LA BATTAGLIA DI MENTANA

LA BATTAGLIA DI MENTANA

“A TERNI FU L’APPUNTAMENTO”

di Sergio Bellezza

“3 Novembre 1867. La nebbia incombeva: come un sudario copriva i corpi dei caduti; sui campi, umidi di pioggia, si lasciavano i compagni, colpiti mortalmente dagli chassepots. Gli scampati affrettavano la fuga; i più generosi fraternamente aiutavano i feriti […]. L’angoscia della sconfitta era accresciuta dal disordine delle schiere e dall’umiliazione del ritorno”.

Brevi frasi che fotografano lo sconcerto, la delusione e il dramma dei garibaldini sconfitti a Mentana da papalini e francesi, quest’ultimi spediti a Roma da Napoleone III a difesa del Papa-Re.

Più di mille tra morti e feriti, 1400 circa i prigionieri: cifre che da sole testimoniano la disfatta, l’olocausto dei volontari, che con il loro coraggio, lo spirito di abnegazione e il sacrificio della propria vita scrivevano una nuova pagina di eroismo nel panorama del Risorgimento Italiano.

I patrioti laceri e contusi, tornavano per lo più a Terni, terra di confine dopo il 1860 collo Stato pontificio e Centro insurrezionale per eccellenza per la conquista di Roma.

I volontari erano giunti in città da ogni parte d’Italia, attratti, ancora una volta, dall’amor di Patria, dal sogno di Roma e dal richiamo di Giuseppe Garibaldi. Con i cuori gonfi di speranza e l’animo pieno di certezze erano accorsi numerosi, giovani e vecchi, per raccoglier il grido di “Roma o Morte”.

L’episodio di Pesce cotto, messo in atto dai patrioti ternani nel mese di giugno, un’azione sottovalutata e spesso trascurata dalla storiografia

ufficiale, aveva riacceso gli animi e risollevato speranze, dimostrando come, a distanza dell’infausta giornata d’Aspromonte, il movimento democratico fosse ancora vivo e pronto alla lotta. La situazione politica internazionale inoltre veniva giudicata favorevole ad un colpo di mano, sicuro appariva l’assenso del Re e del Governo. Negli ambienti diplomatici s’era poi convinti che la Francia avrebbe accettato il “fatto compiuto”. Lo garantivano da Parigi Costantino Nigra e Gioacchino Pepoli.

Il buon Rattazzi sembrava ripercorrere, con la solita ambiguità, la politica di Cavour, con Vittorio Emanuele che assicurava tra le righe l’intervento dell’Esercito italiano per fermare i francesi, se fossero intervenuti.

Il Centro Nazionale di Firenze s’era messo a programmare l’azione, raccogliendo volontari che venivano spediti a Terni con un biglietto di terza classe, mentre il Governo forniva i mezzi necessari. In proposito il corrispondente del “Journal de Genève” il 23 di ottobre scriveva: “[…] Ho veduto io stesso preparare pacchi di monete d’oro destinate a preparare l’insurrezione romana, spedire per ferrovia casse d’armi e munizioni, colli di coperte e provviste al Comitato di Terni […]”.

La città, al confine col Patrimonio di S. Pietro, era stata eletta a base logistica della spedizione e centro di raccolta dei volontari, come recitava il poeta Cesare Pascarella nel suo sonetto rievocativo A Terni fu l’appuntamento.

La sua partecipazione emotiva all’avvenimento spinse Pietro Del Vecchio ad affermare “[…] tra tante città, insieme a Varese, mi parve la più patriottica […]” e a definire Pietro Faustini come “Il Garibaldi di Terni”. Questi era il capo del Comitato insurrezionale. Educato ai principi di libertà dal padre, che aveva saggiato le attenzioni della polizia e dall’esempio dello zio, Francesco Guardabassi, denominato il

“Babbo dei perugini”, aveva giovanissimo aderito alla Carboneria, divenendo presto Venerabile della vendita ternana. Notoria la sua appartenenza all’Istituzione, confermata dal Leti che lo definì

“fervente massone” .Per meglio sfuggire agli sgherri pontifici, dimorava

in una stamberga sul Nera, da cui raggiungeva, via fiume, il proprio quartier generale, il casino di Pescecotto, una costruzione arcigna e

piena di nascondigli, in mezzo ad una folta zona boschiva, da cui si spaziava su l’intera conca ternana. Mazziniano, dal ‘48 fu sempre a fianco di Giuseppe Garibaldi, Sarnico e Aspromonte compresi. Durante la Repubblica Romana ebbe l’incarico di curare le fortificazioni della città e di raccogliere volontari nella Provincia dell’Umbria. In occasione della Campagna dell’Agro romano fu incaricato di dirigere il Comitato Insurrezionale di Terni, come attesta la dichiarazione autografa del Nizzardo: “[…] sebbene non fosse effettivamente nominato ufficiale, giacché mai ne mostrò desiderio, per la di lui ammirevole abnegazione e disinteressato patriottismo, lo si teneva in molto conto […] Per non aver mai mancato agli affidatigli incarichi, lo si volle onorare nel 1867 del grado di Presidente del Comitato Insurrezionale […]”. Altro componente il Comitato Federico Fratini, da poco uscito di galera. Aderente alla Giovine Italia, lo troviamo nel ’49 a difesa della Repubblica Romana; nel ’53 era nominato da Saffi Commissario per l’insurrezione dell’Umbria. Scoperto, sfuggiva all’arresto e raggiungeva Genova, da cui tornava

qualche tempo dopo sotto mentite spoglie. Arrestato nel ’55 per una delazione, era condannato a 15 anni di reclusione, scontati nelle segrete pontificie, compagno di cella di Giuseppe Petroni, l’ultimo prigioniero del Papa-Re, futuro Gran Maestro della Massoneria italiana.

Completavano il Comitato noti patrioti come Rinaldo Benigni, Attilio Cerafogli, Lorenzo Caraciotti, con Augusto Fratini nelle vesti di

segretario. Il Comitato da tempo alimentava lo spirito di libertà

dei giovani, accoglieva e sosteneva fraternamente gli esuli romani, custodiva le armi, nascoste in città fin dai tempi di Aspromonte.

I volontari arrivavano con tutti i mezzi da ogni parte d’Italia. Accanto ai veterani di tante battaglie, giovani ansiosi di partecipare all’ultimo atto del Risorgimento Italiano: la liberazione di Roma. Una presenza che divenne moltitudine e mise a dura prova le capacità ricettive di una città piccola come Terni e quelle organizzative del Comitato insurrezionale locale, malgrado il sostegno di quello Nazionale.

A dispetto delle difficoltà, era necessario spegnere i facili entusiasmi ed organizzare i volontari, come imponevano le regole militari; ma non era facile vincere l’inesperienza delle nuove leve e le fiduciose certezze degli anziani. Malgrado l’apporto di figure come Crispi e il gen. Fabrizi, scesi a Terni per coordinare l’azione, regnavano approssimazione, disordine e confusione. Si sfiorava l’incoscienza:

in parecchi s’avviarono al “grande cimento”, come ebbe a scrivere Anton Giulio Barrilli, senza alcuna arma da fuoco, semplicemente

con un coltellaccio nella cintola o una roncola in mano.

La prima colonna partì la mattina del 5 ottobre agli ordini del Maggiore Fazari e raggiunse Nerola, dove ad attenderla era Menotti Garibaldi, vestito da boscaiolo. Lo stesso giorno si scontrò con una compagnia di zuavi. Racconta il Pizzetti: “[…] stesi alla cacciatora,

marciammo verso il nemico, mentre quelli disarmati ci seguivano a distanza, impressionandolo per numero e coraggio […]”. Astuzia e genio militare avevano nascosto per il momento limiti e deficienze.

Occupata Montelibretti, la colonna dovette respingere, il giorno 13, un attacco della gendarmeria pontificia. Nello scontro rimase ferito il Fazari, subito trasportato in carrozza a Terni, dove funzionava

un ospedale da campo. Vi perse invece la vita il capitano Raffaele Rossini. Ufficiale dell’Esercito Italiano, aveva combattuto nella III guerra d’indipendenza e s’era distinto nella lotta contro il brigantaggio.

Comandante della III Compagnia dei Volontari, trovò la morte, mentre rintuzzava con i suoi uomini un attacco degli zuavi, come riferisce un testimone oculare “[…] nella mischia, con la rivoltella in mano, si difendeva eroicamente ed incoraggiava i propri soldati, finché non venne colpito mortalmente […]”.Mancava ancora Garibaldi, atteso di giorno in giorno, da un momento all’altro. Improvvisa giungeva la notizia del suo arresto. Un naturale sconcertos’ insinuò nelle file dei volontari, che s’erano andate ingrossando sempre di più. Cominciarono le prime defezioni, che purtroppo continuarono anche nei giorni successivi.

Gli animi si riaccesero con l’arrivo del Generale, fuggito in modo avventuroso da Caprera. Il Nizzardo, dopo l’arresto a Sinalunga, era stato rinchiuso nelle carceri di Alessandria, da cui venne liberato a seguito della violenta protesta popolare, orchestrata dal Gran Maestro della Massoneria Luigi Frapolli.

Relegato nell’isola, guardato a vista dalla marina regia, all’imbrunire del 14 ottobre il Nizzardo, scivolando tra i rovi e gli scogli, scendeva a mare, dove una pianta di lentisco nascondeva alla vista dei guardiani “il beccaccino”. Edoardo Barberini e un giovane sardo l’aiutarono a mettere in acqua la piccola imbarcazione, mentre Froscianti, colla barba folta e indosso i panni del Generale, circolava per l’isola, traendo in inganno i carcerieri.

Superato il Passo della Moneta, il Generale approdava a La Maddalena, ospite della signora Collins. Raggiungeva poi Livorno e successivamente Firenze, mentre dalle navi si continuava a telegrafare al governo “Nulla di nuovo a Caprera”.

Con un treno speciale organizzato da Crispi, il Generale arrivava il 20 a Terni, da cui nella notte sarebbe partita la spedizione dei fratelli Cairoli, per rifornire d’armi Roma, che avrebbe dovuto sollevarsi.

La ribellione interna, secondo lo schema classico di ogni insurrezione, avrebbe giustificato l’intervento esterno di Garibaldi e dei suoi legionari. L’invio di armi e munizioni, secondo i piani, sarebbe dovuto avvenire, opportunamente camuffate, con treni merci in partenza da Terni, ma il cap. Ghirelli, comandante del corpo dei volontari romani, contro ogni disposizione, aveva fatto saltare il ponte sul Tevere nei pressi di Orte, interrompendo i collegamenti ferroviari con Roma.

S’avviarono così da casa Fratini 60 giovani arditi, cui se ne aggiunsero per strada altri 15, legati da un giuramento di sangue e pronti all’estremo sacrificio, seguiti, in funzione d’ambulanza, da quello che Pascarella definì “n’onnibussetto tutto sgangherato dov’ognuno ce montava un po’ per vorda

Con perizia, tanto coraggio e un pizzico di fortuna, arrivarono alle porte di Roma. Anziché una città in rivolta trovarono ad attenderli a Villa Glori zuavi e antiboini, superiori nel numero e nell’armamento.

Il loro sacrificio, paragonato da Garibaldi a quello di Leonida alle Termopili, come un cattivo presagio, anticipava l’olocausto di Mentana e il fallimento della campagna dell’Agro Romano.

Il 25 di ottobre il Generale, accompagnato dal Faustini e da Jesse White, raggiungeva il confine, accolto a Scandriglia dai suoi al grido di “W Garibaldi, W Roma Capitale d’Italia “, mentre i soldati dell’esercito facevano ala al passaggio dell’Eroe, salutandolo militarmente.

Ritrovato l’entusiasmo e rinserrate le fila, i garibaldini mossero su Monterotondo, dove i papalini evitarono lo scontro aperto, barricandosi entro le mura.

Durante la notte un gruppo di volontari si avvicinò alla città, trovandosi casualmente a ridosso di una delle porte, che non era presidiata dal nemico. Trovate nelle vicinanze legna e fascine, dopo

averle cosparse di zolfo e petrolio prelevati alla stazione, le addossarono alla porta e appiccarono il fuoco alla catasta.

Le fiamme si sprigionarono altissime, illuminando a giorno tutta la zona, con i garibaldini, una sessantina circa, che ballavano dalla contentezza e gridavano a squarciagola. Il chiasso infernale e il

forte chiarore ne richiamarono altri, che si portarono dietro i due cannoncini, dono della contessa Manni di Terni, con cui finirono di demolire la porta. Accorsero però anche i papalini, che dall’alto delle mura presero a sparare sui volontari, ferendone parecchi ed uccidendone più di qualcuno.

Accorse pure il Generale, che, arrabbiatissimo, ordinò ai suoi l’immediata ritirata.

Alle 4 di mattina, spronati dagli squilli di tromba del sergente Molinari, i garibaldini occuparono Monterotondo, vincendo la labile resistenza degli zuavi, che esposero bandiera bianca in segno di resa sulla torre del castello.

La conquista di Monterotondo fu funestata dalla morte del Maggiore Testori, che portatosi nel maniero a trattare la resa, venne freddato dallo sparo di un antiboino.

A operazioni concluse, circa 350 i papalini fatti prigionieri e consegnati a Passo Corese nelle mani delle truppe regie.  Mentana fu presa senza combattere: le forze pontificie si erano ritirate a Roma e attendevano tra le mura della città l’arrivo dei Francesi. Napoleone III, condizionato dai cattolici, che ne sostenevano il governo, aveva intanto inviato un contingente di 23.000 uomini, che partiti dal porto

di Antibes stavano sbarcando a Civitavecchia per accorrere alla difesa di Roma.

Garibaldi, che in un primo momento aveva pensato di impedirne lo sbarco, decise infine di muovere verso Tivoli, per ricongiungersi con le forze di Nicotera. La natura del terreno gli avrebbe evitato lo scontro frontale ed esaltato le caratteristiche combattive dei suoi legionari, il cui numero s’era ancor più assottigliato dopo il proclama di Vittorio

Emanuele: “[…]Italiani! Schiere di volontari eccitati e sedotti dall’opera di un partito, senza autorizzazione mia né del governo, hanno violato le frontiere dello Stato pontificio […]”.

La mattina del 3 Novembre fu però costretto ad impegnar battaglia contro i pontifici, che, usciti da Roma, gli sbarravano il passo.

Lo scontro fu cruento e si protrasse per l’intera mattinata. Proprio quando la vittoria sembrava ormai arridere ai garibaldini, verso mezzogiorno arrivarono i francesi. La lotta si fece subito impari. I volontari ormai stanchi non avevano la forza di contrastare l’urto

dei nuovi arrivati; il coraggio e l’eroismo dei garibaldini si rivelava poi insufficiente contro i colpi d’artiglieria pesante dei transalpini.

Il Generale s’era battuto come un leone, sempre in mezzo alla mischia, incurante del pericolo, ma dovette alla fine rassegnarsi alla sconfitta di fronte alle soverchianti forze nemiche e coll’esercito decimato da diserzioni, morti e feriti. Tornato a Passo Corese, consegnava le armi nelle mani dell’Esercito regio e in treno faceva ritorno a Terni.

La sconfitta quando ormai Roma era a due passi, il tradimento del governo italiano, il senso di rinuncia e le tante defezioni, di cui darà la colpa a Mazzini, accendevano di delusione il suo animo

di combattente e di italiano. Ritiratosi nell’eremo di Caprera, il Generale non combatterà più in Italia e per l’Italia. Ritornerà sui

campi di battaglia nel ’70 in Francia a difesa della Repubblica, minacciata dall’arroganza dei Prussiani. A Mentana gli antiboini erano armati con gli chassepots, in dotazione per la prima volta alle truppe

di Napoleone III.

Sui nuovissimi fucili a ripetizione, tra l’altro costruiti in Italia, si è tanto favoleggiato, a cominciare dal gen. De Failley, che nel dispaccio al governo francese riferiva: “Les Chassepots ont fait merveille” sui petti degli italiani . Una battuta di cattivo gusto e una falsità, che serviva ai vincitori e giustificava gli sconfitti. La verità, come riferiva il garibaldino Augusto Monbello nei suoi ricordi, è che si inceppavano continuamente; i francesi poi dimostravano una pessima mira, tanto che i loro tiri s’alzavano di due terzi almeno sopra il bersaglio, finendo per lo più sulla parte alta del castello.

Ben altre furono le cause della sconfitta dei volontari: – costretti ad ingaggiare battaglia con le truppe pontificie fin dal primo mattino, si trovarono ad affrontare esausti i nuovi arrivati; – a nulla valse il coraggio di un esercito logoro e stanco, sprovvisto di artiglieria, ridotto ormai da perdite e diserzioni a meno di 5.000 uomini; – lo stato maggiore di Garibaldi non era più quello efficiente e sperimentato della Repubblica Romana o della Spedizione dei Mille.

Anche i garibaldini stanchi e laceri tornarono indietro, feriti nel corpo e nell’anima. “A Terni fu di nuovo l’ appuntamento”, questa volta triste e doloroso.

Delusione e rabbia avevano sostituito entusiasmo e speranze. Non si cantava più: “a Roma anderem, a Roma anderem” ma: “il sangue versato a Roma e Mentana / di sangue francese, impreca fiumana”

La città commossa e stordita piangeva con dignità i propri morti, curava con rassegnazione i feriti, accoglieva con affetto quei giovani sconfitti ed umiliati. S’adoperava infine per il loro rimpatrio.

Ma prima che lasciassero Terni, volle onorarli con una grande festa a Piazza dell’Olmo con balli, canti patriottici e fiumi di vino. Cantando a squarciagola “Su Roma, su Roma dobbiamo tornar” s’esorcizzavano delusione e rabbia, si alimentavano di nuovo illusioni e speranze, si riaffacciava nei cuori più forte che mai il sogno di Roma Capitale.

Il XX settembre non era poi così lontano.

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