DANTE ESOTERICO

DANTE  ESOTERICO

di Negidioo

Quando si è in presenza di un’opera eccezionale, come le sculture di Fidia, i dialoghi di Platone, le cattedrali gotiche, possiamo senz’altro sospettare l’intervento di un iniziato. La Divina Commedia è una di queste opere eccezionali. Il genio di Dante ha sempre riservato non poche sorprese e, nonostante secoli di studio, egli resta ancora inesplorato. Anche da una lettura superficiale, si intuisce l’esistenza sotto «il velame de li versi strani» di una realtà nascosta, di un ideale inconsueto che ha piegato l’artista alla grande fatica, cui «ha posto mano e cielo e terra».

Prendiamo come spunto la Vita Nova. Un comune testo di letteratura ci dirà che la Vita Nova è: «una specie di romanzo mistico di prosa e di versi dedicato a esaltare una Beatrice, morta nel 1290… La poesia nasce dalla dilatazione quasi assurda, eppure autentica, di una tenue sostanza sentimentale». Più sotto ci dirà: «le rime pietrose sono un gruppo di rime ispirate da una donna chiamata Pietra. Esse sono essenzialmente un’esercitazione letteraria con la quale Dante sperimenta uno stile aspro, violento, realistico, contrario quindi allo stile dolce del periodo precedente» (Salinari, Profilo storico).

Leggendo invece il testo dantesco ci meravigliamo della precocità di un amore a nove anni, tanto più se questo periodo viene pianto con queste parole: «Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps». Veniamo poi a sapere al Cap. XXIX che la morte di Beatrice: «secondo l’usanza d’ Arabia avvenne nella prima ora del nono giorno del mese, e secondo l’usanza di Siria Ella si parìo nel nono mese dell’ anno». Sapendo da Dante stesso che il nove è il numero del miracolo e che nell’ora nona, più tardi, gli apparirà ancora Beatrice in vesti rosse, come gli era apparsa all’ora nona tanti anni prima quando lo salutò, possiamo credere che tutto sia un parlare cifrato. Tanto più che nel Cap. XXVIII dice che non vuole parlare della morte di Beatrice perché «non è convenevole a me trattare di ciò per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo» e, aggiunge  (nel Cap. XXX) che «poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade» per cui sentì il bisogno di scriverne a tutti i principi della terra. La celebre donna Pietra, che i critici non sanno identificare, diventa un concetto chiaro solo per chi conosce la letteratura sul Graal (la pietra celeste), ossia la pietra caduta dal cielo, che è sempre dono di Dio agli uomini, e sapendo che Pietro è la pietra su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa, ma che è anche la pietra in cui i Papi simoniaci sono puniti nell’Inferno con la testa in giù.

Può essere chiarificatore anche il distico di Francesco da Barberino:

«Caro impetra, amor di Petra chi so’ petra, Petre impetra»

(in cui caro significa a caro prezzo e so’ significa sotto).

Dante vuol far capire che intende veramente utilizzare quel quarto senso delle scritture, cioè il senso anagogico per cui le parole vanno intese per quel che si riferiscono alla vita spirituale.

Dobbiamo quindi aiutarci con tutti i documenti del tempo per sperare di aver la chiave di questo enigma.

Nella Vita Nova egli stesso nomina sette volte i «fedeli d’amore» e teorizza sul loro «cor gentile » come del resto fa nel Convivio (30 , 2, 23):

«Ogni intelletto di là su la mira, e quella gente che qui s’innamora nei lor pensieri la truovano ancora, quando amor fa sentir della sua pace».

Aggiunge che devono parlare in lingua volgare, utilizzando di preferenza certe parole di cui egli dà nove esempi:

«Amor, donna, disìo

Virtude, donare, letizia

Salute, securitate, difesa» (20, 7)

Il Manzoni, cercando con tutto il suo acume la soluzione del problema della lingua nel «De Vulgari Eloquentia», può tranquillamente affermare che in quel lavoro «non si tratta di lingua italiana, né punto, né poco». Non si capisce perché Dante, fingendo di desiderare un volgare comune, rigetti la sua parlata toscana e preferisca invece i dialetti siciliano, pugliese e bolognese, se non si tiene presente che questi erano i dialetti dei gruppi più forti dei «fedeli d’amore».

Notizie sui «fedeli d’amore» ci sono fornite da Andrea Cappellano ne «Le corti d’amore», dedicate a un certo Gualtieri, condannato come eretico nel 1327; da Francesco da Barberino in «Documenti d’amore», considerato un manuale del gruppo, e da Giacomo di Baisieux in «Les Fiefs d’amour», poemetto di 666 versi che parla di una setta ben organizzata, di cui descrive le riunioni, i rituali, la disciplina e gli ideali che perseguiva. Così appaiono più chiari gli accenni alla setta che Cecco d’Ascoli (arso come eretico nel 1327) pone nel terzo capitolo della sua «Acerba». Egli dice che si educavano ad assopire la coscienza, per fare affiorare l’intuizione: «per più vedere, la tua mente assonna». Riferisce inoltre di una risalita che l’adepto deve compiere «di ramo in ramo fino alla luce, passando attraverso i quattro elementi e superando i livelli del corpo delle passioni»: linguaggio chiaramente esoterico per chi conosce la teoria del Ciakra.

Sappiamo d’altronde che il «dolce stil novo» si è ispirato al trobar clus, cioè a quella poesia per iniziati che si è sviluppata in Provenza nell’ambito dell’eresia albigese, e che fu dispersa dalla terribile persecuzione crociata; questa è la ragione per cui Papa Gregorio IX aveva condannato come ereticale la poesia d’amore e per cui Papa Innocenzo IV proibì addirittura di poetare in lingua provenzale. Pier delle Vigne, uno dei primi che ospitò poeti provenzali in Sicilia e imparò da loro quel genere di poesie, dovette subire censure ecclesiastiche, finché il suo amore per i Templari non lo rese sospetto allo stesso suo protettore, Federico II. Gli studi sui «fedeli d’amore» furono iniziati da Gabriele Rossetti e maturati dal Pascoli, dal Valli e dal Ricolfi; essi ci informano che a questa associazione appartenevano, oltre ai già citati Francesco da Barberino e Cecco d’Ascoli, anche Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli, Cino da Pistoia e Giovanni Boccaccio, i quali solevano o dovevano corrispondere tra di loro in poesia cifrata e identificavano il loro ideale con la donna. Sono uno dei primi esempi di comunicazione di un messaggio spirituale segreto attraverso la letteratura; una tendenza che anticipa il modo moderno di considerare l’arte e soprattutto la letteratura come il mezzo esemplare perché un messaggio teologico e soteriologico abbia una durata eterna. La parentela di questa poesia con quella ereticale della Provenza venne complicata dalla relazione tra i «fedeli d’amore» e i Templari. Sappiamo infatti che Dante ebbe la sua prima ispirazione per la «Commedia» esattamente nel 1307, in occasione dell’arresto dei Templari e che fu presente a Parigi, la sera dell’I l marzo 1314, al supplizio del Gran Maestro.

Non è ancora chiaro in che relazione fossero i cavalieri Templari con i Catari Albigesi perseguitati dalla Chiesa. Sappiamo tuttavia che molti Catari furono salvati dalla persecuzione venendo ammessi nel Tempio e che i Templari stessi furono accusati, come i Catari, di tralasciare nella S. Messa le parole della Consacrazione.

Non ci è neppure chiaro se Dante appartenesse a una di quelle sette segrete che fiorirono dopo la soppressione dei Templari. Sembra più probabile che i «Fedeli d’amore» fossero una diramazione di un movimento ereticale francese, nato nell’ambito di quelle terribili lotte di religione.

Certamente Guido Cavalcanti fece un viaggio a Tolosa per gli affari del gruppo, «per vedere donna, che egli onorava in Bologna» e sembra pure che Dante abbia avuto la direzione del gruppo, succedendo allo stesso Cavalcanti, a cui aveva dedicato la Vita Nova, come a suo capo e maestro. Lo stesso Boccaccio, che quasi certamente faceva parte del gruppo, avvertì la necessità di sviare i sospetti che il poema dantesco suscitava negli inquisitori, e sostituì al personaggio di Beatrice una figura anagrafica che trasformasse sia La Vita Nova che il Poema in un semplice messaggio amoroso e letterario. Però confessa: «Io ho messo in galera senza biscotto l’ingrato volgo e senza alcun piloto, lasciato l’ho in mar a lui non noto, benché s’en creda esser maestro e dotto».

Che sostenesse le medesime tesi dei «fedeli d’amore» lo dimostra il fatto che ad aprire il Decamerone siano tre novelle riguardanti la dottrina della Chiesa. La prima sostiene che la Chiesa si può imbrogliare, perché non ha più la luce della chiaroveggenza; la seconda ha per tesi che la Chiesa possiede la verità, ma si lascia corrompere dagli interessi materiali; la terza, infine, che elementi di verità si possono trovare, oltre che nella Chiesa, anche nel Giudaismo e nell’islamismo, una tesi questa molto diffusa nell’ambiente Cataro-Albigese. Che anche Dante non fosse immune dall’eresia lo dimostrano alcune proposizioni del De Monarchia che si ritrovano nella Divina Commedia, la quale non può certamente essere considerata un poema cristiano ortodosso, come hanno dimostrato gli studi del Cardinal Earle e dei teologi Denifle, Jansen e Muller. Sappiamo quale dente avvelenato mostrasse Dante nei confronti della Curia romana «ove Cristo tutto il dì si merca». E noto come si opponesse, da buon Ghibellino, alla teoria delle due spade e delle due chiavi, sostenute dai Pontefici suoi contemporanei. Ma non si è sufficientemente sottolineato il grave errore teologico che lo fa diventare eretico. Sostiene che per la salvezza delle anime devono concorrere parallelamente sia la virtù divina della Croce, di cui strumento è il Papato, sia la virtù divina dell’Aquila che si serve come strumento dell’Impero. Per cui, se la spiaggia del Purgatorio è deserta, è perché manca la virtù dell’Impero e ha il coraggio di affermare che il sacrificio di Cristo è valido come riscatto per il peccato del mondo, perché la Giustizia Divina ha armato la spada del carnefice imperiale: «Ché la viva giustizia che m’ispira, gli concedette, in mano a quel ch’io dico (Tiberio) gloria di far vendetta alla sua ira».

Siccome il peccato originale ha lasciato nell’ animo umano, come «poenalia», l’ignoranza dell’ intelletto e la difficoltà della volontà, devono intervenire sia la Chiesa con la sua luce, sia l’Impero con la sua disciplina, come elemento indispensabile della grazia, anche se poi attenua le tinte con le debite eccezioni.

Beatrice, della Vita Nova e della Commedia, non è un amore femminile, ma l’oggetto mistico che fa beato il «cuor gentile» di un «fedele d’amore». Sembra una riedizione della gnosi, conoscenza spirituale di Dio, raggiungibile già da questa terra con l’aiuto della grazia. Ci si arriva attraverso l’iniziazione, che apre l’intelligenza alla luce dall’alto, e toglie gli ostacoli all’azione della grazia.

Secondo le tesi della psicologia scolastica, l’intelletto passivo viene penetrato direttamente dalla luce senza l’intervento del]’intelletto agente, il cuore ne viene riscaldato e il fedele ha l’esperienza di una vita totalmente rinnovata. Dante ne descrive gli effetti sui suoi tre spiriti

nel primo incontro con Beatrice che lo porta a una totale adesione. La tentazione di ritornare dalla via mistica alla via della conoscenza filosofica, è pianta da Dante come l’esperienza dell’amore per quella donna che lo distrae da Beatrice, cioè per la filosofia. Virgilio quindi non può rappresentare la filosofia nel poema, ma il contributo dell’aquila imperiale nell’economia della salvezza. Tutte le donne gentili della Vita Nova sono gli aiuti che l’anima trova nella strada mistica, come le donne che aiutano la ricerca del Graal. La fonte, il rio, il fiume, sono simboli dei vari passi iniziatici che maturano quel nuovo battesimo che, come un martirio mistico, garantisce la Vita Nova di una nuova creatura in Cristo, di cui parla San Paolo (2 Cor. V-17). Inizia così la strada che porta all’unione mistica con Dio, la rosa mistica o rosa di Sorìa, cara ai poeti persiani e tramite loro alla poesia provenzale.

Quando Dante capì che per immortalare Beatrice, così mortalmente offesa dal processo Templare, non sarebbe bastato il poemetto della Vita Nova, cominciò a pensare al massimo poema.

Il viaggio di Dante e Beatrice comincia nella Settimana Santa del 1300 in concorrenza con l’ Anno Santo organizzato da Bonifacio VIII per quella stessa data, ma al viaggio fisico si accompagna il viaggio misticoallegorico, senza passato, senza presente, né futuro, che è la vera conversione dell’anima dalla miseria del peccato allo stato di grazia. Si passa perciò dalla «selva oscura», che è il sonno dell’anima, alla «divina foresta» dell’Eden, che è lo stato di innocenza originaria, superando il «nobile castello» dei pagani e la «valletta dell’antipurgatorio» cristiano in cui sono bloccate le anime che non hanno avuto completa la luce della grazia o per mancanza dell’apporto della Croce o per quello dell’ Aquila.

L’albero della salita sciamanica è, anche per Dante, l’asse dell’Universo che ha, come estremi, da una parte il monte santo di Gerusa lemme, dominato dal legno della Croce e agli antipodi il monte del Purgatorio dominato dall’albero del peccato originale, con in cima l’Aquila a cui il grifone attacca il timone del suo carro. Al centro di quest’asse c’è Lucifero che stritola con la bocca i traditori della Croce e dell’autorità Imperiale. Tralasciando la concezione ereticale della necessità della presenza dell’Aquila (impero cristiano) per risanare

la difficultas che con l’ignoranza è la conseguenza del peccato originale e, per superare l’ingiustizia che, con la concupiscenza, è la conseguenza del peccato attuale, guardiamo invece la parte positiva del poema. Dante viene accompagnato da Virgilio, che è un po’ il Mago Merlino della situazione, fino all’incontro con Beatrice, la quale, a sua volta, cederà il posto a San Bernardo, simbolo della luce di gloria che riflette quella di Dio. A queste tre figure corrispondono le tre conversioni di Dante: la prima, con Virgilio, prepara a ricevere la grazia; la seconda, con Beatrice, ottiene, con la grazia santificante, le tre virtù infuse, simboleggiate dalla tre donne dai colori diversi, e la terza, con San Bernardo, ottiene la visione di gloria. Le tre conversioni sono preparate da quella specie di svenimenti, che potremmo meglio chiamare estasi purificanti, nei momenti cruciali del viaggio a testimoniare quella morte iniziatica che è necessaria per superare certi livelli di coscienza. La prima avviene al passaggio dell’Acheronte, quando «Caron dimonio» avverte che nessuna persona viva può usare la barca dei morti, ma è necessario un altro legno per arrivare alla spiaggia. Nel Paradiso si dirà che questo legno è quello della Croce, per cui Dante sviene e si ritrova dall’altro lato del fiume, come per un Battesimo che gli impedisce di essere confuso con coloro che hanno subito la seconda morte fatale. La seconda caduta avviene dopo la visione della condanna per i peccati carnali (Paolo e Francesca) ed è necessaria per superare la schiavitù della carne che gli impedirebbe la purificazione successiva. L’ultimo svenimento avviene mentre supera il fiume Lete che lo divide da Matelda, cioè da quella condizione di grazia originale che Adamo possedeva nell’Eden e che permetterà a Dante di recuperare la capacità attiva (e contemplativa insieme), di lodare Dio Creatore attraverso l’opera sua e di prepararsi alle visioni mistiche del Paradiso. A queste estasi iniziatiche bisogna aggiungere i due sogni determinanti, ben diversi dal sonno dell’ignoranza che fa smarrire Dante nella «selva oscura». Il primo sogno fa superare all’anima la stasi dell’Antipurgatorio attraverso il fuoco purificatore, ottenuto con l’intervento dell’ Aquila. Il secondo, della femmina balba che può fissare ancora una volta l’anima nelle illusioni dei falsi valori, anche se non ha la virulenza impietrante della testa di Medusa, e che deve essere superata con la luce interiore che svela gli inganni.

Questi sogni sembrano corrispondere a quei salti cruciali che in ogni esperienza iniziatica il Maestro fa compiere ai suoi discepoli per superare gli ostacoli più significativi. Il viaggio iniziatico deve concludersi con il grande esame finale. Dopo aver superato i nove ripiani dell’Inferno e del Purgatorio che assomigliano alle nove tacche della betulla dell’ascesa sciamanica, Dante si presenta al conventd delle bianche stole che ha fatto pensare ai ritrovi iniziatici templari, che appunto si sono sempre chiamati conventi, in cui si va vestiti di bianco, dentro la candida rosa,

«che mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa»,

che sembra alludere alla rossa croce dei Templari. L’esame è sulla scienza delle tre virtù teologali, cui segue l’abbraccio affettuoso di San Pietro che ripete il rituale iniziatico. L’accenno al pellicano, il triplice bacio, i grandi ceri su cui si fondono i bastoni di ceralacca, possono effettivamente alludere alle sedute iniziatiche templari. Ma più che una dipendenza dai Templari ci interessa sottolineare come il viaggio di Dante sia stato ispirato da altri viaggi iniziatici. Ardai Viraz Namak del secolo IV riferisce visioni avvenute in sette giorni e sette notti consecutive, guidate da due arcangeli che fanno visitare l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso fino al cospetto di Dio. Durante questo viaggio si ritrova il colloquio con Adamo che assomiglia a quello dantesco e la descrizione del Paradiso come il luogo dominato dalla luce. Dante può aver conosciuto il poema presso Immanuel Romano, l’erudito ebreo che conosceva bene i poemi arabi e che può avergli anche fatto conoscere il Fatuhat al-Mekkiyah, le rivelazioni della Mecca di Ibn el-Arabi, e soprattutto dello stesso mistico arabo il Kitab al-lshra cioè il viaggio notturno di Mohammed, che circolava in edizione latina nelle università italiane almeno cinquant’anni prima della Commedia. Anche qui troviamo il lupo e il leone che sbarrano la via al pellegrino e c’è l’intervento di Gabriele che viene mandato da Dio a far da scorta a Mohammed. Anche qui l’Inferno è descritto come un grande imbuto diviso in nove piani, che arriva al fondo della terra, in cui si scontano i vari peccati, uno a ogni gradino. Il Paradiso è pure diviso in nove cieli che formano la rosa dell’Empireo, dominata da una ghirlanda luminosa, e prima di accedervi sono necessarie tre abluzioni purificanti.

La stessa lettura di Ibn el-Arabi aveva educato Dante ai simboli esoterici della cosmologia araba, per esempio, del colore nero del corvo, simbolo del corpo universale, del colore rosso del giacinto, per la natura universale, del colore verde smeraldo della colomba per l’anima universale, del colore bianco della perla e dell’aquila simbolo dell’intelletto primo, simboli tutti che Dante sostituisce con i simboli tradizionali cristiani, mantenendo l’atmosfera mistica e iniziatica dei poemi arabi.

Che Dante credesse veramente alla restaurazione dell’Impero Romano da parte di Arrigo VII, spalleggiato dalle povere sette mistico-politiche del suo tempo, non sembra oggi molto credibile. Una vera restaurazione di un sacro potere civile, accanto all’autorità papale lo avevano fatto sognare i Templari. Ma quando questi scomparvero miseramente, è probabile che a Dante non fosse rimasto che trasferire la funzione regale in un’idea platonica da mantenersi come ideale, e da attuare secondo le possibilità delle circostanze storiche. L’ideale della bilancia e della spada a difesa della giustizia, per mantenere l’ordine e la legge sulle cose terrene e impedire le possibili aberrazioni di una Chiesa asservita a un regno, come sembrava avvenire nel triste periodo della cattività avignonese, poteva ben maturare visioni utopistiche, ma non tali da confondere le idee a una mente positiva come quella di Dante. Possiamo credere che gli fosse gelosamente cara l’idea di una forza spirituale altamente qualificata come quella di San Bernardo a guida luminosa del potere civile, per evitare quelle terribili guerre di religione e fratricide fra Guelfi e Ghibellini che hanno funestato la sua vita. Il vero pellegrinaggio che interessava a Dante era il pellegrinaggio verso Beatrice, da distinguere sia dal pellegrinaggio dei Palmieri che vanno oltremare, sia da quello dei peregrini che vanno alla casa di Galizia, sia dai Romei coi quali Dante non vuole mischiarsi.

Dante non cerca una lingua italiana che già possiede con il suo splen dido toscano, ma piuttosto quella lingua che secondo Ibn el-Arabi «ha l’attitudine ad abbracciare tutte le verità essenziali per essere la vera lingua che ha il potere di benedire (bene-dicere), che è il potere

di Adamo di dare a ciascun essere il suo vero nome». La Divina Commedia, nel suo tentativo esoterico di approfondire il contenuto dei dogmi in una trasposizione metafisica, tende a rompere in trascendenza i limiti intellettuali. Tende a rovesciare, per gli eletti, quelle limitanti barriere religiose che creano le guerre di religiorie, e riaprire quello spazio spirituale cristiano all’influsso e all’assistenza provvidenziale del centro supremo, cui si rifanno sempre le correnti mistiche. Per questo predicava una definitiva unione delle varie autorità spirituali tradizionali che risolvesse anche la dolorosa contesa tra il potere spirituale e temporale.

.

Questa voce è stata pubblicata in Lavori di Loggia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *