L’ACACIA

L’Acacia

Venerabilissimo, Rispettabili Maestri

quando ho iniziato a scolpire questa tavola speravo di trovare un ricco materiale e di poter riferire ai Fratelli una quantità di interpretazioni connesse a questo simbolo.

Nel corso della ricerca mi sono reso conto che il materiale reperibile da me, in questo momento, è piuttosto scarso; non va oltre riferimenti generici come innumerevoli sono i significati del simbolo .

Peraltro ho sentito, sempre più distintamente, più l’impulso di meditare sul c nel simbolo, che non la razionale esigenza di andare alla ricerca di altri testi autorevoli.

Metto di fronte a voi, pertanto, questa mia constatazione.

Dei due simboli del terzo grado, l’acacia e la tavola da disegno, il primo porta verso la meditazione del simbolo; sembra indicare la via della immersione e della immedesimazione come mezzo principale di ricerca e interpretazioni.

Il secondo, secondo anche nella enunciazione, porta chiaramente l’indicazione che il compimento dell’opera avviene attraverso fasi successive ed altrettanto indispensabili: lo studio, la rappresentazione, l’applicazione.

Mi sono lasciato coinvolgere da questi suggerimenti ed ho iniziato a meditare …….

Qualche cosa è avvenuto: sono emerse delle considerazioni utili, sc non altro, come campione di cosa può uscire fuori se si procede su questa via.

Mi accorgo che durante questo periodo io sono cambiato. Sarà un caso oppure un effetto?

Dal punto di vista botanico “……. tra le innumerevoli varietà di acacie solo due hanno per noi un particolare significato:

l’acacia autentica, ACACIA VERA, il rovo egiziano, una delle varietà dalle quali si estrae la gomma arabica; appartiene alla famiglia delle mimose, dell ‘ordine delle leguminosa; la falsa acacia, ROBINIA PSEUDOÀCACIA, d’origine americana e, a quanto si sa, ignota in oriente sino al XVII secolo ‘

L’acacia autentica si distingue facilmente da quella falsa. Nella prima i gambi terminano in numerose fogliette, mentre nella seconda hanno foglie singole.

Alcuni ritengono che l’acacia nella Massoneria sia in realtà la cassia che viene talvolta menzionata nella Bibbia. Il poeta Tennyson ne parla come una delle piante del paradiso e si pensa anche che fosse l’albero della conoscenza del bene e del male e l’albero del serpente. Una iscrizione sulla tavoletta d’argilla scoperta a Nippur, in Babilonia, parla della caduta dell ‘uomo dicendo: “Egli perse la Cassia mangiò ….. .. la pianta che causò il loro destino ‘ .

Gli egizi attribuivano onori divini all’acacia, una delle piante con le quali i popoli antichi facevano serti e ghirlande funebri. Si dice che gli Ebrei piantassero ramoscelli d’acacia sopra le tombe, ma non sappiamo su quale fonte si basi tale affermazione. La leggenda afferma che anche il roveto ardente che parlo a Mosè era una acacia.

L’acacia era il biblico legno sacro agli Ebrei e simbolo della immortalità; di esso erano fatti l’Arca, la Tavola (?), i bordi del tabernacolo e l’altare (Esodo XXV).

La leggenda mette in relazione l’acacia col legno della croce di Cristo e con la sua corona di spine, ma molte sono le piante che si contendono tale onore.

Il ramoscello di cassia in cima alla tomba viene citato nelle Costituzioni di Anderson ed un testo del 1760 afferma:

D. Come è chiamato il Maestro Libero Muratore?

R. Cassia è il mio nome e vengo da una Loggia regolare e perfetta.

Procediamo oltre le citazioni. La leggenda di Hiram racconta che i Fratelli trovano dov’è seppellito Hiram vedendo un tumulo con piantato un ramoscello. Oppure, non è ben chiaro, trovato il posto lo segnano in quel modo.

Riflettiamo su questo fatto. Quel segnale indica che quello è un punto particolare; che li sotto c’è qualcosa.

Il segno è rappresentato da un ramo spezzato, non da un mucchietto di pietre come d’uso, ma da qualcosa che aveva vita ed ora non l’ha più. È il segnale di una morte; o della morte. La separazione violenta di una parte viva dal suo ceppo.

Una prima interpretazione naturalistica ci mette a confronto con il nostro atteggiamento verso le piante o, in genere, verso la Natura: rompere un ramo ha l’inequivocabile risultato di poterci trovare sotto il cadavere del Maestro.

L’uomo era perfetto, ha dato la vita per il rispetto della regola, ma per intanto è estinto. La vicenda della sua fine fa parte di un contesto più generale del suo attaccamento alle regole.

Tra gli innumerevoli simboli presenti nel Tempio, non molti portano il colore come rappresentazione intrinseca della loro natura, anche se in qualche modo sono colorati. Il bianco ed il nero infatti portano in sé il totale o la totale assenza di vibrazioni: il tutto ed il nulla.

Il rosso, colore della fiamma, ci suggerisce l’energia. Ma l’acacia porta il colore specifico e caratteristico di una azione legata alla vita: la fotosintesi, il principio della trasformazione della materia inorganica in organica.

Il primo simbolo della Camera di Maestro ci dice che oltre la fine dell’uomo e della sua civiltà sta il principio della vita legato alla natura vegetale.

L’acacia è associata, nel rituale, alla tavola da disegno: questo indica che ciò che essa rappresenta viene prima del lavoro di progetto.

L’uomo non può, pena la estinzione, applicare la sua capacità di invenzione se prima non conosce il valore della Natura.

Queste allusioni non possono essere casuali. Si sovrappongono alle concezioni uomo-centri che sono espresse nei contesti filosofico religiosi. Personalmente le recepisco come una delle risposte più concrete alla domanda del “che fare?” per il bene dell’umanità.

Il rituale dice che la morte di Hiram è dovuta al rifiuto delle regole tradizionali di alcuni compagni i quali volevano conoscere la parola sacra prima di esserne degni. Anche Adamo compì il tradimento della regola divina perché voleva possedere la conoscenza .. ….. e divenne mortale.

Nelle due narrazioni attori e vittime sono invertiti, comunque l’associazione dei due concetti ci porta a considerare insieme morte e tradimento. C’è forse l’intenzione di rappresentare che la vita e là sua fine, come la tradizione e la sua interruzione, contengono tradimento e violenza costituzionalmente in sé?

L’intenzione di Colui che ha inserito questo rituale era forse di far pensare se la morte è o no un tradimento? Nel senso che la morte è positivamente un momento di passaggio di stato come la rottura della tradizione è un trauma di evoluzione.

Cosa significa tradimento? Avere o compiere atti ostili all’interno di un certo contesto senza farlo vedere palesemente, con lo scopo di un proprio giovamento o, perlomeno, nella speranza che un cambiamento dell’intero contesto porti ad un proprio miglioramento. Se il traditore palesasse le proprie intenzioni, il contesto o il detentore delle leggi reagirebbe immediatamente nel lecito fine di realizzare la propria essenza attuale e neutralizzerebbe immediatamente il germe del cambiamento.

Ciò significherebbe che in qualsiasi contesto, universo . . stabile, sarebbe impossibile il passaggio ad uno stato diverso. Ogni inizio di cambiamento è in realtà un tradimento rispetto alla tradizione precedente.

In un liquido alla temperatura di congelamento se non passa di stato una prima molecola, anomala rispetto a tutte quelle che la circondano, il congelamento della massa non può avvenire.

Ma allora è giusto dare genericamente questo senso dispregiativo al tradimento, nel caso in cui esso non rappresenta altro che il primo, forse inconsapevole sintomo, di instabilità del contesto attuale?

Gli elementi anomali più sensibili alla situazione di instabilità rappresentano l’inizio del processo di cambiamento, quelli più adeguati alle condizioni di sviluppo, pertanto tendenti ad una futura situazione di nuova stabilità.

In questa chiave di lettura la morte che tradisce la vita, che aggredisce il vecchio, contiene l’indispensabile germe del rinnovamento: per brutta c ostile possa sembrare, senza questa rottura violenta sarebbe impossibile ogni evoluzione.

La tradizione ed il rituale ci raccontano di una generazione, ritenuta non matura, che vuole la parola sacra. Non ci dicono nulla su come e quando questo passaggio deve procedere.

Forse ciò significa che sempre il passaggio avviene attraverso la rottura: la morte del vecchio maestro, il quale si sentirà sempre tradito dal tempo e dalle nuove generazioni di compagni, i quali egli non potrà, non dovrà mai giudicare maturi, perché in natura ciò che è venuto dopo è meno maturo di quello che c ‘era prima.

La nuova generazione non riceverà mai la parola sacra da quella precedente. Se vorrà conoscerla dovrà ricostruirsela leggendo quello che vede intorno a sé: realtà apparente e simboli.

Stando così le cose, la tradizione ed il metodo massonico vengono ancora una volta dimostrati come unici mezzi validi per conoscere e valutare la realtà dell’Universo.

Il luogo della sepoltura viene segnalato con un ramoscello fresco. E vero che sotto vi è un cadavere umano tradito, ma il ramo può mettere le radici. Il ramo, affondando nuove piccole radici nel terreno, reso fertile dagli umori di un essere in putrefazione, potrà diventare pianta robusta. La pianta rappresenta allora la continuità, non la povera vittima destinata a sparire.

La pianta dunque rimane a segnare ciò che è stato. Essa è destinata a mettere radici, emettere germogli, tronco, rami e foglie. Fin troppo facile assimilare la nostra Istituzione vitale, oltre il destino dei singoli, basata sulle radici della Verità, il tronco del Rituale, i rami delle Logge, le foglie, attraverso le quali viene continuamente rigenerata e nutrita, i Fratelli Massoni.

Ecco perché occorre stare in guardia contro i possibili veri traditori: la dimenticanza, l’interruzione della Tradizione ed il cattivo uso della propria intelligenza.

La pianta, il colore, la legge naturale, la tradizione sono la base della conoscenza, punto di partenza e obiettivo del Maestro Libero Muratore.

Osserviamo il ramo d’acacia, quali sono le cause che determinano la forma delle foglie, il loro numero, la loro disposizione?

Andiamo oltre la risposta deterministica del caso. Una legge naturale avvolge ogni manifestazione dell’essere, dal materiale allo spirituale più puro, in modo silenzioso, inavvertibile da chi non vi presta la necessaria attenzione, ma totale ed immutabile.

La pianta sta a rappresentarci che esiste un progetto, un disegno della natura. Impossibile separare queste parole dal concetto di una Volontà, Se c’è una volontà ……. verso dove sta andando? Cosa vuole? Vuole forse un Uomo che la percepisca, perché solo se esiste un percettore Essa comincia ad esistere?

Prende così forma il rapporto tra destinazione dell’uomo e conoscenza. La luce si manifesta come unità totale ottenuta con la conoscenza ed interpretazione di tutto l’essere.

Il mondo minerale e fisico con le leggi atomiche e chimiche.

Il mondo vegetale con le leggi della vita e della sua trasmissione.

Il mondo animale con le leggi dell’adattamento e della sopravvivenza.

Il mondo dell’uomo con le leggi della consapevolezza e della convivenza.

Il mondo dello spirito, di tutto quello che sta oltre la nostra comprensione razionale, ma che si manifesta in una piccola parte dei nostri sentimenti ed in modo maestoso nel complesso ordinato dell’universo che ci circonda.

Non basta. Nel nostro Mondo della percezione, così articolato e complesso, qualcuno o qualcosa ci ha messo una chiave di accesso affinché ci rendessimo conto di quale potrebbe essere il confine di ciò che non è percepibile né quantificabile con la nostra razionalità:

non le leggi della fisica; non cos’è la vita; non cos’è l’ordine; non cos’è il movimento, né l’energia; non cosa sono il colore e le vibrazioni; non cosa sono le percezioni ed i sentimenti.

Questo confine e meta dei nostri architettonici Lavori sono l’intera ricerca della comunione totale che parte dall’immersione nei livelli sempre più profondi della nostra spiritualità, per forse farci ritrovare immersi nell’universo totale dell’essere.

Per stimolarci ed aiutarci ci ha messo di fronte un monticello di terra segnato da un rametto

S. Vibrg,

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IL MITO DI ERCOLE

Il mito di Ercole

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi di ogni Dignità e Grado,

Il mito di Ercole è parte integrante della simbologia massonica: lo testimonia il fatto che il suo simulacro, insieme a quelli di Minerva e Venere, fa parte dell’arredamento del Tempio.

Il significato da attribuire a questa presenza è, secondo la spiegazione corrente la Forza, così come per Minerva è la Saggezza e per Venere è la Bellezza; si tratterebbe degli attributi propri delle tre Luci presso cui le statue sono collocate.

Ma sappiamo bene che la simbologia Massonica nasconde significati ben più profondi, oltre a quelli che appaiono in superficie. È alla ricerca di questo insegnamento più intimo che è dedicato questo modesto lavoro.

Ci fonderemo su osservazioni:

  1. la collocazione della statua di Ercole nel Tempio;
  2. la posizione reciproca delle statue di Ercole, Minerva e Venere;
  3. i risultati dell’interpretazione psicologica del mito di Ercole.

Cominciamo con l’osservazione che il punto in cui la tradizione massonica vuole collocata la rappresentazione di Ercole è nel lato occidentale, in prossimità delle colonne J e B: quanto basta per suggerire, attraverso un linguaggio architettonico figurativo, l’associazione Colonne di Ercole.

Nella mitologia classica le colonne trasportate da Ercole dalla Libia a Gades segnavano il punto dell’occaso, dove il sole termina il suo ciclo diurno, ma indicavano anche il limite dell’habitat dei mortali, perché oltre le colonne si trova un mondo che non appartiene più all’uomo comune, un mondo sacro perché riservato agli dei ed ai mostri sovrumani, o a quegli uomini capaci, per il loro coraggio, di spogliarsi delle qualità dell’uomo comune per assumere quelle dell’uomo iniziato.

Ercole, padrone di questa porta che mette in comunicazione i due mondi, è uomo mortale per nascita (anche se porta un’impronta divina nella sua ascendenza) che ha raggiunto livelli superiori.

Eroe immortale accolto all’Olimpo in virtù del suo coraggio, della sua forza, della tenacia impiegata nel condurre a termine le imprese cui aveva dedicato tutta la vita, le mitiche dodici fatiche; Ercole è quindi il prototipo dell’uomo che sa ritrovare, attraverso la dedizione costante di tutte le sue forze, la dignità della propria origine divina, è quindi il prototipo dell’iniziato.

La sua presenza iconografica nel Tempio è perciò molto di più che un simbolo di forza fisica, è il richiamo lanciato agli adepti perché conservino la consapevolezza di quella che è la via da seguire.

Può darsi che questa interpretazione appaia a qualcuno troppo gratuita e troppo immaginosa. La riconfermiamo ricordando che anche per il Porciatti le due colonne all’ingresso del Tempio evocano, fra molti altri significati, anche quello della porta costruita da Ercole  al limite fra i due mondi; ed aggiungiamo che è sempre lo stesso studioso che vede in Ercole il modello, la guida del Compagno iniziando che, fermo tra le Colonne, all’ordine e munito di regolo, si accinge ad un cammino che lo porterà alla

Ma ecco un’altra conferma; e siamo al secondo punto che vogliamo considerare in questa tavola. Poniamoci come Ercole-iniziando all’inizio del sentiero, fra le Colonne di Occidente e guardiamo in avanti verso l’Oriente di quel mondo simbolico che ci è rappresentato dall’architettura del Tempio. Entro un angolo visuale relativamente ristretto ci si presenta a destra, abbastanza vicina, Venere e a sinistra, lontana sul fondo, Minerva. E un ‘altra associazione singolarissima che non può non richiamarci un episodio della vita di Ercole.

Il mito ci tramanda che Ercole, ancora adolescente, appena dopo aver preso congedo dai maestri che lo hanno istruito, si mette per la strada verso l’ignoto che sarà la sua vita e si trova subito davanti ad un bivio. Da una parte si dirama un sentiero corto e facile al termine del quale gli appare una donna di rara bellezza, sfarzosamente abbigliata, di aspetto attraente e di sorriso invitante (Venere, con i suoi attributi di sensualità e di sentimentalità). Dall’altra parte, al termine di un sentiero lungo e difficile, appare una donna semplicemente ammantata di bianco, dal viso austero, dall’espressione di virtù e di dignità (Minerva, la sapiente, la saggia). Di fronte alla scelta che gli si impone, Ercole non ha esitazione, lascia la strada facile, senza lotte, piena di allettanti piaceri e si avvia per la strada difficile, piena di fatiche e di lotte, che porta alla saggezza, alla conoscenza.

Ritomando ai termini massonici, il Porciatti conclude: “fra le colonne I ‘iniziando non sia da meno dell’Eroe mitologico .

Dopo le letture effettuate crediamo di poter affermare che Ercole è creatura del pensiero greco, nel periodo successivo all’insediamento degli Elleni nel Peloponneso, e ne rappresenta gli ideali aristocratici. In lui sono radunate le qualità del buon combattente di un’era che non conosceva altro genere di lotta sc non quella individuale, egli non ha il comportamento prudente e difensivo dell’astuto Ulisse, esploratore girovago suo malgrado, o quello eroico, ma militarmente inquadrato, di Ettore o di Achille, egli è l’uomo di fronte al suo fato, animato da ardore di conquista, modello dell’incessante bisogno umano di superare se stesso.

In che cosa consistono, che cosa ci insegnano le peregrinazioni dell’Eroe? Le dodici fatiche (le quali peraltro non sono che le parti più famose delle gesta di Ercole) sono state studiate da numerosi esoteristi che vi hanno ravvisato elementi di simmetria tali da permettere di connetterle ai dodici segni dello zodiaco.

Questa sarebbe quindi, in ultima analisi, la via dell’evoluzione lunga e faticosa che ha portato Ercole, ancora uomo, al bivio, suo punto di partenza, alla conquista dell’immortalità divina. E troviamo allora un altro legame con i simboli che illustrano le pareti del Tempio; non si tratta di segni solo ornamentali e decorativi, ma di un linguaggio che diventa abbastanza preciso se appena si comincia a decifrarli.

Vediamo allora come le fatiche di Ercole aiutano questa decifrazione alla quale vogliamo, per ora, solo attribuire valore di suggerimento e di ipotesi.

Secondo l’ordinamento suggerito da alcuni studiosi (fra le fonti antiche non vi è concordanza nella successione delle imprese) la prima fatica è consistita nel domare le cavalle di Diomede, mangiatrici di carne umana (Diomede destinava alla loro alimentazione gli stranieri che giungevano nel suo regno, situato nella parte più selvaggia della Tracia). Ercole vince Diomede e lo dà in pasto alle cavalle che riconduce, poi, in paesi civili. Il significato esoterico della vicenda è che la prima fasc dell’ascesi sta nel domare le forze brute dell’istinto che hanno sede nella parte più primitiva ed inconscia dell’uomo. Questo è in concordanza con l’Ariete, il primo segno dello zodiaco, significatore dell’energia primogenia, dello slancio delle forze fisiche e dell’istinto che bisogna padroneggiare prima di passare oltre.

La seconda fatica è la cattura del Toro di Creta, oggetto dell’amore morboso di Pasife e fatto impazzire da Poseidone in odio col suo padrone, il re Minosse. Il fatto è da associare al segno zodiacale del Toro e l’insegnamento da trame è che la seconda tappa nella vita delle ascesi esige che vengano padroneggiate le forze dell’affettività e della concupiscenza, significate appunto dal segno del Toro.

La terza impresa è il trafugamento dei pomi d’oro coltivati nel giardino delle Esperidi, in riva all’oceano e custoditi da guardiani tenibili. Il successo ottenuto con l’uso dell’astuzia contro i guardiani dei frutti dotati di sorprendenti poteri, insegna a chi percorre la via iniziatica che deve rendersi padrone totale dei mezzi intellettuali e mentali, tipiche caratteristiche del segno dei Gemelli.

La quarta fatica è la cattura della cerva di Cerinea dalle corna dorate, contesa fra due dee. Ercole giunge al successo dopo un inseguimento durato un anno ininterrottamente e condotto fino al limite del mondo conosciuto, col rischio di sconfinare in un paese ignoto dal quale non c’è ritorno. La lezione è che la perseveranza e la continuità tenace (attributi del segno del Cancro) devono essere acquisite da chi vuole inoltrarsi ancora di più nella via dell’evoluzione.

L’uccisione del leone di Nemea, che devastava la regione omonima, è la quinta fatica. Ercole ne viene a capo dopo una caccia durata un mese che mette in luce soprattutto il suo coraggio. Ecco il requisito suggerito dal segno del Leone, indispensabile per chi vuole procedere sulla via iniziatica.

Sesta fatica: la conquista del prezioso cinto di Ippolita, regina delle Amazzoni. Ercole, aiutato da qualche compagno, vince in battaglia militare le agguerrite amazzoni e si impadronisce dell’oggetto prezioso che adornava la loro regina. E l’unica volta, nelle dodici imprese, che un manufatto, frutto di tecnica umana, costituisce la meta di Ercole. L’organizzazione, la tecnica, il dominio sulle cose sono, secondo la tradizione astrologica, gli attributi del segno della Vergine. Il possesso di queste capacità è richiesto a chi segue la via dell’evoluzione interiore: ecco come si può intendere questo episodio.

La cattura del cinghiale di Erimanto, devastatore della zona, avviene, senza l’uso delle armi e senza uccisioni, con l’impiego del minimo indispensabile di forza. Ercole stana la bestia con l’astuzia e la cattura bloccandole le zampe posteriori ed obbligandola a muoversi con le anteriori per andare nella direzione da lui voluta. L’armonia ed il rifiuto della forza sono appunto gli attributi astrologici del segno della Bilancia, la settima fase del sole nel suo giro zodiacale.

L’idra di Lema, mostro acquatico, abitatore di abissi profondi e infestatore di paludi, invincibile da partc dei comuni mortali per Ic capacità di rigenerare e di moltiplicare le sue teste uccise, viene distrutto da Ercole, dopo una lotta accanita, con l’esposizione all’aria e al fuoco. Questa ottava fatica rappresenta per gli esoteristi la lotta contro l’inconscio, forza abissale dalle molte vite da cui gli uomini normali non riescono a liberarsi nella loro vita. I suoi attributi sono simboleggiati dal segno dello Scorpione, segno appellato, appunto, profondo, infernale.

La nona fatica è la liberazione della palude di Stinfalo dai terribili uccelli carnivori, dotati di penne affilatissime, dall’effetto mortale su chi ne era colpito. Ercole iniziò la caccia con l’arco, ma il loro numero era incalcolabile e lo stormo oscurava il sole; li mise in fuga per sempre stanandoli con nacchere di bronzo dall’insostenibile fragore. L’idea di caccia, di movimento, di espansione al servizio della giustizia, di moltiplicazione di effetto mediante il controllo del pensiero (rappresentato nel mito dalle onde sonore che raggiungono tutti i rifugi degli uccelli all’interno dell’impraticabile palude) usato in silenzio e in luogo delle altre normali armi, è congruente  con i significati che la tradizione assegna al segno del Sagittario.

La decima fatica è la cattura di Cerbero, il tricefalo custode del regno dei morti, allegata alla liberazione di Teseo, condannato ad essere in eterno incatenato ad una roccia. Ercole entra così nel regno degli inferi per riemergere vittorioso. Sembra che questa esperienza ultra terrena, il contatto con l’aldilà, sia una parte dell’evoluzione iniziatica simboleggiata dalla duplice natura del segno del Capricorno, uno dei più segreti dello zodiaco.

Undicesima fatica: le stalle di Augia pulite dallo strame accumulato in trenta anni, in un solo giorno deviando il corso di due fiumi; non è tanto da intendersi come un lavoro di ingegneria idraulica, quanto un’opera di liberazione dell’umanità dalle sozzure accumulate in lunghi periodi di abbandono. Questo corrisponde allo spirito umanitario e collettivo caratteristico della natura del segno dell’Acquario.

L’ultima fatica è la liberazione della mandria di buoi rossi illegalmente detenuta da Gerione, mostro a tre teste. Ercole vince il mostro, ma indulgente alle sue suppliche gli risparmia la vita, uccide il cane a due teste che lo aiutava nella custodia, si libera degli attentatori all’integrità del gregge sulla via del ritorno e lo porta al completo nella Città Sacra, in sacrificio ad Atena. Ecco il punto culminante che ribadisce Ercole servitore mondiale sottomesso solo al comando supremo, come vuole la tradizione zodiacale del segno dei Pesci.

L’iter iniziatico si conclude a questo punto quando, dopo i primi quattro momenti dell’acquisizione del controllo di sé, dopo gli altri quattro dedicati a rendersi padrone delle tecniche spirituali, l’adepto si integra con gli altri uomini mettendosi al servizio.

Molte altre avventure mitologiche sono tramandate, ma queste formano un ciclo conchiuso degno di essere meditato per il suo valore esoterico. Vi sono indubbiamente incertezze nell’attribuzione delle corrispondenze tra fatica e segno zodiacale. In parte questo è dovuto alla presenza di numerose varianti, qualche volta contraddittorie, fra le fonti letterarie attraverso cui conosciamo il mito di Ercole. In parte le difficoltà su quanto esposto dipendono, anche, dalla necessità di sintesi che ha imposto di tralasciare molti dettagli che avrebbero la loro importanza per giustificare le conclusioni cui siamo giunti.

Quello che però importava più di tutto era di far rilevare la forte presenza del mito di Ercole fra i fondamenti della simbologia massonica ed i suoi profondi significati iniziatici.

G. Bitt,

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L’ESPLETAZIONE DI N FUNZIONE IN LOGGIA ED I SUOI EVENTUALI EFFETTI SU CHI LA COMPIE

L’espletazione di una Funzione in Loggia ed i suoi eventuali effetti su chi la compie

Maestro Venerabile e Fratelli carissimi, ho voluto prendere in esame questo argomento, cioè l’espletazione di una qualsiasi funzione in Loggia, per cercare di trarre considerazioni utili al perseguimento della Via Massonica ed anche per trovare significati utili nell’esecuzione, sia essa la più umile, come potrebbe essere quella di preparare il Tempio ai lavori, anche se personalmente credo che essa sia molto importante, fino al Venerabilato.

Naturalmente non intendo, con questa tavola, parlare dettagliatamente di tutte le funzioni di Loggia, ma della Funzione in generale, intesa in una accezione a carattere iniziatico, riguardante la nostra gerarchia, la quale potrebbe chiamarsi più propriamente Funzione Tradizionale

Di questa funzione tradizionale, vorrei sottomettere all’esame dei Fratelli una definizione trovata nella recensione ad un libro di un autore che scrive su questioni tradizionali (Michel Valsan): “dicesi Funzione Tradizionale il ruolo che un essere, o un insieme di esseri, in un dato stato di manifestazione, ricopre nell ‘ambito di una istituzione tradizionale, quando vi siano presenti certe circostanze e l’essere, o gli esseri in questione, abbiano le qualificazioni corrispondenti “. A mio avviso, questa definizione, oltre ad essere, direi, lampante, mette particolarmente a fuoco il concetto di Funzione Tradizionale permettendo di trovare interessanti sviluppi atti a chiarirci tutto ciò che diciamo e facciamo in Loggia.

La nostra Istituzione comporta una gerarchia di gradi ed una gerarchia di funzioni; trattandosi di due cose distinte, credo non si debbano confondere. La funzione di cui si può essere investiti probabilmente non ci modifica in ciò che già possediamo, ma può aiutarci, se agita con una certa mentalità, ad attualizzare quelle possibilità latenti che, pur possedendo, non riusciremmo mai a realizzare.

La funzione tradizionale ha quindi, in rapporto al grado raggiunto, un carattere accidentale anche  se l’esercizio di questa può richiedere un determinato grado, ma non è legata espressamente a questo, anche in considerazione del fatto che in Massoneria, nella maggioranza dei casi, il grado è raggiunto solo virtualmente. Inoltre questa distinzione del grado raggiunto è ancora evidenziata dalla temporaneità delle funzioni massoniche e di qui scaturisce l’esigenza di viverla il più intensamente ed armoniosamente possibile.

Se la funzione tradizionale, come già detto, è un qualcosa di accidentale e contingente dal punto di vista dell’evoluzione spirituale dell’essere che la riveste è però molto importante dal punto di vista di chi, da una tale funzione, deve e può trarre tutti i benefici che le sono inerenti; parlo di benefici spirituali, naturalmente. Quindi una qualsiasi funzione di Loggia ha senso solo ed esclusivamente in vista della vera e propria Mediazione che essa può realizzare fra lo stato individuale, cioè di chi lo compie, e lo stato universale (G A.•.D U:.).

Essa può perciò costituire il mezzo con cui ciò che ha un grado di realtà minore viene messo in relazione con ciò che ha un grado di realtà maggiore.

Vista in questo contesto la Funzione Tradizionale si rende necessaria come azione ordinatrice, prima sull ‘individuo che la compie e, di riflesso, su tutta la Manifestazione, dando ad essa quel senso sacro che, in fondo, è poi il solo in cui vada intesa.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come possa insorgere un modo profano di intendere la Manifestazione e tutta la realtà relativa in cui siamo immersi.

Credo perciò che la funzione misuri l’uomo e lo aiuti a crescere sulla via iniziatica; quando una funzione venga vissuta intellettualmente, ed intendo dire con questo termine in modo spirituale, cioè col cuore, essa può realizzare un contatto con i contenuti più alti della nostra tradizione. Conseguentemente colui che la compie può anche giungere a sentire realmente l’influenza spirituale che incarna la nostra istituzione e godere dell’ attrazione verso il centro che da essa perviene.

Ritengo ancora necessario, all’azione dell ‘influenza spirituale generantesi dalla funzione, un ridimensionamento, quasi uno scostarsi dall’individuo, per far posto a qualcosa di infinitamente più grande di esso. Il ricercare quindi una funzione in Loggia solo per un prestigio personale o per un’affermazione individuale è un atteggiamento squilibrante, non solo verso sé stessi, ma verso tutta la Loggia riunita virtualmente; al contrario, un puro desiderio di ottenerla come azione di conoscenza può anche trovare la sua legittima giustificazione da un punto di vista iniziatico.

E questa una qualificazione necessaria affinché la funzione agisca sull’individuo come spinta verticale verso il Grande Architetto ed agisca anche come forza di coesione e di insegnamento per tutta la Loggia.

Aggiungo quindi che il fatto di ricevere la funzione in una Loggia è da intendersi come un evento divino e come un momento privilegiato della propria vita iniziatica, sforzandosi di trarre da essa tutti i frutti possibili, piegandosi alla funzione stessa, escludendo il proprio io e, nel limite del possibile, esaurendo i propri limiti. Se questo mezzo (la funzione tradizionale), che ci viene offerto dalla nostra istituzione, verrà usato in tutta la sua indefinita estensione di possibilità, credo che possa diventare senz’altro un formidabile attrezzo operativo, permettendo ad ognuno di trovarsi, forse, in una situazione spirituale diversa da quella da cui era partito.

Concludo dicendo che è mio profondo convincimento che l’accostarsi al proprio compito o funzione di Loggia, veramente da Liberi Muratori, cioè da artigiani, sforzandosi di riappropriarsi dello stesso spirito con cui i nostri antichi Fratelli operativi si accostavano all’arte di costruire le cattedrali, sia un atteggiamento atto, prima, a tenere ferma e diritta la nostra intenzione, e poi, anche come forza trasformatrice per l’uomo tradizionale, consentendogli di passare da ciò che lo incatena al mondo terrestre a ciò che lo unisce al mondo celeste.

L. B. Grdn,

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CATTIVERIA

Cattiveria

Quando io ero piccolo, non poi moltissimi anni fa, cattivo lo potevo dire solo in pochissimi casi: l’orco della favola e chi mi picchiava. Altri casi non mi sovvengono.

Per contro, quasi tutto era buono, e qui non sono difficili gli esempi: papà e mamma, Dante e Manzoni, il Presidente della Repubblica. Avevano ragione sempre, erano buoni e bravi. Almeno ufficialmente.

Poi arrivò la rivoluzione del ’68 e si è detto basta a tutti questi soprusi! Si è cominciato a criticare tutto e tutti ed in questa improvvisa libertà di critica i primi ad essere giudicati sono stati, ovviamente, proprio coloro che erano stati i primi ad essere lodati. Non si diceva più: invece di criticare, cerca un pò ‘ tu di far meglio, ma esplose la gara a chi riusciva a criticare di più in un processo che si dilatava sempre più.

Il risultato è che adesso tutti sono diventati cattivi, dai governanti alle opposizioni, gli scioperanti ed i datori di lavoro, i medici, ma anche i mutuati, gli insegnanti ed i patrioti. Sono cattivi i cattivi, ma sono cattivi anche i buoni; son cattivi i giudici ed anche gli imputati. Sono cattivi i provvedimenti presi, ma anche quelli non presi; cattiva è la scienza ed il progresso, ma anche l’ignoranza ed il non progresso.

Importante è non fidarsi di nessuno!

Tutti accusatori e tutti imputati, viene a mancare il buono, il giusto, il vero: tutte superstizioni.

L’adolescenza è età tipica di critica. E noi ora viviamo in un’epoca adolescente senza fine. Specie gli adulti sono costantemente posti sotto giudizio, confrontati con ideali di perfezione da parte (soprattutto) dei giovani.

L’adolescente accusa i genitori, pur avendone bisogno. I genitori devono resistere, accettando di essere messi in discussione  senza farsi travolgere, mantenendo la loro identità, serenamente quanto è possibile.

Se riusciranno a resistere su delle basi solide, allora il ragazzo saprà che si è fidato di persone stimabili e avrà stima di sé, mentre viceversa il ragazzo che riuscirà a distruggere i genitori sarà insicuro.

Ma l’uomo, costantemente sottoposto a giudizio, come reagisce? Quanto gli pesa questa squalifica globale?

Cerca di non pensare e di eludere, rinviandolo, il problema: mettendo la testa sotto la sabbia, guardando la TV, rifugiandosi nel sog-i0 0 nei beni di consumo. Cerca la bontà laddove non c’è l’uomo, tra gli animali o nella natura vergine, ma anche in ciò che supera, escludendola, la ragione umana, come la magia o l’astrologia.

La logica conseguenza di queste considerazioni è che si preparano tempi per un uomo che dica: seguitemi! Trovando moltissimi proseliti. Ma io sono un iniziato, ed allora le considerazioni sono necessariamente altre.

Perché altre e diverse? Perché l’iniziato vede il mondo con attenzione, si domanda il perché delle cose, esercita un’azione critica che non è fine a se stessa, bensì serve per costruire un rapporto con gli altri e con le cose basato su valori diversi da quelli profani: I ‘Iniziazione modifica la scala dei valori.

A.Bgg

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AH SI ?

Ah sì?

Il maestro di Zen Hakuin era decantato dai vicini per la purezza della sua vita.

Accanto a lui abitava una bella ragazza giapponese, i cui genitori avevano un negozio di alimentari. Un giomo, come un fulmine a ciel sereno, i genitori scoprirono che era incinta.

La cosa mandò i genitori su tutte le furie. La ragazza non voleva confessare chi fosse l’uomo, ma quando non ne poté più di tutte quelle insistenze, finì col dire che era stato Hakuin.

I genitori furibondi andarono dal maestro. “Ah sì?” disse lui come tutta risposta.

Quando il bambino nacque, lo portarono da Hakuin. Ormai lui aveva perso la reputazione, cosa che lo lasciava indifferente, ma si occupò del bambino con grande sollecitudine. Si procurava dai vicini il latte e tutto quello che occorreva al picciolo.

Dopo un anno la ragazza madre non resistette più. Disse ai genitori la verità: il vero padre del bambino era un giovanotto che lavorava al mercato del pesce.

La madre e il padre della ragazza andarono subito da Hakuin a chiedergli perdono, a fargli tutte le loro scuse e a riprendersi il bambino.

Hakuin non fece obiezioni. Nel cedere il bambino, tutto quello che disse fu “Ah, si?”

17 dicembre 1998 dell’e:. v:. (3 0 grado)

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SUGGERIMENTI DEL MIO SE AL MIO IO SAREBBE BELLO SE …

Suggerimenti del mio sé al mio io sarebbe bello se …….

. prima di teorizzare la tolleranza imparasse a non abbaiare;

. quando qualcuno gli parla, e quanto detto gli passa da un orecchio ad un altro, prima di uscire da quest’ultimo, qualcosa, delle parole e del loro significato, gli rimanesse in mezzo;

. avendo il dubbio – buon per lui – di avere qualche difetto, dopo averlo identificato, potesse aveme consapevolezza e trame le debite conseguenze;

. fosse sicuro che le virtù che si attribuisce, fossero veramente tali;

.. 1 suoi vizi non si  troppo spesso da virtù;

.. avesse capito in cosa consistono i metalli;

… l’amore che crede di avere per gli altri fosse veramente disinteressato;

. riuscisse ad amare le debolezze degli altri. Sarebbe un modo di amare sé stesso;

. fosse convinto che la sua gerarchia è inversamente proporzionale a come la manifesta all ‘estemo;

… quando cerca qualcosa, e non la trova, prima di chiedere ad altri dove l’hanno messa, cercasse di ricordarsi dove l’ha lasciata; anziché con la mente parlasse col cuore;

. riuscisse a dubitare di sé stesso come dubita degli altri;

. quando qualcuno gli racconta i fatti suoi non intervenisse subito dopo dicendo ” a chi lo dici” oppure “io invece.

… prendesse consapevolezm di non sapere sempre tutto di tutto;

. riuscisse a vedere come fratello un Re o un Papa o un potente con la stessa facilità (o sufficienza) con cui vede come fratello un qualsiasi derelitto;

. quando parla e, a essere ottimista, dà vento, non si illudesse di avere creato un ciclone;

… per cercare sé stesso non pensasse di dover cambiare stanza;

. oltre a non parlarsi addosso avesse anche cura di non scriversi addosso; non perdesse ogni buona occasione per stare zitto o almeno prima di parlare contasse sino a tre e Più;

… avesse il buon gusto di ricordarsi un po’ più spesso del contenuto di questa pagina.

17 aprile 1997 dell’e:. v:. (1 0 Grado)

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PRASHANTI NILAYAM

Prashanti Nilayam

È il “porto della pace” secondo la traduzione del fr. M. Bianco ed è, se vogliamo essere immodesti, un Miasino un po’ più in grande. E, in fondo, la ricerca della pace interiore per aiutare a capirci ed a capire.

Prashanty Nilayam è un’oasi nell’India ed è un’isola dentro Puttaparthi, piccolo paese caoticamente e rumorosamente indiano con il suo mercanteggiare su ogni cosa, con i suoi derelitti sciancati che con il moncherino ti chiedono una rupia e con i bambini o giovanissime ragazze con un figlio in braccio che non ti chiedono più denaro ma un chilo di riso o una scatola di latte in polvere.

L’esperienza di parecchi viaggi in questa nazione ti porta anche a pensare che abbiano recepito quale sia il miglior tipo di messaggio che sia in grado di colpire in un modo nuovo l’emotività dell’occidentale. Chiedere del cibo che, venduto a prezzo maggiorato da un negoziante, viene restituito allo stesso dal questuante che così ottiene una certa quantità di denaro.

Ogni ipotesi è valida e in molti casi può essere così, però quando vedi che il ragazzino che ha avuto la scatola di latte in polvere viene assalito da una turba di suoi coetanei che cercano di strappargliela e, quando va bene, la scatola ha perso la fisionomia di un parallelepipedo, il dubbio si trasforma in certezza: esiste la vera fame e la fame rende violenti per naturale legge di sopravvivenza.

Perdi di colpo la certezza di aver fatto una buona azione dopo aver imparato a tue spese che i risultati della tua buona azione non erano certamente quelli che ti aspettavi e cerchi quindi di rientrare nell’ Ashram il più presto possibile.

Qui l’aria che pervade questo strano mondo lo rende estremamente distante da tutto ciò che c’è fuori dei cancelli che si chiudono fisicamente al resto del mondo alle 9 di sera, ora in cui tutti sono pregati di rientrare nelle proprie camere.

Anche se partecipi ad un gruppo, nell ‘Ashram sei solo, ti trovi solo con te stesso, ti misuri con te stesso. Vuoi sentirti libero di agire senza il condizionamento delle convenzioni sociali che, per pura e$eriorità, ti obbligano ad una convivenza con altri, sovente formale e fasulla.

E giusto e perfetto quando ti trovi in equilibrio di sintonia con altre persone che ti vivono vicino, siano essi famigliari o amici fratemi come, nel caso specifico, il fr. A. B. con la sua Luna.

Il silenzio è una regola ma non è un silenzio monastico perché quando si parla di silenzio in India (solo in India?) bisogna dare a questo termine un valore estremamente relativo.

Dice Sai Baba: “il silenzio non si riferisce puramente al tenere la lingua a freno. Non soltanto dovreste esercitare il silenzio nel parlare ma dovreste essere silenziosi nei pensieri. La vostra mente deve rimanere libera di tutti i pensieri. Questo è il vero silenzio.”

Per coerenza, nella mensa vi sono due file di tavoli dove vige il silenzio. Con un gioco di parole sulla pronuncia del termine inglese “silent” (stai zitto) sui cartellini che invitano al silenzio sta scritto “Sai-lent”, con un diretto riferimento al Sai di Baba.

Analogamente alle nostre comunità religiose, all’apertura della mensa viene richiesta al divino una benedizione con una invocazione in comune,

Poi, prima dell’inizio del pasto, molte persone, secondo una tradizione ormai persa nelle nostre case ma ancora viva, qualche volta, nella cultura contadina, hanno l’abitudine della preghiera di ringraziamento, nella propria lingua e nel proprio credo, per il cibo che stanno per assumere e che ne viene così santificato.

Appena fuori del perimetro dell’ Ashram, sul fianco della collinetta adiacente, si trova l’albero della meditazione dove si è certi di trovare, nel silenzio dei presenti, quella nuvola di pace che sovente si è cercata e che non sempre si è trovata.

In Prashanti tutto parla indiano. Non tanto la lingua (una delle lingue), quanto le cerimonie e i rituali che sono profondamente e logicamente segnati dall ‘induismo.

Non ci troviamo comunque di fronte ad una nuova religione ma ad un messaggio che Sri Sathya Sai Baba sta trasferendo con forza centrifuga attorno a sé.

Tutte le religioni sono valide al raggiungimento del divino ma al di sopra di tutte, e che le copre come farebbe una chioccia sopra le uova da schiudere, sta una sola religione, quella dell’amore.

E questa la chiave di lettura con la quale, quanto ho vissuto nell’Ashram, è opportuno sia recepito.

“Retti pensieri, rette parole, rette azioni”, Queste parole, che non sono appannaggio soltanto di Sai Baba perché la strada della verità è comune a tutte le correnti spirituali, qui le vivi perché te le senti addosso.

Il fardello del mio io mi rende fecondo, malgrado i miei sforzi contrari, di qualche retto pensiero, mi rende dovizioso di parole che sembrano rette ma mi rende particolarmente parco delle rette azioni, quelle che sono dettate dal cuore e non dalla mente.

Quando le azioni che compio non sono rette mi posso già reputare fortunato se me ne accorgo e se, quando me ne accorgo, ho la capacità di vergognarmene nel mio profondo.

Non parlo di eclatanti ma ti tante piccole meschinità giornaliere, orgoglio del mio io, che qui, nel silenzio, risuonano come un gong che mi assorda le orecchie.

Guardo allora quella strada che attraversa il posto delle fragole e sul cui bordo c’è un cartello a freccia con sopra scritto “maestro” e che indica la montagna dello specchio, Fratelli, quanto è ancora lunga questa mia strada!

La luce che questa strada è la strada dell ‘amore. Amore verso tutte le cose, amore verso tutti coloro che mi sono attorno, amore verso me stesso.

Perché amore? La ragione può essere molto semplice ed era stata espressa molti anni fa, a mia moglie ed a me, dal fr. M. Bianco. Questa ragione, che ci aveva sconvolti perché scuoteva dalle fondamenta una tradizione culturale in cui eravamo nati e vissuti, è soltanto una: la vera unione con Dio. Disse M. Bianco: “io sono Dio”

Oggi a tanti anni di distanza ho capito il messaggio, che era ed è il messaggio di Sri Satya Sai Baba: “Io sono Dio e anche voi siete Dio, solo che voi non ne avete consapevolezza”.

E, senza dubbio, una visione panteistica dove tutto è Dio e che ci porta ad una presa di coscienza molto pregnante, Dio è in tutto.

In tutte le cose che la natura ci dona e che quindi non devono essere sprecate. In tutti gli esseri vegetali o animali che devono essere rispettati. In tutti gli uomini che, creati da Lui a Sua immagine e somiglianza, devono essere visti in quest’ottica di uguaglianza come veri fratelli.

Mi diviene chiaro il “conosci te stesso” e il “ama il prossimo tuo come te stesso”. Si sta parlando del sé e non dell ‘io, e cosa non è altro il sé se non Dio?

La conseguenza per me è molto semplice, amare Dio significa amare tutti e tutto e servire tutto e tutti. L’amore diventa cosi il pemo su cui ruota il rapporto con l’umanità.

Però attenzione: per amore non si deve amare! Non è un controsenso, significa semplicemente amare senza possesso.

Parlando della potenza dell’io e del suo soddisfacimento, dissi un giomo, come paradosso, che, al limite, il fare una buona azione da parte di chi attitudinalmente è portato a questo tipo di comportamento, e facevo l’esempio di Madre Teresa di Calcutta, avrebbe potuto esaurirsi in un certo senso in un mero asservimento all’egoità.

A far pendere l’ago della bilancia dalla parte opposta, e cioè quella dell’altruismo, basta solo aggiungere dell ‘amore sul piatto. E questo che ha reso grande la piccola suora albanese.

Avevo cercato per anni una risposta a tre quesiti su un solo tema: che cosa significasse amare, se io amassi il prossimo e cosa dovessi fare per amare gli altri.

L’ho trovata ed è banalissima: amare il prossimo significa solo mettere i bisogni degli altri prima dei miei.

Non sarà molto, ma per me è valso il viaggio.

Tutti noi in quanto corpo, mente ed anima, siamo un sogno: reale è solo il nostro esistere, la conoscenza, la beatitudine.

In noi si realizza e si esprime la vita dell’universo intero e noi ne siamo il Dio. E il cuore che mostra il fine.

E meglio tacere ed essere piuttosto che parlare e non essere. È bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il maestro che ha detto e fatto, e ciò che ha fatto tacendo è degno del Padre.

Chi possiede veramente la parola del Signore può far udire anche il suo silenzio, può comprendere le cose di cui parla, può essere conosciuto per le cose che tace.

Ignazio di Antiochia (II secolo) Se voi amate solo chi vi ama, perché mai dovreste ricevere delle benedizioni?. Anche i peccatori amano coloro che li amano.

Dio è amore e chiunque vive nell’amore vive in unione con Dio •e Dio vive in unione con lui.

Se qualcuno dice di amare Dio ma odia suo fratello è un falso. Perché non si può amare Dio, che lui non hai mai visto, se non ama suo fratello che lui ha visto.

Baba

Oh! Signore, fa di me uno strumento della Tua Pace.

Dove è odio, fa che io porti l’ amore

Dove è offesa, che io porti il perdono

Dove è discordia, che io porti l’unione

Dove è dubbio, che io porti la fede

Dove è errore, che io porti la verità

Dove è disperazione, che io porti la speranza Dove sono le tenebre, che io porti la luce. Oh! Maestro, fa che io non cerchi tanto ad essere consolato, quanto a consolare ad essere compreso, quanto a comprendere ad essere amato, quanto ad amare.

S. Francesco d’Assisi

Il segreto della grandezza sta nell’aver fiducia in sé stessi ed in Dio. Come prima cosa bisogna aver fiducia in sé stessi. Come può aver fiducia in Dio uno che non l’ha in sé stesso?

La vita umana è molto sacra: con la fede in Dio diventerà un viaggio di conquista, una vittoria dopo I ‘altra.

Baba

Dimenticavo! …. Ancora un invito di Baba: non siate i miei messaggeri, siate i miei messaggi!

Chiudo queste mie considerazioni con due parole, che risuonano sempre nell’Ashram, Shanti e Prema, Pace ed Amore, e che trovano riscontro in altrettante due parole francescane: Pace e Bene a tutti!.

20 novembre 1997 dell’e:. v:. (1 0 Grado)

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STRUTTURAZIONE DEL LAVORO DI LOGGIA

Strutturazione del Lavoro di Loggia

Orientamento secondo le indicazioni implicite nella tavola precedente

(n. d.r.: tavola della tornata precedente)

Ammesso che quanto è contenuto nella Tavola citata in epigrafe forma la base universale del lavoro iniziatico, è implicito che tutto il lavoro si debba esplicare come attuazione della Ricerca Spirituale.

Ciò non porta all’esclusione di attività apparentemente estranee, ma complementari al lavoro fondamentale. Se il corpo fisico è lo strumento più grossolano, ma indispensabile per la ricerca spirituale, occorre provvedere alle sue necessità proprio in funzione di quella ricerca. L’errore incomincia quando si antepongono le necessità del corpo a tutto il resto o addirittura, come generalmente accade, si dimentica lo scopo del nostro corpo e lo si ritiene fine a se stesso. Se dal corpo fisico passiamo all’ego, complesso formato dal senso del corpo + senso della mente, il discorso rimane lo stesso. Il complesso corpo fisico + corpo emozionale + mente è sempre uno strumento da impiegare nella ricerca di quello che è fondamento e rotore di tutto.

Analogamente le attività collaterali al vero Lavoro di Loggia (elezioni, amministrazione, assistenza, servizio, ecc.) sono da paragonarsi al lavoro di manutenzione degli impianti di una fabbrica, il cui scopo ultimo è la produzione. Come codesta manutenzione si svolge in ore diverse da quelle di produzione, sarebbe augurabile che nella Loggia si svolgesse in riunione extra-tomata, o per il massimo possibile dai Dignitari e Ufficiali di Loggia, senza incidere sul già scarso tempo disponibile per il vero lavoro produttivo.

Tomando al programma che può essere enucleato dalla Tavola citata, si potrebbe suggerire:

 che in tesi generale, alto scopo di non dare a tutta l’attività di Loggia un carattere scolare, non si articoli essa in serie di lezioni, ma bensì che le varie contribuzioni dei Fratelli siano orientate tutte nel senso generale indicato dalla Tavola vitata; nel quadro di una libertà orientata nella scelta;  che il lavoro in Primo Grado sia essenzialmente quello di sensibilizzare tutti i Fratelli Apprendisti verso la necessità unica e fondamentale della vita umana della Realizzazione di quel Fine supremo e veramente remunerativo;  che il lavoro in Secondo Grado approfondisca quello dell’Apprendista e lo provveda della cognizione dei metodi tradizionali per il conseguimento della Verità e della Realizzazione della nostra vera Realtà.

 che il lavoro nella Camera di Mezzo sia la messa in atto delle scelte personale e collettiva del metodo più congeniale ed efficace per il Raggiungimento; e sia anche la Guida del Lavoro da svolgere e svolgentesi ai due livelli inferiori.

M. Bnc,

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PENSIERI DEL M.’. V.’.

Pensieri del M V

Fratelli carissimi,

Come dicevo in occasione della prima tomata del 20 semestre di quest’anno, dopo il momento di profanità estiva i lavori sono ripresi.

Mi sembra giusto, dopo questa pausa, rinnovare il mio tentativo di un riavvicinamento alla consapevolezza e ricominciare a guardarmi nel profondo.

Si è sovente parlato di specchio. Questo è uno di quei momenti in cui ritengo giusto e doveroso pormi, per una analisi critica, di fronte a questo per fare’il punto.

“Ama il prossimo tuo come te stesso” sono molto sovente sentito ripetere. L’unità nella differenza, l’unità nella dualità.

Chi sono io e perché mi devo amare?

Chi è il mio prossimo e perché io devo amare?

Qualche corrente religiosa mi dice: tu sei Dio ma te ne manca la consapevolezza.

Tante altre mi dicono: sei figlio di Dio.

Se cosi è, anche il mio prossimo è figlio di Dio: di conseguenza io sono suo fratello, unito a lui nella divinità.

Il mio corpo e quello del mio fratello sono i contenitori del divino. Il corpo è il tempio di Dio raccontano gli antichi testi, e come tale Io devo rispettare ed usare nel modo giusto e perfetto.

Nel corpo è racchiusa anche una parte non materiale che è altrettanto se non di più, sensibile ai colpi che possono essere inferti.

Posso infliggere al mio fratello delle ferite di carattere materiale che fisicamente, possono o meno lasciare un segno, ma che, quando entrano dentro, possono anche lasciare delle tracce che marcano e marchiano nel profondo.

Riemerge la dualità: io, la mia azione, il mio fratello, la sua reazione.

Suggerisce un saggio: è proibito offendere e offendersi perché, in tutti e due i casi. ad esseme coinvolto è solo e sempre l’ego e non il sé.

E proibito offendere.

Devo ricordarmi di parlare:  solo se ho qualcosa da dire,  se non faccio male a chi mi ascolta,  se ciò che devo dire è utile.

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Allora ho l’obbligo di dirlo, ma con dolcezza.

Devo ricordarmi che:

 raramente è importante quello che dico.

 Importante è I ‘intenzione.

 Importante è il come lo dico.

 Importante è prevedere come il mio prossimo recepirà il mio modo di esprimermi. Mi permetterà di modulare la modalità del mio linguaggio sulla lunghezza d ‘onda degli altri.

E proibito offendermi.

Quando il mio prossimo esprime una sua opinione, specie se non gradevole, su di me o sul mio comportamento dovrei ringraziarlo perché questo mi dovrebbe permettere di fare una verifica e una eventuale autocritica.

Devo ricordarmi che io sono una trinità illusoria.

Ciò che credo di essere.

Ciò che gli altri credono che io sia. Ciò che sono realmente.

L’ascoltare ciò che gli altri pensano di me deve permettermi di verificare con serenità ciò che credo di essere.

Ma ambedue sono illusioni dell ‘ego Devo dimenticarle entrambe per cercare di avvicinarmi al mio sé, quello che sono realmente, e ciò mi permetterà comportarmi di conseguenza.

Sono sempre più convinto che l’amore verso il prossimo consista nel anteporre i suoi bisogni ai miei. Ci riesco poche volte; quando non ci riesco, come troppo frequentemente accade, ho almeno la magra consolazione di incominciare ad accorgermene per cercare di farne tesoro.

“Ama il prossimo tuo”. L’amore verso il Prossimo si traduce in fase pratica come un servizio. Tutto ciò che io faccio per il prossimo deve essere visto in questa ottica.

Se riesco a rendere operativo questa voglia di fare, anche il mio più piccolo gesto verso il fratello può diventare un servizio. E un tendere la mano con il palmo allargato anziché chiuso a pugno.

Il gesto della mano si trasformerà sempre in una carezza anche quando sarà costretta a dare uno schiaffo.

Con un fraterno triplice abbraccio, pace e bene a tutti.

Il vostro Maestro Venerabile

7 ottobre 1999 dell’e:. v:. (1 0 grado)

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CONCLUSIONE DEL FR.’. ORATORE

Conclusioni del Fr.•.Oratore

per la tornata dell’8 novembre 1997 dell ‘e:. v:.

in occasione della visita della R:. L:. Hermannus van Tongeren NO 204

Fratelli carissimi di ogni ordine e grado,

E compito dell’Oratore trarre le conclusioni della tomata. Più che trarre conclusioni vorrei fare alcune considerazioni che nascono dal contesto geografico nel quale si è svolta la tomata.

Grazie per essere giunti, provenendo da orienti diversi della comunità europea, qui all ‘Oriente di Torino nella Valle del Po.

Grazie per essere riusciti a conciliare i vostri molteplici impegni, qualche volta profani e non sempre coincidenti, in modo da far risaltare la potenza, la bellezza e la saggezza della fraternità massonica.

Ogni spostamento, anche se piccolo, è comunque un viaggio. La nostra vita è un viaggio. Viaggiare significa cercare. Si cerca qualcosa di profano, si cerca qualcosa di spirituale e sovente viaggiamo per trovare noi stessi, dimenticando spesso che cerchiamo altrove quello che possiamo trovare soltanto in noi stessi.

Viaggiamo per conoscere gli altri, per cercare il dialogo. Dialogo molte volte inteso in modo inconscio come desiderio di convincere il prossimo che la nostra idea è quella corretta.

Quando viaggiamo abbiamo con noi valigie piene di cose nostre. Dovremmo prendere sempre l’abitudine di aggiungere al nostro bagaglio una borsa di dimensioni indefinite e di materiale inesistente da riempire, al nostro rientro, di ciò che ci fa veramente ricchi e cioè della ricchezza spirituale del nostro prossimo che sarà stato certamente felice di esseme stato “derubato”.

E una forma di amore. Iniziamo le nostre giornate, che sono una specie di viaggio, con amore, viviamole con amore, terminiamole con amore.

Con l’augurio che questo bagaglio “che non c’è” ci accompagni sempre nella nostra vita e poiché, malgrado ogni nostro sforzo contrario, tutto è giusto e perfetto ti prego, Venerabile Maestro, di procedere alla chiusura dei lavori in grado di Apprendista.

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