INTERMINATI SPAZI E SOVRUMANI SILENZI

INTERMINATI SPAZI E SOVRUMANI SILENZI


Considerazioni sulla soglia del silenzio

Luigi Pruneti

Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là di quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare1.


Nel guardare l’orizzonte che s’estende a perdita d’occhio, chi non ha provato la stessa sensazione di Leopardi, il medesimo senso di smarrimento di fronte all’illimitato? In quel momento l’immensità ti parla, ti cattura: sei una goccia che si perde nel mare e, diventandone parte, scopri in te l’inimmaginabile vastità che non conosce confini di tempo e di spazio. La tua fragile esistenza diventa, allora,
una bolla di sapone, concreta, reale, ma provvisoria come un battito d’ali, un attimo fuggente che affiora dal magma delle possibilità per precipitare nel baratro del non essere. Sulle pareti effimere della sfera, insorgenza casuale che si sfa mentre si forma, si specchia
l’incommensurabile. Quella pellicola, quel velo di luce riflessa sembra catturare l’universo: lo stormire delle foglie nell’alitare del vento, i monti lontani e il cielo sovrastante e al di là di quel manto azzurro, spazi siderali, grumi di stelle, spirali di galassie, nubi apocalittiche, nove e supernove.
Tutto ciò si muove impercettibilmente e vorticosamente e il moto delle sfere si traduce in un’armonia di suoni e di pause, in un canto di
luce e d’oscurità, in una fuga di note che un organo cosmico sembra generare. La bolla di sapone, generata dalla visione di un cielo stellato di fine maggio è un punto che nella pro- pria inconsistenza compendia il tutto. Inconsistenza simile al silenzio di Alef che non ha
suono perché rappresenta origine, inizio, principio, Ibis e Orione, corona e candelabro, luce ed energia, l’Essere e il suo procedere.
Leggendo l’Infinito di Leopardi mi sovviene la vicenda Carlos Argentino Daneri. Nella sua storia non vi è Recanati né il monte Tabor e il
dolce paesaggio marchigiano, ma la magmatica, infernale Buenos Aires degli anni Trenta, una labirintica babele stesa sulle sponde fangose del Rio de la Plata. Ed è fra le squallide vie di quella capitale senza volto, impastate di nostalgia e di miseria, di speranza e di dolore che in una cantina umida e buia si ripete l’incontro con l’ineffabile in un’atmosfera di mistico e terribile incanto: Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Alef
[…] il diametro dell’Alef sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni
cosa erano infinite cose […], perché io la vedevo distintamente da ogni punto dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi
le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro di una nera piramide, vidi un labirinto spezzato […], vidi infiniti occhi che si
fissavano in me come in uno specchio […] vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione
della morte, vidi l’Alef da tutti i punti, vidi nell’Alef la terra e nella terra di nuovo l’Alef e nell’Alef la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo. La bolla di sapone segue il proprio destino, un attimo … solo un attimo e l’iridescente specchio evapora nel vuoto. Forse è per questo che ognuno di noi quando guarda e rimira “interminati spazi e infiniti silenzi” si spaura comparando se stesso e la propria vicenda a ciò che lo circonda. In un istante l’infinito rivela la sua essenza assoluta e inarrivabile di vuoto e di silenzio. Non spazio, non suono, non tempo, non divenire, ma silente, adimensionale, imperscrutabile nulla. Scrive Pascal:
“Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraye”. Ciò che noi chiamiamo o definiamo, per approssimazione linguistica, vuoto o niente è un quid inconcepibile, è l’insondabile sovraumano, è il divino, al quale s’addice il silenzio, poiché nessun suono, alcuna parola o immagine riesce ad accennarlo. Era così per Valentino, l’eretico gnostico del II secolo d.C. che già nel 145 il Pontefice Pio
I scomunicò per la pericolosità delle dottrine4, riprese dal Vangelo apocrifo di Filippo. Si legge in siffatto testo che solo gli illuminati prendono coscienza della verità, gli altri, gli ilici, permangono nell’ignoranza della materia: Un cieco e un uomo che vede, quando sono tutti e due nelle tenebre, non sono differenti l’uno dall’altro. Ma quando viene le luce, allora quello che vede vedrà la luce e quello che è cieco rimarrà nelle tenebre. Secondo la cosmo genesi valentiniana, in origine vi era solo Dio che egli chiama Βυθός (Bytòs), “Abisso”. Egli era superiore a ogni qualità e a ogni immaginazione umana; era senza vista, senza sensibilità, senza passione, senza desideri, senza immaginazione, senza intelligenza, senza pensiero: non conosceva numero, forma, ordine, grandezza, eguaglianza e disuguaglianza: non viveva e non era senza vita, non si muoveva né era immobile, non agiva né creava; e risedeva fuori dal tempo e dallo spazio […] non era il Tutto, perché il Tutto rientra nella categoria della grandezza; non era l’Uno o il Bene o il Padre o il Signore – vani nomi che rivelano soltanto l’impotenza delle intelligenze e delle lingue umane- Abisso era l’immenso Nulla6. “Abisso” comunque non era solo; insieme a lui vi era un’entità femminile: “Silenzio”. Per Valentino, in questa ontologia dell’assenza non sussisteva una contraddizione in termini giacché “Silenzio” e “Abisso” erano la stessa cosa, l’una rappresentava la negazione del suono, l’altro dello spazio, e naturalmente l’attribuzione di un sesso era metafora giacché “Abisso-Silenzio” comprendeva la per- fetta unità dell’Androgeno. Infine, la purezza del Non Essere fu violata: “Abisso” fece cadere un seme in “Silenzio” equesti generò Intelletto, il Nous, il suono, il verbo, il Logos. Se per la gnosi di Valentino l’Ente s’identifica con l’inimmaginabile vuoto, per quella di Izchak Luria, al contrario, è l’inconcepibile tutto. Luria, celebre cabalista del XVI secolo, evoca, infatti, una visione ante originem opposta alla genesi valentiniana. All’inizio Dio era infinito e dunque la creazione era impossibile, dato che non vi era un vuoto, un piano dimensionale ove l’Unico potesse, per emanazione, agire. Dio era il tutto e il tutto era in lui, pertanto niente poteva esistere fuori da Dio. La creazione avviene quando l’Uno, per un atto di bontà infinita, si ritira in se stesso, nella sua assoluta profondità; è questo il zim-zùm, il “ripiegamento di Dio”, la contrazione dell’En Sof, del Senza Fine. In questa estensione abbandonata dall’Altissimo si attua la Creazione, è qui che Egli si manifesta e, in virtù della forza dell’amore, emana l’Adàm qadmòn, l’uomo primordiale, dal quale derivano le dieci Sefirot. Esse erano racchiuse in vasi (kelìm) affinché la Luce non si disperdesse. Mentre, però, gli involucri delle prime tre Sefirot ressero, gli altri non furono capaci disuguaglianza: non viveva e non era senza vita, non si muoveva né era immobile, non agiva né creava; e risedeva fuori dal tempo e dallo spazio […] non era il Tutto, perché il Tutto rientra nella categoria della grandezza; non era l’Uno o il Bene o il Padre o il Signore – vani nomi che rivelano soltanto l’impotenza delle intelligenze e delle lingue umane- Abisso era l’immenso Nulla. “Abisso” comunque non era solo; insieme a lui vi era un’entità femminile: “Silenzio”. Per
Valentino, in questa ontologia dell’assenza non sussisteva una contraddizione in termini giacché “Silenzio” e “Abisso” erano la stessa
cosa, l’una rappresentava la negazione del suono, l’altro dello spazio, e naturalmente l’attribuzione di un sesso era metafora giacché “Abisso Silenzio” comprendeva la perfetta unità dell’Androgeno. Infine, la purezza del Non Essere fu violata: “Abisso” fece cadere un seme in “Silenzio” e questi generò Intelletto, il Nous, il suono, il verbo, il Logos.
Se per la gnosi di Valentino l’Ente s’identifica con l’inimmaginabile vuoto, per quella di Izchak Luria, al contrario, è l’inconcepibile tutto. Luria, celebre cabalista del XVI secolo, evoca, infatti, una visione ante originem opposta alla genesi valentiniana. All’inizio Dio era infinito
e dunque la creazione era impossibile, dato che non vi era un vuoto, un piano dimensionale ove l’Unico potesse, per emanazione, agire.
Dio era il tutto e il tutto era in lui, pertanto niente poteva esistere fuori da Dio. La creazione avviene quando l’Uno, per un atto di bontà infinita, si ritira in se stesso, nella sua assoluta profondità; è questo il zim-zùm, il “ripiegamento di Dio”, la contrazione dell’En Sof, del Senza Fine. In questa estensione abbandonata dall’Altissimo si attua la Creazione, è qui che Egli si manifesta e, in virtù della forza dell’amore, emana l’Adàm qadmòn, l’uomo primordiale, dal quale derivano le dieci Sefirot. Esse erano racchiuse invasi (kelìm) affinché la Luce non si disperdesse.  Mentre, però, gli involucri delle prime tre Sefirot ressero, gli altri non furono capaci di sostenere la pressione della luce e si ruppero, anche quello della decima Sefiràh, Mal- khut, “s’incrinò” senza, comunque, cedere. Venne così introdotta da Luria la dottrina della “rottura dei vasi (sheviràt ha-kelìm) o della “morte dei re”. Parte della luce che era contenuta nei recipienti ritornò alla fonte, ma il resto precipitò insieme agli stessi vasi e dai loro frammenti presero sostanza le kelippot [conchiglie, gusci], le forme tenebrose della sitra ahra [l’altra
parte].
L’armonia fra il mondo superiore e quello inferiore venne, perciò, meno, la luce si me- scolò con le tenebre, il bene con il male e la
Shechinàh fu costretta all’esilio. La Creazione è dunque un processo che vede il raggrumarsi dell’Essere in se stesso e nello spazio abbandonato egli aliena scintille della sua luce che si mischiano all’ombra, come il bene si confonde con il male e il dolore alla gioia, sulla desolata scacchiera di tessere bianche e nere dell’immanente.
Le kelippot rappresentano le scorie che spengono il numinoso, il greve materico, inerte,  scuro, affannato da un eterno, ciclico divenire. Forse quest’ombra faceva parte dell’En Sof, perché nel “Senza Fine” vi erano tutte le ipotesi, compresa quella del male, o forse perché l’Abisso è insito nella stessa natura del vuoto: dove non vi è Dio vi è il male perché
il male altro non è che assenza del bene, come il buio è mancanza di luce e il deserto insorge quando scompare la pioggia.
Valentino e Luria hanno una visione ontologica opposta, per l’uno il vuoto per l’altro il pieno; il silenzio e il suono si contrappongono nelle loro rispettive ipotesi. Vi è, però, un diverso mito delle origini che mi affascina particolarmente. Esso non è stato immaginato da
un eretico o da un profeta o ancora da un filosofo, bensì da un narratore, da un geniale creatore di un universo fantastico: Tolkien.
Nella prima parte del Silmarillion Ainulidale la musica degli Ainur, Eru, l’Unico, da atto alla creazione: Esisteva Eru, l’Uno, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, i Santi, i rampolli del suo pensiero, ed essi furono con lui prima che ogni altro fosse creato. Ed egli parlò loro, proponendo temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto […] E accadde che Ilùvatar convocò tutti
gli Ainur ed espose loro un possente tema, svelando cose più grandi e più magnifiche di quante ne avesse fino a quel momento rivelate;
e la gloria dell’inizio e lo splendore della conclusione lasciarono stupiti gli Ainur, si che s’inchinarono davanti a Ilùvatar e stettero in
silenzio.
Allora Ilùvatar disse: “Del tema che vi ho  esposto, io voglio che adesso facciate, in congiunta armonia, una Grande Musica. E poiché
vi ho accesi della Fiamma Imperitura, voi esibirete i vostri poteri nell’adornare il tema stesso, ciascuno con i propri pensieri ed artifici, dove lo desideri. Io invece siederò in ascolto, contento del fatto che tramite vostro una grande bellezza sia ridesta in canto” […]
Ora però Ilùvatar sedeva ad ascoltare, e a lungo gli parve che andasse bene, perché nella musica non erano pecche. Ma, col progredire
del tema, nel cuore di Melkor sorse l’idea d’inserire trovate frutto della propria immaginazione, che non erano in accordo con il tema di
Ilùvatar, ed egli con ciò intendeva accrescere la potenza e la gloria della parte assegnata. La creazione avviene per accordi armonici
che s’innestano su un tema generale. Eru lo detta ma poi non vi partecipa; ascolta, egli è il silenzio, complementare al suono. È il tessuto, il pentagramma, in chiave di basso o di violino, sul quale viene scritta la nota, è la trama da ricamare con sottili fili di seta e
d’oro. Il canto è una sorta di emanazione che dal coro angelico irrompe negli spazi infiniti, si diffonde, si estende, vibra e così facendo
genera emozione e sentimento, forza e bellezza, ragione e impeto. L’essenza, quindi, si precisa nella forma, fino ad articolarsi nel-
l’infinita molteplicità del creato. Vi è solo una voce dissonante, quella di Melkor, perché anche in tal caso, avrebbe commentato Izchak Luria, fra la luce delle Sefirot s’insinua l’ombra dovuta al ritrarsi dell’En Sof, del Senza Fine. Vuoto e Pieno, Silenzio e Suono, oppure Silenzio che ascolta il Suono, a queste considerazioni conducono gli “interminati spazi” e la “profondissima quiete”. Vi è una soglia fra i due estremi, non è un varco, un confine ma un rapporto di continuità, è un orizzonte che apre ad un “oltre”, come la siepe che consente di apprezzare la
visione dell’infinito. Silenzio e suono, sogno e coscienza, ascesa e caduta non sono ossimori, né contraddittori ma complementari.
Perciò il silenzio di cui varchiamo la soglia apre all’assoluto, è l’athanor che contiene tutte le possibilità, che sublima ogni ipotesi, in un’infinità di voci, di suoni, di melodie e in queste ultime si compendiano le percezioni, i pensieri, i sogni in quanto la musica è un codice metaforico con innumerevoli potenzialità essendole consentito di articolarsi “in forme che sono negate al linguaggio verbale”. La musica è emozione e simbolo, dove il simbolo è principio d’ordine in atto, è legge cosmologica e cosmotetica che ordina gli opposti e ciò che noi viviamo come contrapposti. Il suono generato dal silenzio accorda l’interno di quella bolla di sapone con l’infinità dello spazio di cui siamo parte, in-
frange la fragile barriera che riflette e separa, elimina il velo di effimera contingenza e per- mette l’abbraccio con l’assoluto, con l’anima
mundi. Il microcosmo si apre sul macrocosmo, ove sogno e realtà, possibilità e vissuto, si fondono in un eterno presente, dove l’interiorità di ciascuno di noi si sublima nell’anteriorità di milioni di storie, di eventi, di volti di sensazioni ed emozioni. È la melodia delle sfere nella quale si coglie il fluire o il “sapere del tempo”, come si legge nel De Musica di Agostino. Che cosa è la soglia del silenzio? Forse è una
sorta di arpa celeste e quando noi solleviamo in alto gli occhi sullo spartito delle stelle, vi- brano le corde della notte e il suono diventa
sogno e armonia

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