Persino i rotocalchi si sono, infatti, occupati di un

uomo che negli Stati Uniti riesce ad impressionare delle lastre fotografiche solo pensandolo.

  1. INFLUENZA DEGLI SPERIMENTATORI.- Questa questione potrebbe farsi rientrare nella

precedente, ma merita di essere trattata a parte. Si tratta principalmente del fatto che, nell’affrontare i

fenomeni p.p. la mente di uno sperimentatore difficilmente è in uno stato da definirsi “vergine” egli ha

sempre, infatti, pregiudizi (positivi o negativi) e teorie preliminari di cui, in generale, non è nemmeno

cosciente. Ebbene, i risultati degli esperimenti tendono fortemente (cioè al di là di una discriminazione,

anche non cosciente, dei risultati) a confermare tali pregiudizi e teorie. Un esempio notevole è il

seguente: N. CRANFORD, uno studioso di fisica e di meccanica, interessato ai fenomeni p.p. , pensava

che la telecinesi e la levitazione (spostamento o sollevamento di oggetti) ottenute dai “medium” fossero

dovuti alla formazione di leve fisiche, costruite con la sostanza ectoplasmica che fuoriesce dal loro

corpo; il risultato ottenuto è stato che tutte le sue esperienze (cfr. SUDRE, “Trattato di Parapsicologia”

Ubaldini, pag. 237) confermavano fortemente questa ipotesi, ed il fatto si produceva effettivamente, nel

senso che le leve potevano venire toccate e fotografate mediante filtri speciali. Il problema è, però, che

studiosi di diversa formazione, che avevano formulato teorie completamente diverse, le vedevano

altrettanto puntualmente confermate. Come commenta SUDRE al proposito delle “leve psichiche”,

“…è chiaro che, ancora una volta, c’è adattamento dello strumento creato dalla personalità seconda

del soggetto al fine da raggiungere… “Notiamo, per inciso, che la cosa più importante da osservare in

questi esperimenti è la grande quantità di osservazioni sulla natura dello ectoplasma, sostanza capace di

effetti materiali, ma apparentemente dotata di qualità fisico-chimiche molto diverse da quelle della

materia (e dell’energia) normali . Queste considerazioni sugli esperimenti condotti con metodi

scientifici (si noti che ciò ha il senso di: “al fine di formulare delle teorie di tipo generale”) dovrebbero

mettere in luce che non è possibile prescindere dall’influenza che eventuali facoltà p.p. degli

sperimentatori (ed eventualmente anche dei semplici spettatori) hanno sugli esperimenti stessi.

Per concludere, osserviamo che le ultime considerazioni aprono il campo a riflessioni di carattere

molto più generale, rispetto alla semplice casistica p.p., sul significato, soprattutto, dei termini “reale”

ed “illusorio”. Ciò conduce, però, a discorsi di carattere metafisico, e non scientifico, che potrebbero

essere un punto di partenza indispensabile per chi volesse affrontare questi argomenti da un punto di

vista – iniziatico -, cioè chiedendosi quale sia il compito svolto da tutti questi fatti nella evoluzione (in

qualunque senso tale termine voglia intendersi) dell’Uomo.

Non intendo entrare, in questo contesto, nell’argomento. Vorrei invece limitarmi a riportare una

considerazione che ebbi occasione di fare leggendo sul precitato testo di SUDRE di diverse ipotesi di

natura più o meno fisica formulate per spiegare la trasmissione di conoscenze per via telepatica tra un

agente ed un percipiente, le quali tutte considerano i due come completamente separati e distinti.

E perché non fare invece una “ipotesi di mezzo”, di una interazione tra agente e percipiente (più

in generale si potrebbe dire tra soggetto e sperimentatore) che è allo stesso tempo attiva e passiva; mi

pare abbastanza plausibile pensare che ciò possa verificarsi, vale a dire che vi sia, almeno

temporaneamente, una parziale fusione tra i due in un’unica entità psichica, e ciò con innumerevoli

gradazioni diverse.

Da questo punto di vista, che può essere esteso dai fenomeni che riguardano due persone, o più,

come quelli di telepatia, ai fenomeni che riguardano una singola persona e la natura, come quelli di

telecinesi, o anche semplicemente di visione a distanza, o più complicato ancora, quelli concernenti il

tempo, quali la precognizione, ogni fatto p.p. potrebbe venire pensato come un fatto a sé, con leggi sue

particolari, create in quel momento, valide in quel momento e non ripetibili, esattamente come

ogni esperienza vissuta con coscienza effettiva.

Ne deriverebbe che tutto può succedere, senza limitazione di alcun tipo, ed in particolare di

spazio, tempo, materia, energia. Si comprende subito come in questa impostazione i termini “reale ed

“illusorio”, già abbastanza sfumati nella loro accezione comune, finiscono col perdere del tutto

significato.

 

A∴G∴D∴G∴A∴D∴U∴

 

G

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PER ESSERE FELICI

PER ESSERE FELICI

carissimi,

Nei fascicoli 1 e 5 del c.a. di Erasmo Notizie, si parla di “Diritto alla Felicità”.

L’argomento è stato programmato dal G.O.I. in occasione del tradizionale appuntamento

annuale svoltosi, come è noto, a Rimini nei giorni 4/6 aprile scorso. Non tengo alcun conto di

quanto programmato e discusso dal G.O.I. nelle giornate riminesi in quanto quello che espongo è

solo frutto dei miei pensieri.

Da parte mia il diritto alla felicità è il tema di oggi, permettetemi di cambiare un termine

dell’argomento e cioè io parlerei di “dovere” alla felicità, ciò in virtù di quella dicotomia che non

vede un diritto senza un dovere, e ora spiegherò perché vorrei parlare di “dovere” alla felicità.

A differenza di quanto sostenuto dagli antichi filosofi, i moderni parlano di felicità non come

di sentimento appartenente all’uomo nella sua singolarità, ma all’uomo in quanto è membro di un

mondo sociale. Per gli antichi la felicità è un concetto umano e mondano dove felice è “colui che ha

un corpo sano, buona fortuna ed un’ anima ben educata” (Plotino); la felicità è anche connessa con

il piacere perché esso è desiderato di per sé stesso e quindi è il fine in sé; la felicità è anche possesso

della giustizia e della temperanza (Platone), la felicità, in fine, per Aristotele è “una certa attività

dell’anima svolta conformemente a virtù” che include la soddisfazione dei bisogni e delle

aspirazioni mondane.

Dagli umanisti in poi la nozione di felicità comincia ad essere legata, come per gli epicurei, a

quella del piacere, poi però comincia ad acquisire un significato sociale, la felicità diventa quasi un

piacere “diffusionale”, il piacere di un numero sempre maggiore. Infine, nasce la consapevolezza

che la felicità dipende da condizioni e da circostanze non legate alla nostra volontà ed è anche

dipendente dall’atteggiamento che ciascuno di noi può assumersi di fronte ai fatti della vita: essa,

quindi, appartiene all’uomo in quanto membro di una società. S’instaura quindi il concetto della

massima felicità come base del liberalismo moderno; non dimentichiamo che T. Jefferson nello

stilare la costituzione americana ha incluso fra i diritti inalienabili dell’uomo “la ricerca della

felicità”.

Sono, però, titubante nell’accogliere tutte queste nozioni, felicità per me è “lo star bene”,

prima di tutto con me stesso e poi con gli altri. Con me stesso, nella certezza di aver agito nella mia

vita in moda da raggiungere una certa tranquillità e la serenità che nasce dall’aver fatto il proprio

dovere e dall’aver dato a tutti ciò che potevo; con gli altri nella certezza di aver saputo offrire

amicizia ed aiuto a chi ne aveva bisogno, di aver aperto il mio animo a chi sentivo poteva

comprendermi, di aver agito come cittadino e membro della comunità in modo da contribuire ad

accrescere il bene comune.

Oggi, però, se mi guardo intorno, mi rendo conto che la parola felicità è spesso un contenitore

vuoto: si è felici se vengono soddisfatte certe esigenze (avere un figlio, avere una parte in un film,

avere una moglie, etc. ) o se si ottengono determinate cose. In questo caso è da ricordare che molti

“bisogni” sono indotti o fittizi o, comunque generati dalle esigenze di vendere determinati prodotti.

Queste “felicità”, quindi, appaiono assolutamente effimere e, certamente, non soddisfano, se non

momentaneamente il desiderio dell’uomo di essere felice. A volta qualche persona dice che è felice

quando non lavora, quando non ha obblighi o, come diceva mia moglie, quando il dolore n on si fa

sentire: la felicità è quindi una negazione, un’assenza ?

Non credo. Personalmente ritengo che la felicità sia prima uno stato d’animo e poi una realtà

vissuta. Ovviamente sto dando alla felicità una dimensione limitata e personale, una dimensione in

“divenire” quasi progettuale: per essere felice progetto la mia vita, la proietto nel futuro e poi cerco

di costruirla. Non so, però, fino a che punto posso raggiungere la felicità; quanto incidono, infatti,

gli errori? Quante volte sono costretto a dire: “ho sbagliato”. Oppure : “non avrei dovuto fare così”.

Nonostante gli errori, però, ritengo che, nell’aver costruito qualcosa di mio, nel aver realizzato il

mio progetto di vita, ci sia felicità.

Vi è però anche un altro elemento che contribuisce alla felicità che, per l’appunto è costituita

da vari fattori. Questo elemento è più difficile da determinare; il progresso e lo sviluppo industriale

hanno eliminato uno dei cardini della società del passato: la famiglia patriarcale che costituiva il

microcosmo all’interno del quale l’individuo si muoveva.

Alla famiglia patriarcale erano demandate funzioni sociali indispensabili: allevava gli orfani,

assisteva gli anziani, provvedeva al sostentamento dei più deboli.

Oggi si parla di famiglia nucleare e di “single” sempre più supportati dalla società dei

consumi che si adopera per risolvere facilmente eventuali problemi inerenti il quotidiano. Orbene:

costoro sono soli; questa solitudine può essere frutto di una scelta, ma per lo più è una sorta di

obbligo dettato da vari fattori; di qui la necessità per costoro di ricercare il sociale: cioè ricercare il

vivere con gli altri. Questo implica che con gli altri si debba vivere, se non bene, almeno

serenamente: ciò spiega tutte le iniziative che hanno successo e cioè quelle in cui gli individui si

incontrano, festeggiano, ascoltano musica o mangiano insieme. C’è anche un altro “sociale” e

quello implica, da parte di tutti, il provvedere a chi è meno fortunato; è, insomma, il concetto del

“Welfare State”: la necessità di dare a tutti un minimo di benessere chiedendo a chi più ha di aiutare

chi è meno fortunato.

È felicità condividere con gli altri l’eccitazione di una festa di paese, una ricorrenza o la vista

dei fuochi d’artificio sul Po? È felicità sapere che chi è più bisognoso può ricevere aiuto? Secondo

me, si: è felicità perché condivido, cioè: divido con gli altri ciò che ho, compresa la mia solitudine.

È difficile, per me, a questo punto tornare all’inizio della mia riflessione e cioè a quella famosa

voce della Costituzione Americana: il diritto alla ricerca della felicità…

Secondo me però, è questo il punto: se c’è un diritto, deve esserci anche un dovere; ciò

significa bandire l’egocentrismo e proiettarsi sulle cose e sul mondo, significa agire nel mondo e

impegnarsi nel rapporto con gli altri: quale maggior gioia e soddisfazione di quella che deriva dal

aver dato il proprio appoggio, l’amore, l’interesse ad un altro ed aver contribuito a renderlo più

sereno o più soddisfatto e felice?

Felicità, quindi, lontana dalla autosufficienza e dalla solitudine, lontana dalla frustrazione e

dalla insoddisfazione, lontana anche dal masochismo imperante di certe correnti che si ispirano al

dolore ed alla infelicità; quale felicità, dunque, possiamo aspettarci? Quella derivante da due

possibili fattori: interni ed esterni: la famiglia, gli amici, il lavoro, gli altri; tutto ciò, è vero, può

essere anche fonte di tristezza e dolori, ma è solo lì che potremo attingere alle gioie della vita.

Non dimentichiamo, inoltre, che sono le piccole cose a dare felicità: nella mia lunga vita io ne

ho avute alcune e sono quelle che mi hanno aiutato nell’ora del dolore e delle delusioni, infatti ci è

stato dato un grande dono: il dolore, con il trascorrere del tempo, illanguidisce e si consuma, la

felicità invece, nel ricordo, si alimenta e continua ad operare i suoi benefici effetti.

Permettete un’ultima osservazione, anzi un augurio: vorrei che tutti potessimo più volte dire,

come il Faust di Goethe: “attimo, arrestati: sei bello”.

 

 

 

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PURUN BHAGAT

Purun Bhagat

Venerabile Maestro, Fratelli tutti di ogni dignità e grado carissimi,
nella tornata del 26 settembre scorso, un Fratello Maestro ha parlato di un problema attuale,
che riveste particolare importanza anche per me. Ero assente in tale tornata, ed ho conosciuto solo
in tempi successivi il contenuto della tavola.
All’argomento trattato con chiarezza e completezza dal predetto Fratello, desidero aggiungere
qualcosa. Come molti sanno, in uno dei suoi racconti, Kipling narra il “Miracolo di Purun Dass”.
Purun Dass che era stato primo ministro del regno, amato e stimato da viceré e da missionari,
membro di molte società scientifiche e storiche, aveva vissuto 20 anni di giovinezza, 20 di battaglie
e 20 di governo; ed ora si apprestava a vivere la parte migliore della sua vita: quella contemplativa.
In 3 giorni Purun Dass diventa Purun Bhagat; un mendico vagabondo, senza né tetto né pane, volto
solo a trovare la pace e la serenità. Cito questo racconto del Fratello Kipling, non solo per
appoggiare la tesi della tavola del Fratello menzionato, ma per sostenere anche la necessità, nella
vita dell’uomo, di una ricerca.
Sarebbe impossibile, di certo, riportare nella nostra società una ricerca come quella di Purun
Bhagat; essa è lontana dai nostri schemi di vita, ed esula troppo dal nostro contesto culturale;
eppure mi sembra mettere in luce quello che per tutti gli uomini è l’unico e vero fine da realizzare;
la ricerca della Conoscenza, che è Pace e Serenità.
Lungi dal chiedermi cosa in realtà esse siano, ed in che cosa si realizzino, oso affermare che
pace e serenità si ottengono in un solo caso; con l’arrivare alla Verità.
È pur certo, la vita convulsa d’oggi non riserva alcuno spazio ai vecchi, agli anziani, ma
intendiamoci: quali vecchi, quali anziani?
In fondo, la società moderna non è che lo specchio di giovani-vecchi, giovani che, con le ali
tarpate, non sanno e non vogliono vedere nulla al di fuori di un rigido e disperato materialismo
pseudo-realistico, che li porta ad alienare la miglior parte di sé; ed altri giovani che sentono,
confusamente ma violentemente, l’assurdità di una società che non offre loro che un consumismo
frenetico, una scala di valori basata sulle possessioni materiali, e la prospettiva di una vita sboccante
in una vecchiaia emarginata; e contestano, rifiutano codesta società.
Si è persa la cosa più semplice, la cosa più facile: il “giusto mezzo”, che non è il
compromesso, ma l’equilibrio dell’animo, della mente e dell’anima, che solo consente di indagare
intorno a se stessi, intorno ai misteri della vita e della morte, che solo ci consente un giudizio equo
nelle vicende della vita, e che porta, soprattutto, al giusto rispetto per gli altri.
Tra un vecchio che apre il suo spirito alla Ricerca ed un giovane incapace di reagire ai mass
media non ho dubbi; scelgo di sentirmi un vecchio, perché so che a me è dato qualcosa di
infinitamente superiore: la sete della Verità.
L’ideale sarebbe che in tutta la vita l’uomo fosse sostenuto da un ideale superiore, unico bene
personale ed inalienabile. In realtà non è così: pochi infatti, troppo pochi sono gli interlocutori in un
dialogo che voglia essere insieme filosofico ed essenziale. Invece, man mano che l’uomo si eleva
dal campo del puro pragmatismo o dalla semplice estrinsecazione di una certa Weltanschaung, alla
riflessione più fenomenologica ed all’analisi più filosofica, aumenta sempre di più le proprie
possibilità di comunicazione e, con esse, di una ricerca che non è più solo un fatto personale.
Ma come può un giovane accettare un simile dialogo? Come può centrare la sua vita su di una
ricerca morale se è sempre distratto, direi sempre più distratto, dai modelli di vita che la società
consumistica continua a proporre ed imporre?
In fondo, ciò che condanna il giovane è l’abitudine, che è sia assuefazione, che lo avvezza alla
ricezione di determinati stimoli, sia addestramento, cioè quel processo con il quale si assorbono
determinati principi che prima non si avevano.

3
L’abitudine, poi, genera l’inerzia – tamas -, l’immobilità che, in un’epoca come la nostra,
origina l’inquietudine del bisogno. Questa è l’inquietudine che il giovane sente e dalla quale viene
pungolato; ma spesso si tratta di un’inquietudine insana che non nasce dal desiderio di fare, ma da
quello di possedere e di godere; e che viene via via soddisfatta dai beni materiali che il mercato crea
in sempre maggior varietà e quantità, e ad un ritmo frenetico.
È questa la Verità?, È scopo supremo della nostra vita il conseguimento, dopo una rincorsa
incessante, di soddisfazioni che appena ottenute si mostrano già appassite e consunte?
In un simile contesto, che coinvolge non solo i giovani, ma purtroppo spesso anche la
generalità dei vecchi che non si rassegnano ad invecchiare, la verità diventa qualcosa di definibile
puramente in un ambito storico; diventa un fatto di contingenza.
Invece, come Kant, io ritengo che vi sia un unico appello al Tribunale dell’uomo: la Verità
che è unica, irripetibile, universale; la Verità che è patrimonio della specie umana; ad a Quella, nel
senso più pregnante della parola, ogni uomo può e deve appellarsi.
Sperare nel raggiungimento della Verità non è utopia, è certezza; è una certezza che è la sola
che possa sorreggere l’uomo e dare un senso ed uno scopo alla sua vita. Forse non è dato a tutti
raggiungerla e prenderne totale coscienza, identificarsi totalmente con Essa; non tutti siamo
preparati a ciò. È quella trasformazione che culminerebbe in una evoluzione integrale, e ben pochi
l’hanno raggiunta. Ma la cosa per tutti più importante è il cercare questa Verità; sapere che esiste e
che è raggiungibile. Questa è una certezza che è solo un bagliore di quell’Assoluto ed è ciò che può
sorreggere e dare scopo ad una vita intera.

AGDGADU

28 novembre 1974 dell’ev(1° grado)

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LONTANO DALLA RUSSIA

LONTANO DALLA RUSSIA

Il mito dell’espansione della Nato e la forza democratica dei popoli

Kaspar Sõukand

La retorica delle sfere di influenza appartiene all’epoca dei due blocchi. Continuare a usarla significa violare il diritto alla sovranità dei Paesi dell’est Europa, che consapevolmente e democraticamente hanno aderito (o desiderano aderire) alle organizzazioni sovranazionali e internazionali occidentali

AP/Lapresse

 

Durante l’autunno del 1990 ebbe luogo uno storico incontro tra i leader degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Quel vertice che avrebbe dovuto segnare un nuovo decennio di relazioni tra America e Russia è apparentemente diventato tossico e viene usato dal Cremlino per giustificare l’invasione della Georgia e dell’Ucraina. Secondo questa teoria, la Nato non avrebbe mantenuto la promessa di non espandersi nell’Est Europa, costituendo così una minaccia per Mosca.

 

Il primo a portare avanti questa tesi fu nel 1993 l’allora presidente russo Boris Yeltsin, il quale ha trovato sostenitori anche all’estero. Molti esperti, infatti, hanno ribadito che l’ostilità russa nei confronti dell’Occidente, e dunque la guerra in Ucraina e Georgia, sia conseguenza diretta dell’espansione della Nato. Tuttavia, questi esperti trascurano il fatto che la Russia non ha mai rinunciato alle sue pretese sui Paesi dell’ex sfera di influenza sovietica durante la Guerra Fredda, a dispetto della volontà dei popoli. Già nel 1993, la Russia era coinvolta in conflitti di questo tipo in Cecenia, Georgia, Moldova e Tagikistan.

 

Questo dimostra che nella mente dei russi non è mai esistito il diritto di sovranità dei Paesi dell’est Europa, e se le promesse della Nato possono essere oggetto di dibattito, siamo tutti d’accordo che per i russi una concezione democratica di indipendenza da Mosca non è mai esistita. Se gli Stati Uniti avessero promesso di non allargare la Nato, non si tratterebbe di un tradimento nei confronti della Russia, ma nei confronti della volontà di sovranità di questi Paesi.

 

Questo tipo di mentalità è un ricordo della Guerra fredda, un’era nella quale sia le potenze occidentali sia l’Urss hanno fatto cose imperdonabili in altri Paesi, con la pretesa di avere un mandato su altre nazioni.

 

Dividere il mondo in due sfere di influenza senza la volontà dei popoli non dovrebbe essere accettato come normale, specialmente da Paesi orgogliosi della propria integrità politica. Il fatto che esistano questi dibattiti su qualche promessa passata serve solo ad alimentare la propaganda russa riguardo la sfera di influenza di Mosca, come dimostra il fatto che molti in Occidente pensano che la Nato si sia allargata aggressivamente verso la Russia.

 

L’ingresso dell’est Europa nella Nato non è e non può essere una decisione degli Stati Uniti, ma una decisione dei popoli di Estonia, Lettonia, Lituania, e di tutti gli altri. Allontanarsi dalla Russia è stata una decisione unicamente loro.

 

A differenza del Patto di Varsavia, un’alleanza imposta con la forza sull’Europa orientale, l’adesione alla Nato è stata attivamente richiesta da quei Paesi, per paura dell’espansione russa.

 

Allo stesso modo, il possibile accesso nella Nato o nell’Unione europea dell’Ucraina, della Georgia o di qualsiasi altro Paese non può essere visto come pedina di scambio. Qualsiasi pace con la Russia non deve essere fatta a tavolino, dividendo i territori come nel 1944, altrimenti il futuro dell’Europa sarà danneggiato per sempre.

 

Democrazia e sfere di influenza possono coesistere in Europa, ma se il controllo sulle altre nazioni diventasse una prassi, come è successo dopo la Seconda guerra mondiale, prima o poi la violenza diventerebbe il modo per fermare la democrazia. Da parte russa abbiamo visto in Ucraina e Georgia, come in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968, ma anche l’Occidente non si è risparmiato, come è stato evidente in molti Stati del Sud America o dell’Asia.

 

Se vogliamo che la Nato sia un’alleanza di eguali e che l’Occidente superi la retorica della Guerra fredda usata dalla Russia per conquistare impunemente parti d’Europa, non dobbiamo più usare il concetto di sfere di influenza come strumento di negoziato. Dobbiamo dare maggiore importanza alla sovranità e alle scelte democratiche delle nazioni, anche di fronte a manovre geopolitiche sempre più complesse.

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“IL 2 GIUGNO E’ UNA DATA SIMBOLO DELLA DEMOCRAZIA

“Il 2 giugno è una data simbolo della Democrazia, della Libertà, del libero pensiero e della tutela dell’associazionismo””

I liberi muratori del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Gjustiniani indirizzano il loro deferente saluto al Capo dello Stato, onorevole, professor Sergio Mattarella, e si apprestano a celebrare con grande gioia, partecipazione e alto senso di responsabilità la Festa della Repubblica.

Il protrarsi dell’emergenza Pandemia, per il secondo anno consecutivo, ci impedirà di realizzare in presenza un evento particolare ma per l’occasione il Vascello si mostrerà in tutta la sua bellezza e splendore con una bellissima illuminazione notturna in cui si vedranno sventolare sulle facciate della Villa – sede nazionale dell’Ordine – i colori verde, bianco e rosso della bandiera italiana.

Per noi massoni quella del 2 giugno è una data piena di valori e rappresenta il simbolo della Democrazia e della Libertà per l’affermazione delle quali tanti massoni hanno contribuito a sacrificio della vita. In questo giorno di festa per tutti i cittadini italiani, vogliamo ribadire la nostra imperitura difesa del libero pensiero, e dell’associazionismo in genere sancito dalla Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, quell’articolo 18 che, insieme a tanti altri, garantisce a tutti la possibilità di associarsi liberamente per fini che non siano in contrasto con la legge penale. È innegabile la assoluta valenza e necessità dell’esistenza di una norma così straordinaria a garanzia e tutela della pluralità e della libertà assoluta d’espressione in tutti i campi e in tutti i corpi intermedi fra Società e Istituzioni dello Stato.

In questa settantacinquesima Festa della Repubblica il nostro pensiero va a tutti coloro, fra i quali tanti nostri fratelli, che non ci sono più a causa della Pandemia, e agli  uomini e donne cadute per servire la Patria o che hanno perso la vita sui posti di lavoro.

Nella speranza  che la crisi epidemiologica sia presto un brutto ricordo, che l’Italia si avvii verso un necessario e urgente rilancio economico e che tutti concorrano senza ostracismi e divisioni al Bene comune, noi massoni del Grande Oriente d’Italia, continueremo a vigilare perché il pensiero e i diritti di tutti vengano rispettati e possano affermarsi quei valori di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza che da secoli propugniamo.

 

Il Gran Maestro

Stefano Bisi

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NOI MASSONI… FIGLI Dl UN’ITALIA MINORE

Carissimi Fratelli,

Ormai, più niente può turbarci ! E come potremmo ora che, alle soglie del III millennio e alla vigilia della partenza di una sofisticata sonda verso Marte, apprendiamo che una équipe di esperti chirurghi americani, in tutta segretezza, salvano la vita di Eltsin, Zar della grande nazione rivale; stiamo superando il vuoto, pensate, lasciatoci da Pippo Baudo, da tempo ormai assente (Dio ti ringraziamo) dai teleschermi, compensato in verità ampiamente, però, dal persecutorio bombardamento di immagini dei Di Pietro, Borrelli e i soliti politici della vecchia e nuova repubblica. Eppure, non appena scoppia un ennesimo scandalo, causato dai soliti faccendieri, gli intrallazzatori di sempre ben noti nelle “hit parade” del diffuso malcostume, troviamo tutti, quasi per incanto, pronti ad accusare la Massoneria, quale spietata e recidiva scuola di malfattori, di perversi corruttori, di mangiapreti seguaci del demonio, e così via.

E’ la solita stantia cantilena, sciorinata con indifferente “nonchalance” dagli organi di informazione, da quei mass media che oggi, purtroppo, con il loro ossessivo e noioso riproporsi, determinano sconcerto e serie perplessità nella pubblica opinione.

Mentre le dichiarazioni dei magistrati, novelli divi del piccolo schermo, si sovrappongono alle frasi “che dicono e non dicono nulla”, dei soliti politici corrotti e disonesti, vera calamità dei popoli, i nomi di Gelli, della fantomatica P2, delle cosche mafiose, di cupole e logge occulte, fanno man bassa degli spazi dei telegiornali e della carta stampata, distraendo l’ opinione pubblica dalle tante tragedie che giornalmente si compiono sotto i nostri occhi e che vanno dal suicidio del povero sventurato, che ha perso il posto di lavoro, alle mille attività commerciali e industriali che chiudono, per non riaprirsi più.

Ci chiediamo, sgomenti, se è “onesto” distogliere l’ attenzione pubblica dai veri mali che affliggono questa nostra povera Italia, dando vita, anzi, a leggi persecutorie come la Legge regionale 34 dell’ agosto scorso, ad opera della Regione Marche, che sancisce il divieto assoluto per gli iscritti a Logge massoniche di ricevere incarichi in Enti regionali, violando i diritti della libertà di associazione, garantiti dalla Costituzione. Un avvenimento di una gravità estrema!

Ma, per coloro che si ritrovano nei Bar e nelle Osterie, per chi si ritrova di sera, nelle piazze dei mille paesi d’Italia, poco importa di quel che accade, anzi, non sapranno mai che più di un modesto e integerrimo impiegato, assieme a qualche magistrato giusto e onesto, hanno perso il loro posto di lavoro, perché colpevoli di appartenere ad una Istituzione, la Massoneria, che da sempre è stata scuola di Morale, di attaccamento alla famiglia e di onestà: una Istituzione che per lo storico impegno in difesa della Libertà, non ha esitato a sacrificare schiere di martiri per la nascita di una Italia unita e libera, che purtroppo, oggi, pur con tanto glorioso passato, viene ripagata in modo così ingrato.

Questo è il clima in cui i “si dice” diventano verità assolute, le maldicenze si trasformano in infamanti accuse e le illazioni, nascondono, invece, sottili vendette personali. Questo è il clima che precede e prepara le masse alla persecuzione, ai processi sommari, alla Inquisizione, questa volta non più “santa” ma pur sempre auspicata da chi amministra le “cose” di Dio.

La gente della strada, intanto, quella che viene, da sempre, presa in giro con promesse che giammai vengono mantenute, oppressa da tasse e balzelli che fanno rimpiangere il periodo del feudalesimo, vive rassegnata, trascinando, l’enorme fardello colmo, oramai, dei tanti problemi legati alla sopravvivenza del suo nucleo familiare, fatto di pigioni arretrate, di scarpe e vestiti ormai consunti, del costo dei libri di una scuola, ahimè, obbligatoria, e poi di scippi e droga ad ogni angolo, e di tanta violenza sulle donne e sui minori.

Attenti, però, a non fare rumore! Non possiamo, anzi non dobbiamo distogliere i nostri politici, i  nostri cari e saggi amministratori, impegnati come sono allo spasimo a farci tagliare il traguardo di Maastricht, anche se ciò costerà a tutti noi un bagno di sangue: l’Italia deve tenere alta la bandiera di nazione impegnata da sempre alla divulgazione degli alti principi umanitari, a difendere, in ogni luogo del mondo, gli oppressi e a condannare aspramente i genocidi anche se, purtroppo, siamo tra i principali fornitori di armi ai ribelli e a tutti coloro che compiono massacri. Che vergogna!

Ciò nonostante, mentre si alternano le notizie, di pentiti che non si pentono più, di alleanze politiche che vanno in malora, del malcostume che dilaga e della sfrenata corsa di alcuni tutori della giustizia, a conquistarsi uno spazio televisivo che, unitamente alla dotazione di una scorta, conferiscono notorietà e il prestigio, si alza unanime e possente l’ invito persecutorio nei confronti della Massoneria, rea di ordire tutto lo sfacelo in cui si trova, oggi, l’Italia.

Il dubbio atroce, di aver sbagliato, tutto ci assale. Additati come esseri spregevoli da perseguitare, forse perché consideriamo sacri i principi della giustizia, dell’ amore verso il prossimo e riteniamo la virtù e l’ alto senso della morale, i veri attributi che distinguono il massone, nell ‘ adempimento del dovere, come mai tra i Grandi Iniziati e tra i Grandi Maestri di saggezza e di amore, del passato e del presente, non troviamo Catilina, Nerone, Attila, Hitler, Stalin, Hidi Amin Dadà e tutti gli stramaledetti che hanno considerato la vita del prossimo alla stessa stregua di un inutile straccio, da gettare via.

Continueremo per la nostra strada, cosparsa di difficoltà e incomprensioni, certi, come sempre, che il sacro trinomio “Libertà, Uguaglianza e Fratellanza” unitamente alla Tolleranza costituiscono il vero cemento indispensabile per la creazione di un mondo migliore, fatto di uomini che si rispettino reciprocamente e tutti protesi nell’ impegno a debellare i mali e le angustie che affliggono da sempre l’ Umanità…

Con il triplice fraterno abbraccio

Silvio Nascimben

 

Quando il temperamento originario prevale sulla cultura tura prevale sul temperamento originario si è pedanti. Quando la cultura e temperamento si equilibrano allora si è persone superiori “

Confucio

 

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IPOTESI SU DIO

 

 

 

I Potesi su Dio          Autore: Anonimorima di concludere questo lavoro, vorrei rendervi partecipi di una conclusione cui sono arrivato interpretando i discorsi di Sai Baba in chiave psicoanalitica.

In pratica, siccome la psicoanalisi dice che l’inconscio dell’uomo appartiene al Reale e dato che il Reale secondo i credenti è Dio, se ne potrebbe dedurre che l’inconscio dell’uomo altri non sia che Dio stesso, oppure che Dio controlli l’inconscio dell’uomo. In questo modo, il libero arbitrio dell’uomo, così ampiamente sbandierato da più parti, diventa quanto meno discutibile, perché i suoi stessi pensieri, se non totalmente originati dall’inconscio, sono comunque costantemente condizionati dal suo influsso.

Nel “Gioco Autentico” avevamo già detto che l’Io Reale dell’uomo è Dio, però non avevamo fatto questa semplice associazione, con la quale, visto che l’Io Reale è inconscio, allora, anche Dio è inconscio, oppure, che Dio è anche nell’inconscio (visto che è dappertutto).

Già solo questa premessa spiegherebbe il perché, alla domanda: “Dove sta Dio?”, i cattolici e gli hindù rispondano in maniera differente, infatti, i primi, per indicare la residenza di Dio, puntano il dito indice verso il cielo; i secondi, invece, lo rivolgono verso sé stessi, nella regione del cuore.

Comunque, proviamo a vedere se nell’affermazione, “La dimora di Dio è l’inconscio dell’uomo”, ci sia almeno un minimo di fondamento logico.

 

Sai Baba dice che l’Io Reale dell’uomo altri non è che Dio stesso e nel Gioco Autentico, utilizzando le teorie psicoanalitiche freudiane e lacaniane, eravamo arrivati a capire che l’ipotesi era tutt’altro che inverosimile; infatti, in quel contesto avevamo dedotto che, se consideriamo Dio come “il Tutto, preso nella Sua totalità e contemporaneità”, ne viene fuori che l’universo intero, non è altro che una Sua creazione immaginaria (le forme) e simbolica (i nomi), una produzione che si sviluppa e si dispiega secondo una logica di Gioco. Dunque, nel suo insieme, la vita non sarebbe altro che un gioco organizzato da Dio, con dei partecipanti, delle Regole, dei Ruoli e dei risultati conclusivi.

Ora però, guardando la stessa cosa da un punto di vista psicologico, potremmo aggiungere che, se Dio nella sua interezza è un unico “Io”, per creare “i partecipanti” nel contesto del Gioco della Vita, Egli si deve moltiplicare in innumerevoli “Io”; perciò, visto che Dio è “l’Io Reale” da cui scaturiscono tutti i partecipanti, se ne deduce che ogni individuo è portatore di un frammento di quell’unico “Io Reale” che è Dio; oppure, viceversa, che l’insieme degli “Io individuali” fanno un unico “Io” (il Brahman, Dio), proprio come l’insieme delle cellule, viventi ed apparentemente autonome, formano l’unico “Io” dell’individuo.

 

Detto questo possiamo aggiungere un’altra cosa: se viene accettato da tutti gli psicoanalisti che l’inconscio appartiene al Reale, e che esso tende a manifestare la sua presenza con i sintomi più svariati (tra i quali ricordiamo i lapsus, gli atti mancati, i sogni ecc.) e se noi accettiamo l’idea che Dio è il Reale unico (il Tutto preso nella sua contemporaneità), allora, potremmo dedurre che l’Uno (Dio) ha a disposizione l’inconscio di ciascuno (l’Io Reale individuato) e lo può gestire a piacimento.

Capisco che può sembrare un’affermazione folle (ma lo stesso Freud fu considerato un pazzo quando parlò dell’inconscio la prima volta), però,  seguitemi con pazienza ancora un po’ e poi traete le vostre conclusioni.

Se proviamo ad osservare la fisiologia del nostro organismo, ci rendiamo conto che la stragrande maggioranza delle nostre funzioni sono inconsce ma, soprattutto, autonome (il respiro, il battito cardiaco, la digestione ecc.); infatti, i fisiologi distinguono il sistema nervoso in due componenti: un sistema nervoso centrale nel quale interviene la nostra volontà (anche se solo in parte) ed un sistema nervoso autonomo, che funziona da solo e che noi non comandiamo, se non in misura modestissima, per quanti sforzi facciamo.

A grandi linee, il sistema nervoso autonomo gestisce tutti quegli apparati che hanno un’importanza vitale (come appunto, la circolazione sanguigna, la respirazione ecc.), però, ed è questa la nota curiosa, non ha un potere assoluto, in quanto, con la volontà è possibile anche superare i limiti imposti da quel “principio vitale” che protegge la vita a tutti i costi; ne sono un esempio evidente i suicidi: se “l’istinto di sopravvivenza” fosse totalmente predominante, non succederebbero.

Quindi, il Reale, o se volete la Natura, governa il nostro organismo, ma non completamente, perché anche noi ne comandiamo una parte: cioè, abbiamo quello che si dice “il libero arbitrio”, che ci permette di orientarci in una direzione anziché in un’altra; ma, come detto più sopra, è ancora tutto da vedere se esista veramente!

Comunque, per capire il funzionamento dell’inconscio è sufficiente rimandare gli interessati ad approfondire la psicoanalisi; piuttosto, per fare un discorso accessibile alla maggioranza, facciamo degli esempi.

Quando camminiamo, ad ogni passo effettuato, il nostro cervello elabora tutta una serie di aggiustamenti:

–          per tenerci in equilibrio;

–          per farci procedere in una direzione precisa, o per permetterci di cambiare strada;

–          per  adeguare i nostri passi al tipo di terreno che stiamo calpestando;

–          per mantenere la visione fissa, senza che balli ad ogni passo, specie se facciamo degli scalini (quella sorta di ondeggiamento che vediamo in certe riprese fatte con telecamere portate a spalla da un operatore che cammina);

–          per un mucchio di regolazioni… che riguardano il respiro, la frequenza cardiaca, la digestione, la sudorazione, la produzione di scorie, la loro eliminazione ecc.

Tutto questo avviene inconsciamente, quindi, tutto è in mano all’inconscio, perché noi, che ci consideriamo i padroni dell’organismo, in quel frangente, magari abbiamo solo pensato: “Voglio andare là!”.

Dunque, all’atto pratico, chi governa davvero la maggior parte delle nostre funzioni è l’inconscio o, più precisamente, il nostro “Io Reale” che gestisce tutto l’organismo.

 

Come detto, l’inconscio non è sotto il controllo della volontà, anche se, in qualche circostanza, essa può, non solo agire, ma anche interferire con “l’autoregolazione” dell’inconscio.

L’inconscio è un po’ come un cavallo che stiamo cavalcando il quale è in grado, se gli diamo l’ordine, di trasportarci senza problemi anche in zone impervie, piene di crepacci, posti pericolosi che noi non faremmo nemmeno a piedi; però, se egli raggiunge il proprio limite di sicurezza si blocca, perché sa che c’è in gioco la vita; noi però, se volessimo, gli potremmo dare l’ordine di procedere nonostante tutto e lui lo farebbe, anche se incontra la morte. La storia ci racconta di cavalli che sono morti per soddisfare cavalieri incoscienti che pretendevano di continuare a galoppare, disinteressandosi della tenuta dei propri destrieri.

La stessa cosa vale per l’uomo: un individuo che non sappia nuotare prova una naturale paura per l’acqua alta, paura che proviene dall’inconscio, il quale conosce il rischio e lo frena dal buttarsi; però, la volontà può interferire con “la normalità dell’inconscio”, infatti, se volesse, il soggetto potrebbe superare questa paura e gettarsi in acqua lo stesso, rischiando di annegare: dico “rischiando”, perché anche in quel caso l’inconscio si metterebbe in moto, fornendo degli spunti per rimanere a galla, e riuscendoci il più delle volte, specie se l’entrata in acqua è stata involontaria o dettata da altri. Molte sono le persone che dicono: “Ho imparato a nuotare (ma sarebbe meglio dire: “a galleggiare”) quando, da piccolo, mi hanno buttato nell’acqua alta”.

La volontà però, può interferire ulteriormente sulle “azioni protettive” dell’inconscio, infatti, se la volontà è quella di morire, anche gli ultimi tentativi inconsci possono essere bloccati.

In definitiva, questi esempi ci dicono che noi, in continuazione, interagiamo con il nostro inconscio e la nostra vita risulta equilibrata, tanto più, quanto il nostro rapporto con esso risulta armonico.

 

L’esempio del cavallo e del cavaliere, per spiegare l’inconscio e l’Io, è già stato usato da Freud, egli però arriva a conclusioni diverse. Per capirlo, lo cito testualmente: “Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là dove quello ha già scelto di andare.”

E poi aggiunge: “Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro”.

Come vedete, secondo Freud l’Es ha come unico scopo quello di soddisfare le proprie pulsioni. L’Io, dal canto suo, deve filtrare o frenare tali pretese in quanto è costretto a tenere conto anche della realtà del mondo esterno (nessuno può soddisfare i propri desideri come vuole) e quelle del Super-io (una struttura immaginaria, retaggio dell’educazione genitoriale e fonte inesauribile di sensi di colpa). In questo caso l’idea è di un Es paragonabile ad un mostro affamato di godimento, cieco e sordo, che non distingue il bene dal male e che obbliga l’Io a trovare mezzi di soddisfazione; e, di fronte a tutto ciò, Freud ipotizza come sbocco terapeutico la psicoanalisi, la quale dovrebbe avere la funzione: “… di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es.

Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. E’ un’opera di civiltà, come ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee.”

Come vi sarete accorti, in Freud la visione è quella di una battaglia tra l’Io ed il Super-io, dove egli cerca “…di rendere l’Io più indipendente”; e tra l’Io e l’Es, dove l’Io “…deve annettersi nuove zone dell’Es”; e questo ipotizzando che i contenuti del Super-io e dell’Es possano essere sostituiti da “… un’opera di civiltà, come il prosciugamento dello Zuiderzee” (opera realizzata grazie alla collaborazione tra l’Io adulto del paziente e quello dello psicoanalista).

Il discorso di Freud è fondamentalmente corretto se si ipotizza un inconscio (che lui chiama Es) esclusivamente corporeo o, con problematiche esclusivamente legate alle pulsioni sessuali e di autoconservazione da lui teorizzate. Invece, se ipotizziamo l’esistenza di una componente spirituale, e lo possiamo fare visto che nell’uomo esistono dei principi, come quello dell’Etica, che trascendono il già evoluto “principio di realtà”, allora, il rapporto con l’inconscio non dovrà più essere quello di “…annettersi nuove zone dell’Es”, ma per lui sarà sufficiente capirne la natura e mettere in equilibrio le sue richieste con quelle del mondo esterno.

Per capirci, è sufficiente sviluppare la metafora proposta dallo stesso Freud.

Il prosciugamento dello Zuiderzee, aveva lo scopo di togliere il predominio del mare su una vasta area di terra ferma, invasa in Olanda e, di fatto, è stato uno dei maggiori sforzi compiuti dall’uomo nel novecento per controllare le forze della natura. Oggi però, sappiamo che molte delle grandi opere industriali realizzate in questo secolo (come le dighe, le autostrade, le industrie, le centrali nucleari ecc.) oltre ad aver portato tutta una serie di vantaggi economici, hanno però anche determinato numerosi squilibri nella natura e, a volte, talmente gravi che ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Il risultato è che oggi, sempre di più, ci stiamo convincendo che la natura va lasciata il più possibile intatta, oppure, che gli interventi su di essa devono essere molto accorti.

Sicuramente, Freud viveva in un periodo in cui l’avvento della tecnologia faceva pensare di poter mettere mano al mondo e di adeguarlo a piacimento, secondo la nostra volontà; oggi però, abbiamo capito che quell’idea, non solo è falsa, ma è anche dannosa all’umanità stessa. Se ne potrebbe dedurre che la “vera civiltà” sia la capacità di interagire con la Natura, di cui siamo una parte, accettandone volentieri le indicazioni, piuttosto che quella di scoprire il sistema per poterla piegare ai nostri desideri. E tutto ciò può avvenire grazie all’intelligenza, la quale è in grado di correggere i dettati dell’Es, del Super-io e della realtà circostante, non solo secondo “il principio di realtà”, ma anche secondo “i principi dell’Etica”.

L’Etica è un concetto che l’uomo realizza solo grazie all’elaborazione del Simbolico; essa è una diretta manifestazione del “Principio di Verità” che struttura l’inconscio, componente questa che comunemente viene detta: “Voce della Coscienza”.

Quindi, se iniziamo a pensare che l’inconscio non è solo espressione del corpo (come ipotizzava Freud, quando parlava dell’Es portatore di pulsioni sessuali e di autoconservazione), ma è anche spirituale (l’Io Reale portatore di pulsioni trascendenti) arriviamo a capire che, oltre a crearci (perché l’Io Reale crea l’Io immaginario, ossia, quello che noi crediamo di essere), ci dà anche tutta una serie di indicazioni sul come vivere in pace (è la Voce della Coscienza che, appunto, è fondata sulla Verità). Allora, se accetteremo tale presupposto esistenziale, forse, non avremo bisogno di conquistare molte regioni dell’Es, ma dovremo solo mettere in equilibrio le indicazioni dell’Inconscio con quelle del mondo che ci circonda.

In questo penso ci sia la vera rivoluzione di Sai Baba, quello di aver indicato nell’inconscio un “serbatoio di saggezza” dal quale attingere per vivere bene e morire serenamente: “attingere” in maniera intelligente, usando, prima di tutto, “il principio di realtà” proposto da Freud (il suo modo per denominare l’intelligenza umana) e non sfruttando la fantasia o l’immaginazione.

Dobbiamo aggiungere che, nel suddetto “serbatoio di saggezza”, ci sono le indicazioni per quello che tutti gli uomini, di qualsiasi epoca e cultura, hanno sempre chiamato: “La Via del cuore o dell’amore”; però, bisogna stare attenti, perché non è semplice seguirla e, per imparare, bisogna prima passare attraverso l’intelligenza.

L’intelligenza è fondamentale, perché grazie ad essa noi arriviamo a:

–          distinguere quelle che sono le pulsioni vere legate al corpo (quelle dell’Es, ossia, del nostro essere anche animali, che vogliono vivere e procreare) dai desideri immaginari o dalle costruzioni mentali (le fantasie nevrotiche o perverse);

–          discriminare gli obblighi del Super Io (intransigente e persecutorio) dalle Regole comportamentali che organizzano la società in cui viviamo e ordinano le nostre relazioni personali (create con il buon senso, per farci vivere meglio insieme e non con lo scopo di farci sentire degli esseri inferiori);

–          capire che oltre ad essere fatti di corpo e mente, siamo anche Spirito, ciò che sopravvive alla scomparsa del corpo e che può esprimersi secondo una logica che trascende i limiti imposti dalla nostra natura animale. Questo non vuol dire che sia sbagliato soddisfare le nostre esigenze naturali e provare piacere, dobbiamo solo accettare che tali esperienze non sono eterne (come dice Baba: “Non c’è nulla di male nel godere dei piaceri della vita, dovete solo ricordarvi che tutto ha una fine.”)

 

A questo punto, se saremo riusciti ad utilizzare abitualmente l’intelligenza, solo allora avremo la possibilità di trascenderla.

Detto in altro modo: solo dopo aver capito di essere fondamentalmente Spirito ed, inoltre, che tutti gli altri esseri hanno la nostra stessa Natura, solo in quel caso potremo agire in maniera disinteressata e, soprattutto, con amore verso il prossimo.

Personalmente diffido di quelle persone che parlano forzatamente, o in maniera ridondante, di amore: spesso, tali persone, con la scusa dell’amore ad oltranza, tendono a trattare con superficialità le Regole sociali, considerandole solo un impaccio. Di fatto, tali persone non hanno elaborato il Simbolico, perché, se è vero che i saggi hanno superato i limiti imposti dalle Regole umane (in quanto essi sono legge a sé stessi), è anche vero che loro sono i primi a rispettarle sempre e ad invitare i propri discepoli a fare lo stesso.

A volte, qualcuno propone di non pensare troppo e di seguire esclusivamente il proprio intuito, ma anche qui bisogna stare attenti, perché il rischio di interpretare le proposte della fantasia come intuizioni geniali è molto alto: l’immaginazione funziona in continuazione, mentre invece le vere intuizioni sono rare o eccezionali e, per di più, non sono facilmente utilizzabili da tutti. Perciò, vista la loro sporadica comparsa e la loro scarsa maneggevolezza, non possono essere considerate uno strumento ordinario di orientamento comportamentale.

In definitiva, prima ancora che con quelli del cuore o dell’amore, bisogna imparare a vedere con gli occhi dell’intelligenza; e non è facile, perché tendenzialmente, anziché usare l’intelligenza, si usa la fantasia; e quando si segue l’immaginazione per interpretare le indicazioni dell’Es, si rischia di prendere degli abbagli clamorosi.

 

Sicuramente molti psicoanalisti avranno arricciato il naso al sentire la parola “Voce della Coscienza”, ma, badate bene, ho usato le lettere maiuscole proprio per distinguerla dalla “voce della coscienza” che è, ovviamente, di natura super-egoica o sociale. La Voce della Coscienza ha a che fare con Dio, con la Verità e l’Amore di cui è costituito l’inconscio e non con i mostri della fantasia prodotti da un’educazione bigotta, i quali, con i loro messaggi contraddittori, tiranneggiano l’individuo per tutta la vita.

Tutto ciò ci viene confermato dalla nostra stessa esperienza: infatti, quando siamo in grado di interpretare i messaggi che provengono dall’inconscio e li mettiamo in sintonia con le richieste del mondo esterno (secondo il Principio di Verità, Etico o Trascendente), otteniamo quel senso di benessere (ma, sarebbe meglio dire di pace) che, senza bisogno di spiegazioni ulteriori, ci permette di confermare l’esistenza dello Spirito.

In ogni caso, Freud ha avuto l’enorme merito di aver ipotizzato e dimostrato l’esistenza di un inconscio con il quale l’Io deve fare i conti. Certo, egli non ha contemplato la componente spirituale, ma anche perché non l’ha distinta dalla religione: la spiritualità è cosa diversa dalla religiosità; quest’ultima (e, in questo, lui ha ragione), trattandosi di una traduzione che la mente fa dei messaggi provenienti dall’inconscio, non può che manifestarsi secondo i limiti mentali dell’uomo che la esprime. Ed è chiaro che un analista come Freud non poteva accettare tutte le contraddizioni che ogni singola religione si porta appresso. Nonostante tutto però, pur non parlando di spiritualità, egli ha avuto il buon gusto di ammettere che, al di là delle sue scoperte, nell’inconscio c’è un abisso che lui stesso, con le sue ricerche, non è riuscito a sondare (alla fine Freud disse: “…Cosa daremmo per saperne di più!”).

 

A proposito della funzione dell’inconscio nel sostenere l’organismo ed, in particolare, per collegarlo alla funzione divina, Baba dice:

 

“L’uomo si sta distruggendo, perché crede nelle cose materiali ed ignora il Ruolo ed il Potere di Dio…

E’ il Divino che sotto forma di linfa permette a tutti gli organi di funzionare. L’uomo che non riconosce questa verità di base, rimane nell’ignoranza e diventa arrogante ed egoista: crede di essere lui a far tutto e, perciò, va incontro alla sofferenza.”

 

“Dovreste essere fermamente convinti che nulla accade per uno sforzo umano e non dovete andare tanto lontano per cercare una prova a questa affermazione; la prova l’avete proprio all’interno del vostro corpo: ad esempio, che impegno mettete per mantenere l’incessante battito del cuore o per il continuo movimento di respirazione dei polmoni? Dipende forse dalla vostra volontà la digestione del cibo ingerito? Siete capaci di vivere o morire quando lo volete? Venite al mondo quando e dove lo desiderate voi? Se rifletteste profondamente su questa linea di pensiero, scoprireste che i vostri sentimenti di “Io e mio” sono indebitamente alimentati dall’errata idea di essere l’autore (kartritva) e il fruitore (bhokritva).”

 

“Tutto accade per volere divino (Daiva-sankalpa). Con le vostre sole forze non siete in grado di ottenere nulla. L’altro ieri vi ho detto come gli uomini, in diversi casi non siano riusciti ad aver il successo che avevano perseguito con ogni sforzo, e come, invece, per altri sia stato facile raggiungerlo, senza averlo cercato. E’ il senso dell’Io (ahamkâra) che vi induce ad appropriarvi del duplice ruolo di chi compie l’azione (kartritva) e di chi ne fruisce (bhoktritva).

Voi siete un’autentica incarnazione della beatitudine: la beatitudine è la vostra vera natura. E’ tragico il fatto che non sappiate individuarla e sperimentarla. Questa beatitudine è adombrata da simpatie, antipatie, dal senso di “Io e mio”, dall’esitazione e dal dubbio, da piaceri e dispiaceri, e così via. Attaccamento (râga) e odio (dvesha) sono il panno pesante che avvolge la vostra beatitudine. Quanto è strano e sciocco che, nonostante voi siate un’autentica incarnazione della beatitudine, l’andiate a cercare altrove!”

 

A sostegno dell’ipotesi che Dio è inconscio, oppure, che Dio ha sotto controllo l’inconscio di ciascuno, si potrebbe riflettere su quanto ha affermato lo stesso Freud nel suo lavoro dal titolo: “L’appagamento di desiderio”. Dopo aver capito che il sogno rappresenta l’appagamento di un desiderio, l’autore si domanda (senza però rispondersi) chi sia l’organizzatore ultimo del sogno ed azzarda: “Ci considerano già dei pazzi, ora, che parliamo dell’esistenza di un inconscio… figuriamoci cosa direbbero se ne proponessimo due!”.

 

Un’altra riflessione che potremmo fare è quella sulle regole che governano l’inconscio. Per saperlo sarebbe sufficiente studiare la psicoanalisi di Freud, per arrivare a capire che le regole ci sono e con una certa pratica si riesce pure a conoscerle; comunque, per ridurre il campo di lavoro, diciamo solo che: è innegabile che l’inconscio poggi sulla verità.

La verità è sicuramente la regola per eccellenza, il che è abbastanza ovvio, perchè se non prevalesse la verità o, comunque, se l’inconscio dell’uomo non fosse orientato dalla verità, la vita stessa sarebbe impossibile, sia quella individuale che, tantomeno, quella collettiva: sarebbe come programmare un computer con le più sofisticate e avanzate qualità, senza inserire la regola di rispondere sempre in maniera veritiera ai nostri comandi. Cosa ce ne faremmo di un computer di questo genere, libero cioè di dirci la verità o meno, a seconda dei casi? Sarebbe pericolosissimo!

A sostegno del fatto che l’inconscio è programmato sulla verità, è sufficiente notare che uno degli aspetti più caratteristici dell’inconscio studiati da Freud è il lapsus: esso è l’emblema del linguaggio dell’inconscio ed, in particolare, dei messaggi veritieri che esso ci manda.

Questa scoperta è stata così bene accolta dalla coscienza collettiva che, anche per coloro i quali disdegnano la psicoanalisi, il lapsus è diventato sinonimo di verità ed il suo scopritore è stato beneficiato con la notorietà nei secoli, infatti, nel linguaggio comune è stato simbolizzato il detto: “… è un lapsus freudiano!”.

 

Ma se l’inconscio funziona sulla base della verità, allora perché esiste la menzogna?

Possiamo fare diverse ipotesi, ma quella che preferisco è che tutto nasca da un errore: l’errore sta nella mente, oppure, detto in altro modo, l’errore sta nel processo di identificazione, favorito dal principio del piacere. In pratica, identificandosi esclusivamente con il corpo e considerandosi diverso dai propri simili, il bambino inizia a ragionare in termini vantaggiosi anche a scapito di altri (“l’Io ed il mio” che troviamo nelle teorie dell’induismo e del buddismo). Tale fatto è naturalmente favorito dall’educazione ricevuta, e cioè, se il bambino è entrato in contatto con la menzogna dei genitori e, soprattutto, con la loro ignoranza di essere Spirito anziché corpo, avrà molte più probabilità di altri di diventare falso anche lui.

Quindi, la menzogna è il risultato di un processo di dissociazione, per cui l’Io immaginario si considera padrone assoluto del corpo e ragiona solo in termini di piacere personale, dimenticandosi di essere invece un prodotto dell’inconscio e, come tale, di essere al suo servizio, anziché padrone.

Questo è il motivo per il quale detto Io (l’Io mentale o immaginario) rimane disorientato e spaventato di fronte alle improvvise irruzioni dell’inconscio nello spazio coscienziale; basti ricordare, oltre ai lapsus, le dimenticanze, i sogni, gli incubi ecc. Ma non basta, perchè queste manifestazioni sono per lo più semplici, curiose, sporadiche e comuni a tutti, ve ne sono invece altre che possono organizzarsi in vere e proprie malattie nervose, ovvero patologie dove compaiono in maniera duratura sia alterazioni psichiche (le nevrosi isteriche, ossessive, fobiche ecc.), sia fisiche (le cosiddette malattie psicosomatiche).

 

Ma dove stanno scritte le Regole che governano l’inconscio?

Nel codice genetico, allo stesso modo in cui sono inserite le tendenze naturali degli animali (il miele dell’ape, la tela del ragno, il nido dell’uccello ecc.), gli istinti, per intenderci.

Tra le regole dell’inconscio, oltre alla Verità, probabilmente ci sono anche le regole dell’Amore, della Pace, della Non Violenza e della Retta Azione: Regole, che Sai Baba, forse non a caso, chiama Valori Umani Fondamentali; e proprio perchè rappresentano le fondamenta della coscienza umana, come le fondamenta delle case, sono nascoste… quindi, inconsce.

Dice Baba: “I Valori Umani sono contenuti in ogni cellula del corpo, altrimenti non potreste considerarvi umani”.

Il discorso sui Valori Umani è però troppo ampio, ma spero, così come ho detto in precedenza per l’amore, di riproporlo in un lavoro a parte.

 

In definitiva, se accettiamo che Dio è inconscio (è il nostro Io Reale), oppure, che Dio abbia a disposizione il nostro inconscio, possiamo capire con una nuova luce tutta una serie di affermazioni di Sai Baba in merito a Dio.

Per esempio, quando dice: “Dio è il più vicino, il più affezionato, il più fedele dei compagni, ma l’uomo nella sua cecità, Lo ignora e cerca la compagnia di altri.

Dio è presente ovunque, in ogni istante: Egli è il più ricco e potente protettore, eppure voi Lo ignorate. Il Signore è qui, vicino, amoroso, accessibile e potente, ma molti non aprono gli occhi a questa grande opportunità. Il Suo nome ve Lo porterà vicino: il Nome è sulle labbra, il mondo è nella mente ed il proprietario del Nome è nel cuore. Il mondo e le sue attrattive vi distraggono coprendo la risposta che Dio dà alla chiamata del Nome.”

 

In pratica, Dio è quello che le filosofie orientali chiamano: “Il nostro Se’ interiore”. E’ inconscio ed è perciò che Baba dice: “Io sono Dio ed anche voi lo siete, solo che non ne siete consapevoli!”.

Questa frase ha scandalizzato la gran parte delle persone che l’hanno sentita (sia i credenti che, ancor peggio, gli atei), ma soltanto perché non l’hanno presa alla lettera ed interpretata in chiave psicoanalitica. Quando Baba dice: “… non ne siete consapevoli.”, è vero! Semplicemente perché non essere consapevoli è un modo diverso di dire inconscio.

L’Io a cui Si riferisce Baba affermando: “Io sono Dio…”, è l’Io inconscio o Reale… e siccome è inconscio, non possiamo esserne consapevoli!

 

Volendo essere più precisi dovremmo dire che noi siamo l’Anima o lo Spirito individuale, quella parte dell’Anima Universale che si è identificata con il corpo; e traducendolo in termini psicoanalitici, viene fuori che Dio è, al tempo stesso, sia l’inconscio individuale (quando si identifica nel soggetto) che l’inconscio collettivo (quando si identifica con l’umanità o il mondo intero).

Il termine di “Inconscio collettivo” fu coniato da C. Gustav Jung, un altro padre della psicoanalisi, e tratta di un argomento che fu un ulteriore motivo di disputa tra lui e Freud, conflitto che si tradusse poi con la loro separazione; però, guardandolo ora, ci rendiamo conto che entrambi parlavano della stessa cosa, solo che l’attenzione di Freud era concentrata sull’inconscio individuale, mentre quella di Jung sull’inconscio collettivo.

 

A questo punto, se ammettiamo quanto detto fin qui, possiamo trarre alcune conclusioni:

–          l’Io non è servo di tre padroni (l’Es, il Super Io e il mondo esterno), come diceva Freud, o meglio, di sicuro lo è l’Io immaginario, fino a quando non riconosce la propria Vera Natura di Io Reale (Anima o Spirito).

–          L’Io Reale è l’unico padrone, il Re, ma deve prendere coscienza di questa verità, si deve riconoscere come tale. Per far questo, ha a disposizione la mente che, come dice Baba, è al tempo stesso, l’unico vero ostacolo per questa ricerca, ma è anche l’unico strumento valido per poterla realizzare.

 

Come fare dunque per riconoscere la propria Vera Natura?

Per ottenere il risultato finale, bisogna saper usare la mente, altrimenti si permane in uno stato di servitù per tutta la vita: prima bisogna imparare a discriminare con gli occhi dell’intelligenza (quello che Freud chiama “il principio di realtà”) e superare la tendenza naturale a vedere con gli occhi della fantasia o dell’immaginazione (che sono invece orientati dal “principio di piacere”) e poi, utilizzare gli occhi del cuore o dell’amore (che sono sostenuti dal “Principio Trascendente”).

Sicuramente, riuscire a vedere con gli occhi dell’amore rappresenta il risultato finale della ricerca di cui abbiamo parlato finora, fatto questo, che tradotto in termini psicoanalitici vorrebbe dire arrivare ad identificarsi con l’Io Reale (“Io sono l’Anima o lo Spirito!”), ovvero, riuscire a prendere contatto con l’Inconscio Spirituale, Individuale o Collettivo.

A questo traguardo sono arrivati i profeti, i veggenti e quelle persone che comunemente vengono dette ”I realizzati in vita”.

Sia nei giorni nostri che nel passato, tale raggiungimento si è reso manifesto agli occhi del mondo con la comparsa di poteri paranormali, quali la capacità di fare premonizioni, diagnosi telepatiche, guarigioni ecc. (i cosiddetti “miracoli”). Si tratta di argomenti che non hanno, finora, avuto nulla a che fare con la psicoanalisi, ma è stata l’ipotesi dell’Inconscio Collettivo o Spirituale che mi ha permesso di capire come dette persone fossero veramente in grado di fare quanto detto sopra: è il contatto con l’Inconscio Spirituale o Divino, un contatto consapevole, continuo e vero, non come quello che possono far credere di avere certi indovini, maghi e fattucchiere.

I cristiani possono trovare conferma di ciò nella vicenda di Gesù che in mezzo alla folla accalcata su di lui domandò: “Chi mi ha toccato?”… si trattava di una donna che, per la sua fede, unica, in mezzo ad una moltitudine di persone che implorava e toccava il Maestro, ricevette la grazia della guarigione. Questa esperienza di Gesù è una dimostrazione lampante di cosa significhi avere un contatto consapevole, continuo e vero dell’Inconscio Collettivo, una consapevolezza che non necessita né di riti, né di formule preparatorie per realizzarla in quanto continua.

La distinzione tra i veri Realizzati e quelli falsi potrebbe essere un curioso lavoro di esclusiva pertinenza degli psicoanalisti, ma non è questo il contesto appropriato per approfondire l’argomento.

Ora mi fermo e rimando il lettore che volesse sviluppare il concetto dell’Io Divino, alla seconda parte del “Gioco Autentico”.

 

Prima di concludere però, vorrei riproporre un piccolo enigma di Sai Baba, che ho già inserito nel suddetto libro, ma che ritengo fondamentale per rendersi conto della profondità e della lucidità del Suo pensiero.

Gli psicoanalisti lacaniani saranno felicissimi nel raccogliere la sfida di analizzare e trovare la chiave di lettura di questo indovinello, però, anche gli altri, con un certo impegno, hanno la possibilità di risolverlo.

Dice Baba:

“La meta dell’umanità è di raggiungere Brahman.

Aksharam e Brahman sono la stessa meta (Akshara significa indivisibile), indicano gli aspetti Nirguna e Saguna della stessa verità.

Akshara significa anche una sillaba, il Prânâva OM, che è uno dei Simboli di Brahman e, perciò, si chiama Aksharaparabrahma Yoga.

Brahman ha due aggettivi, Paraman e Aksharam.

Akshara indica il Prânâva ed anche Mâyâ; e Mâyâ è riassunta nel Prânâva; questi due hanno attributi, sono qualificati, Savishesha. Comunque, Brahman è Nir-vishesha, senza attributi, puro di per sé. Coloro i quali lo comprendono Mi raggiungono.

Anonimo

 

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L’INFANZIA PERDUTA DELLA GENERAZIONE ANSIA

L’INFANZIA PERDUTA DELLA GENERAZIONE ANSIA

diBarbara Stefanelli

 

Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente alla New York University: tra i teenager e i 20enni  c’è un’epidemia di sofferenza psichica, con il raddoppio dei casi di depressione. Sono giovani non più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo

(DIRE) Roma, 14 feb. – “Ci siamo inizialmente focalizzati sulle dipendenze tecnologiche di adolescenti che hanno un uso problematico, addirittura patologico di internet, dello smartphone e dei social network: sono circa 12mila gli studenti di tutta Italia che hanno chiesto aiuto per difficoltà a ridurre l’utilizzo dei social e addirittura oltre un milione di persone nella fascia di età fino ai 35 anni che, nel nostro Paese, hanno un uso problematico dei social e di internet”. Lo racconta all’agenzia Dire il professor Alessandro Vento, psichiatra, responsabile dell’Associazione Osservatorio sulle Dipendenze e membro della Commissione sulle dipendenze dell’Ordine dei Medici di Roma, commentando quanto emerso nei giorni scorsi dall’evento dal titolo ‘Dipendenze giovanili: dimensioni del fenomeno e strategie di prevenzione’. All’incontro, ospitato presso l’Aula Magna Sante de Sanctis della Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università Sapienza di Roma, hanno preso parte numerosi docenti, insegnanti universitari, psicologi e studenti. Al filone delle dipendenze tecnologiche si affianca, purtroppo, quello delle dipendenze da sostanze, in particolare alcol e sostanze psicoattive. “Abbiamo dati allarmanti- evidenzia Vento- in particolare sull’utilizzo epidemico dell’alcol tra i ragazzi delle scuole superiori: da diversi studi, tra cui Espad Italia e Associazione Osservatorio sulle Dipendenze, oltre alle fonti ufficiali governative, emerge una fortissima ed epidemica diffusione dell’alcol tra gli studenti delle scuole superiori, addirittura l’85%, praticamente tutti”. Non va meglio se sotto la lente di ingrandimento si mettono i numeri relativi al consumo della cannabis. “Il dato più alto è quello relativo a quanti consumano cannabis occasionalmente- prosegue- dato che tocca il 30% degli studenti delle scuole superiori. Per quanto riguarda le nuove sostanze psicoattive, quelle di sintesi, di nicchia, abbiamo rilevato che in Italia ne fa uso un 5% di studenti e di giovani adulti”. Non solo: se il 25% degli studenti nella fascia d’età 15-19 ha fumato cannabis almeno una volta nell’ultimo anno, sono circa 75.000 gli studenti italiani in questa fascia d’età che fumano abitualmente cannabis (10 o più volte al mese), determinando un effettivo e importante fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi psichiatrici. È possibile porre un freno a questi fenomeni? “Dipende dalle fasce d’età- risponde l’esponente dell’Omceo della Capitale- in quelle più giovanili stiamo andando nelle scuole a fare informazione e prevenzione primaria precoce attraverso la ‘peer education’, ovvero l’educazione tra pari, con il coinvolgimento il leader di ogni classe, il ‘peer educator’, che ha il maggiore carisma e la personalità più forte e che ha poi il compito di veicolare il messaggio a tutti i compagni. Lo stiamo facendo in numerosi istituti della Capitale e abbiamo preso accordi per cominciare a lavorare su scala nazionale. Voglio inoltre precisare che l’attività di ‘peer education’ del 2023 e quella in corso nel 2024 si realizza grazie al contributo di Fondazione Roma, erogato all’Osservatorio sulle Dipendenze”. “Nelle fasce più alte di età- informa- le strategie sono più complesse e basate maggiormente sul meccanismo della psicoeducazione. Cerchiamo infatti di dare sempre elementi educativi e informativi ma con una modalità diversa da quella che utilizziamo con i più giovani. Poi c’è una prevenzione secondaria e terziaria, ovvero quella che utilizziamo per quanto riguarda le persone che hanno già avuto esperienze con le sostanze d’abuso”. “La Commissione dell’Omceo Roma- ricorda Antonio Bolognese, professore onorario di chirurgia alla Sapienza Università di Roma e responsabile scientifico della Commissione sulle dipendenze dell’Ordine dei Medici di Roma- è fortemente impegnata nel trattare queste tematiche, perchè da quando è stata istituita, il 5 maggio del 2022, c’è una notevole richiesta di parlare di questi argomenti nelle scuole e nei centri sportivi, soprattutto da parte degli insegnanti, dei presidi e degli istruttori di sport, per una fascia di età sempre più precoce, che va dai dieci ai 15 anni”. Con l’intento di prevenire e limitare il consumo di sostanze psicoattive e con potenziale di addiction tra i giovani, con particolare riguardo alla cannabis, prevenire l’insorgenza di stili di vita disfunzionali e di comportamenti a rischio e di indirizzare persone con disagio psichico a specifici interventi di counseling, l’Osservatorio sulle Dipendenze e sui Disturbi Psichici Sotto Soglia ha dato vita a ‘In-dipendenza’: il progetto intende mettere in luce i rischi e le conseguenze dell’uso della cannabis sulla salute mentale dei giovani e di altri disordini dell’area delle dipendenze attraverso incontri nelle scuole e nei centri sportivi con genitori e ragazzi, fornendo loro un’informazione scientifica corretta e non distorta dalla ‘cattiva informazione’. “Grazie a ‘In-dipendenza’- spiega- abbiamo coinvolto cinque istituti scolastici di Roma, ovvero Bramante, Chateaubriand, Kennedy, Newton e Visconti, e 3 circoli sportivi, Canottieri Aniene, Aquaniene e T.C. Parioli. L’azione di prevenzione primaria è stata condotta su 1.615 studenti, dalle terze medie alle superiori, 90 allievi dei circoli sportivi, 323 genitori di studenti e allievi e 116 tra insegnanti e allenatori della Capitale”. “Credo sia fondamentale- conclude Bolognese- la testimonianza di quanti hanno superato delle montagne e che oggi sono diventati delle persone di prim’ordine. Su mia sollecitazione pochi giorni fa è stato siglato un Protocollo d’intesa tra l’Ordine dei Medici di Roma e il ministero della Pubblica Istruzione per poter avere la possibilità che siano le scuole a cercare noi e non viceversa. Abbiamo già fatto dei progetti e sto cercando di sensibilizzare la direttrice generale dell’Unione Scuole regione Lazio per far sì che questo possa avvenire il prima possibile”. (Fde/Dire) 13:47 14-02-24 NNNN

 

 

La GenerazioneZ, cioè i nostri figli o nipoti nati dalla metà degli anni Novanta al 2010/12, sono un prodotto dell’umanità “danneggiato da uno smottamento nella cultura dell’infanzia”? E questo smottamento è l’esito dell’incrocio tossico tra una super protezione da parte dei genitori nella vita fisica e un’assenza totale di protezione da parte di qualunque adulto nella vita digitale? E se la risposta alle prime due domande è sì, abbiamo drammaticamente bisogno di “una correzione culturale” prima che sia troppo tardi per i nostri ragazzi e il futuro della specie?

 

La questione – presentata con diagrammi, esempi e contro-obiezioni alle critiche prevedibili – è stata posta da Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente di leadership etica alla Stern School of Business della New York University, il quale ha appena pubblicato The Anxious Generation ed è stato in passato autore di saggi premonitori sulla fragilità emotiva delle generazioni “viralizzate”. Il suo punto di partenza, non solo americano, sono i numeri. Che cosa dicono le ricerche, le statistiche, gli esperimenti accademici? Che la percentuale di giovanissimi (teenager) e giovani (ventenni) colpiti da depressione fa registrare un aumento a doppia cifra (più del 50% negli Stati Uniti). E così i tentativi di suicidio e i pensieri suicidari (in particolare nella popolazione femminile) rispetto a dati rimasti stabili fino al 2000 e non soggetti alla stessa oscillazione in altri strati della popolazione. Ci sono ulteriori lampeggianti, segnali di pericolo visibili a tutti, meno gravi e tuttavia preoccupanti per quanto si stanno rivelando comuni a società che potremmo definire “occidentali”, trasformate – se non sconvolte – dalla tecnologia: il peggioramento della performance scolastica, soprattutto in matematica; la frammentazione della capacità di attenzione; l’impoverimento delle relazioni umane; il disinteresse crescente per i rapporti sessuali; la tendenza a restare nella famiglia di origine e la ritrosia ad avviarne una propria; una diffusa avversione al rischio, a causa della rarefazione delle esperienze dirette, che tende ad abbassare l’asticella dell’ambizione rispetto ai predecessori “in casa”, Boomer (1946 – 1964) e GenerazioneX (1965 – 1980).

 

Il libro, anticipato sul magazine The Atlantic, ha subito aperto una discussione negli Stati Uniti per la visione apocalittica dell’autore. Haidt è convinto che l’ambiente in cui i ragazzi crescono sia “ostile allo sviluppo umano” e che questa condizione stia provocando “un’epidemia” di sofferenza psichica. Causa della caduta sarebbe l’attraversamento della pubertà con in tasca uno strumento sempre acceso che ti spegne rispetto alla realtà circostante per calamitarti verso Paesi delle meraviglie e dell’eccitazione. Dove la produzione di dopamina è incessante – attivata da like, retweet, commenti – fino a provocare una dipendenza che impedisce ogni rientro in un universo senza filtri. Come succede invece alla Alice di Lewis Carroll quando ritrova le sue dimensioni e si sveglia nel giardino d’origine. Questo “collasso esistenziale” sarebbe cominciato con il passaggio dai cellulari agli smartphone e la diffusione di questi negli anni Dieci.

 

Per Judith Warner, che ne ha scritto sul Washington Post ed è a sua volta autrice di studi sulla stessa generazione (tra cui E poi smisero di parlarmi: come dare senso alla scuola media), il nesso di causa-effetto dovrebbe essere spostato nel campo della correlazione. I ragazzi e le ragazze della Generazione online, secondo lei, andrebbero visti come il sintomo di una patologia mentale generale, allargata a un’intera società che non è più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo. Siamo – adulti e bambini – esposti a una vulnerabilità che minaccia il nostro benessere quotidiano e ci induce a una fuga scomposta davanti alla complessità.

 

Il bivio è profondo ma, nell’incertezza, alcune soluzioni proposte da Haidt sembrano di buonsenso. Tenere gli smartphone rinchiusi in un armadietto durante le lezioni a scuola. Non regalare ai nostri figli e nipoti telefoni in grado di collegarsi alla rete fino alle scuole superiori. Alzare da 13 a 16 anni l’età ammessa per aver accesso ai social network (con verifiche plausibili del rispetto della norma). Non basterà, è un gradino in una scalata, ma una riconversione andrebbe studiata. Siamo andati allo sbaraglio, li abbiamo gettati in mare senza salvagente e lezioni di stile libero.

 

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