NOTE A MARGINE DEI CONCETTI DI GIUSTIZIA E LIBERTÀ

 NOTE A MARGINE DEI CONCETTI DI GIUSTIZIA E LIBERTÀ

di Domenico Campisi

Università di Palermo

Giustizia e libertà: termini in epoca contemporanea assai ricorrenti come concetti singoli e come endiadi, divenuti icone spesso prive, nell’immaginario dei loro stessi banditori, dei contenuti traghettati dalle millenarie stratificazioni filosofiche e semantiche e dagli echi mitologici. Tutt’altro messaggio riconosceva in essi ancora Carlo Rosselli, quando nel 1929 battezzava con il nome “Giustizia e libertà” la propria associazione, ben distante dalle attuali declaratorie commerciali. Se non altro, secondo il noto aforisma di Marco Tullio Cicerone (fra l’altro nel De natura deorum del 44 a.C.), già presente anche nella Repubblica di Platone (IV secolo a.C.), la giustizia vi sarà stata intesa come l’istanza che suum cuique distribuit, che attribuisce a ciascuno il proprio, e la libertà l’oggetto della ricerca nel Purgatorio

dell’Alighieri, per il quale non siesita a ricusare la vita.

È superfluo ricordare che il sostrato culturale e il fondamento filosofico del concetto di giustizia hanno matrici greche, come pure la mitologia cresciuta intorno ad esso. Altrettanto scontato ricordare che dalle sue lontane origini ad oggi non solo l’amministrazione, ma anche l’idea di giustizia ha subito radicali cambiamenti, spostando il suo termine di riferimento dalla realtà naturale alla volontà divina e, nelle società laiche post-illuministe, all’uomo.

In tutto il mondo greco (e poi romano) infatti la giustizia non ha il suo fondamento nell’individuo, ma nella natura, essendo un principio naturale cui è demandata l’armonia nei rapporti interpersonali, indispensabile alla prosperità delle comunità. Di interesse appare l’evoluzione del concetto già nella tradizione letteraria e culturale della Grecia classica. Il lessico greco conosce fondamentalmente due parole per denominare il concetto di giustizia, ambedue di radice indoeuropea

ed etimologia dibattuta, presenti già nei poemi omerici. Dall’ampia bibliografia che si occupa della definizione e della distinzione dei due denominanti, si può sinteticamente ricavare, essendo legittima la confutazione, che la prima, themis, esprimerebbe l’idea di giustizia come osservanza di un ordinamento tradizionale che, sia riferito alla natura che all’organizzazione umana, affonda le sue radici nel trascendente. Themis designerebbe in altri termini la conformità all’ordine naturale, alla “normalità” e designerebbe il primordiale diritto sacrale, preesistente all’istituzione della comunità e di emanazione divina, amministrato dal re sacerdote o dalla casta degli eletti. La seconda, dike, donde il latino dico e l’italiano dicastero, rappresenterebbe l’indicazione con autorità di parola di ciò che deve essere, che è corretto, ed afferirebbe al repertorio giudiziario prima che a quello morale. In una  parola, dike starebbe perla tutela della conformità alle regole in uso, per ciò che “spetta”, segnalerebbe “la parte che le consuetudini e gli usi, gli dei e il destino hanno stabilito per gli uomini” (cfr. Jellamo, Anna,  Il cammino di Dike L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli 2005, pp. 32-33) ovvero, con la definizione del Benveniste, “il diritto tra le famiglie della tribù” (É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Vol. I, p. 356). Tuttavia non mancano studiosi che ritengono improprio assegnare la pertinenza di themis alla giustizia divina e quella di dike alla giustizia umana e laica,

in quanto quest’ultima sarebbe in realtà in relazione con l’ordine trascendente espresso da themis: se dike sta per l’equilibrio tra l’interesse del singolo e quello della collettività, tale equilibrio riflette l’armonia universale determinata da una norma di giustizia, per l’appunto themis, di cui la divinità si fa garante. Non è privo di significato che nella mitologia greca la dea della giustizia Dike sia figlia di Zeus e Themis e rappresenti la continuità nel rinnovamento.

Nelle Eumeni di  Eschilo, rappresentata ad Atene nel 458 a.C. come terza componente della trilogia dedicata ad Oreste, l’istituzione pur ad opera di Pallade Atena di un tribunale di giudici, uomini e non dei, l’areopago, segna il passaggio dall’antica giustizia prerazionale dei vecchi dei a quella razionale dei nuovi. In tal modo, con l’assunzione da parte della comunità dell’amministrazione della giustizia, si fa strada un nuovo principio giuridico: non si considera più il delitto in sé, bensì le circostanze in cui è maturato e il movente che lo ha determinato, superando la concezione che il crimine contamini oltre che il singolo l’intera comunità. Con la creazione di un tribunale ove i giudici, dopo aver giurato, saranno degni di giudicare con equità le azioni umane e comminare le giuste sanzioni, si compie il trapasso dalla giustizia naturale a quella civile. Questa valorizza l’individuo in quanto cittadino, restituendolo alla comunità di cui torna a far parte a seguito dell’accettazione del giudizio e della sentenza, sicché si realizza la conciliazione della giustizia naturale, che supera l’individuo, con quella civile, che è espressione della coscienza degli individui organizzati nella vita politica.

Ma se questo, a partire dalla tragedia eschilea, è il concetto tramandatoci dal teatro della Grecia classica, si osserva che essonella società dell’epoca non era applicato alla gestione della cosa pubblica, e sull’altro fronte la libertà era una speculazione culturale per iniziati, come dimostra il collegamento socratico soprattutto della libertà con il sapere e l’integrazione aristotelica di tale concetto con la volontarietà dell’atto solo a Roma e con Roma diritto e giustizia diventano prassi. Dai suoi primordi fino alla caduta dell’impero d’Occidente ed oltre il diritto romano consacra l’insieme delle norme che costituiranno il fondamento giuridico per circa tredici secoli.

Esso viene traghettato oltre le invasioni barbariche e la disgregazione del potere centralizzante di Roma per il tramite del  Corpus iuris civilis promulgato da Giustiniano I nel 533 e ripreso da Federico Il di Svevia con le due assisi di Capua e Messina  (1220 e 1221).

Data la rivoluzione introdotta nella dimensione della spiritualità e per ricaduta in tutti gli ambiti della vita umana, non suscita meraviglia che il concetto di giustizia subisca radicali trasformazioni con l’avvento

e la diffusione del Cristianesimo, secondo cui il fondamento della giustizia è la nuova realtà divina, concetto da Agostino riassunto nella famosa frase: Quod Deus vult, ipsa iustitia est. In breve per il nuovo Credo all’agire rettamente non basta la conoscenza del giusto, ma occorrono grazia divina e libera partecipazione del soggetto.

Essendo quest’ultima condizione essenziale per la realizzazione della giustizia, la giustizia si avvia a diventare virtù morale ed individuale, risultando non più netti i confini tra giustizia e moralità.

Una tappa fondamentale nel discorso su giustizia e diritto si colloca nel periodo illuminista e con la nascita del Codice napoleonico, che impone un nuovo modo di intendere il diritto. Esso esprime una filosofia di vita il cui apice è costituito dall’Individuo sovrano del proprio ambito di libertà e segna il punto di svolta fra la concezione ancora naturalistica dell’ordine giuridico medioevale e l’avvento della sicurezza del diritto offerta dai codici permeati dai valori di eguaglianza e libertà.

Questi, pur esercitati in un ordine giuridico, si rivestono di quella nozione di uni versalita che sola consente al diritto di abbandonare il particolarismo e di guardare a quella comunità di esseri umani in

cui ciascuno aspira legittimamente ad essere uguale e sicuro nella libertà.

Tre sono gli aspetti della libertà intorno a cui si concentrano nei secoli le riflessioni dei filosofi. Un primo aspetto concerne il problema ontologico, cioè l’esistenza o l’assenza nella volontà di una facultas eligendi, il secondo è la libertà di esecuzione del volere,il terzo la libertà morale.

Nell’antichità classica, ad Atene era uomo libro chi partecipava al governo della polis, facoltà negata in società in cui la volontà del singolo era ostaggio di quella dei vertici. A livello speculativo la libertà trova in Grecia una significativa trattazione nella dottrina socratica della virtù come scienza, sicché solo il sapere se ne fa catalizzatore. Aristotele da parte sua descrive ed approfondisce la volontarietà dell’atto e la corrispondente volontarietà del vizio e della virtù.

Nel Medioevo, permeato di suggestioni  fideiste, la libertà morale cessa di presentarsi come conquista razionale ottenuta dal  saggio, e assume invece la forma di una vittoria della santità e della grazia sulle potenze

oscure del male, della carne e del mondo. La libertà morale si connota insomma come una liberazione dal peccato con l’aiuto della fede. Agostino si chiede se essa non sia una flagrante negazione dell’azione

della grazia e se tutto non dipenda piuttosto dall’aiuto divino, con il che si pone il problema del ruolo da attribuire alla libera iniziativa dell’uomo. Successivamente si accetta che la volontà abbia il potere di autodeterminarsi nella scelta senza essere determinata dai motivi, e nella Summa Theologiae Tommaso sostiene che la volontà ha bisogno del giudizio dell’intelletto per risultare libera.

Con il razionalismo si ripristina il problema ontologico della libertà, sembrando che essa non possa essere pensata senza la necessità, e in ulteriori riflessioni che la stessa vada vista all’interno di un contesto

politico e sociale. Nel XVIII secolo l’idea di libertà coincide con l’autonomia dell’individuo, anche se la libertà naturale può essere limitata dalle leggi. Nella sua Critica della ragion pratica Kant considera la libertà come postulato, come condizione indimostrabile, ma necessaria dell’agire morale; l’idealismo filosofico concepisce la libertà

all’interno della dialettica fra Io e non Io.

Nonostante le speculazioni anticipatrici, è solo con l’Illuminismo e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo che cominciano a trasferirsi nella realtà i concetti di giustizia e libertà. Le campagne libertarie di Napoleone,  l’involuzione del bonapartismo, il ripristino dell’equilibrio europeo nel nome della tradizione monarchica con il Congresso di Vienna del 1814/15, i moti insurrezionali di metà Ottocento, l’ unificazione di Italia e Germania e soprattutto la rivoluzione provocata dallo scoppio della I° guerra mondiale contribuiscono a delineare un

concetto di libertà che a conclusione del lungo percorso ci appare familiare nell’accezione contemporanea. Così pure per il concetto di giustizia, che si arricchisce di suggerimenti che vengono dall’etica del lavoro, della solidarietà, della sussidiarietà, interconnettendosi con il diritto e con il concetto di libertà legata alla persona nella sua interezza Come si pone dunque il concetto di libertà nell’evoluzione del pensiero scientifico oggi?

Nel suo recentissimo Il grande disegno (2011) Stephen Hawking, riproponendo la teoria meccanicistica, sostenendo cioè che il Big Bang sarebbe un’inevitabile conseguenza delle leggi della fisica e che, esistendo la legge di gravità, l’universo può continuare a crearsi da sé, dal niente, non vanifica forse una dialettica filosofica

oggi inaridita avviando una filosofia della fisica?

Come si collocano Libertà e Giustizia in questo mondo da Big Bang, come si distingue il bene dal male, come si rispettano le libertà individuali e la giustizia nell’osservanza delle leggi di natura?

Si avverte oggi, con l’avvento di informatica, elettronica, cibernetica il sorgere di nuovi modelli descrittivi di traiettorie evolutive alla ricerca di qualcosa di misterioso, al di là della specie, dell’individuo, della società, della cultura: una nuova tecno società emergente, che incorpora software sia individuali che collettivi, che parla in termini di programmazione, ma che non offre libero pensiero e scelte libere,

bensì realtà virtuali. Suggestivo in questo senso è, gettando un ponte dalla contemporaneità alle origini del discorso su libertà e giustizia, il richiamo a Pitagora, convinto che il numero sia l’essenza di tutte le cose, come pure a quanti hanno sostenuto che il Dio biblico ha fondato il mondo sopra il numero, il peso e la misura. Teoria del resto ripresa

da Galileo nel suo celebre passo: “l’immenso libro aperto davanti ai nostri occhi, e cioè l’intero universo, è scritto in lingua matematica”. Ignorare quella lingua significa perciò aggirarsi in un oscuro labirinto.

Renè Guénon nel suo I principi del calcolo infinitesimale, recentemente riproposto da Adelphi (2011), dubita tuttavia che la scienza moderna sia una fedele realizzazione delle idee che avevano ispirato Pitagora

e l’autore del Libro della Sapienza, anzi sostiene che la scienza moderna non è semplice prosecuzione della parola biblica o del credo pitagorico, bensì la sua caricatura, la contraffazione profana di ciò che resta di una antica sapienza tradizionale.

Conclude Guénon che la regina delle scienze, la matematica, avendo perso ogni contatto con la sapienza tradizionale, si è ridotta a un suo mero residuo degenerato e senza valore.

Da un rapido e imperfetto excursus su giustizia, Themis, Dike, facultas eligendi, libertà di esecuzione, libertà morale non possono scaturire certezze, anzi crescono nuovi dubbi, cementando però una convinzione:

che la libertà sia una conquista personale e che l’individuo la raggiunga di giorno in giorno con la conoscenza. Una conoscenza che oggi non è solo basata sui libri e sull’esperienza, ma corre nell’etere sulle strade dell’informatica, e che sembra avere esaudito le ambizioni più temerarie

del genere umano. Alla maniera di Prometeo che ruba il segreto del fuoco agli dei, l’uomo di oggi si dispone a penetrare i misteri

dell’infinitamente grande e dell’infinitamente  piccolo, ipotizzando in

quest’ultimo caso l’anima nel DNA, forse in ininterrotta continuità con Guénon e con la sapienza tradizionale.

2/2013 HIRAM

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