Aiace ed Antigone: oggi come ieri ?
Sempre obliasti, Ajace Telamonio, ogni prudenza in guerra, ogni preghiera. Mai non pensasti ad invocar l’aiuto d’una benigna Dea che ingigantir potesse le tue forze o sottrarti sollecita al nemico. Non avevi una madre da impietosir l’Olimpo al tuo destino, discretissimo eroe ….
“Ajace”, di Vincenzo Cardarelli
“Sì, io, Antigone, la mendicante
del re cieco, mi scopro ribelle
alla mia patria, definitivamente.
Ribelle a Tebe, alla sua legge virile,
alle sue guerre imbecilli
ed al suo culto orgoglioso della morte”.
“Antigone”, di Henry Bauschau
( M. L.)
AIACE TELAMONIO
Tutti gli eroi greci partecipanti alla guerra di Troia suscitano ammirazione per la prestanza fisica, la forza, il coraggio e per il valore. Tra tutti, però, spicca Aiace Telamonio (cioè figlio di Telamone, re di Salamina) soprattutto perché, alle doti degli altri condottieri achei, abbina un modo di agire ed un carattere che lo fanno sentire più vicino alla gente comune.
Come tutti i giovani principi della sua generazione, Aiace fu tra i pretendenti della bella Elena e pertanto, quando ella fu rapita da Paride, onorò il giuramento fatto da tutti i greci ed accorse al richiamo di Menelao, partecipando alla guerra di Troia al comando di una flotta di 12 navi. In questa guerra Aiace combatté eroicamente ed unanimemente fu considerato secondo solo ad Achille. Il figlio di Telamone, però, appare davvero diverso da tutti gli altri eroi greci: umile, sobrio, poco appariscente, ma sempre pronto al combattimento, sempre presente nei posti dove la battaglia era più impegnativa. Leggendo levicende narrate da Omero, si nota la “solitudine” di questo eroe, lamancanza di qualcuno sull’Olimpo che interceda per lui: il pelide Achille, ad esempio, aveva la mamma, sempre pronta ad intervenire presso il re degli dei; Enea era protetto dalla madre Venere; Ulisse era nelle grazie di Minerva, solo lui non aveva “santi” cui rivolgersi. Quando Achille, sdegnato per l’offesa ricevuta da Agamennone, si era ritirato dalla contesa, Aiace fu sorteggiato per affrontare il troiano Ettore; il leggendario duello durò tutta una giornata e si concluse senza vincitori né vinti.
Ecco come ci viene raccontata la sfida:
Si vestì di bronzo accecante. E quando fu pronto andò verso Ettore, a grandi passi, terribile, agitando la lancia in alto, sulla testa, con un ghigno feroce sul volto. A vederlo, i Troiani tremarono, tutti, e io so che anche Ettore sentì il cuore impazzire, nel petto. Ma non poteva più fuggire ormai, aveva lanciato la sfida, e non poteva più tirarsi indietro. “Ettore”, si mise a gridare Aiace, “E’ ora che tu scopra che eroi ci sono tra gli Achei, oltre ad Achille lo sterminatore. Sta nella sua tenda, adesso, il cuor di leone: ma come vedi anche noi siamo capaci di combattere con te.”
“Smettila di parlare”, gli rispose Ettore, “E combatti. “
Sollevò la lancia e la scagliò. La punta di bronzo centrò l’enorme scudo di Aiace, squarciò la placca di bronzo, e poi uno dopo I’alto sette strati di cuoio, e nell’ultimo andò a fermarsi, proprio nell’ultimo, prima di uscire e ferire. Allora fu Aiace a tirare. La Lancia squarciò lo scudo, Ettore si piegò su un fianco e questo lo salvò, la punta di bronzo lo sfiorò soltanto, arrivò a lacerargli la tunica, ma non lo ferì. Entrambi allora strapparono dagli scudi le lance e si avventarono uno sull’altro, come leoni feroci. Aiace si proteggeva sotto il suo enorme scudo, Ettore colpiva ma non riusciva a raggiungerlo. Quando si stancò, Aiace uscì allo scoperto e lo colpì con la punta della lancia, di striscio, al collo: vedemmo sgorgare il sangue nero dalla ferita. Un altro si sarebbe fermato. Ma non Ettore: si piegò a prendere una pietra per terra, enorme, ruvida, nera, e poi la scagliò contro Aiace: si sentì lo scudo risuonare – il bronzo, riecheggiare – ma Aiace resse il colpo, e a sua volta sollevò una pietra, ancora più grande, la fece roteare in aria e poi la scagliò con una violenza terribile: lo scudo di Ettore volò in aria, Ettore cadde all’indietro, ma ancora si rialzò, subito, e allora presero le spade, e si avventarono uno contro l’altro, gridando… ma il sole tramontò.
Così, due araldi, uno acheo e uno troiano, si fecero avanti per dividere i due, perché, pur nella battaglia, è bene obbedire alla notte. Aiace non voleva fermarsi. “E’ Ettore che deve decidere, è lui che ha lanciato la sfida.” Ed Ettore decise. “Interrompiamo per oggi la battaglia”, disse. “Sei forte, Aiace, e la tua lancia è la più forte tra tutte quelle degli Achei. Farai felici i tuoi amici e compagni, tornando, vivo, alla tua tenda, stasera. E io renderò lieti gli uomini e le donne troiani, che mi vedranno tornare, vivo, nella grande città di Priamo. E adesso scambiamoci doni preziosi, perché tutti possano dire: Si sono battuti in duello crudele, ma si sono separati in armonia e in pace”. Così disse. E diede in dono ad Aiace una spada dalle borchie d’argento, con fodero e cinghia perfetti. E Aiace, a lui, donò una cintura splendente di porpora. (ambedue questi doni li ritroveremo più tardi, nell’Iliade con funzioni ben diverse da uno scambio di doni).
Questo, dunque, era Aiace, così come ce le descrivono i poeti immortali Omero prima e Sofocle più tardi. Ma adesso proviamo ad entrare nell’animo stesso di Aiace ed a vivere la sua tragedia, cercando poi di interpretare quanto ci vuol dire Sofocle.
Andrés in greco significa “uomini” e andréia significa “valore”. Sembrano quasi una stessa parola, ma in realtà la prima, cioè «valore», come interpretazione è incompleta ed è più corretto dare all’andréia un insieme di diversi significati: è coraggio, forza, è l’animo, la fedeltà a un’idea, a se stesso, la nobiltà di pensiero, l’orgoglio delle proprie azioni. E’, in definitiva, la «coerenza». La storia di Aiace Telamonio ci dice tutto questo.
Alla morte di Achille, immenso nell’ira e nel coraggio, Aiace si aspettava che le sue armi gli fossero date in premio, perché ne era il più degno, perché non aveva tremato di fronte a nessun nemico, era il più simile, il più vicino ad Achille, e perché, insomma, solo lui se le meritava, sarebbe stato giusto così. Ma così non fu: Ulisse, con i suoi raggiri e le sue menzogne, incantò e convinse gli achei, e le armi furono sue. Sia stata Athena, siano stati lo sconforto e la rabbia, Aiace non sopportò quella plateale ingiustizia e uscì dalla tenda nottetempo per sterminare i capi degli achei. Ma nel suo vaneggiare, nella nebbia in cui vagolava la sua mente, scambiò montoni e pecore per guerrieri e fece una strage di animali. Quando si risvegliò e se ne accorse, non resistette alla vergogna e, malgrado le suppliche e i pianti della sua donna, si uccise.
Detta così sembra la tragedia di un uomo ridicolo: a pensarci ci sono cose ben più gravi al mondo. Lo sarà stato per gli altri, non per lui. In verità, questa è solo la storia e ridotta all’osso pare un fumetto, ma bisogna leggere la tragedia dal principio alla fine per capire veramente la totalità di una risposta profondamente umana. Non erano le armi in sé a contare, esse vanno prese come un simbolo, un riconoscimento all’andréia, e insomma, il senso è questo: “come dovrebbe essere e comportarsi un vero uomo”. Il tormento di Aiace è quello di essere in un mondo che baratta il coraggio con la furbizia, con l’interesse, col dominio della razionalità. Lui è l’uomo dell’istinto, del cuore che risponde per primo, e rappresenta un mondo che se ne va. E’ Ulisse il nuovo mondo, quello del calcolo, della nuova civiltà.
Una nebbia improvvisa, una notte impenetrabile,
sospendono la battaglia dei greci; allora
Aiace, smarrito: «Zeus padre – dice – libera
da questa nebbia i figli degli achei, porta il sereno:
poi sterminaci pure, ma nella luce».
È la luce che gli preme, e quel suicidio non è una resa, è una potente metafora. E’, come ha scritto qualcuno, “l’estrema ratio di chi non ci sta a sottostare alle leggi del reale, una festa di libertà”. Insomma, è come se Aiace avesse detto: “La sapete una cosa? Mi fate schifo, io vi saluto”.
O Morte, mia Morte, fissa me, adesso, fatti vicina; non importa se ti starò accanto in eterno di là, e potrò sempre parlarti.
Sono le sue ultime parole, quelle in cui si specchia: l’eroe è solo. Persino Ulisse ha la pietà di dire:
“Lo vedo. Noi esseri umani che siamo? Spettri, impalpabile ombra”.
Ulisse parla di ombre, Aiace di luce. Infine c’ è una donna, straordinaria come tutte le figure tragiche, una donna che aveva tentato invano di fermarlo: Tecmessa. E’ suo il lamento funebre, suo l’implacabile odio per i vincitori, sua la ninna nanna infantile per il suo uomo riverso nella tenda. Sembra di sentirla:
“E ridano, facciano pure festa su questo mio povero uomo. Vivo, non spasimavano certo per lui. Mancherà, la sua lancia! Gli spiriti ottusi non sanno se hanno un tesoro nel pugno. Strazio per me, per loro allegria. Che senso ha il loro sarcasmo? La sua morte. non li riguarda. Continui pure Odisseo col suo attacco assurdo. Per quella gente non c’è più un Aiace”.
….. E i Greci ti negarono quel premio a cui tanto ambivi: l’armi d’Achille. Un maestro d’inganni te le strappò. Ma in mare costui le perse. E il flutto pietoso, il mutevole flutto, più sagace dell’umano giudizio, più costante della fortuna, sul tuo tumulo alfin le depose. Pace all’anima tua infera, Ajace.
(dalla poesia di Vincenzo Cardarelli: “Ajace”)
ANTIGONE
Nell’uomo combattono perennemente due anime: da un lato egli tende verso la luce della ragione e della morale, dall’altro è attratto dalle tenebre più oscure. Questo dualismo, che ciascuno di noi può sentire dentro di sé in ogni istante della propria vita, è il mistero della condizione umana. A distanza di duemilaquattrocento anni, l’Antigone di Sofocle resta ancora una delle più profonde meditazioni su questo drammatico dualismo umano, così profonda, che molti ritengono l’Antigone uno dei massimi capolavori a cui sia giunto l’ingegno umano. La storia della tragedia è semplice: Eteocle e Polinice, i due fratelli di Antigone, figlia incestuosa di Edipo e Giocasta, una fanciulla che, come dice lei stessa, “ha provato ogni dolore, ogni sventura, ogni disonore”, sono morti combattendo sotto le mura di Tebe, di cui Creonte è re. Eteocle, caduto in favore di Tebe, viene onorato con la sepoltura, mentre Polinice, che ha combattuto contro la città, dovrà essere, secondo l’ordine del re, lasciato insepolto, con le conseguenze che solo con la religiosità di quel tempo possiamo capire. Infatti credenza dei Greci era che gli insepolti avrebbero vagato, tormentandosi, e non avrebbero potuto accedere al regno dei morti sino a quando non fosse stata data loro adeguata sepoltura. Antigone, per ottemperare alla legge degli dei, alla legge del cuore, alla legge della morale, tenta di seppellire Polinice, ma sorpresa dai soldati di Creonte, viene condannata a morire di fame in una grotta. Ma prima che la morte giunga, si impicca. Alla notizia della sua morte, Emone, figlio di Creonte e fidanzato di lei, tenta di uccidere il padre, ma poi rivolge la spada contro se stesso. La tragedia si conclude con un terzo suicidio, quello di Euridice, madre di Emone. Così, dal contrasto tra la legge di Creonte e quella di Antigone, nascono soltanto dolore e distruzione.
Il dramma di Antigone si coglie bene dal colloquio tra il vate Tiresia ed il re Creonte:
“….. (Tiresia): quello che tu hai messo entro spazio di legge non appartiene alla legge, perché solo con la pietà può essere compreso e quindi giudicato. Anche Ade ha le sue leggi, solo questo ha detto Antigone, e le leggi di Ade e degli uomini non devono intrecciarsi, ma guardarsi con rispetto.
… (Creonte): ho paura a mostrarmi debole, Tiresia, davanti a loro, allo sguardo di Emone….
…. (Tiresia): è il debole che ha bisogno di una corazza di sguardi riverenti. È il debole che ha bisogno di impalcature rigide di leggi che, invece di lasciare l’individuo manifestarsi nei suoi caratteri migliori, gli stronchi sin dal nascere l’iniziativa.
L’uomo forte, invece, quello che tu sei, sa avere paura: come non averne davanti a questo insoluto dubbio dell’essere che il corpo di Polinice ci presenterà per sempre? Nella tua paura tutta la tua umanità. La tua umanità al servizio del tuo popolo: il tuo compito di legislatore. Questo coro che si alterna nei giudizi si riconoscerà in te se ti farai venire dubbi, giacché essi solo nello spazio della parola danno sentenze, ma in quello del cuore, dubitano anche loro. Dubitare è dei forti. L’uomo forte sa correggere i suoi passi: tuo figlio te lo chiede, io te lo chiedo, se il popolo non avesse timore di non essere ascoltato, se il coro non si sentisse ininfluente sulle tue scelte, anche il coro te lo chiederebbe”.
Certamente Sofocle volle cantare il contrasto tra le due anime dell’uomo, e per questo affida ad una donna, che nel mondo antico era considerata un essere inferiore, la difesa dei valori supremi, proprio per mostrare che questi valori valgono di per sé e per tutto il genere umano nella sua totalità. Così Antigone non muore, ma resta eterna a testimoniare la luce che è nascosta in noi, sconfitta dal destino di violenza che domina la sua famiglia, schiacciata da Creonte che la condanna a morte, per aver violato la sua legge spietata, Antigone pure trionfa con il suo messaggio d’amore, di giustizia, di pietà.
Socrate, processato per reati che non aveva commesso (fu accusato di “corrompere i giovani con le sue idee”) disse ai giudici: “State certi che, se voi condannerete a morte uno come me, il danno maggiore non sarà affatto il mio, bensì il vostro”
Ma, insomma, Antigone, oggi chi è? Veramente Polinice rimarrà insepolto? Antigone si arrenderà impiccandosi, oppure, novella Anita Garibaldi, saprà difendere se stessa ed il giusto, combattendo? Oppure come Malala Yousafzai, la ragazza afgana, premio Nobel per la pace, la quale, ferita gravemente dai Talebani e presa da loro quale simbolo degli infedeli, alla fine vincerà la sua battaglia di umanità per l’affermazione dei diritti civili? Oppure è l’altra ragazza combattente, Rehana, soprannominata l’angelo di Kobane, l’eroina Curda che terrorizza i tagliagole dell’ISIS perché, in quanto donna, ha il coraggio di imbracciare il fucile e di sparare loro addosso. No! Antigone non è morta, sono convinto che lei vive ancora nel cuore e nella testa di tante donne, creature poco conosciute, forse invisibili, ma pronte alla battaglia per i valori più veri.
Purtroppo oggi sono molti i vari Ulisse e li troviamo spalmati un po’ in tutta la società che ci circonda: nella politica, ma anche nella finanza, nelle banche, e perfino nella Chiesa. Forse Ulisse, Agamennone o Creonte non avranno avuto nessuna conseguenza per ciò che fecero, ma la storia è piena di rivolte popolari, addirittura di rivoluzioni, anche cruente ed anche recenti o recentissime contro poteri dispotici. Abbiamo assistito, negli ultimi settanta anni all’ascesa ed alla caduta violenta di tutti i dittatori che si erano insediati un po’ in tutte le parti del mondo: dall’Asia all’Africa, dall’Europa all’America. Ci saranno sempre le menzogne di Agamennone, le ipocrisie di Ulisse, la violenza gratuita degli dèi, la disperazione di Tecmessa, la dolcezza del fratello Teucro e, su tutto, i luoghi comuni di un coro di pappagalli del sentito dire, della fandonia, del dileggio gratuito e della falsa pietà. Ma in questo mondo ci saranno sempre degli Aiace, forse non eroi come lui, magari senza un fisico imponente, ed anche senza essere re o principi. Ci sono e ci saranno sempre coloro che combattono nel quotidiano, magari per un posto di lavoro che non c’è, contro uno stato esoso, contro una burocrazia esasperante, una giustizia ingiusta, contro chi ti maltratta o ti umilia. No! Aiace, il nostro “discretissimo eroe”, non deve morire.
E per quanto riguarda noi, Massoni e Scozzesi, non dobbiamo rassegnarci, ma anzi fare la nostra parte, insegnare ai nostri figli ed ai nipoti anche quell’anelito di libertà, il coraggio, la coerenza, la pietà, il valore, la fedeltà alle idee, l’orgoglio, in una parola l’Andéia, che ci hanno tramandato, in modi diversi, sia Aiace che Antigone che, c’è da scommettere, non sono morti. Essi vivono in chi non si arrende, in chi vuole “ORDO AB CHAOS”.