LA GIUSTIZIA DI PINOCCHIO

La giustizia di Pinocchio

Delfo Del Bino (Laboratorio n. 17-1995)

Quando Carlo Lorenzini licenziò il suo buratti­no destinato a divenire famoso, sapeva, raccontan­do le sue avventure, di dire molte cose sagge, ma non immaginava il successo che avrebbero avuto più di un secolo dopo, certe sue profetiche intuizioni.

“Pinocchio,” scrisse nel capitolo XIX, “alla pre­senza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode di cui era stato vittima, dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.

Il Giudice lo ascoltò con molta benignità, prese vivissima parte al racconto, s’intenerì, si commos­se e, quando il burattino non ebbe più nulla da dire, suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da gendarmi.

Allora il Giudice, accennando ai gendarmi Pinocchio, disse loro:

—Quel povero diavolo è stato derubato di quat­tro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo su­bito in prigione.

Con questa descrizione il Collodi, introdusse il “non senso” nella letteratura infantile: si tratta di un non senso che propone esattamente il contrario di quanto ci si potrebbe attendere: e, infatti, in que­sto caso, non i malandrini che avevano carpito la buona fede del burattino vengono cacciati in prigio­ne, ma nientemeno che la vittima.

Un non senso, questo, che non è mancanza di senso comune, ma il suo esatto contrario.

Possono verificarsi nella vita corrente fatti che capovolgono le attese, com’è accaduto a Pinocchio, punito per essere rimasto vittima dei malandrini?

Purtroppo sì.

Vediamo cos‘è successo a Roma, in quell’alto consesso di Magistrati chiamato Consiglio Superio­re della Magistratura. Leggiamo la notizia come viene riportata dai Giornali: “Il giudice massone va punito, perché “abusa del diritto ad associarsi li­beramente”. Un diritto che la Costituzione ricono­sce a tutti i cittadini, ma non ai magistrati, che devono godere di un prestigio particolare: essere ed apparire al di sopra di ogni sospetto. L’affiliazione alle logge, secondo il CSM, desta invece sospetto.

È presente in larghe fasce dell’opinione pubblica, negli organi di comunicazione di massa affer­mano al palazzo dei Marescialli — nel dibattito politico-culturale del nostro Paese, un ‘immagine della massoneria fortemente segnata anche dalla pratica dello scambio di protezioni e di favori, e dalla costituzione di centri di potere e d’interessi. L ‘a/filiazione alla massoneria — argomenta la sen­tenza — viene diffusamente apprezzata come un disvalore per il magistrato. Una prova? Lo sdegno che connota le smentite dei personaggi pubblici sulla loro appartenenza alla massoneria, Per la pri­ma volta, il CSM fissa l’equazione: giudice che si iscrive alle logge uguale a giudice che viene meno al suo prestigio (da La Nazione del 17.1.95). E poi­ché non si poteva condannare il giudice senza pri­ma aver condannato la Massoneria, lo si è fatto senza badare a spese (dello Stato, naturalmente) si è proceduto condannando la Massoneria, per insuf­ficienza di prove, visto che i teoremi non dimostrati possono premiare la fantasia, giammai la verità. Cosi, con un colpo solo si è condannato il giudice e la Massoneria. Domandiamoci: da dove e da chi proviene la constatata presenza in larghe fasce del­l’opinione pubblica, di un’immagine della Masso­neria fortemente segnata anche dalla pratica dello scambio di protezioni e di favori, e dalla costitu­zione di centri di potere e di interessi? Quali sono i“fatti” che hanno consentito il formarsi ditale im­magine, in larghe fasce dell’opinione pubblica? O piuttosto quali sono state le campagne di stampa contro la Massoneria e chi le ha alimentate con livore senza portare la benché minima prova?

È proprio grazie a tali campagne, promosse con pertinacia pari soltanto alla iniquità degli obiettivi, che larghe fasce dell’opinione pubblica sono state costrette a far propria un’immagine della Massone­ria distorta e lontana dalla realtà.

Potremmo fare l’elenco di coloro, uomini e isti­tuti, che hanno alimentato tali campagne diffama­torie senza produrre un dato che è un dato, ma sempre e soltanto tanti “sospetti”, tante teorie. For­se tra questi, troveremmo anche qualche magistrato che per inseguire una propria teoria e un’idea affat­to personale della Massoneria, si è abbandonato a dichiarazioni  che poco dicono, ma molto lasciano intendere all’astuto cronista che subito riprende, modella, intesse, arricchisce. In certi momenti le notizie negative si sono succedute a mitraglia fin­ché, affievolendosi l’interesse, tutto si è attenuato. Tuttavia, il danno è stato arrecato: il sospetto, l’insinuazione, la diffamazione, ascoltati dalla viva voce del mezzobusto televisivo o letti sulla carta stampa­ta, hanno perduto l’aura tremolante del dubbio e sono divenuti stabili certezze.

Per il CSM, quando il sospetto o la diffamazione, siano riusciti a farsi strada nell’opinione pubblica, non sono più sospetto e diffamazione, ma si sono trasformati in certezza e verità. Che importa se il tanto indagare non ha raggiunto alcun risultato po­sitivo e si sia rivelato un’iniziativa deludente? Non serve più indagare per accertare la verità, perché quella c’è già.

Cosi le vittime, la Massoneria e il massone, come Pinocchio, vengono punite: che imparino a vivere, a non farsi frodare dai malandrini e a non farsi diffamare dai propri avversari.

Una sentenza esemplare che ha il solo torto di non fare giustizia, giacché fare giustizia è cosa ben diversa: significa in primo luogo giudicare secondo verità contro ogni apparenza e ogni suggestione, anche se ciò corrispondesse all’immagine che se n’è fatta l’opinione pubblica, quel nuovo mostruoso potere ormai divenuto l’espressione moderna della dittatura della maggioranza tanto temuta da Mill e, come tutte le dittature, ingiusta e insensata.

È qui che il discorso, in apparenza contradditto­rio, presenta una propria dignità scientifica. Ed è qui la grande mistificazione dovuta alla antica ed attuale equivalenza potere-sapere-verità.

I pericoli per la democrazia liberale si annidano all’interno della stessa democrazia liberale. La ve­rità, valore che da sempre si esprime in termini qualitativi, diviene oggi valore che si esprime in termini quantitativi. Dire che un oggetto è di ferro e pesante, equivale a esprimere un apprezzamento l’oggetto stesso: equivale quindi ad affermare la ve­rità. Ma secondo la procedura attuale la verità può essere un’altra legata non solo alle qualità dell’og­getto, ma alla sua apparenza: il tutto con la media­zione dell’opinione, rilevata con la tecnica del son­daggio. L’oggetto di ferro e pesante, può divenire di legno e leggero, o di plastica e leggerissimo, e quella sarà la nuova verità, la verità della gente, la verità che conta, frutto del potere concreto che alla gente viene riconosciuto. Il potere passa dunque all’opinione e, insieme al potere, il sapere che reca con sé il suo più prestigioso prodotto: la verità. La verità non è più tributaria di procedure empiriche e di metodi oggettivi di ricerca e di accertamento, ma deve tutto al metodo soggettivo della persuasione che convince la gente. Non si crede più a ciò che direttamente si constata, ma a ciò che è rilevabile con un sondaggio e si generalizza in opinione.

Opinione uguale verità, quindi. Che Tizio sia innocente o colpevole conta fino ad un certo punto:

conta molto più l’opinione che su di lui si è forma­ta. Non è importante che egli sia onesto o ladro, capace o inetto: è importante che sia ritenuto tale dall’opinione. Non conta il fatto in sé, ma l’opinio­ne sul fatto.

Alla verità storico-empirica si contrappone quin­di la verità della gente, l’opinione, anche se essa poggia su una piattaforma di falsità. Che importan­za può avere oggi la verità qualitativa, e come può essa contrapporsi con successo alla verità quantita­tiva, che è poi quella ben altrimenti significativa della gente, l’unica che conta?

Così è (se vi pare). È il titolo di una fortunata commedia di Pirandello, nella quale la verità, rap­presentata dall’identità di una donna, oggetto di di­sputa tra diversi osservatori, finisce col non interes­sare più a nessuno, nemmeno a lei che, alla fine, uscirà col dire: “per me, io sono colei che mi si crede”.

La conclusione è amara, ma rispecchia corretta­mente i tempi che la esprimono e che alla realtà dell’essere hanno preferito contrapporre la realtà dell’apparire. Non è vero ciò che è, ma ciò che sembra.

Perché un fatto sia vero, deve anche sembrarlo.

Ed ecco che si apre una grande era, quella della verità come progetto, un’era che ha avuto fino ad oggi egregie anticipazioni non solo letterarie, ma che da oggi dovremo abituarci a considerare nor­malità per le relazioni umane. Anche senza il con­tributo dell’apparato della forza spiegata dalla poli­zia del Re o del Tiranno, ma con la dolcezza della persuasione a mezzo del video o della stampa, si possono costruire tutte le verità che si vogliono.

Condannare e assolvere a piacimento.

È quanto si è fatto per la Massoneria e, ciò desta maggior rammarico, col contributo di alcuni uomini di Chiesa e di alcuni magistrati.

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