LE CAPRE, L’ARTIGLIERE E LA BUROCRAZIA

LE CAPRE, L’ARTIGLIERE E LA BUROCRAZIA

di G. G.

Giorni fa mi sono imbattuto per caso in un episodio accaduto tanti anni fa in Russia ad un era artigliere nostro soldato. Si chiamava  Bruno Bellini ed nel 121° Rgt. Artiglieria, inquadrato nella gloriosa e sfortunata divisione « Ravenna », l’unità che sul finire del 1942 fu fortemente impegnata ad arginare nella grande ansa che compie il Don a Mamon, lo sfondamento delle linee alleate tedesche. Da lì, infatti, irruppero nella Steppa russa le colonne corazzate di Stalin. Leggendo

per caso e sfogliando quelle lettere, quegli appunti, quei verbali; osservando quei vecchi timbri di comandi militari, quelli con lo stemma sabaudo; toccando quelle veline, rese ancora più trasparenti dal tempo e stilate a mano perché non sempre in prima linea il furiere poteva adoperare la macchina da scrivere; riconoscendo quelle località indicate spazio, che la Giustizia dell’uomo è Spesso e soltanto pura velleità. La vera Giustizia ha la sua sede altrove, sicuramente in un altro mondo ©, certamente, è più giusta. di guerra.

La partecipazione dell’Italia al conflitto contro la Russia, come noto, fu voluta espressamente da Mussolini per coerenza alla propria ideologia.

Il suo sentimento antibolscevico e quindi, secondo lui, quello di tutti i fascisti, era da considerarsi «assoluto, granitico, inscindibile». In                                                                       effetti, anche se non tutti gli italiani erano fascisti, e quindi una buona

parte di essi non condividevano il suo pensiero, il Duce aveva buon gioco in quanto in quel periodo cavalcava un diffuso sentimento «anti»

nei confronti di Stalin perché gli italiani mal tolleravano l’invasione della Finlandia. Così la nostra partecipazione al conflitto fu agevolata e nel giugno del 41 fu deciso di far partire il CSIR, corpo di spedizione in Russia. L’esaltazione delle vittorie del momento                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              inebriarono un po’ tutti, non soltanto Mussolini, certamente il primo, ma non il solo responsabile del nostro disastro militare. E le facili vittorie iniziali illusero anche Hitler che non seppe valutare non solo le forze nemiche che aveva di fronte ma anche il fatto che la ritirata di Stalin era una mossa strategica in attesa di concentrare le proprie forze in determinati punti del territorio e quindi, logorati uomini e materiali del nemico, contrattaccare decisamente in profondità. Infatti, di li a pochi mesi, nella dura e spietata steppa russa verranno sacrificate le migliori forze operative germaniche e la migliore, in assoluto, nostra Armata in terra straniera. Premesso ciò, veniamo ai fatti. Il 25 settembre del 1942 (XX dell’Era Fascista, come si scriveva un tempo), in territorio russo, esattamente nella zona assegnata alla 8° Armata sul fronte del Don, il Generale Procuratore militare del Re Imperatore Vittorio Emanuele III (Dio guardi), Generale Leone Zingales, emetteva un ordine di comparizione per citazione diretta a carico di due artiglieri del 121° Rgt. A. della divisione «Ravenna», imputati del reato di BUSCA (art. 188 del Codice Penale militare di Pace e di Guerra), per essersi impossessati senza necessità od autorizzazione, 18 settembre 1942, di una capra mentre era al pascolo nelle campagne tra Gadiutschie e Filonovo, in danno della suddita russa Maria Petrovna, nonché di tre capre in danno di Oksarino MarKoma e di altre capre in danno di Poroskovie Martina. In tutto otto capre. Questi due artiglieri corrispondevano al nome di Bruno Bellini da Monzambano (Mp) e Carlo Roversi da Voghenza (Fe). Il primo classe 1921, il secondo classe 1919.

Sembrerà strano e fuori tempo leggere, oggi, questo fatto, dopo la fine della guerra, la ricostruzione dell’Italia, gli anni del boom, il 68 ed i falsi profeti di quell’anno che portò poi agli anni 70 ed al terrorismo, gli anni ’80 e la mafia con  il suo potere opposto a quello legale, il fatidico 1992. Inoltre, a pensare o cercare di immaginare ciò che accadrà di lì a pochi mesi, un paio di caprette forse sottratte a contadini evacuati per ricavarne latte fresco al mattino in prima linea, fa solo tenerezza: due mesi dopo, una marea di T34 sovietici spazzeranno per sempre dalla faccia della terra centinaia di migliaia di giovani vite. Ed i pochi sopravvissuti patiranno fame e freddo, pidocchi e malattie, congelamenti e continue diarree per circa tre mesi, prima di potersi considerare, si fa per dire, in salvo. Comunque la giustizia militare era severa in fatto di busca in territorio occupato, tanto da prevedere nel peggiore dei casi una reclusione militare fino ad otto anni. E, come vedremo, non serviranno la ritirata, la disfatta, la morte per lo meno di un imputato a fermare nel tempo la mano della legge, o comunque la burocrazia. La busca, in gergo giuridico militare, è quel reato in cui incorrono i militari che in guerra, senza necessità, ordine od autorizzazione, si impossessano di viveri, oggetti di vestiario od equipaggiamento. Chi non ha letto i libri di Rigoni Stern, di Bedeschi, di Franco La Guidara? Chi di noi non si è commosso leggendo dei nostri soldati nel gelo, nella neve, braccati come bestie dai carri armati e dai partigiani, alla continua ricerca per circa tre mesi, tanto durò la ritirata, di una qualsiasi cosa da mettere dentro lo stomaco; di una coperta o capanno con cui vestirsi e ripararsi dal freddo. E quando qualcuno era così fortunato da togliere ad un morto i «valienki», allora era sicuro di portare la pelle a casa perché non avrebbe subito il congelamento ai piedi. Con tutto ciò, dopo circa 47 anni, la giustizia dell’uomo mette in questi giorni la parola fine ai fatti svoltisi in quei giorni di fine estate del 1942, in una zona compresa fra Gadiutskie e Filonovo, poco più a sud di quella grande ansa che compie il placido Don, denominata Mamon.

L’ordine di comparizione era scaturito in seguito alla denunzia effettuata dalla proprietaria delle capre. Il 9 di settembre, di buon mattino, infatti, si presentò al Comando distaccamento della 7° sezione

mista rifornimenti, dislocata a G., una contadina di 52 anni, tale Maria

Petrovna, nativa di Kumenkin ma profuga in quel paesino, per denunciare la scomparsa delle sue capre. C’è da dire a tal proposito che presso la sezione mista rifornimenti divisionale vi era la sede dei carabinieri che, come noto, costituiscono da sempre la polizia militare.

Il Maresciallo comandante il distaccamento, accompagnato da un carabiniere, riuscì a rintracciare una capra della contadina presso le cucine della batteria contro-carro, reparto dei due giovanotti che verranno incriminati. Da sempre, e questo vale per tutti i reparti mobilitati, in pace ed in guerra, quando vi sono militari in giro per esercitazioni, sparisce regolarmente qualche pollo o coniglio, a volte anche un agnello o maiale e questo i contadini lo sanno benissimo come pure sanno bene che al termine delle esercitazioni verranno abbondantemente indennizzati. Ora, non intendo dire che esista una implicita autorizzazione a buscare, soltanto intendo dire che la giovinezza e la voglia di vivere, a quell’età, sono a volte incontenibili. E poi in quel periodo, in zona di operazioni, con i regolamenti e le spettanze viveri dell’epoca che consentivano di consumare il rancio quando era possibile, non mi sembra proprio il caso che una o due capre dovessero mettere in croce, militarmente parlando, non solo gli imputati ma anche i comandanti che per la verità cercarono di ridurre tutto ad un fatto puramente marginale e senza colpa alcuna peri diretti interessati.

Oltre a tutto si deve considerare che i civili con le loro cose erano stati evacuati dalla prima linea. Forse qualcuno di loro non aveva avuto il tempo di radunare tutto il bestiame ed era plausibile che parte di esso fosse sparpagliato per la steppa intento a pascolare. Comunque nessuno dei soldati presenti seppe dire a chi appartenesse la capra.

Dissero però che era stata condotta dall’a. Roversi, temporaneamente assente. La contadina riconobbe la sua capra e se la riprese. La cosa sembrava chiusa ma per il Maresciallo eravamo in odore di busca anche perché, tornato il pomeriggio dello stesso giorno per interrogare il Roversi, si imbatté in una seconda capra. Roversi nella dichiarazione disse che le due capre gli erano state consegnate dal commilitone Bellini per ricavarne latte dalla più vecchia ed un bell’abbacchio per la batteria dalla più giovane. Mentre il Maresciallo requisiva anche la seconda capra e la consegnava in affidamento allo starosta, ecco arrivare trafelata la Petrovna dicendo (tramite l’interprete) che anche quella capra era sua; anzi, il giorno prima verso le 13,00, mentre era intenta con una paesana a mungere le vacche, aveva visto un soldato che portava via sette capre. Si erano messe ad urlare dicendo al soldato di lasciare le capre, ma non era valso a nulla urlare. Evidentemente quel militare non conosceva il russo. Il Maresciallo Pala chiese spiegazioni di ciò al Roversi il quale confermò solamente che lui aveva avuto solo due capre da Bellini. Dalla versione di Bellini infine risultò quello che dovrebbe essere la verità e cioè: verso le ore 14,00 del giorno precedente, 1°8 di settembre, rientrava al mentre proprio reparto da G., trovò in aperta campagna sette capre incustodite, intente a pascolare. Credendo di fare cosa buona, pensò di portarle al proprio reparto per ricavarne latte e carne. Non pensò minimamente di commettere un reato anche perché era una cosa normale tenere caprette, tant’è che se ne trovavano tante presso altri reparti in linea. Infatti, vicino alla batteria, in un avvallamento del terreno, si trovavano già altre quaranta capre incustodite. Dello stesso parere fu il Col. Comandante del reggimento il quale, nella sua relazione alla Procura militare del Re Imperatore presso il Tribunale militare della 8° Armata – PM n.6 di Millerovo, così ricostruì i fatti, sentiti tutti i testimoni. Il giorno 8 di settembre l’a. Bellini, di ritorno alla propria batteria da G. ove aveva portato un plico al Comando di artiglieria divisionale, notò sette capre incustodite in un campo. Poiché in quei giorni le popolazioni dei paesi prossimi alle linee erano state sgombrate nelle retrovie, ritenne che le bestie si fossero smarrite durante l’operazione. Avendo già visto che presso le postazioni della propria batteria, in una grossa fenditura del terreno (attraversata anche da un ruscelletto) vi si erano rifugiate una quarantina di capre, pensò bene di condurvi anche quelle che lui aveva

trovate. Giunto nei pressi, incontrò il Roversi il quale gli chiese se poteva cedergli una capra. Bellini, naturalmente, gliela diede, tanto ce n’erano tante. E dichiarò di aver visto il giorno successivo Roversi tornare nella valletta per prendersi altre due capre. Di quanto si era svolto tra i due artiglieri non ebbero sentore, naturalmente, gli Ufficiali del reparto. Questi ultimi avevano notato la presenza di numerose capre in una valletta adiacente la linea pezzi, ma non vi avevano dato peso, ritenendo che le bestie visi fossero rifugiate provvisoriamente. Poiché in quei giorni si erano svolte delle azioni di guerra che avevano assorbito interamente il loro di pensiero, non ci avevano più pensato anche perché, dopo qualche giorno, le capre erano tutte sparite. Il Comandante concluse dicendo che «in mancanza di prove certe non sembra che nella fattispecie ricorrano gli estremi del reato di busca nei confronti dell’a. Bellini, ritenendosi per il momento prematuro pervenire a qualsiasi conclusione nei confronti dell’a. Roversi che, essendo assente per malattia, non era stato possibile interrogare». Elencava infine tutti i documenti che la burocrazia imponeva e cioè le dichiarazioni, i verbali di interrogatorio, estratti di punizioni e rapporti informativi. E cosa poteva fare di più il Comandante?

A parte di scagionare il povero Bellini, tentava una giustificazione, cercando di minimizzare il fatto, tutto qui.

Perché, secondo la logica, non era possibile che gli Ufficiali ignorassero

il vero motivo delle capre radunate nella valletta, vicino alla linea pezzi. Nessuno me lo toglie dalla testa, ma in quei giorni, sicuramente, nelle batterie e nel gruppo, al mattino, circolava latte fresco e, per lo meno la domenica, l’abbacchio in linea era di prammatica. Ma andiamo avanti. È interessante leggere le note caratteristiche dei due artiglieri protagonisti della vicenda, perché delineano perfettamente il carattere ed il modo di agire di due personalità diverse. Bellini, il maggiore indiziato, quello che in effetti condusse le sette capre ritenute abbandonate, veniva definito «un elemento che non ha mai brillato per qualità fisiche ed intellettuali, ma che non è mai stato sospettato di poca onestà». L’altro, il Roversi, «un elemento con forte volontà capace di assolvere qualsiasi incarico. Qualche volta prende iniziative che esorbitano le sue funzioni e bisogna fargli segnare il passo». Due giovani come tanti, diversi di carattere e personalità, uno intraprendente e l’altro sempliciotto. Nessuna punizione per tutti e due. E bisogna dire che tale fatto colpisce poiché quelli erano tempi in cui non si scherzava nel punire anche per futili motivi. Il giorno 16 ottobre, in Millerovo, presso il Tribunale di Guerra dell’Armata, veniva effettuato il processo verbale di interrogatorio del solo Bellini.

Roversi, il drittone, era da tempo degente in ospedale per malattia e si trovava nelle retrovie, ben lontano dal fronte. Fu deciso, quindi, che sarebbe stato sentito al suo rientro al reparto. Per quanto riguardava

Bellini, fu rispedito in prima linea in attesa del processo. Processo che non si celebrò mai perché, come sappiamo, Roversi non tornò mai più in prima linea; questa subì un arretramento di circa duecento chilometri in seguito alla caduta di Stalingrado e quindi allo sgretolamento del cardine sud del sistema difensivo alleato; molti reparti si immolarono inutilmente sul posto per cercare di contenere l’avanzata sovietica e di conseguenza Bellini, che faceva parte di un reparto di artiglieria contro-carro, sicuramente fu spazzato via nei primi

momenti dello sfondamento. Intanto le operazioni lungo la linea erano riprese con l’inizio precoce dell’inverno. Una cosa affliggeva soprattutto

inostri soldati: il freddo. Con la fine dell’autunno l’inverno russo si era fatto sentire con tutta la sua sinistra potenza. Il gelo aveva solidificato completamente la superficie del fiume, tanto da permettere ai mezzi pesanti di passarvi sopra.

I nostri comandanti avrebbero dovuto valutare con maggiore attenzione

questa nuova insidia perché la compattezza del ghiaccio sicuramente

avrebbe favorito l’attraversamento di mezzi pesanti. E da mesi alla parte opposta del grande fiume, veniva un sordo rumore di motori.

Puntualmente, dopo le azioni di logoramento che si protrassero dal 12 al 15 dicembre, i russi attaccarono in massa per cinque giorni: dal 16 al 21, i fronti della «Ravenna» e della «Cosseria». Investirono l’ala sinistra del XXXV Corpo d’Armata e quindi tutta l’ala destra dell’Armata italiana cioè la 298° tedesca, la «Pasubio», la «Torino», la «Celere» e la «Sforzesca». La tenaglia piano piano si chiuse ed a nulla valsero i pezzi da 47/32, i mortai e le mitragliatrici contro la marea dei T34. I carri, pur colpiti, continuavano a venire avanti, travolgendo pezzi e uomini e poi indugiavano nel «ballo della morte» cioè spianavano con i cingoli i poveri resti. Sin dalle prime ore del 16 dicembre la «Ravenna» frenò eroicamente l’offensiva nemica.

Sui capisaldi italiani il morale era alto ma le perdite furono del 75 per cento degli effettivi. In quel giorno la divisione evidenziò un coraggio ed eroismo che ha del disumano. Ogni uomo della divisione era assillato dal gelo, dalla fame (rancio freddo, quando c’era), dai compagni che cadevano morti ad uno ad uno, dal martellamento continuo, sistematico dei bolscevichi. Oggi noi sappiamo che anche se tutti fossero morti al loro posto (l’altro 25 per cento rimasto, si fa per dire, in vita), le posizioni sarebbero state tenute ancora per cinque ore. L’artigliere Bellini la notte del 16 dicembre era nell’ansa del Mamon, povero soldatino fessacchiotto e di cuore buono, messo ì a compiere il suo dovere di uomo e di soldato nel nome di quell’ideale di Patria che sin dall’infanzia gli avevano inculcato i suoi genitori analfabeti prima, ed il Re Imperatore ed il Duce del fascismo, poi.

Aveva fame e freddo, si capisce, come tutti del resto ed anche un po’ di paura, ma solo un po’. Solo gli incoscienti non hanno paura.

Davanti a sé aveva l’immensa distesa gelata del Don, il famoso fiume dei cosacchi. Ad un tratto sul fiume presero a brulicare enormi carri armati, grandi quanto una casa che lui non aveva mai visto. Venivano

dai fitti cespugli dell’altra sponda ed erano dipinti di bianco. Attorno a sé i pezzi della batteria sparavano e lui, assieme ai tanti altri compagni, prese la mira e cominciò a rispondere al fuoco, da buon soldato con il suo fido fucile mod. 91/38. Nelle giberne aveva ancora tre caricatori e nel cuore la certezza che ce l’avrebbero fatta perché erano nel giusto. Questo solo avevano nel cuore in quel momento i nostri ragazzi dell’ARMIR contro il nemico di allora: la certezza di essere nel giusto. Infatti, oltre alla inutilità dei mezzi e degli armamenti (basti pensare che la «Julia» un po’ più a nord effettuava azioni di tiro contro-carro con gli obici someggiati da 75/14 e spostava in epoca di guerra lampo, i materiali con i muli), i nostri erano scarsamente equipaggiati, poco vestiti e male armati. Le fanterie russe avevano tute bianche imbottite, valienki ai piedi e mitragliatori parabellum nelle mani. Inoltre, erano protetti dai T34 che creavano letteralmente il vuoto nelle nostre file. I nostri combattevano invece con normali divise grigio-verdi e cappotto di panno, visibilissimi nel biancore della neve; alle gambe ed ai piedi portavano fasce mollettiere e scarponi chiodati i cui chiodi favorivano la penetrazione del gelo attraverso il cuoio. In quei giorni la temperatura oscillava dai 37° ai 45° sotto zero ed il vento della steppa aumentava l’atroce disagio del freddo. E così, scarsamente armati ed equipaggiati, senza cibo od al tra assistenza, in un paese decisamente ostile, con la prospettiva di subire continue incursioni di piccoli nuclei di partigiani (quelli od i famigliari di quelli che fino alla settimana prima si erano rivolti ai nostri carabinieri per avere ragione di piccoli ed innocenti furtarelli), iniziò la notte del Natale del 1942, per i pochi superstiti che non rimasero per sempre laggiù, quella che viene ricordata come la più terribile ritirata militare di tutti i tempi. Poveri nostri soldati: ogni assente all’appello deve essere considerato, oggi, un eroe perché in terra straniera, in quelle terribili condizioni, dimostrarono al nemico ben armato, vestito ed equipaggiato, cosa vuol dire amor di Patria e spirito di corpo. L’ultimo loro pensiero fu quello di evitare che le bandiere dei reggimenti cadessero in mano nemica e se oggi, nei musei

di guerra di Mosca non si vede alcun vessillo tricolore, lo dobbiamo a loro. Per i denigratori di oggi sarà ben poca cosa, ma per la maggior parte degli italiani, la parte sana, l’onore significa ancora qualcosa.

A tal proposito occorre fare una considerazione. Nel periodo fra le due guerre, il regime fascista osannò l’ideale guerriero del popolo italiano come continuatore ed erede di quello «romano». Tuttavia l’addestramento e l’armamento delle Forze Armate non subiranno modificazioni.

Cosicché con l’inizio delle ostilità, nel giugno del ‘40, 1’Italia era ferma al 1920. Gli uomini ed i comandanti erano validi, i mezzi e la dottrina erano ancora quelli della 1° guerra mondiale.

Ma la giustizia faceva intanto il suo corso ed il 16 di marzo del ’43, ad una precisa richiesta del Procuratore militare, così scriveva il Comandante del reggimento in merito ai due artiglieri: PM  n.53 datato 16.03.43. «I militari in oggetto non possono presentarsi davanti a codesta procura perché:

– Carlo Roversi, si trova in licenza di convalescenza di gg. 90 in patria;

– Bruno Bellini, è assente dal reparto per fatto d’arme».

Dietro quelle due parole fatto d’arme c’era tutta l’amarezza di un comandante per la tragedia subita dal suo reparto. Il 24 marzo, implacabile, così rispondeva alla lettera del Colonnello il Generale Procuratore militare in zona di guerra: «Riferimento vostro foglio in data

16 marzo ‘43, prega si comunicare, appena possibile, se Roversi appena ultimata licenza di convalescenza debba ritornare al suo reparto se resta in Patria al deposito. Vorrete con l’occasione dare ulteriori ragguagli sul conto dell’a. Bellini».

Il 3 aprile, la risposta accorata del Comandante del reggimento: «Questo Comando non è in grado di precisare se allo scadere della licenza di convalescenza di 90 gg. l’a. Roversi rientrerà al reparto o resta in Patria. Date le vigenti disposizioni in corso si presume che il predetto militare resti in Patria. Sede del deposito il 21° Rgt. Art. moto- rizzato in Piacenza. L’a. Bellini risulta ancora assente. Appena si avranno notizie ecc…)». Finalmente la burocrazia (ancora più inesorabile dei T34) aveva recepito il messaggio ed il 22 aprile, ufficialmente, Bellini Bruno di Santo e di Natali Anna, nato a Monzambano (Mn) il 23.05.21, veniva dato disperso «per fatto d’arme» sul fronte russo, la notte del 16 dicembre 1942.

A questo punto la storia sembrerebbe finita, invece continua fino ai nostri giorni. Vediamo perché. È estremamente interessante, intanto constatare come quel fascicoletto giudiziario abbia seguito una sua strada attraverso la Russia in fiamme degli anni di guerra, i mille e mille avvenimenti storici che travolsero uomini e regimi politici, fino ad arrivare a noi in Torino. Milioni di uomini sono rimasti per sempre laggiù. Il fascicolo, no. C’è da dire, ad onor del vero, che la giustizia militare ha sempre funzionato alla perfezione, in pace ed in guerra, in qualsiasi condizione di tempo e di ambiente. E la dimostrazione sta in quelle paginette sbiadite dal tempo che narrano, nelle scarne e crude descrizioni burocratiche, quell’episodio di «naja» successo nel settembre del ’42. E l’evoluzione, se così possiamo definirla, dei documenti contenuti nel fascicolo sono un chiaro esempio delle difficoltà incontrate, e superate, dagli operatori della giustizia militare

dell’epoca (giudici e cancellieri), mano a mano chele cose prendevano una brutta piega al fronte e quindi anche la «giustizia» nel suo complesso era costretta a precedere nella ritirata l’Armata in ripiegamento. Infatti, i fogli su cui sono stati stilati i vari documenti sono in buone condizioni fino al dicembre ’42. Subito dopo, soprattutto nel periodo gennaio-aprile ’43, in piena crisi prima e nel caos delle retrovie poi, la carta è scadente, gli appunti sono frettolosi anche se precisi e le lettere, comprese quelle ufficiali, stilate a mano ed in buona calligrafia come si usava un tempo. Inesorabile, con il foglio n. 32 del fascicolo, nel 1943, quindi nell’anno in cui si compirà la tragedia politico-militare del popolo italiano, il Pubblico Ministero del Re Imperatore, quell’ottimo galantuomo che fu il Gen. Zingales, decideva di stralciare il procedimento a carico di Roversi in quanto questi, poteva essere regolarmente processato e disponeva la remissione degli atti alla Procura Generale di Roma affinché si procedesse.

Non so se Roversi sia mai stato processato e condannato per quel fatto; credo, comunque, che, se vivo, non l’abbia sicuramente fatta franca. In ogni caso questa non è la sua storia e non me ne occuperò più.

Nel 1952, a dieci anni dai fatti narrati, esattamente il 20 aprile, il Giudice Istruttore, su richiesta del pubblico ministero del Tribunale militare di Torino (il Tribunale di Torino è competente per territorio in quanto Bellini era di Mantova), pronunciava un’ordinanza con la quale ordinava la sospensione del procedimento «insorgendo il fondato dubbio sull’esistenza in vita dell’a. Bellini». Oramai tanti reduci erano rientrati in Patria, compresi quelli non caduti in combatti mento ma catturati dal nemico durante il ripiegamento, si erano sciroppati anni ed anni di prigionia nei gulag siberiani. Quindi, se vivo, anche Bellini sarebbe dovuto rientrare, ma la vicenda non è ancora chiusa e questo a dimostrazione, sempre che ce ne sia bisogno, che la «giustizia» della neonata Repubblica non è da meno di quella che fu del Re Imperatore. Il 2 luglio del 1961 il comune di Monzambano rilasciava un certificato, sempre su richiesta del giudice istruttore dell’epoca, in cui si dichiarava ancora una volta che Bellini Bruno non si era più fatto vivo in paese e quindi esistevano fondati dubbi sulla sua esistenza in vita. D’altro canto la burocrazia è quella che è: per dichiarare decaduto un procedimento o chiuso un caso giudiziario, ci voleva la morte del reo. E questa arrivò, burocraticamente parlando, sul finire degli anni ‘80. Tuttavia, non soltanto perché il reo era morto. Infatti il 23 giugno 1989, il Giudice Istruttore militare presso il Tribunale militare di Torino, Dott. Mauro De Luca, emetteva la seguente sentenza, che cito abbreviandola: «Considerato che Bellini risulta disperso in Russia, ma il comune di Monzambano ha comunicato in data 13.06.89 che “a fianco dell’atto di nascita non risulta alcuna annotazione di morte”; che rimane pertanto il fondato dubbio sulla esistenza in vita; che dall’esame delle risultanze processuali appare non emergere a carico di Bellini nessuna circostanza che smentisca quanto dal predetto riferito al magistrato inquirente il 16.02.42 (f. 19 degli atti), ove aveva negato l’addebito affermando che si trattava di bestiame disperso che si era istintivamente rifugiato per sfuggire ai violenti bombardamenti in una fenditura del terreno esistente nei pressi la linea pezzi ove vi erano già una quarantina di capre; che pertanto non può condividere la richiesta del PM in sede che ha chiesto in data 29.01.87 dichiararsi non doversi procedere nei confronti del Bellini essendo il reato estinto per venuta prescrizione; che deve invece prosciogliersi il prevenuto con ampia formula, dichiara non doversi procedere nei confronti di Bruno Bellini

in ordine al reato di busca in rubrica ascrittogli perché il fatto non sussiste».

Sentenza esemplare, lodevole soprattutto per il senso di umanità che ispira perché, dopo 47 anni, finalmente la giustizia militare della Repubblica metteva la parola fine su tutto l’episodio e rendeva giustizia

alla memoria terrena di Bruno Bellini.

Povero artigliere italiano in terra di Russia, polvere nella steppa, che pur portando in cuore il dispiacere di essere incolpato di qualche cosa

che non avevi commesso, continuasti a sparare tranquillo contro i carri armati, quella notte di dicembre del 1942, riposa in pace.

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