IO ME NE FREGIO. ETTORE PETROLINI, COMICO E MASSONE

IO ME NE FREGIO:

ETTORE PETROLINI, COMICO E MASSONE

di Giovanni Greco

Sin dal 1924 la distruzione delle logge e la dura repressione nei confronti della massoneria da parte del fascismo sono ben note. Naturalmente non mancarono delle eccezioni, uomini e situazioni

tollerate, come nel caso di Italo Balbo e di Roberto Farinacci, di Badoglio o di Cavallero, o come nel caso del grande attore comico romano Ettore Petrolini che Mussolini trovava esilarante e che quando si recava a vederlo nascondeva il riso dietro un fazzoletto. Non casualmente gli fu perdonata anche la battuta che fece, dopo aver ricevuto un’onorificenza dal fascismo, allorquando parlando della medaglia ricevuta disse sornione “io me ne fregio”. Il suo talento anche nelle battute fulminanti era assoluto, ma “non ci tengo, né ci

tesi mai”. Ettore Petrolini (1884-1936), nome d’arte Ettore Loris, sin da piccolo – “vorrei tornar bambino da tutti accarezzato” – aveva un innato senso della commedia e dello spettacolo al punto che, come

lui stesso racconta: “Da ragazzino – potevo avere undici o dodici anni – se vedevo un funerale, immediatamente mi accodavo. Poi, piano piano m’intrufolavo fino ad essere vicino ai parenti del morto; assumevo un’aria afflitta e fingevo di commuovermi fino alle lacrime, per farmi compatire dalla gente: povero figlio quanto mi fa pena. Ma

perché facevo tutto questo? Perché facevo già teatro”. In fondo non era il solo a pensarla così, tant’è che lo stesso Paolo Sorrentino pensa che andare a un funerale è come andare in scena (cfr. “La grande bellezza”) e che ci sono regole e rituali ben precisi da rispettare. Ai parenti del defunto bisogna dire: nei prossimi giorni, quando ci sarà il

vuoto, potrai sempre contare su di me e a un funerale non bisogna mai piangere, perché non si può rubare la scena al dolore dei parenti del morto perché questo è immorale. Già da allora forse Petrolini

poteva dire: “sono un uom dei più cretini, son Petrolini” o come poi ribadirà nella raccolta di canzoni “Melanconie petroliniane” 1915, quando faccio certe cose “io sono un farabutto” risultando titolare di una comicità che definirei anarchica e totalizzante. Del resto, sosteneva Aristotele, senza un granello di pazzia nessuno è stato geniale.

Era molto legato alla sua mamma che lo aiutò sempre in tutti i modi a fronte dei rigori del padre spesso necessari. Dal riformatorio e da un’infanzia infelice a volte non si guarisce mai. Certo è che non prese neanche la licenza elementare e non volle imparare un mestiere, malgrado il padre fabbro e il nonno falegname, perché lui voleva seguire la sua grande passione e all’inizio lavorò in varietà di infimo ordine, in teatrini improvvisati come un vecchio granaio a Campagnano, fu inserviente e clown nel circo dei fratelli Belley, si travestì persino da sirena in una squallida baracca di giostrai: “fu una vita selvaggia, allegra e guitta, e un’educazione a tutti i trucchi e a tutti i funambolismi” davanti a un pubblico che mangiava lupini

e poi tirava le bucce sul palcoscenico.

Col tempo passò dal repertorio dei guitti a una caratterizzazione specifica, unica, sviluppando la sua propensione verso le vere o presunte “cretinerie”. Anche la Culeide di Rossetti e Petra, laddove s’inneggia al deretano di Carolina, ben si attaglia alle sue prime recite per un popolino di lenoni e prostitute, di giovani sfaccendati e malavitosi: “credo non v’è/non fuvvi mai nel mondo/ fra quanti più

bei culi/ unqua fiorito/ più tornito/più vago e più giocondo”. Non dimentichiamoci che sinanco i piedi sono ricordati sin nei minimi particolari perché le “scemenzuole” non devono mai mancare: “son bianchi ma sembran neri, per i tuoi piedi d’amor mi consumo, il loro arcano sublime profumo m’inebria l’anima e mi fa svenir” (“Serenata

pedestre” 1918). La costruzione della sua carriera artistica avvenne

proprio all’estero, via via perfezionando e sperimentando, con recite sempre più apprezzate in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Svizzera, in Austria, oltre che in Egitto, in Libia e in Tunisia.

All’estero Petrolini “biascica tutte le lingue e non ne parla nessuna”, ma il pubblico grazie alla sua mimica straordinaria lo capisce e lo apprezza egualmente.

Sul palcoscenico duettò con Ines Colapietro colla quale si maritò, che però poi stanca dei continui  tradimenti lo lasciò e così duetterà con tante altre dive del varietà dell’epoca, da Ersilia Sampieri ad Anna Fougez, da Olimpia d’Avigny a Maria Campi: “Maria Campi è quella cosa, che innamora il giovinetto, se ci vai una volta a letto, stai sicur

non campi più”. “Benedetto fra le donne” fu proprio la rivista ritagliata ad arte sulla sua vita di intrighi sentimentali e passioni, ma si dedica anche a Bice “solo io la fo felice”, a Rina che “per me è la cocaina”, a Nina “l’ammore mio sta dentro una bottega de fruttarolo, Nina apri le porte del cor, Nina la merce se guasta se sta sempre in magazzino”.

Certo è che l’amore è sempre al centro delle sue canzoni e delle sue commedie, “la pulzella ancor giunta qui non è” (“Il conte di Aquafresca” 1918), o “se c’avessi un friccico d’amore per me sarebbe sempre primavera” (“Tango romano” 1935) o ne “Il curato del villaggio” che “la contadinotta fai dannar”.

Come il suo personaggio chiave Gastone, Petrolini ebbe tanti amori, tanto per lui il matrimonio era “la tombola dell’amore: uno vince altri 99 rimangono fregati” e i suoi lazzi sull’amore sono infiniti. Speciale la sua perizia nell’improvvisare con battute fulminanti anche impreviste, frutto della circostanza e del rapporto controverso col pubblico (come quando a chi lo fischiava diceva “io non ce l’ho con te, ma con quelli che stanno vicino a te e che nun t’hanno buttato da sotto”), ma di norma le sue battute, i suoi monologhi sono quanto di più studiato a tavolino si possa immaginare in quanto frutto degli umori del popolo nelle strade. Esattamente al contrario di un altro attore straordinario,

anch’egli massone, il principe De Curtis, Totò, che dell’improvvisazione e della capacità d’inventare le battute all’impronta, quasi senza copione, solo sulla base di una labile traccia, faceva un suo fondamentale punto di forza. Anche dopo la seconda guerra mondiale, molti sono stati gli attori e i comici del milieu massonico da Aldo Fabrizi a Tino Scotti, da Carlo Dapporto ad Alighiero Noschese, da Oliver Hardy a Leopoldo Fregoli, il re del trasformismo. Per Alessandro Blasetti Petrolini “è prepotente,

geniale e popolare” e la sua arte determina una satira politico-clericale agguerrita e pungente, tutta tesa ad amplificare e deformare la realtà. Forse nessun attore mai è stato tanto capace di deformare

la realtà come Petrolini, per lui l’arte più vera era nel deformare. Groucho Marx, nato solo sei anni dopo, certamente vedendolo sulle tavole del palcoscenico, avrebbe detto che lì c’era un uomo con una mente aperta e lo spiffero si sentiva sin laggiù.

Ha creato e cantato tante canzoni indimenticabili,

come “Na gita a li castelli”, come “Nun me scordo”, come “I salamini” (1918) “ho comprato i salamini e me ne vanto” dove ribadisce che alle

nozze naturali si vergogna lei e alle nozze d’argento si vergogna lui, come “La canzone delle cose morte”, come “Tanto pé cantà” (1932), una canzone che si può cantare anche senza voce “basta ‘a salute, tanto pe’ sogna’, pe’ fa’ la vita meno amara”, canzone poi ripresa anche da Gabriella Ferri, Gigi Proietti e Nino Manfredi. Fra i tanti personaggi interpretati, forse quello più riuscito, indimenticabile, è quello di Gastone – la madre lo chiamava Tone per risparmiare il Gas -la cui prima assoluta fu nel 1924 al teatro Arena del Sole a Bologna, satira puntuta del bell’attore stanco, affranto, compunto, fine dicitore, vuoto, “raro, io me faccio pagà caro”, “bello, non ho niente nel cervello”, “senza onore di se stesso”, ch’era nato col frac “perciò porto bene il frac” perché la mamma non gli aveva messo le fasce

quand’era nato ma un fracchettino “sembravo una cornacchia” (col quale frac verrà poi deposto nella bara) molto ricercato nel parlare, nel vestire, ricercato dalla polizia, pallido di cipria e di vizio, conquistatore di donne a getto continuo, “che ha le donne a profusione e ne faccio collezione e vado sempre a pecorone”.

Con Gastone non bisogna, egli dice, fermarsi alla superficie bisogna andare a fondo nelle cose, bisogna ascoltar bene quello che c’è dentro, quello che c’è sotto, “è il mio motto, sempre più dentro, sempre più sotto” e con Gastone scolpì il disprezzo verso i divi e le divine dell’epoca. A teatro e al cinema poi ne vestiranno i panni Fiorenzo Fiorentini, Mario Scaccia, Gigi Proietti, Massimo Venturiello, Nino Manfredi e Alberto Sordi. Gastone è la rappresentazione di un attore di infima categoria, uso corteggiare e fare il cascamorto con attricette e ballerine, un uomo con le sue contraddizioni e la sua sostanziale solitudine.

Gastone nasce artisticamente dalla macchietta del bell’Arturo, svenevole e affettato deficiente istrionico, beniamino della città, amante indaffarato, “per me le donne vanno in frenesia, io le maltratto e le fratturo” e solo successivamente divenne il

protagonista dell’omonima commedia.

Da Gastone, dal gagà svenevole e stupido, poi passerà al capo di

una banda di viveur in Venite a sentire (1915) che “magnano,

beveno, dormeno, se devertono e vanno a spasso”. Petrolini ha portato ai massimi livelli l’idiozia, “imbecille io son”, una sorta di elogio dell’idiozia, di alcuni amava dire è “un idiota con sprazzi di imbecillità”, da Marinetti a pomposi pezzi da novanta del pnf e dintorni. Secondo Pietro Pancrazi Petrolini ha avuto la capacità e “il coraggio di essere idiota, apertamente, liberamente e allegramente

idiota”, basti ricordare: “sono un tipo estetico, asmatico, sintetico, linfatico, cosmetico”, o anche per dirla con Castellani “omerico, isterico, generico, chimerico”. Del resto Petrolini stesso spiegò

dettagliatamente che cosa intendeva al riguardo: “Io studio l’ignoranza, sondo la stupidaggine, anatomizzo la puerilità, faccio la vivisezione di ciò che è grottesco e imbecille sull’esistenza del prossimo e le marionette che ricavo sono la scelta colta a volo e cristallizzata nella ridicola smorfia di una maschera che resta come un documento adatto per arricchire il museo della cretineria”. Come sostiene Enrico Giacovelli la commedia all’italiana non raggiungerà mai “l’idiozia pura astratta, assoluta” di Petrolini, ma la surrogherà con la descrizione dell’idiozia della società dei consumi. Lo stesso Petrolini sosteneva in relazione all’idiozia delle sue commedie: “Molti  l’interprete dell’idiozia sublime, che è la sola fuga possibile da questo mondo troppo logico, dove esistono troppe cose insolubili e troppe domande senza risposta e dove esiste un’arte che la sola logica

non può avviare alle soluzioni estreme”. Aveva in certi suoi personaggi una risata quasi da folle, sardonica, a mezzo fra l’insulto e l’imprecazione, inframmezzata da “frasi fatte e frasi sfatte” come per esempio che bisognava prendere il denaro dai poveri, ne hanno poco ma sono in tanti, oltre alla sottolineatura delle meschine vigliaccherie

e infingardaggini della società del periodo.

Ebbe prima uno straordinario successo all’estero

e a Parigi era solito frequentare gli ambienti dei fuoriusciti antifascisti e qui vi era il Petrolini più serio e prudente, che voleva sviluppare quei contatti ma senza compromettere se stesso e gli amici appartenenti anche al fuoriuscitismo massonico. Fu soprattutto con persone stimate e rispettate conosciute nei vari paesi, durante le sue recite, che si formò la convinzione di dover aderire alla massoneria e conformarsi ai suoi valori. In particolare assai rilevante il rapporto che Petrolini ebbe con Trilussa, sia sotto il profilo della collaborazione artistica, di testi per le scene, sia sotto il profilo della comune fede nella massoneria e non casualmente Trilussa scrisse per lui numerosi pezzi spassosi e beffardi. Petrolini interpretò molte macchiette fra cui Fortunello, Napoleone, Fausto, Margherita, Toreador e Giggi er bullo ch’era stato dodici-tredici volte carcerato “al nome de Giggetto a gente adda tremà. Ce n’ho mandati tanti all’ospedale. Ma tanti, che nun se sa”, mentre fra le sue riviste ricordo almeno “Acqua salata”, “Amori di notte”, “Il padiglione delle meraviglie” e fra le commedie “Chicchignola”, “Quarantasette morto che parla”, “Ottobrata”,

“L’illusionista”, “Guasto all’ascensore”, “Il cortile” di F.M. Martini e “Un garofano” di U. Ojetti. Attraverso i suoi films, le sue commedie e le sue macchiette fu il vero fustigatore dell’Italietta dei suoi tempi, sforzandosi di non andare troppo oltre il segno, cercando di non farsi bloccare dalla polizia politica e dalla burocrazia, rimanendo sempre

in bilico col fascismo per poter continuare a lavorare ribadendo spesso che quelli erano solo i lazzi di un guitto e come tali andavano considerati. Perciò fu una delle rarissime circostanze in cui si tollerava l’ironia, come per esempio nel caso Girolimoni. Lui si presentava sul palcoscenico con due grandi limoni nelle mani e non diceva una parola sin quando qualcuno del pubblico lo apostrofava:

“’a Petrolì che stai a fa?”, “non lo vedi” rispondeva “sto a girà i limoni”.* In realtà Petrolini sotto sotto, pur evidenziando le contraddizioni sociali del tempo, dava peso a una sorta di connubio

col futurismo e sperava che Mussolini potesse alla lunga risultare un punto di riferimento importante per il nostro paese, quindi ne coglieva le contraddizioni e la ridicolaggine, ma raramente auspicava una palingenesi politica: “come un giullare di corte Petrolini si può permettere di ironizzare sul fascismo” (G. Adinolfi). Certo è che

Mussolini si divertiva moltissimo con lui sulla scena, ne considerava l’acutezza e la profondità dietro la maschera della stupidità e dell’idiozia, arrivando al punto da scrivergli sinanco un biglietto per giustificarsi di una sua improvvisa assenza ad uno spettacolo a cui non voleva mancare: “Mi dispiace, ma non voglio perdere l’occasione

di esprimervi tutta la mia simpatia e ammirazione. Voi siete un grande artista! Saluti. Auguri. Mussolini”. Petrolini ebbe non a caso dal fascismo la legion d’onore per meriti artistici e fu investito come il campione dell’italianità all’estero. E lui mentre da un lato segretamente teneva contatti con massoni antifascisti, dall’altro in segno di riconoscenza componeva la canzone “Roma” offrendola al duce. Anche dalla sua commedia “E’ arrivato l’accordatore” si intuisce molto delle sue capacità di equilibrista politico. Del resto lo stesso

Hitler, in occasione di una proiezione privata de “Il grande dittatore” di Chaplin rise di gusto di se stesso, circostanza paragonabile al “Nerone” di Petrolini in cui tanti individuavano la parodia dello

stesso duce e della retorica imperiale del tempo. Anche negli stornelli di “Er sor Capanna”, imitazione di un cantante romano dal vero, alla fine della canzone tutti si alzano in piedi, ma “solo Giovannino lo speziale essendo un sovversivo restò a sedere, io c’ho piacere, mantengo li principi nel sedere”.

In effetti Petrolini aveva ben chiare le relazioni e i nessi politici e l’articolazione dell’universo latomistico. Infatti come ricordano fra gli altri Luigi Pruneti e Giuseppe Seganti, Petrolini era stato iniziato nel 1923 – proprio l’anno in cui il 28 giugno Mussolini gli dedicò una sua foto con dedica “a Ettore Petrolini artista d’eccezione con simpatia

Mussolini” – presso la loggia “Nazionale” di Piazza del Gesù e lo fece proprio in una fase di passaggio dal governo fascista al regime fascista e nel periodo della distruzione delle logge. Il suo amico

Trilussa non casualmente sosteneva: “la fratellanza universale che ci riuniva tutti in una fede finì cò la chiusura der locale” Non casualmente Petrolini ha sempre inserito nei suoi spettacoli il dubbio,

collocando costantemente delle crepe per far pensare e per far vacillare talune certezze. La sua arte è soprattutto quella di accordare i disaccordi e consisteva nel mettere in consonanza numerose scale di tempo. Ha sempre avuto la bussola della curiosità per scandagliare l’animo umano, cercando di rubare granelli di sabbia alla furia del

vento, operando come cercatore di storie e come narratore di vita. Credo che Petrolini rappresenti una delle più alte espressioni del massonicum acetum, cioè dell’italica mordacità massonica, come

Orazio, ricalcando Plauto, definiva l’acre e caustico spirito di certe fulminanti battute e parodie. Al di là delle apparenze e della facciata di primo impatto, Petrolini è in realtà un archeologo di trame sepolte e di esistenze nascoste e un sottile e lucido analista di quella matassa intricata che è l’animo umano. In fondo in tutta la sua vita artistica è rimasto lo scugnizzo che andava a piangere ai funerali per prendersi gioco delle persone e per strumentalizzare persino i morti, e quello scugnizzo sino alla fine non uscirà mai di scena. Le sue recite sono assimilabili a fuochi d’artificio: iniziano con pacate esplosioni e forme e poi vi è un crescendo che impegna l’attenzione e poi il gran finale che sbalordisce con un’esplosione di umanità.

Il registro del becero, del basso, del non senso è la sua forza, è la sua chiave sarcastica e pungente per ironizzare e infilzare, per cogliere gli

aspetti più ipocriti della società del tempo. In realtà Petrolini è stato un grande campione dell’avanspettacolo e del varietà, un umorista

raffinato che ha saputo magistralmente raccontare anche vite spezzate, violenza e miseria, di dimenticati, prostitute, del popolo dei vicoli e della “plebe” romana.

Soprattutto nella maturità Petrolini si chiede spesso chi veramente è e si definisce “il saltimbanco dell’anima mia” perché ha portato sulla

scena della vita “la freddura idiota, il colmo, il paradosso” sviluppando all’ennesima potenza la capacità di acquisire spunti e battute da ciò che vedeva e scotomizzava, alterando e modificando ai

suoi fini: “io rubo sempre, ovunque e a tutti” avendo però come fonte principale il vocabolario, suo strumento adorato e scandagliato sin nei più sottili meandri e come punto essenziale di riferimento Roma e i romani. A Roma Petrolini ha dedicato tanto del suo lavoro, stornellate, memorie dei suoi luoghi più belli, ritratti unici di situazioni e di persone e così anche la sua città lo ripagò con un piccolo tributo. Nel 1994 a Roma al Testaccio è stato creato un teatro a lui dedicato, il teatro Petrolini fondato da Fiorenzo Fiorentini e Paolo Gatti, prima in via Gessi poi in via Rubattino, dove si fa prosa e cabaret “in uno spazio intimo”. Nel 2001 gli eredi di Petrolini hanno effettuato una cospicua donazione dell’intero archivio alla Biblioteca e al Museo teatrale del Burcardo di Roma.

Sentendosi ormai alla fine della vita, volle comprarsi una casa che arredò nei minimi particolari, quasi una sorta di museo delle sue memorie, delle sue foto e dei suoi trofei: “non voglio morire in

una casa in affitto”. A 52 anni morì per una grave forma di angina – la

“signora Angina” da anni era una “spalla” nei suoi spettacoli – di cui da tempo soffriva, ma come ironizzava di solito le malattie lui le aveva tutte, “sono l’upim delle malattie”. Del resto cantava “sono contento di morire ma mi dispiace, mi dispiace di morir ma son contento”. Una delle ultime frasi fu quella che avrebbe tanto ancora una volta voluto rifare “Mustafà”, che era stato il suo cavallo di battaglia di maggior pregio col quale aveva raggiunto “le più alte vette dell’arte comica”

(S. d’Amico). Quando arrivò il prete con l’olio santo non poté esimersi dal dire: “adesso sì che sono fritto” e ormai in punto di morte al   medico pietoso che cercava di incoraggiarlo e che faceva mostra di un certo miglioramento, Petrolini gli rispose: “meno male così almeno moro guarito”. Alla fine se questa modesta riflessione sul percorso

teatrale e latomistico del grande parodista, per dirla con lui, se vi à piaciato bene, altrimenti “Petrolini è quella cosa che ti burla in ton garbato, poi ti dice: ti à piaciato? Se ti offendi se ne freg”. *Si tratta della ben nota vicenda relativa al fotografo romano Gino Girolimoni, accusato e incarcerato per aver ucciso e violentato delle bambine (1923-1927). Un dramma terribile che creò enormi imbarazzi al governo Mussolini a maggior ragione che poi l’uomo venne

scarcerato perché ritenuto innocente e il vero colpevole mai arrestato. Già solo pronunciare il suo nome era un tabù e da allora il nome di Girolimoni, che ne ebbe la vita devastata, è stato spesso usato ingiustamente come sinonimo di mostro.

“a Ettore Petrolini artista d’eccezione
con simpatia Mussolini

MassonicaMente 20 n.12 Mag.-Ago. 2018

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