CRISTO E QUMRAM – LA CHIAVE DI UN RAPPORTO CONTROVERSO

Cristo e Qumran
la chiave di un rapporto controverso

di David Donnini

Premesse storiche

Dobbiamo iniziare con una rapida panoramica storica riguardante le tappe evolutive della setta del Mar Morto. Tale sintesi prevede una suddivisione nei seguenti periodi:

  • I precedenti storici
  • 1° periodo (168 – 134 a.C.) [periodo asideo]
  • 2° periodo (134 – 31 a.C.) [periodo classico]
  • 3° periodo (31 – 4 a.C.) [periodo erodiano]
  • 4° periodo (4 a.C. – 68/69 d.C.) [periodo zelotico]
  • 5° periodo (68/69 d.C. – 73) [periodo romano]
  • 6° periodo (132 d.C. – 135) [periodo di Simon bar Kokba]

  I precedenti.

Nella prima metà del secondo secolo a.C. la Palestina si trova sotto il potere della dinastia ellenistica dei seleucidi. Uno dei sovrani seleucidi, Antioco IV (175-164 a.C.) si mostra estremamente duro nei confronti dei giudei, avendo intenzione di ellenizzare la Palestina e tutto il suo popolo. Così scrive di lui lo storico francese F. Castel: “Egli vuole che tutte le genti del suo regno formino un popolo solo; tutte le usanze particolari devono scomparire. Perciò ritira ai giudei tutti i diritti accordati loro da Antioco III e in più fa cessare i sacrifici nel tempio e proibisce le pratiche del sabato. Proibita la circoncisione e i libri santi: ogni contravventore sarà messo a morte. In cambio fa erigere dei templi alle divinità greche e, il 6 dicembre 176 a.C., fa innalzare un altare pagano al posto dell’altare dei profumi, nel cuore del tempio di Gerusalemme, dedicato ora a Giove Olimpo (2Mac 6,2; Dn 11,31). È “l’abominio della desolazione”. Del resto, per Antioco IV si tratta di identificare Giove e Jahvè, come aveva tentato di fare tutta una corrente che credeva possibile unificare le religioni. Però Antioco IV, pur intendendo giungere ad un universalismo religioso, si avvale della repressione e del massacro. I giudei ortodossi ne rimarranno definitivamente segnati; essi non avranno altro che diffidenza verso i pagani. Le correnti sincretiste o forse liberali saranno discreditate a lungo. La stessa sorte è riservata al tempio samaritano che viene dedicato a Giove Ospitale. Tutti i palestinesi, giudei e non giudei, ricevono l’ordine di sacrificare alle divinità greche” (F. Castel, Storia di Israele e di Giuda, Ed. Paoline, 1987).

La conseguenza di questa pesante politica di Antioco IV è quella di suscitare, in una parte del popolo ebraico, un atteggiamento di strenua resistenza. Ovviamente non mancano coloro che assumono atteggiamenti di opportunistica connivenza col potere dominante, né coloro che si adattano a malincuore per timore della dura repressione, ma l’opposizione è energica e quantitativamente significativa. Essa è rappresentata sostanzialmente dai componenti di una famiglia (dinastia degli asmonei), passata alla storia col soprannome di Maccabei (dal termine ebraico che significa martello). Infatti un certo Mattatia e i suoi figli fanno propria la causa della difesa dei diritti del popolo di Israele. Mattatia si rifugia nel deserto, fra le montagne di Giuda e nel 167 a.C. suscita una rivolta armata. Egli viene ucciso nel 166 e l’eredità della sua lotta passa nelle mani di suo figlio Giuda, il quale, in un primo tempo ottiene importanti vittorie militari contro le truppe di Antioco IV.

  1° periodo (168 – 134 a.C.) [periodo asideo]

Ai fini del nostro studio della comunità Qumraniana dobbiamo segnalare il fatto che, al fianco dei rivoltosi maccabei, si forma un partito di sostenitori della lotta patriottico religiosa: gli Asidei (Hassidim). Si tratta di fedeli intransigenti della religione mosaica, che non intendono cedere a nessun prezzo alle imposizioni ellenizzanti del potere seleucida. Essi si ritirano nel deserto a sud-est di Gerusalemme e stabiliscono un loro quartier generale sulle rocce circostanti lo Wadi Qumran, iniziando a costruire alcuni edifici in muratura, oltre che strutture precarie come tende e capanne, sulle rovine di fortificazioni molto più antiche, che risalivano ai secoli VIII e VII a.C.

Definiremo 1° Periodo di Qumran questo momento della storia degli insediamenti (dal 168 al 134 a.C.). Esso corrisponde con una certa probabilità al periodo in cui compaiono le prime redazioni del manoscritto noto come Regola della Comunità, e quindi al momento in cui la confraternita prende coscienza di sé e si considera come l’espressione più pura della spiritualità israelita. Un tema fondamentale, espresso anche nel manoscritto della Regola, è proprio l’attesa di due Messia distinti: uno detto di Aronne, che rappresenta la figura sacerdotale e che dovrà assumere il ruolo di Sommo Sacerdote nella nuova Israele restaurata; l’altro detto di Israele, che rappresenta la figura politica, colui che dovrà liberare il paese dagli stranieri e quindi assumere la carica regale. Pertanto la comunità assume il compito di conservare la sapienza di Israele, difendendola dalle influenze pagane, e si prepara all’idea del riscatto, ovverosia di una vittoria militare contro le potenze dominatrici straniere; è questo l’ideale messianico che in futuro darà tanto filo da torcere ai romani, nel primo secolo d.C.

In un primo tempo l’adesione degli asidei alla lotta degli asmonei è totale, ma in seguito lo sviluppo degli eventi porterà al sorgere di gravi divergenze. Infatti, alla morte di Giuda Maccabeo, l’eredità rivoluzionaria passa al fratello Gionata il quale, da una posizione di scontro frontale col potere seleucida, passa ad atteggiamenti di compromesso. Egli approfitta delle rivalità sorte, all’interno della corte seleucida, fra Demetrio I e Alessandro Bala e, nel 152 a.C. si fa concedere da quest’ultimo il titolo di sommo sacerdote, accumulando nella propria persona la carica sacerdotale e quella governativa. L’unione dei due ruoli appare sacrilega al partito degli hassidim e questo è l’inizio di una spaccatura fra i maccabei e gli asidei, poiché questi ultimi non tollerano l’ammorbidimento della politica asmonea.

Nel 142 a.C. a Gionata succede il fratello Simone, che continua a conservare entrambi i ruoli unificati, poi nel 135, quando Simone viene assassinato dagli stessi seleucidi, l’eredità passa al figlio Giovanni Ircano, anch’egli rappresentante di quella politica asmonea che si era molto allontanata dalla primitiva intransigenza patriottico-religiosa del nonno Mattatia. Giovanni si comporta come un autentico re e sacerdote.

  2° periodo (134 – 31 a.C.) [periodo classico]

A questo punto gli hassidim prendono definitive e irrimediabili distanze dal partito degli asmonei. È un momento importante anche nella evoluzione dell’insediamento qumraniano e potremmo definire 2° Periodo di Qumran l’epoca che va dal 134 al 31 a.C. circa. Si tratta del periodo “classico” del movimento in cui, probabilmente, si afferma quella terminologia che tende a chiamare Damasco la comunità e terra di Damasco la sua collocazione territoriale, con riferimento a certi passi biblici che parlano dei puri di Israele esuli in terra di Damasco. Questi hassidim (termine da cui, forse, deriva la denominazione esseni) si considerano infatti come la parte pura di Israele, in esilio provvisorio nell’attesa del tempo della ricostruzione. È questa l’epoca della costruzione delle principali strutture edilizie in muratura, compresi gli acquedotti e le numerose cisterne che dovevano servire sia per i fabbisogni della comunità, sia per l’esercizio cultuale dei riti di abluzione, di cui oggi possiamo ammirare i resti visitando gli scavi di Khirbet Qumran (sale di riunione, refettori, cucine, scriptoria, vasche). È anche l’epoca in cui compaiono le prime redazioni del Documento di Damasco e, probabilmente, della Regola dell’Assemblea. Così scrive lo studioso italiano L. Moraldi, relativamente a questo secondo periodo di Qumran: “Il movimento acquista molte simpatie, i torbidi sociali, politici e religiosi lo favoriscono e la regione di Qumran non solo vede aumentare la sua popolazione, ma anche la sua sistemazione e organizzazione materiale. In particolare, giovò al movimento la lotta di Giovanni Ircano I contro i farisei; è verosimilmente in questo periodo che la comunità accentua certi aspetti farisaici e si vedono sorgere vari gruppi esseni che, condividendo in pieno le idee fondamentali del primo movimento, se ne discostano per certi aspetti piuttosto secondari, come il matrimonio, la vita nel deserto, la disciplina più libera, una minore accentuazione comunitaria, maggiore ascetismo. Così sorge forse la comunità pilota e l’una o l’altra forma del Documento di Damasco…” (L. Moraldi, I Manoscritti di Qumran, UTET, pag. 108).

È da segnalare, come evento di primaria importanza in questo periodo della storia qumraniana, un terribile terremoto, nel 31 a.C., che provoca grande disastro nell’insediamento, con molte vittime e serio danneggiamento delle strutture edilizie. Questo fatto compromette la vita comunitaria e porta all’abbandono del sito.

  3° periodo (31 – 4 a.C.) [periodo erodiano]

Abbiamo quindi un momento oscuro, che suscita dibattito negli studiosi di Qumran, in cui non è perfettamente chiara la sorte dell’insediamento, né l’identità e la quantità dei suoi occupanti. Possiamo chiamare 3° Periodo di Qumran tutto l’intervallo fra il 31 a.C e il 4 a.C. che coincide quasi perfettamente con la durata del regno di Erode il Grande. È il periodo in cui, forse, sono stati prodotti i manoscritti del Commento a Isaia, delle Benedizioni, dei Commenti ai Salmi. Lo storico Giuseppe Flavio, nella sua opera Antichità Giudaiche (XV, 371-378), ci parla della benevolenza di Erode nei confronti degli esseni; per questo motivo ci rimane difficile credere che la comunità, in questo momento, abbia un carattere così apertamente messianico, come nel periodo precedente. Si direbbe piuttosto che abbia assunto una connotazione più monastica, dedicandosi alla preghiera, allo studio dei libri sacri, allo sviluppo delle pratiche terapeutiche.

  4° periodo (4 a.C. – 68/69 d.C.) [periodo zelotico]

Erode il Grande muore nel 4 a.C. e, in parallelo con questo fatto, si risvegliano nuove tendenze rivoluzionarie, soprattutto nel nord della Palestina, ispirate all’ardore dei primi maccabei e all’intransigenza politico-religiosa degli asidei: “alla fine del regno di Erode il Grande la Palestina è pervasa da un’ondata antiromana diffusa soprattutto fra i giovani e cioè tra le nuove reclute essene” (L. Moraldi, op. cit., pag. 108). Possiamo chiamare 4° Periodo di Qumran tutto l’intervallo fra la morte di Erode e gli eventi della sanguinosa guerra coi romani, ovverosia fra il 4 a.C. e il 68/69 d.C., quando l’insediamento viene distrutto dalle legioni di Vespasiano, i membri della comunità sono cacciati dal luogo e parzialmente sterminati.

All’inizio di questo periodo il sito di Qumran si ripopola di uomini animati da un rinnovato spirito rivoluzionario; alcune delle strutture danneggiate dal terremoto vengono restaurate, anche se non tutte. Adesso la comunità è caratterizzata da una decisa tensione messianica e apocalittica, cioè dalla sensazione dell’imminenza dei tempi promessi da Yahweh per la ricostruzione del suo regno. Qualcuno già individua le figure dei messia attesi in alcune persone fisiche reali. Molti vogliono passare dalle speranze e dalle attese alle azioni concrete. È questa l’epoca in cui vengono redatti il Rotolo di Rame, la Regola della Guerra, il Commentario ad Abacuc. Con riferimento a questo periodo possiamo dire che si attenua la differenziazione fra le denominazioni esseni, zeloti, e sicari, infatti tutti i movimenti di ispirazione messianica acquistano una caratterizzazione più o meno interventistica, nel senso della lotta politico-religiosa e ha senso utilizzare una terminologia mista, come esseno-zeloti.

  5° periodo (68/69 d.C. – 73) [periodo romano]

In seguito alla cacciata di questi esseno-zeloti i romani insediano a Qumran un piccolo contingente, utilizzando il sito come base. Possiamo chiamare 5° Periodo di Qumran l’intervallo di occupazione romana, fra il 68/69 d.C e il 73. Nel frattempo il grosso dell’esercito romano è impegnato una cinquantina di km più a sud, nell’assedio di Masada, dove si sono asserragliati alcuni superstiti della lotta messianica, sotto la guida di Eleazar ben Jair. Dopo il 73, ovverosia dopo l’espugnazione di Masada e il suicidio di massa dei suoi occupanti, i romani abbandonano Qumran, le cui rovine rimangono solitarie per alcuni decenni.

  6° periodo (132 d.C. – 135) [periodo di Simon bar Kokba]

L’ultimo momento che elenchiamo in questo lavoro è il 6° Periodo di Qumran, ovverosia il breve intervallo fra il 132 e il 135 d.C., in cui gli eredi della lotta esseno-zelotica, sotto la guida di Simon bar Kokba, utilizzano il sito come base, prima di essere completamente sconfitti dai romani. Le uniche loro tracce rimaste nel sito sono alcune monete.

D’ora in poi Khirbet Qumran sarà veramente gettata in un lungo abbandono, mentre i manoscritti qumraniani, custoditi nelle giare all’interno delle grotte, attenderanno il 1947 per rivedere la luce, dopo ben diciotto secoli!

Il movimento zelota

Adesso concentreremo la nostra attenzione sul 4° periodo di Qumran (4 a.C. – 68 d.C.), quello che va dalla morte di Erode il Grande alla devastazione dell’insediamento da parte dei romani nel corso della guerra degli anni 66-70. E’ il periodo che abbiamo definito zelotico, perché caratterizzato da una forte escalation della tensione messianica. Ricordiamo innanzitutto che, nel periodo precedente, il sito era stato scarsamente abitato, infatti l’organizzazione sociale della comunità aveva subito un grave colpo con il terremoto del 31 a.C., ed anche con l’incendio di cui non è chiaro se sia stato simultaneo o anteriore o posteriore al terremoto. Probabilmente a seguito di questi disastri il luogo è stato parzialmente abbandonato e la comunità, fra il 31 a.C. e il 4 a.C., ha vissuto una fase di confusione.

La morte di Erode il Grande è stato un evento di grande importanza, il suo regno duraturo (ben 33 anni) e, certamente, il suo potere esteso a tutta la Palestina, nonché la sua indubbia genialità nel governare e nel saper mediare fra le diverse componenti sociali e politiche, hanno prodotto un periodo di tranquillità relativa; anche se ciò non significa che sotto la quiete apparente non maturassero tensioni pronte ad esplodere. Queste infatti si sono manifestate subito, in conseguenza della sua scomparsa, come atti violenti di ribellione, specialmente nella parte settentrionale del paese. Qui si fece presente un certo Giuda, figlio di quell’Ezechia, il rabbi della città di Gamala, nel Golan, che era stato ucciso dallo stesso Erode molti anni prima. E’ ovvio che la famiglia di Ezechia aveva conservato un odio feroce nei confronti della famiglia Erodiana e che aveva maturato col tempo propositi di vendetta.

A Sepphoris, nella Galilea, Giuda, figlio del capobrigante Ezechia, che un tempo aveva infestato quel paese ed era stato catturato dal re Erode, avendo raccolto una banda non piccola fece irruzione negli arsenali regi e, riforniti di armi i suoi, attaccava gli altri che aspiravano al potere…” (G. Flavio, Guerra Giudaica, II,4)

C’era anche un certo Giuda, figlio di quell’Ezechia che era stato capo dei ribelli; il quale Ezechia era un uomo molto forte, ed era stato catturato da Erode con grande difficoltà. Questo Giuda, avendo riunito insieme una moltitudine di esaltati nei pressi di Sefforis, in Galilea, fece laggiù un assalto all’arsenale e sottrasse tutte le armi che ivi si trovavano, e con esse armò tutti quelli che erano con lui, e prese anche tutto il denaro che era stato lasciato in quel luogo; e divenne un capo terribile, tiranneggiando su tutti quelli che gli erano vicino; e tutto ciò in modo da farsi sempre più potente, per un desiderio ambizioso della dignità regale; e sperava di raggiungere questo obiettivo come premio non delle sue qualità virtuose nel combattimento ma della sua originalità nel commettere nefandezze” (G. Flavio, Antichità Giudaiche X, 5)

Questi improvvisi e clamorosi successi della lotta antiromana, nel nord del paese, suscitarono grande risonanza nelle autorità al potere in Giudea, e furono sufficienti a produrre l’associazione del nome di Giuda con l’aggettivo “galileo”; anzi, tutti i membri della sua pericolosa setta da allora in poi furono comunemente indicati con l’espressione “i galilei”. Ciò si verificò non perché Giuda fosse galileo di provenienza (non lo era affatto, essendo nato e vissuto a Gamala, nel Golan) ma in quanto il teatro delle sue prime operazioni di lotta fu la Galilea. Oggi sappiamo che i termini romani galilaei, latrones, sicarii, sono sinonimi dei termini greci zelotes, lestes, e dei termini ebraici qannaim, barjonim, tutti riferiti ai partigiani e ai terroristi messianisti.

Giuda è considerato da Giuseppe Flavio come il fondatore del movimento degli zeloti, detto “quarta setta filosofica“, dopo quello dei sadducei, dei farisei e degli esseni. Egli era un intransigente difensore della ortodossia religiosa ebraica che non tollerava la presenza dei dominatori pagani e nemmeno l’atteggiamento di connivenza opportunistica con gli stranieri, mostrato da alcune componenti della società giudaica. Egli riprendeva le tematiche estremistiche che furono caratteristiche dei primi maccabei (di Mattatia per intendersi), e trasformò le attese messianiche e le tensioni religiose già proprie dei movimenti hassidici in una militanza concreta di lotta armata antiromana. Per lui non era più il tempo di aspettare e di preparare, il momento della promessa di Yahweh era giunto e la parte sana della società giudaica era chiamata a insorgere. Una delle caratteristiche principali della sua politica era l’incitamento del popolo all’obiezione fiscale, ritenuta non solo un diritto civile, ma un dovere sacro nei confronti di Yahweh, in quanto l’accettazione di un sovrano straniero e pagano avrebbe costituito un’offesa contro l’unico e vero Signore di Israele:

“…aveva rimproverato ai giudei di riconoscere la signoria dei romani quando già avevano Dio come signore” (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica II, 17).

L’ingresso degli zeloti nel movimento esseno

Ora, moltissimi studiosi di Qumran sono unanimi nel pensare che il cosiddetto quarto periodo dell’insediamento qumraniano avesse una caratterizzazione zelotica, ma alcuni autorevoli fra loro si spingono più avanti; per esempio C. Roth, il semitista inglese G. R. Driver e, più recentemente, anche l’americano R. Eisenman, sostengono con decisione che gli occupanti il sito di Qumran, nel periodo fra la morte di Erode e la guerra coi romani, devono essere riconosciuti proprio nei membri della setta zelota:

C. Roth ha avanzato un’ipotesi secondo la quale la comunità che occupò Qumran dal 4 a.C. al 68 o al 72-73 d.C. sarebbe stata di zeloti. Roth suppone che Giuda il galileo si sia insediato in quel luogo, deserto dopo il terremoto del 31 a.C., durante i disordini seguiti alla morte di Erode il Grande. Dopo la morte di Giuda nel 6 d.C. Qumran continuò ad essere il quartier generale del movimento degli zeloti, e là i membri del movimento vissero in forma semimonastica; di là Menahem, il figlio sopravvissuto di Giuda, raggiunse Masada nel 66 d.C.” (S.G.F. Brandon, Gesù e gli Zeloti, Rizzoli, 1983).

Insomma, seguendo questo indirizzo di pensiero, noi potremmo pensare che i famosi galilei, che sotto la guida di Giuda avevano saccheggiato gli arsenali di Sefforis, incoraggiati dai loro successi militari, si siano spinti in Giudea, dove, avendo contattato persone che condividevano i loro ideali, sarebbero entrati a Qumran, facendo diventare questo luogo un punto di riferimento per tutti coloro che erano animati da spirito patriottico e che intendevano militare concretamente nella lotta messianica. Naturalmente non sappiamo se si debba parlare:

1) della trasformazione totale di Qumran in una cittadella degli zeloti;
2) di un semplice ingresso di alcuni zeloti nella confraternita essena la quale, pertanto, avrebbe mantenuto il suo carattere monastico, pur coltivando in sé una forte componente interventistica;
3) solo di eventuali contatti fra esseni e zeloti, che condividevano alcune tematiche comuni ma che rimanevano distinti come movimenti.

Personalmente sono incline a credere che lo zelotismo avesse fortemente condizionato il sentire e l’agire della comunità qumraniana ma, per prudenza, preferisco privilegiare la seconda ipotesi, immaginando che gli esseni, sia per favorire il ripopolamento del sito, sia per una simpatia convinta anche se non pubblicamente espressa, nei confronti dei patrioti messianisti, avrebbero accolto nella confraternita elementi del movimento di Giuda. In tal modo gli zeloti avrebbero avuto la possibilità di stabilirsi in Giudea, in una solida base organizzata a soli trenta km da Gerusalemme, col vantaggio dalla copertura monastica, che li avrebbe protetti mascherando la loro identità di militanti armati agli occhi delle autorità. Insomma: attivisti mescolati e nascosti fra i monaci, in una cornice apparentemente pacifica. Direi che, sebbene non abbiamo dati sufficienti a certificare definitivamente una situazione di questo genere, la sua verosimiglianza è senz’altro notevole e la possiamo considerare un’ottima ipotesi di lavoro. Del resto, anche un passo dello scrittore latino Ippolito Romano ci sostiene in questa convinzione:

“…sono divisi [gli esseni, n.d.a.] fin dall’antichità e non seguono le pratiche nella stessa maniera, essendo ripartiti in quattro categorie. Alcuni spingono le regole fino all’estremo: si rifiutano di prendere in mano una moneta [non ebraica, n.d.a.] asserendo che non è lecito portare, guardare e fabbricare alcuna effigie; nessuno di costoro osa perciò entrare in una città per tema di attraversare una porta sormontata da statue, essendo sacrilego passare sotto le statue. Altri udendo qualcuno discorrere di Dio e delle sue leggi, si accertano se è incirconciso, attendono che sia solo e poi lo minacciano di morte se non si lascia circoncidere; qualora non acconsenta essi non lo risparmiano, lo assassinano: è appunto da questo che hanno preso il nome di zeloti, e da altri quello di sicari. Altri ancora si rifiutano di dare il nome di padrone a qualsiasi persona, eccetto che a Dio solo, anche se fossero minacciati di maltrattamenti e di morte” (Ippolito Romano, Refutatio IX, 26).

Gli zeloti si spostano dalla Galilea alla Giudea

Noi possiamo essere certi che il teatro delle operazioni degli zeloti di Giuda non è stato limitato alla Galilea, ma la loro azione ha presto interessato tutta la Palestina. Infatti Giuseppe Flavio, nelle sue opere, ha dichiarato esplicitamente che tutta…

“…la nazione fu infettata da questa dottrina in una misura incredibileGiuda e Sadoc, che fondarono una quarta setta filosofica fra di noi, e che furono seguiti in questo da molti, hanno funestato la nostra vita civile con tumulti nel presente e hanno gettato le basi delle nostre future miserie, grazie a questo sistema filosofico che prima non conoscevamo… infezione che si diffuse fra le generazioni più giovani, che erano molto zelanti per essa e che portò il popolo alla distruzione” (Antichità, XVIII, 1).

Inoltre, ne siamo certi perché abbiamo testimonianza delle azioni dei figli di Giuda, compiute molti anni dopo la morte del padre, che si sono svolte in Giudea e persino nel cuore di Gerusalemme. Per esempio Giuseppe Flavio ci parla della morte dei due figli di Giuda il galileo che si chiamavano Giacomo e Simone, i quali, negli anni fra il 46 e il 48 d.C., furono catturati e crocifissi da Tiberio Alessandro, procuratore della Giudea (Giuseppe Flavio, Antichità, XX, 5). C’è poi Menahem, forse il più giovane dei figli di Giuda il galileo, che all’inizio del conflitto aperto fra ebrei e romani (66 d.C.) …

“…messosi alla testa di alcuni fidi raggiunse Masada, dove aprì a forza l’arsenale del re Erode e, avendo armato oltre ai paesani altri briganti, fece di questi la sua guardia del corpo; quindi ritornò a Gerusalemme e assunse il comando della ribellione” (Guerra Giudaica II, 17)

Menahem non solo fu protagonista di operazioni importanti, ma addirittura pretese di indossare la veste messianica nella città santa…

“si era infatti recato a pregare [nel tempio] in gran pompa, ornato della veste regia e avendo i suoi più fanatici seguaci come guardia del corpo” (Guerra Giudaica, II, 17),

mostrando così, oltre al fatto che la sua famiglia perseguiva un obiettivo di lotta messianica da numerosi decenni, che essa nutriva una pretesa diretta sul trono di Israele. Ma questo lo avevamo già osservato anche a proposito di Giuda, in una frase di Giuseppe Flavio: “… [Giuda] divenne un capo terribile… per un desiderio ambizioso della dignità regale” (Antichità Giudaiche X, 5). Dai tempi di Ezechia, padre di Giuda, alla morte di Menahem, che avvenne nei giorni terribili della guerra ad opera di fazioni ebraiche avverse, trascorsero più di 110 anni, la qual cosa ci fa capire in maniera inequivocabile che la famiglia di Giuda, proveniente da Gamala, aveva non solo sposato la causa messianica ma ne aveva fatto una questione dinastica. Ed è proprio nella questione dinastica che si trova la chiave di decifrazione della vicenda di Cristo e degli esseni di Qumran.

La città di Gamala, situata nelle alture del Golan che fiancheggiano la riva nord-orientale del lago di Tiberiade, per quanto fisicamente lontana da Gerusalemme (100 miglia), aveva stabilito un legame di grande vicinanza col cuore della Giudea. Da questo ricco villaggio, costruito sulla gobba di una montagna e adiacente ad un precipizio, giungevano i principali motori ideologici della lotta messianica: i componenti della famiglia di Ezechia, che fu ucciso da Erode nel 44 a.C., i quali condivisero tutti il destino del capostipite, ovverosia il martirio in nome della libertà politica e religiosa di Israele. Di questo legame ideologico abbiamo prova nelle singolari monete trovate durante gli scavi di Gamala, che non esistono altro che a Gamala e che recano l’iscrizione “Lege’ulat Yerushalem Hak (Dosha)” (per la salvezza… di Gerusalemme la Santa).

Convergenze fra zeloti, qumraniani e cristiani-ebrei

Ora, noi dobbiamo osservare come certe tematiche della setta zelotica, della setta qumraniana e del messaggio evangelico mostrino sorprendenti convergenze. Molti autori hanno sottolineato la personalità tipicamente essena (io preferirei dire qumraniana) di Giovanni Battista.

“Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele” (Lc I, 80);

si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione” (Mc I, 4);

In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: “Convertitevi, perchè il regno dei cieli è vicino!”. Egli è colui che fu annunziato dal profeta Isaia quando disse: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!” (Mt III, 1-3).

Già questi elementi sono sufficienti a connettere il personaggio alla setta qumraniana. Innanzitutto perché l’espressione “visse in regioni deserte” non può indicare una condizione di nomadismo, ma il fatto di essere aggregato a qualche comunità ritirata nel deserto. Poi perché il battesimo è il rito caratteristico della setta qumraniana per l’ammissione di nuovi confratelli; l’espressione “battesimo di conversione” indica l’accettazione da parte dei neo-adepti di un nuovo sistema di vita. Poi perché il vangelo di Matteo nomina esplicitamente il “deserto della Giudea” come luogo di queste azioni di Giovanni, che è proprio la collocazione del sito di Qumran. Poi perché l’esortazione “Convertitevi, perchè il regno dei cieli è vicino” ha un carattere inequivocabilmente messianico e, a parte il fatto che questo testo ha trasformato l’espressione “regno di Dio“, presente negli altri vangeli, in “regno dei Cieli“, l’esortazione è proprio quella tipica del messaggio contenuto nella Regola della Comunità e in altri manoscritti di Qumran: convertitevi e aderite alla causa, perché la restaurazione del Regno di Yahweh (Iraele libera da invasori pagani e da classi dominanti corrotte) è imminente. Poi perché troviamo in bocca a Giovanni espliciti riferimenti a frasi che appartengono anche alla letteratura qumraniana:

“…per andare nel deserto a preparare la via di lui, come sta scritto: “Nel deserto preparate la via … appianate nella steppa una strada per il nostro Dio”…” (Regola della Comunità VIII, 13-14),

e infine anche perché l’alimentazione di Giovanni…

il suo cibo erano cavallette e miele selvatico” (Mt III, 4),

è coerente con le norme alimentari di Qumran:

tutte le specie di cavallette saranno messe nel fuoco o nell’acqua mentre sono vive: tale è infatti l’ordine conforme alla loro natura” (Doc. di Damasco).

E’ fin troppo evidente che il Giovanni Battista che noi conosciamo dalla lettura dei vangeli è un qumraniano, un adepto che fa proselitismo cercando di richiamare nuovi adepti nella comunità. Le sue parole di minaccia rivolte ai farisei e ai sadducei:

Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? … Gia la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco

rappresentano esattamente l’annuncio del riscatto messianico e, coerentemente con quanto leggiamo in tutti i rotoli di Qumran ma in special modo nella Regola della Guerra, del fatto che la parte non buona di Israele sarà eliminata. Giovanni parla di “colui che viene dopo di me” e che “è più potente di me“, costui infatti giunge e si fa battezzare da lui, proprio come se in precedenza non fosse stato un membro della confraternita,

egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile“,

quest’ultima espressione fa capire che egli è destinato al ruolo di esecutore materiale della ricostruzione del regno, egli impugna un ventilabro e deve ripulire l’aia, ovverosia eliminare la parte non buona della società israelita, bruciando la pula con un fuoco inestinguibile…

…come il fuoco della sua ira” (Rotolo della Guerra XIV, 1),

nonché raccogliere il frumento nel granaio, cioè chiamare a raccolta la parte buona del popolo di Israele (“…tutti coloro che entrano nella regola della comunità passeranno nel patto dinanzi a Dio…” [Regola della Comunità I, 16]). Riflettendo su questi passi ci accorgiamo che essi sembrano voler descrivere, e solennizzare, l’ingresso nella comunità di un importante leader della lotta zelotica a cui i qumraniani riconoscono una personalità decisamente messianica. Il suo battesimo di fuoco è direttamente collegato con quel fuoco inestinguibile che dovrà bruciare la pula eliminata dal grano. Non sembra trattarsi di un fuoco esclusivamente spirituale, ma di una vera e propria azione violenta,

“…giacché questo è il giorno, da lui [Yahweh] determinato da molto tempo per la guerra di sterminio dei figli delle tenebre” (Regola della Guerra).

Il rapporto fra Cristo e gli esseni

Ripensando a quanto abbiamo detto sul possibile ingresso di zeloti del seguito di Giuda nella comunità qumraniana, adesso scopriamo che si apre una nuova possibile interpretazione del rapporto intercorso fra Cristo dei vangeli e il Battista, anzi, fra la comunità dei seguaci di Cristo e quella dei seguaci di Giovanni, che spesso nei vangeli sono indicate come due gruppi distinti. Cristo, aspirante alla carica messianica, quasi certamente non era un esseno, ma un cittadino della Palestina settentrionale, del Golan per l’esattezza, il quale, ad un certo punto della sua carriera di leader del movimento zelotico fondato dal famoso Giuda il galileo, si introdusse nell’ambiente esseno e venne riconosciuto dalla confraternita di Qumran come il destinatario delle profezie messianiche. Ovviamente egli sollecitò i confratelli esseni alle ragioni concrete della causa, richiamandoli ad un interventismo che, secondo la concezione dei cosiddetti “galilei” , non poteva ancora lasciare il posto a semplici attese e speranze. Insomma, in qualche modo di cui non possiamo permetterci di chiarire i dettagli perché mancano le basi storiche per farlo, questo momento della vita comunitaria dei qumraniani vede un’alleanza o addirittura una fusione simbiotica fra i monaci del deserto di Giuda e i capi zeloti provenienti da Gamala; mentre il battesimo di Cristo da parte di Giovanni non è che la rappresentazione letteraria di ciò, in una forma mitizzata che utilizza una cornice di immagini sacrali, come la discesa della colomba dello Spirito e la voce del Padre che si compiace del suo figlio. “Egli ha in mano il ventilabro…” avrebbe affermato Giovanni il Battista, “Egli brucerà la pula con un fuoco inestinguibile…”, avrebbe gridato con parole che sembrano estratte dal Rotolo della Guerra, cercando così di convincere i confratelli esseni che l’atteso ricostruttore del Regno di Yahweh era lui, Jeoshua ha Nozri, , l’uomo di Gamala, che i tempi erano giunti, e che bisognava decidere se stare di quà o di là.

Altrove ho mostrato le numerose convergenze (storiche, letterarie, geografiche, di parentele, di nomi, formali e sostanziali…) che sembrano creare una relazione stretta fra il Cristo dei vangeli e la famiglia di Giuda il galileo. Non è adesso il caso che mi ripeta e darò quindi per scontato che il lettore sia consapevole di quelle argomentazioni, peraltro necessarie al fine di comprendere quanto segue (vedi il capitolo Il problema del titolo «Nazareno»). In questa sede intendo proseguire sulla base dell’ipotesi di lavoro che il Cristo dei vangeli, quale possibile membro della famiglia di Giuda il galileo (forse il figlio primogenito), abbia contattato la comunità qumraniana e, facendosi coinvolgere in essa, l’abbia a sua volta coinvolta nella lotta zelotica.

Il complotto messianico

Qumran sorgeva, come abbiamo già sottolineato, a soli trenta km da Gerusalemme; la immensa distanza climatica e paesaggistica (un deserto torrido da una parte e una verdeggiante collina carezzata dalla brezza mediterranea dall’altra) è controbilanciata da una concreta vicinanza fisica. Certamente molti personaggi influenti della società gerosolimitana avevano contatti coi qumraniani e qualcuno ne condivideva segretamente gli ideali. Dietro le quinte dei vari poteri (farisei, sadducei, sinedriti, erodiani, romani) che si esercitavano in Gerusalemme serpeggiava sicuramente il complotto messianico in connubio coi membri della setta qumraniana e con gli zeloti.

Il vangelo ci dà testimonianza di una tipica situazione di complotto, infatti intorno a Cristo troviamo un intreccio di simpatie e di connivenze che interessano persone legate coi più alti poteri locali. Fra questi…

Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio” (Mc XV, 43),

Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta: non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri [alla condanna a morte]. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio” (Lc XXIII, 50-51),

C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodèmo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: “Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui”” (Gv III, 1-2).

Entrambi questi uomini parteciparono in prima persona alle operazioni di inumazione della salma di Cristo:

Dopo questi fatti, Giuseppe d’Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre” (Gv XIX, 38-39);

addirittura sembra che la tomba fosse una proprietà privata del sinedrita:

Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia” (Mt XVII, 59-60);

al seguito di Cristo troviamo persino…

Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode” (Lc VIII, 3),

che successivamente l’evangelista fa apparire nel terzetto delle donne che visitano il sepolcro:

Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo” (Lc VII, 10).

Uno dei discepoli di Cristo è descritto come un uomo introdotto nell’ambiente del tempio, che aveva una conoscenza personale col sommo sacerdote, infatti, durante la scena dell’arresto…

Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro” (Gv XVIII, 15-16).

Negli Atti degli apostoli troviamo testimonianza di un altro sinedrita che si schiera a difesa di Pietro e di altri apostoli che erano stati arrestati:

“Si alzò allora nel sinedrio un fariseo, di nome Gamaliele, dottore della legge, stimato presso tutto il popolo. Dato ordine di far uscire per un momento gli accusati, disse: Uomini di Israele, badate bene a ciò che state per fare contro questi uomini … ecco ciò che vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio” (At V, 34-39).

Tutto ciò configura un quadro molto significativo, in cui appare illuminante la notizia che lo stesso sinedrita Giuseppe di Arimatea condividesse l’attesa del regno di Dio. Evidentemente gli esseno-zeloti hanno cercato di coinvolgere il maggior numero possibile di persone nella loro causa e, in particolare, di sviluppare alleanze e connubi nascosti con personaggi autorevoli del tempio, del sinedrio e dell’ambiente erodiano.

Paolo e il complotto antimessianico

Naturalmente a questi complotti di stampo messianico si contrapponevano altrettanti complotti di indirizzo opposto. Oltre alla componente conservatrice della società gerosolimitana, identificata soprattutto nel partito dei sadducei e nella corte erodiana, c’erano molti nel partito dei farisei che non condividevano i progetti degli esseno-zeloti, non perché fossero contrari in linea di principio, ma perché intuivano la loro assoluta inattuabilità, anzi la estrema imprudenza di quelle idee che, spingendo verso lo scontro diretto col potere dei dominatori romani, mettevano in serio pericolo la sicurezza di tutto il popolo:

Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione” (Gv V, 48).

Sono, queste ultime, parole illuminanti che inquadrano in modo assai preciso l’azione di Cristo e il suo effetto sulla stabilità politica del paese. Ora, la storia ci ha mostrato chiaramente che il pericolo reale della distruzione di Israele non è giunto dai semplici asceti e dai mistici apolitici che predicavano il perdono e guarivano gli infermi, bensì dagli uomini che militavano concretamente nella lotta messianica per la ricostruzione del regno di Yahweh. Sono costoro, zeloti come Menahem, il figlio di Giuda il galileo, ed Eleazar ben Jair, suo parente, che hanno finito per accendere la scintilla della guerra totale e hanno veramente condotto il paese ed il popolo ad una catastrofe di proporzioni smisurate.

Dunque, noi possiamo essere sicuri che qualcuno ha complottato per reprimere l’attività degli esseno-zeloti e di ciò troviamo un esempio anche nella figura del San Paolo anteriore alla presunta conversione. Egli aveva presenziato alla lapidazione di Stefano ed…

era fra coloro che approvarono la sua uccisione” (At VIII, 1),

inoltre

“…infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione” (At VIII, 3),

da cui possiamo capire che aveva un ruolo ben preciso nell’opera di repressione delle sette messianiche, praticamente era un agente con l’autorità di arrestare. Gli Atti degli Apostoli ci dicono persino che egli…

sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (At, IX, 1-2).

Il passo è stato criticato da alcuni autori per il fatto che Damasco non si trovava sotto la stessa area amministrativa di Gerusalemme, la Siria aveva un altro governatore e le autorità gerosolimitane non erano competenti a ordinare arresti nella zona di Damasco, né a eseguirli e a trasferire in Giudea i prigionieri, ed ancor meno questa competenza poteva spettare al sommo sacerdote. Pertanto queste lettere del sommo sacerdote per le sinagoghe di Damasco hanno una verosimiglianza storica fin troppo dubbia.

Ora, noi dovremmo riflettere sul fatto che, in questo periodo storico, la setta del Mar Morto accoglieva fra i suoi membri numerosi zeloti e offriva loro, sotto le parvenze e le finalità della vita monastica, una copertura di fronte alle autorità di Gerusalemme. E allora, dove altrimenti queste ultime avrebbero potuto e dovuto cercare eventuali seguaci della dottrina messianica? Dove se non nel luogo che, oltre a offrire il forte sospetto di prestarsi per sua natura a questo compito di rifugio strategico, era nel pieno della loro competenza giuridica? A questo punto non ci resta che ricollegare il nome simbolico che la comunità attribuiva a sé stessa, Damasco o terra di Damasco, come possiamo constatare nei suoi documenti, con quel discutibile passo degli Atti e comprenderemo quanto sia ragionevole domandarsi se Saulo, invece che in Siria, non si sia recato piuttosto al monastero nel deserto che sorgeva a breve distanza da Gerusalemme, per verificare se in esso non si nascondessero i partigiani messianisti. E’ quasi come dire che due più due fa quattro. Il differimento della damasco essenica nella Damasco di Siria è semplicemente uno dei tanti stratagemmi finalizzati a nascondere, per l’ennesima volta, le implicazioni zelotiche della cosiddetta chiesa primitiva, ovverosia della comunità dei seguaci di Cristo all’immediato indomani della sua morte.

Il resto degli eventi prodigiosi, ovverosia la luce dal cielo, la voce che chiama Shaulo, la cecità, la vista che ritorna come per miracolo, sono evidenti soluzioni letterarie finalizzate a giustificare e convalidare uno dei presupposti più difficilmente digeribili della dottrina neo-cristiana. Mi riferisco al fatto che Cristo, dopo avere vissuto circa tre anni al fianco dei suoi dodici discepoli ed avere affidato a loro i suoi insegnamenti, decida dall’alto dei cieli di lasciare l’eredità del suo apostolato a chi non l’ha mai visto né conosciuto, a chi ha arrestato e giustiziato i suoi fedeli e, soprattutto, a chi non sarà mai capace di mettersi d’accordo, in materia di dottrina di fede, con gli apostoli veri, ma continuerà a porsi in conflitto con loro e li nominerà con arrogante disprezzo nelle sue lettere. Tali sono infatti le parole di Saulo:

eppure io sono convinto di non essere stato in nulla inferiore a codesti apostoli straordinari!” (2 Cor XI, 5),

per poi fare, altrove, l’apologia di sé stesso, professandosi depositario di insegnamenti giuntigli direttamente dal cielo:

vi dichiaro apertamente fratelli, che il vangelo da me predicato non viene dall’uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal I, 11-12),

come a voler ribadire che se gli apostoli sono stati fisicamente insieme a Cristo lui, invece, ha qualcosa di più: una linea spirituale diretta con Cristo; e con questo la sua superiorità è automaticamente garantita.

Cristiani-ebrei, nazorei ed ebioniti

Non possiamo dimenticare che gli scritti giudeo-cristiani, cioè i vangeli più idonei ad essere considerati testimonianza veritiera dell’opera e dell’insegnamento di Cristo, esprimevano la loro ferma opposizione nei confronti di questo personaggio che, dopo avere ferocemente dato la caccia ai seguaci di Cristo, si autoelegge primo apostolo e maestro della sua dottrina:

“[I Nazorei] accettano unicamente il Vangelo secondo gli Ebrei e chiamano apostata l’apostolo [Paolo]…” (Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 1);

“…[gli Ebioniti] seguono unicamente il Vangelo che è secondo Matteo e rifiutano l’apostolo Paolo, chiamandolo apostata della legge…” (Ireneo, Adv. Haer., I, 26).

Né possiamo dimenticare che tali scritti giudeo-cristiani sono stati eliminati proprio dalla chiesa cristiana scismatica e vilipesi dai suoi scribi:

“…costoro [gli ebioniti] pensavano che fossero da rifiutare tutte le lettere dell’apostolo [Paolo], chiamandolo apostata della legge, e servendosi del solo Vangelo detto secondo gli ebrei, tenevano in poco conto tutti gli altri… in conseguenza di un simile atteggiamento hanno ricevuto il nome di ebioniti che indica la povertà della loro intelligenza: il termine, infatti, presso gli ebrei significa povero…”. (Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl., III, 27).

Chi sono dunque questi nazorei e questi ebioniti che rifiutano Paolo e che, nei secoli successivi, non riscuotono la simpatia dei cosiddetti padri della chiesa? Sulla prima delle due denominazioni abbiamo già parlato a lungo in altra sede, qui ci limitiamo a ricordare che si tratta del titolo che accompagna il nome di Gesù nella letteratura evangelica: Iesous o Nazoraios (Nazorai in aramaico, Nozri in ebraico), pretestuosamente tradotto come “di Nazareth” e oggi comunemente considerato tale, sebbene la scorrettezza di tale significato possa essere facilmente mostrata. Evidentemente i nazorei sono i seguaci di Cristo, gli appartenenti al suo movimento, non i suoi … concittadini! I quali di Paolo non ne hanno mai voluto sapere. Forse essi sono anche gli ebioniti, o forse gli ebioniti sono un’altra cosa, cioè i qumraniani, come infatti costoro chiamano sé stessi nei loro scritti:

ebionim “poveri” è uno dei nomi che si davano i qumraniani” (L. Moraldi, I Manoscritti del Mar Morto, UTET, pag. 49);

allorché Dio visiterà la terra … quelli che gli prestano attenzione sono i poveri [ebionim] del gregge, questi saranno risparmiati nell’epoca della visita, mentre i restanti saranno dati alla spada, quando verrà il Messia di Aronne e di Israele…” (Doc. di Damasco XIX, 5-10);

“…nel Commentario ad Abacuc… i seguaci del Maestro di Giustizia [sono] nominati come i Poveri, Ebionim…” (R. Eisenman, James the brother of Jesus, Penguin Books, 1997).

Gli stessi Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio ci danno una spiegazione del termine poveri, dicendoci che il confratello, all’atto dei suo ingresso nella setta, rinunciava a tutti i suoi beni privati e li cedeva a beneficio della comunità:

in tutta l’umanità sono pressoché gli unici a vivere senza beni e senza possedimenti, per la libera elezione e non per un rovescio di fortuna, si giudicano straordinariamente ricchi giacché ritengono che la frugalità con la gioia sia come in realtà è, un sovrabbondante benessere” (Filone, Quod omnis probus sit liber, 77);

dispregiatori della ricchezza, presso di loro è ammirevole la vita comunitaria: invano si cercherebbe tra di loro qualcuno che possegga più degli altri… cosicché in tutti loro non appare né l’umiliazione della miseria né l’alterigia della ricchezza…” (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica II, 122).

Dunque, questa denominazione, poveri, ricorre spesso nella letteratura qumraniana in riferimento ai membri della setta, in aperta ed esplicita contrapposizione coi cosiddetti ricchi, considerati empi e indegni di entrare nel regno di Dio. Un’idea che è stata espressa molto chiaramente nel vangelo:

Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio! … E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mc X, 23-25).

Dopo queste riflessioni ci appaiono senz’altro in un’altra luce certe esortazioni evangeliche, riferite ai poveri; infatti il celebre passo…

vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri … poi vieni e seguimi” (Lc XVII, 22)

ha tutta l’aria di un incitamento ad unirsi alla confraternita cedendo ad essa i propri beni, e noi sappiamo che era proprio questo uno dei passi inevitabili dell’ingresso nella comunità;

Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”” (Lc VI, 20),

frase che si commenta da sola, giacché abbiamo visto molte volte come l’obiettivo principale della comunità fosse proprio la ricostruzione del regno di Yahweh;

Mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc IV, 18),

ovverosia ad annunciare non agli indigenti in generale, ma ai confratelli (ebionim), che il tempo della promessa è giunto.

Naturalmente non ci è possibile sottovalutare il fatto che Eusebio di Cesarea, scriba cristiano dell’epoca di Costantino, ha cercato di travisare il senso del termine ebioniti, facendo credere che si trattasse di una attributo rivolto a questi giudeo-cristiani in riferimento alla povertà della loro intelligenza. In realtà Eusebio, suo malgrado, è riuscito a farci capire benissimo che era mosso da un preciso intento censorio, poiché voleva impedire la comprensione della natura reale di questo movimento. Dunque i qumraniani, alias gli ebioniti, erano gli autori dei primitivi vangeli giudeo-cristiani, ed erano decisamente ostili alla predicazione dell’uomo che, dopo la morte dell’aspirante messia di Israele, li aveva indagati per scoprire se tra le loro fila si nascondessero i partigiani messianisti. Gli atti ci parlano di una fuga che quest’uomo sarebbe stato costretto ad attuare dal luogo definito Damasco in cui si era recato per investigare:

Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo” (At IX, 23-24).

Quando questo succede, il Cristo della narrazione evangelica è già stato giustiziato, l’impresa messianica si è conclusa con un ennesimo fallimento. I qumraniani sono fortemente sospettati di nascondere elementi zeloti sotto le apparenze di un misticismo ascetico, a prima vista estraneo ai motivi della lotta armata.

Apostoli, fratelli e zeloti

I fratelli dell’aspirante messia, che il vangelo neo-cristiano ha cercato di rappresentare finché possibile nella qualità di apostoli piuttosto che in quella di fratelli, prendono le consegne della lotta, che sempre di più si configura come una causa dinastica familiare…

un frammento da un manoscritto medievale trovato a Oxford e attribuito a Papia recita quanto segue: “Maria la moglie di Cleofa o Alfeo era la madre di Giacomo episcopo e apostolo, di Simone, di Taddeo e di un certo Giuseppe”” R. Eisenman, James the brother of Jesus, Penguin Books, 1997).

In particolare, fra questi fratelli-apostoli ne spiccano due, che assumono un ruolo di primo piano, si tratta di Giacomo, il cosiddetto “giusto” (zaddik in ebraico, uno dei termini che caratterizzano i componenti della setta qumraniana; costoro infatti, oltre che ebionim, definivano sé stessi zaddikim, “i giusti”, e nei loro scritti è insistente il tema della “giustizia”) e Simone, il barjona (latitante, fuorilegge, ribelle). E’ impossibile non osservare che tutta la letteratura neotestamentaria, canonica e apocrifa, e non solo quella, non ha potuto fare a meno di lasciarci tracce evidenti dell’esistenza di una cerchia di fratelli di Cristo, e di informarci sui nomi di costoro: Giacomo, Simone, Giuda, Josef o Joses. Sono impressionanti le ampie ed esaustive argomentazioni elaborate dallo studioso R. Eisenman, che ha messo in evidenza gli innumerevoli collegamenti attraverso i quali sotto queste identità si rivelano gli apostoli Giacomo il giusto, Simone detto Pietro, tutt’uno con l’altro Simone, detto zelota, Giuda detto Taddeo (o Theuda), tutt’uno con l’altro Giuda, detto Toma (Thomas in greco, o didimos=gemello). Persone a cui certi vecchi manoscritti, non comunemente letti, non hanno esitato ad affiancare una parola alquanto significativa: zelotes. Questo gruppo era il vertice della setta che la terminologia neo-cristiana ci ha abituati a conoscere come “chiesa di Gerusalemme”, ovverosia l’insieme dei seguaci ebrei dell’aspirante messia il cui tentativo di rivolta era stato represso attraverso una pronta azione coordinata tra romani, informatori e sinedriti.

Molti indizi contribuiscono a dare un corpo ragionevole all’ipotesi che sotto queste identità si nascondano i figli di Giuda il galileo, dei quali due vengono esplicitamente citati da Giuseppe Flavio coi nomi Giacomo e Simone, giustiziati verso gli anni 46-48, ovverosia in un periodo che potrebbe essere lo stesso in cui due apostoli-fratelli di Cristo, si tratta appunto di Giacomo e Simone, vengono arrestati e … potremmo dire giustiziati, se non fosse che il racconto degli Atti ne fa morire uno solo: Giacomo. L’altro, Simone, si sarebbe salvato grazie ad un angelo che…

“… toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: “Alzati, in fretta!”. E le catene gli caddero dalle mani … Essi oltrepassarono la prima guardia e la seconda e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città: la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si dileguò da lui” (At, XII, 7-10).

Questa soluzione letteraria, che ovviamente deve fare ricorso ad un provvidenziale evento soprannaturale, offre la possibilità di sviluppare in seguito la tradizione secondo cui Simon-Pietro sarebbe stato a Roma, sarebbe stato il capostipite della cattedra pontificia, e quivi sarebbe stato martirizzato; infatti, mentre i presunti riscontri storici ed archeologici della presenza di Simon-Pietro a Roma sono del tutto evanescenti, noi abbiamo un’unica certezza, nettamente a sfavore, cioè che il racconto degli Atti, verso la sua metà, pianta in asso Simone e lo fa inspiegabilmente dissolvere nel nulla più assoluto. Mostrando così, tra l’altro, che lo scopo di quello scritto era semplicemente di giustificare e sostenere il rimpiazzo arbitrario dei cosiddetti “apostoli straordinari” con la figura invadente ed intrusa di Paolo. Infatti noi siamo perfettamente convinti che nessun cronista della chiesa primitiva, che fosse stato sinceramente disinteressato alle manipolazioni storiche, avrebbe mai perso per la strada Simon-Pietro, nella sua redazione degli Atti degli Apostoli, se l’apostolo avesse avuto il ruolo che la tradizione gli attribuisce. Ma il redattore degli Atti degli Apostoli non voleva affatto concentrare la sua attenzione su Simone per raccontarci il suo ruolo effettivo nella testimonianza dell’insegnamento di Cristo, voleva piuttosto sbarazzarsi in qualche modo di lui e mostrare le ragioni (del tutto fittizie) della improvvisa sostituzione, nella funzione apostolica, dei personaggi che erano stati a contatto con Gesù, con il personaggio che non l’aveva mai visto né conosciuto. In questo senso, per il suo contenuto globale, quel documento non avrebbe nemmeno il diritto di portare il nome con cui lo conosciamo, poiché esso è semplicemente il frutto di una volontà, ostile alla linea degli apostoli di Cristo, che intende portare acqua al mulino della ideologia paolina, e pertanto dovrebbe essere più onestamente chiamato “arringa in sostegno di Paolo”.

Esistono anche indizi per ipotizzare che il Taddeo-Theudas della cerchia apostolica, oltre che figlio di Giuda il galileo, fosse quel Teuda a cui alcune testimonianze storiche attribuiscono un’altra rivolta messianica, come sempre finita male. Anche gli Atti degli Apostoli affiancano i nomi di Giuda il galileo e di Teuda, pur senza prospettare alcuna relazione di parentela ma solo di convergenza ideologica e comportamentale.

Gli ebioniti hanno rifiutato Paolo e lo hanno accusato di essere un apostata, ovverosia di mentire in materia di fede, e noi troviamo nella letteratura qumraniana una contrapposizione interessante fra il maestro di giustizia (uomo di giustizia, giusto=zaddik), e l’uomo di menzogna. Ebbene, è esattamente ciò che in letteratura neotestamentaria ritroviamo come opposizione ideologica fra Giacomo, detto appunto il giusto (zaddik), e Paolo il quale, accusato di menzogna, deve difendersi esplicitamente con parole come…

degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco” (Gal I, 19),

Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco” (2 Cor XI, 31),

Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo” (Rom IX, 1),

offrendo così materia sufficiente per pensare che il contrasto fra l’uomo giusto e l’uomo di menzogna della letteratura qumraniana posse essere individuato nel disaccordo che ha sempre messo l’apostolo giudaizzante Giacomo e il gentilizzante Paolo l’uno contro l’altro. Ovverosia nella contesa fra l’interpretazione esseno-zelotica del concetto di salvezza, strettamente aderente al più tradizionale messianismo yahwista, e l’interpretazione liberale che faceva addirittura ricorso ad un sincretismo spinto, ricco di richiami verso le figure dei salvatori spirituali greci, caldei, persiani ed orientali.

A Qumran, specialmente da parte della componente zelotica degli adepti, questi riferimenti a spiritualità di carattere non così esclusivamente ebraico e tali aperture verso il mondo incirconciso non potevano che apparire intollerabili, e il suo promotore non poteva che essere un vero sacrilego da respingere con infamia.

Genialità della sintesi paolina

Eppure noi non possiamo riconoscere a Paolo lo spirito semplicemente disonesto e malvagio che le sette messianiche gli attribuivano. Al contrario. Infatti, sebbene la sua sia stata una revisione profonda dell’ideale messianico, che non ha potuto fare a meno di ricorrere ad una manipolazione, fatta di proposito e con calcolo ingegnoso, di molti aspetti storici ed ideologici della figura del salvatore, essa è stata il risultato di esperienze e di riflessioni certamente più sagge di quelle che hanno prodotto il fondamentalismo degli esseno-zeloti. A Paolo possiamo riconoscere il merito di non essersi fermato nella posizione di semplice agente della repressione antimessianista, infatti il suo atteggiamento si è evoluto sotto la spinta di un grave disagio interiore. E’ probabile che egli si sia trovato a cavallo fra due realtà opposte che gli sono sembrate entrambe inaccettabili. Da un lato la scelta reazionaria, e intrinsecamente ignobile, di quanti preferivano convivere opportunisticamente col dominio straniero, una scelta che inizialmente egli si è trovato automaticamente addosso, come appartenente ad un determinato ceto e per la quale aveva già assunto un ruolo. Dall’altro lato la scelta rivoluzionaria e radicale, sostenuta da un entusiasmo patriottico-religioso che poteva anche avere aspetti di nobiltà, ma che era basata sull’analisi più dissennata, emotiva, priva di senso della realtà e, soprattutto, gravida di tremendi pericoli.

Se posso esprimere un mio personale giudizio su Paolo, sebbene non condivida molti aspetti dell’etica e della spiritualità che egli ha predicato, sento di dover dire che è stato senz’altro un genio: uno di quegli uomini che hanno nel proprio vissuto interiore un disagio che è lo specchio del disagio dei tempi e che, avendo bisogno di superare a livello personale questo imbarazzo, finiscono per concepire qualcosa che offre una soluzione collettiva al problema sociale. Per Paolo limitarsi ad indossare uno degli abiti possibili nel suo ambiente (agente della repressione governativa, militante del dissenso messianico, rappresentante del qualunquismo di comodo) sarebbe stato comunque difficile e insopportabile e questo è, senza dubbio, uno dei requisiti sostanziali degli uomini grandi. Dunque egli è stato effettivamente il protagonista di una importante e straordinaria conversione personale, anche se non si è trattato di ciò che leggiamo nel racconto degli Atti, ovverosia di un miracoloso voltafaccia dall’ostilità nei confronti dell’insegnamento di Cristo alla sua difesa ad oltranza. Questa ultima versione, di cui forse Paolo non è nemmeno responsabile, non è che l’artificio letterario apparecchiato da un nuovo sistema in via di sviluppo per difendere, sostenere e consacrare sé stesso; è semplice verità di regime, non ha valore come cronaca storica. La conversione autentica di Paolo, al di là delle presentazioni mistificatorie, è consistita nel suo abbandono della linea dichiaratamente reazionaria e repressiva e nell’inizio di una ricerca contemporaneamente spirituale, ideologica e politica. Egli era spinto dal desiderio di risolvere la grave contrapposizione che metteva il suo paese e il suo popolo in una condizione di sottomissione vergognosa o, in alternativa, di conflitto dannoso col resto del mondo mediterraneo, con la visione ellenistica della vita e con lo schiacciante potere di Roma imperiale.

Lui era stato indottrinato alla sapienza di Israele, ma era vissuto e cresciuto fra i gentili, in un luogo dove convergevano tutte le filosofie e le religioni del vicino oriente, e l’imprinting che aveva ricevuto nella sua gioventù non era quello che avrebbe potuto dargli l’ambiente gerosolimitano, dove il giovane ebreo cresce con la sensazione incontrastabile che quello sia il centro dell’universo e che il mondo gentile non sia che una rozza periferia culturale e spirituale in attesa di essere finalmente ricondotta alla giusta verità.

Paolo ha sentito sbocciare in sé i germogli di una colossale sintesi sincretistica, che cercava di sposare la sapienza biblica con quella ellenistica e con quella orientale e ha avuto la visione del “salvatore autentico”. Non autentico nella storicità, ma autentico nell’universalismo del messaggio di liberazione e di salvezza. Un salvatore che assomigliava ai molti dei incarnati che morivano e risuscitavano. Questo salvatore e il suo insegnamento avevano la capacità di suscitare un riscontro nell’animo di milioni di persone, non solo nelle poche migliaia di ebrei esaltati che erano disposti a rinunciare ad una vita normale per esiliarsi fra le pietre arrostite del deserto, ad attendere e a preparare una improbabile rivolta messianica. Questo messaggio aveva la capacità di toccare le ansie più profonde degli uomini e di fornire le risposte più attese dall’immaginario collettivo. E, in fin dei conti, la sostanza ultima di questa salvezza non era invenzione di Paolo, perché Zarathustra, Buddha, Krishna… avevano già configurato l’idea di una salvezza universale, che non appartiene ad un singolo popolo orgoglioso, ma a tutto il genere umano; mentre Osiride, Attis, Mitra, Dioniso… erano già festeggiati da molti e da molto tempo come dei che sconfiggevano la morte.

La salvezza messianica degli esseno-zeloti prometteva sì un mondo ideale, dove gli uomini sono fratelli e amano il prossimo come sé stessi, dove la superbia dei ricchi è solo il ricordo di un passato scomparso, dove la distinzione dell’abito non conta e dove regnano la verità e la giustizia; ma la via per realizzarlo passava attraverso una lotta risolutiva in cui la “pula doveva essere separata dal grano”, e i nemici della giustizia, i “figli delle tenebre”, dovevano essere letteralmente sterminati. Paolo, che inizialmente si era trovato nella condizione di contrastare questo messaggio, ha operato da esso una distillazione, recuperando l’idea di un regime di giustizia e scorporando quella di una causa nazionalistica da combattere con la violenza e con le astuzie della guerriglia. Inutili i suoi tentativi di comunicare questa visione ai messianisti tradizionali; su questo aspetto circoscritto agli Atti degli Apostoli può essere riconosciuto un valore di testimonianza storica, essi infatti sono abbastanza inequivocabili nel rappresentare le dispute sulla questione della circoncisione, che poi erano i contrasti fra la concezione teocratica degli esseno-zeloti, legata all’idea che la salvezza appartenesse al giudaismo, e quella cosmopolita del neo-cristianesimo paolino, fondata sull’idea che la chiave della salvezza fosse nel rapporto fra qualunque uomo e Dio.

Naturalmente, così come l’immagine del “Nostro Signore Gesù Cristo” a cui faceva riferimento Paolo rappresenta una revisione di quella storica dell’aspirante messia che fu giustiziato da Pilato, anche la dottrina del cristianesimo era destinata a subire ulteriori evoluzioni rispetto all’insegnamento di Paolo. Basta considerare che, cronologicamente parlando, i primi documenti del Nuovo Testamento sono le tredici lettere paoline (sebbene non possiamo sapere quante di esse siano autentiche e in che misura) nelle quali, tanto per citare un aspetto importante, manca completamente la Madonna, e non c’è traccia della nascita verginale, uno dei punti più importanti della moderna fede cristiana.

Eredità essena ed eredità paolina a confronto

Man mano che Paolo durante i suoi viaggi, che probabilmente erano dovuti all’attività professionale relativa al commercio dei tessuti, andava formulando e predicando il suo insegnamento alternativo a quello delle sette messianiche tradizionali, il divario con queste ultime si allargava sempre più per diventare una voragine incolmabile. Gli esseno-zeloti, amareggiati da un continuo ripetersi di insuccessi, si spostavano su posizioni sempre più radicali e sempre meno capaci di raccogliere il consenso popolare. Mentre Paolo moriva a Roma, o forse in Spagna, uomini come gli ultimi discendenti di Giuda il galileo portavano il conflitto antiromano ad una svolta finale, provocando la guerra disastrosa che avrebbe smentito una volta per tutte le velleità deliranti espresse dal Rotolo della Guerra e, in fin dei conti, dando ragione a quelli che li avevano osteggiati.

Paolo aveva temuto che gli estremismi del messianismo tradizionale potessero condurre ad esiti tragici, ma prima di andarsene non poteva sapere che ciò si sarebbe tristemente realizzato dopo poco né, tantomeno, che le conseguenze sarebbero state così devastanti per tutto il popolo e per la nazione: città assediate per mesi, fame, carestia, centinaia di migliaia di morti, la distruzione di un tempio appena finito di costruire e di interi villaggi, deportazioni di massa e riduzione in schiavitù. La descrizione di queste vicende si trova nelle narrazioni evangeliche:

Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia. Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti” (Lc XXI, 5-6).

Anche il testo di Marco, ovverosia il primo fra i quattro testi del Nuovo Testamento, reca testimonianza di queste sciagure a dimostrazione che la redazione evangelica non giudeo-cristiana non può essere anteriore al 70 d.C.

Infatti alcuni discepoli di Paolo, dell’ambiente gentile di Roma, eredi di un messaggio che nella catastrofe di Israele trovava un motivo di rinforzo (perché il messianismo esseno-zelota si era dimostrato non solo come un’illusione, ma come una trappola funesta), decisero di redigere un testo che rappresentasse le opere e gli insegnamenti del salvatore non messianico, quello che non i romani ma addirittura i giudei stessi avrebbero condannato a morte. Non possiamo sottovalutare il fatto che questa redazione avvenne dove e quando era fresco il ricordo delle legioni di Tito, che avevano sfilato trionfanti per le vie dell’urbe, sbandierando i trofei del saccheggio di Gerusalemme e ricoprendo d’infamia i prigionieri giudei condotti in catene. I redattori fecero riferimento alle tradizioni giudeo-cristiane ma, ovviamente, vollero, e dovettero, ribaltarne il senso cosicché, sebbene qualcosa di quegli scritti sia confluito nel vangeli neo-cristiani, il Cristo che essi descrivono per alcuni aspetti ricalca il Messia storico, per altri ne è l’opposto speculare, estraneo alla lotta zelotica e ad ogni ambizione del titolo messianico.

Nel frattempo una parte della setta esseno-zelota, quella sopravvissuta alla distruzione di Qumran, di Masada, di Gamala, si era trasferita a oriente del Giordano e si era sparsa nei paesi dell’Arabia e della Siria, nel tentativo di mantenere una difficile esistenza e continuità. Un rigurgito di ardore rivoluzionario si svegliò nel 132 d.C., grazie ad un discendente della famiglia di Giuda il galileo, e probabilmente dello stesso Cristo giustiziato da Pilato, Simone bar Kokba (figlio della stella) il quale, memore dei luoghi che furono teatro delle azioni dei suoi antenati, ritornò nella zona di Qumran e rioccupò alcuni di quei siti per farne le proprie basi, ma fu presto stroncato dall’intervento dei romani.

Adesso l’eredità del riscatto politico-religioso di Israele sembra proprio estinta, ma non è del tutto vero. Dopo quattro secoli quel frammento di messaggio che era stato portato nei deserti a oriente della Palestina sarà ispiratore della sintesi islamica, e da esso nascerà la grande concezione teocratica e guerriera degli arabi di Mohammed. In Europa si formerà una tradizione, sempre combattuta come eresia dalla chiesa romana, che tenta di salvare la linea del sangue reale di Israele, detto Sang Raal in francese provenzale, o San Graal. Noi la conosciamo, confusa in una complessa quanto fantasiosa giungla di leggende medievali, come la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo, ma si tratta in verità della dinastia dei figli di Davide, o presunti tali.

Le obiezioni dei cattolici

La ragione principale per cui i cattolici non sono d’accordo con quanto espresso nei precedenti paragrafi è la seguente:

«Cristo, pur avendo avuto eventuali contatti con le diverse sette del dissenso messianico, non ne avrebbe condiviso il pensiero e non avrebbe potuto essere né un qumraniano, né uno zelota, perché nei testi evangelici troviamo chiare indicazioni che escludono sia l’una che l’altra ipotesi. Innanzitutto abbiamo elementi per distanziare Cristo dagli autori dei manoscritti qumraniani; per esempio possiamo dire che al rigorismo di questi ultimi, proteso verso una osservanza assoluta delle regole di purità e di culto, si oppone l’elasticità di Cristo nei confronti dell’osservanza del sabato, la sua disinvoltura nel sedere a tavola coi peccatori, coi gentili, con gli impuri, ecc… Per quanto riguarda l’eventuale coinvolgimento di Cristo nella lotta zelotica, osserviamo nei vangeli esplicite dichiarazioni di rifiuto del ruolo messianico, affermazioni di carattere non violento, espressioni come: “Il mio regno non è di questo mondo”, ecc…».

In effetti, quanto affermato dai cattolici, cioè che il Cristo dei vangeli abbia spesso una immagine non violenta assai diversa da quella di un militante della lotta yahwista, è assolutamente vero e giusto. Però questo fatto offre semplicemente una constatazione e, nel momento in cui si osserva che tale immagine deve essere indagata per verificare se essa è fedele alla realtà storica o se non è, piuttosto, il frutto di una deformazione ideologica, i cattolici si rifiutano di proseguire e preferiscono fermarsi accettando in toto l’immagine evangelica come specchio, oltre che di una catechesi, anche della realtà storica. In questa sede non vogliamo entrare nel merito delle questioni di fede, ma solo analizzare gli aspetti storici della vicenda di Cristo. In tal senso, dobbiamo senz’altro ammettere che sarebbe culturalmente scorretto credere che tutte le affermazioni dei vangeli canonici possano essere considerate come prove storiche. Con un procedimento analogo potremmo dimostrare che Krishna nacque da una vergine, che Maometto volò per aria, che i Ciclopi erano veramente creature con un occhio solo, che Ercole superò le sette fatiche, che il Bisonte sacro è il creatore delle praterie… Il fatto è che i vangeli non sono nati come documenti storici, bensì come testi catechistici, composti da e per una comunità che aveva sviluppato alcune sue convinzioni religiose. Essi non sono abilitati a mostrarci cosa Cristo sia stato realmente nella storia, ma solo le idee di coloro che hanno rifiutato il messianismo esseno-zelotico e hanno creato un’alternativa ad esso. Pertanto a noi spetta il compito di individuare:

  la dinamica del processo che ha portato alla nascita e alla evoluzione di quel pensiero religioso;

  in quale misura esso voglia essere una conferma, o una evoluzione, o una contrapposizione rispetto ad altre convinzioni religiose precedenti, per esempio quelle del messianismo ebraico;

  in quale misura le figure della narrazione evangelica risultino fedeli ai personaggi reali della storia o non siano, piuttosto, una loro reinterpretazione, o addirittura figure fantastiche.

Questa analisi storica è impossibile arroccandosi nella difesa di posizioni fideistiche, e dando per scontato che i vangeli canonici sarebbero…

  ispirati da Dio,

  i primi ed unici resoconti dei testimoni oculari dei fatti narrati, almeno in due casi,

  fedeli alle vicende storiche nonché alle identità e ai ruoli effettivamente assunti nella realtà dai personaggi della narrazione,

In questo modo ci si allontana da ogni presupposto di scientificità e storicità, si assume una posizione dogmatica, il che può essere legittimo in un ambito di fede, di culto e di preghiera, ma implica di conseguenza la rinuncia alla volontà di fare critica storica.

Ma lasciamo perdere le argomentazioni generiche per scendere, molto più opportunamente, nello specifico delle obiezioni summenzionate. Cristo, come abbiamo già detto, nella narrazione evangelica presenterebbe alcune caratteristiche tali da distanziarlo sia dai qumraniani che dagli zeloti. Ora, il problema non si esaurisce quì, anzi, è proprio quì che comincia. Infatti sarebbe molto giusto domandarsi per quale motivo Cristo, nella narrazione evangelica, presenta alcune caratteristiche che lo distanziano sia dai qumraniani che dagli zeloti quando, l’abbiamo visto più volte altrove, esistono contemporaneamente seri elementi che lo collegano sia coi qumraniani che con gli zeloti. E, fra questi, le tracce significative di una censura finalizzata a mascherare questi collegamenti.

In altri capitoli abbiamo visto i moltissimi e importanti punti di contatto fra la letteratura evangelica e quella qumraniana, fra le parole di Gesù e quelle degli esseni. Negarlo o ignorarlo sarebbe da incoscienti, sarebbe come perseguire un atteggiamento inculturale e quasi disonesto.

Ora, le narrazioni evangeliche, nei fatti, nei ruoli assunti dai personaggi, e persino nelle loro identità e nei loro nomi, recano i segni evidenti di una manipolazione. Gli autori dei vangeli hanno intrecciato liberamente la storia con la fantasia perché il loro scopo, dopo lo sviluppo del pensiero di Paolo quale ideologia contrapposta al messianismo classico degli ebrei, e dopo le amare vicende della disfatta di Israele nel suo scontro coi romani, è esattamente quello di fornire le basi catechistiche di un neo-messianismo de-qumranizzato, de-zelotizzato. Un neo-messianismo che diventerà addirittura de-giudaizzato e che, in quanto tale, non avrà nemmeno il diritto di considerarsi una forma di messianismo, ma una nuova espressione di escatologia salvifica soteriologica o orientale (vedi il Soter dei greci, il Saoshyant dei persiani, il Krishna e il Buddha degli indiani) innestata su un modello giudaico.

Gli autori di questi vangeli, che devono esprimere i concetti sviluppati da Paolo, devono fare riferimento a fatti e personaggi della storia, ma devono anche ridisegnarli in modo da renderli idonei alla loro nuova funzione ideologica. Ed ecco che l’aspirante re dei giudei arrestato da una coorte di 600 soldati romani, mentre si trovava sul monte degli ulivi, in procinto di dare inizio ad una sollevazione messianica, e successivamente crocifisso come logica conseguenza del suo reato di ribellione alla sovranità romana, è rappresentato nel corso di un processo fantoccio che si sarebbe svolto dinanzi ai giudei, che lo avrebbero condannato a morte per semplice blasfemia. Mentre il procuratore della Giudea Ponzio Pilato è rappresentato nell’atto di recitare una quanto mai improbabile commedia dello sbalordimento, a base di “per me è innocente”, “pensateci voi”, “me ne lavo le mani”, concludendo così l’azione giudiziaria con la condanna di un mite predicatore e la liberazione di un presunto ribelle assassino.

E ancora, Cristo inneggia al perdono ma anche alla vendetta, alla non-violenza ma anche all’uso della spada, al regno di Dio ma non di questo mondo, rifiuta il ruolo messianico ma inscena anche un ingresso messianico in Gerusalemme a compimento della profezia di Zaccaria (il cui significato è inequivocabile), proclama che non sarà contraddetta una sola virgola della legge e dei profeti ma la contraddice lui stesso, sostiene di essere venuto esclusivamente per i figli della casa di Israele ma poi rivolge la sua predicazione ai gentili, lascia la sua eredità a dodici apostoli ma poi si pente e decide che Paolo fa meglio al caso suo…

Tutte queste palesi contraddizioni trovano spiegazione solo nella stratificazione dei contenuti della letteratura evangelica, di cui abbiamo parlato nel capitolo “Premesse per l’analisi storica del racconto evangelico”; la cui conseguenza è il tentativo di sostituire le idee neocristiane alla primitiva matrice messianica che costituiva il pensiero originale di Gesù e dei suoi seguaci.

Perché Erode il Grande avrebbe voluto uccidere questo fanciullo nella culla se la sua missione non era messianica? Perché tutti avrebbero inneggiato a Cristo come “figlio di Davide”, se costui avesse rinnegato pubblicamente il suo diritto al trono di Israele? Perché egli avrebbe esortato i discepoli a procurarsi delle spade prima di salire al monte degli ulivi (e noi sappiamo che Pietro aveva una spada e la usò senza mezzi termini) se la sua missione avesse avuto una funzione esclusivamente spirituale, estranea, anzi contraria, all’uso di qualsiasi violenza? Perché sarebbe stato additato da un predicatore qumraniano, Giovanni il battezzatore, come il Messia che deve venire, che raccoglierà il grano e brucerà la pula, se egli avesse avuto un pensiero palesemente contrastante con quello dei qumraniani? Perché egli avrebbe cacciato i mercanti dal tempio se la sua intenzione fosse stata quella di purificare il tempio dello spirito e non, coerentemente con la volontà dei messianisti, il tempio di Gerusalemme? Perché gli apostoli e Paolo avrebbero continuato a litigare senza soluzione sulla questione della circoncisione, ovverosia sul fatto che il messaggio fosse relativo ad un ambito esclusivamente giudaico o ad un ambito allargato ai gentili? Perché i vangeli recano segni inequivocabili che ne collocano la redazione ad una data posteriore alla distruzione di Gerusalemme (contengono una descrizione accurata delle tribolazioni dell’assedio della città, della sua messa a ferro e fuoco nel 70 e delle conseguenze dalla sconfitta sul popolo) se poi gli archeologi e i papirologi sembrano trovare tracce dei vangeli che risalgono agli anni 50, o forse addirittura 40?

Esite una sola strada da percorrere per cercare risposte a queste domande: ammettere la possibilità che il messaggio evangelico scaturisca da una evoluzione progressiva, al cui inizio è da collocare la concezione messianica degli esseni e degli zeloti, poi quella dei cosiddetti giudeo-cristiani (che probabilmente sono gli esseno-zeloti nel periodo di imminenza della guerra giudaica), poi quella del riformista Shaul-Paolo, poi quella dei suoi seguaci gentili a posteriori della disfatta di Israele (probabili autori dei vangeli canonici), poi quella dei padri della chiesa palesemente ostili al giudaismo, poi quella della lobby costantiniana all’inizio del quarto secolo, in cui Eusebio di Cesarea ha svolto il ruolo di principe della mistificazione storica. Considerare i vangeli al di fuori di questa immagine progressiva, come libri scritti di primo pugno tal quali li leggiamo oggi, misconoscendo tutta la dinamica della loro genesi ed evoluzione, è roba da bambini che ascoltano a bocca aperta la fiaba di cappuccetto.

Nel corso di questo lungo e complicato processo evolutivo la figura di Cristo si trasforma, perde la sua connotazione messianica, ne acquista un’altra, i suoi fratelli zeloti diventano apostoli, alcuni di loro si clonano e diventano più persone, i titoli messianici e settari si denaturano. Qannaim diventa “cananeo”, barjona diventa “figlio di Giona”, nazorai diventa “di Nazareth”, galilaei diventa “dalla Galilea”, la politica di obiezione fiscale diventa un invito a dare a Cesare quel ch’è di Cesare, il regno di Dio diventa “non di questo mondo” o “regno dei cieli”, l’espressione Gesù il figlio di Dio finisce per camuffarsi misteriosamente dietro il nome di Barabba, l’osservanza rigorosa della circoncisione, del sabato, della purità, diventa una deroga alla legge…

Contemporaneamente nascono Giuseppe e Maria, gli apostoli non più fratelli, i miracoli, le resurrezioni, tutte cose che non appartengono alla storia, ma al catechismo…

Finché il Nuovo Testamento, scritto appositamente come manifesto ideologico di una concezione polemica nei confronti del messianismo esseno-zelota, unitamente ad una puntuale eliminazione dei documenti originali del giudeo-cristianesimo, finisce per diventare esso stesso una presunta dimostrazione che Cristo era estraneo e contrario al messianismo degli esseni e degli zeloti. Ma si tratta di un inaccettabile paradosso il cui funzionamento è garantito da un presupposto che lo rende quantitativamente assai efficace: la diffusa incapacità di comprendere i meccanismi complicati della storia e, prima ancora, il rifiuto fideistico di applicare sulla narrazione evangelica quegli stessi criteri analitici che un cristiano applicherebbe, senza problemi, sulle tradizioni dell’induismo, del buddismo e di qualunque altra religione che non sia la sua.

Conclusioni

Nel corso di questo articolo, per indicare il personaggio che è al centro del nostro interesse, non ho mai usato il nome Gesù, ma sempre e soltanto il termine Cristo, che è la trasposizione del termine greco Christos, traduzione dell’ebraico Mashiah (aramaico Meshiha), che significa “unto” e indica la persona che, tramite “unzione”, è stata nominata re di Israele. L’italiano “messia” è invece la trasposizione del termine originale ebraico e le parole “cristo” e “messia” risultano perfettamente identiche come etimologia. Nell’accezione comune dei cristiani invece diventano due contrari: Cristo non era il Messia atteso dagli ebrei.

Il fatto di non avere usato il nome Gesù non è affatto casuale. Infatti, per prima cosa, dobbiamo notare che non esiste alcuna fonte storica extratestamentaria che, nel primo secolo, conosca il personaggio centrale della fede cristiana sotto il nome Gesù. Le poche famose citazioni degli autori Tacito, Svetonio e Plinio, conoscono solo Christus o Chrestus, ma ignorano Gesù. Per quanto riguarda Giuseppe Flavio, invece, sappiamo bene che il brano in cui si parla di Gesù, il cosiddetto “testimonium flavianum”, secondo il parere unanime di studiosi laici e non, è un clamoroso falso interpolato dagli scribi cristiani. Il nome Gesù esiste solo in quei documenti confessionali che sono espressione di una fede cristiana già costituita. Perciò saremmo addirittura tenuti a precisare che, in senso rigorosamente scientifico, non è possibile di parlare di Gesù come di qualcuno che esiste nella storia, ma solo nella tradizione di una fede religiosa.

Ho voluto chiarire questo perché non sono sicuro che il personaggio di cui abbiamo parlato finora, che a scanso di equivoci preferisco definire con l’espressione “l’aspirante messia che fu crocifisso da Pilato”, si chiamasse Gesù. Così come non posso e non voglio assolutamente affermare che non si chiamasse Gesù. Non ci è concessa alcuna sicurezza a questo proposito. Ma dobbiamo limitarci a constatare che la tradizione cristiana ha sempre considerato al centro della sua fede l’esistenza di un personaggio definito “nostro Signor Gesù Cristo“.

Contemporaneamente, però, abbiamo anche alcune certezze. La prima è che la tradizione cristiana che è giunta fino a noi, iniziando da San Paolo e attraverso l’opera di innumerevoli padri della chiesa, nei secoli II, III, IV e successivi, sostanzialmente in ambienti non palestinesi, ha creato la figura di “nostro Signor Gesù Cristo” assemblando brandelli della figura storica del sedicente messia che fu crocifisso da Pilato con libere formulazioni teologiche. Oppure, non solo con brandelli di quella figura storica, ma con brandelli di più figure storiche; una delle quali potrebbe essere stata veramente un individuo di nome Gesù. Ma chi era, eventualmente, costui? Quello che fu crocifisso da Pilato? O un sacerdote esseno, che si affiancava all’uomo che fu crocifisso da Pilato?

Quest’ultima domanda sembra spostare tutto il problema dal piano della serietà scientifica a quello della fantastoria, come per un cedimento alle tentazioni del sensazionalismo, affascinanti ma campate in aria. Eppure, se ci pensiamo bene, le ragioni per porre una domanda di questo genere ci sono, e non sono affatto campate in aria: la tradizione Coranica sostiene che Gesù non morì sulla croce e lo stesso vangelo di Matteo conserva, camuffata nel suo testo, una frase che conduce inequivocabilmente a porre quelle domande. E’ il passo in cui alcuni antichi manoscritti, poi successivamente ritoccati nelle versioni più moderne, parlano di un certo “Iesous Barabbas” che in occasione del processo dinanzi a Pilato fu rilasciato:

Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba” (Mt XXVII, 16 – così leggiamo nelle versioni moderne)

Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, Gesù Barabba, il quale era stato messo in carcere in occasione di una sommossa scoppiata in città e di un omicidio” (idem – così è scritto nelle versioni antiche. Vedi Novum Testamentum Graece et Latine, A.Merk, Ist. Biblico Pontificio).

Noi sappiamo che l’espressione greca “Iesous Barabbas” non è altro che la traduzione dall’ebraico “Jeshua bar Abbà” ovverosia, in italiano, “Gesù figlio di Dio“. Il nome Gesù è stato eliminato nei testi moderni, e il termine Barabba, tutto attaccato, che è stato proposto indebitamente come un nome proprio, ha cessato di essere inteso col suo significato originario: “figlio del Padre“, “figlio del Signore“, “figlio di Dio“. Perché? Cosa era necessario censurare? Cristo è stato giustiziato, mentre Gesù è stato rilasciato? Al posto di “Gesù Cristo” dovremmo leggere in realtà… “Gesù” e “Cristo”?

Queste, naturalmente sono solo domande, non risposte. Ma, così come sarebbe folle, allo stato attuale delle conoscenze, rispondere con certezza in un modo o nell’altro, sarebbe altrettanto folle continuare a sottovalutare o nascondere, come da più parti si vuol fare, le evidenze che conducono a tali domande e difendere a oltranza la presunta veridicità storica di quella che, sempre più palesemente, si rivela come una leggenda religiosa.

L’analisi del periodo storico in cui si sono svolti i fatti di cui si parla nella letteratura evangelica mostra un dato inequivocabile: nell’intorno degli anni 30, in Gerusalemme, vi fu un importante complotto messianico e un tentativo di insurrezione, con la partecipazione congiunta di zeloti, di esseni e di isolate personalità compiacenti dell’ambiente farisaico, del sinedrio e, forse, anche dell’entourage erodiano. I romani, con la collaborazione dei sadducei e di altri ebrei reazionari, hanno sventato il complotto gettando acqua sul fienile prima che i ribelli vi gettassero la scintilla. L’aspirante messia è stato assicurato alla giustizia dei dominatori e mostrato al popolo convenuto per la grande festività pasquale come un fallito che agonizzava miseramente sulla croce. Si trattava di colui che, sceso dal suo paese natale, la Palestina settentrionale, si era unito alla confraternita dei qumraniani e di cui Giovanni aveva detto: “ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile“.

Ma costui era Gesù? O Gesù era un altro? O non è esistito alcun Gesù?

Oggi, così come non è seriamente scientifico affermare “si chiamava Gesù”, oppure il contrario “non si chiamava Gesù”, oppure “c’erano due messia, uno regale e uno sacerdotale, cioè Cristo e Gesù”, è altrettanto poco serio il rifiuto di porsi domande di questo genere. Di sicuro possiamo dire che l’uomo giustiziato da Pilato era ebreo e intenzionato a rimanere tale. Che non ha mai fondato alcuna religione extragiudaica e che avrebbe odiato a morte chiunque avesse voluto farlo. Che è stato accolto a Qumran. Che si considerava il re dei Giudei. Che aspirava ad indossare la veste rossa, la corona di Davide e a sedere sul trono in Gerusalemme. Non c’è riuscito, nè lui, né suo padre, né suo nonno. Né alcuno dei suoi fratelli che, dopo di lui, hanno raccolto l’eredità dinastica e hanno proseguito la lotta, portando alla distruzione completa un popolo e una nazione.

I suoi nemici, oltre i confini di Israele e alcuni decenni più tardi, dopo averlo sconfitto nella carne, lo hanno sconfitto nelle idee, gli hanno plagiato il nome e si sono chiamati chrestianoi, cristiani. Una colossale beffa del destino. Mentre il Rotolo della Guerra aveva predetto la distruzione di Assur dei Kittim (Roma) e lo splendore della figlia di Sion (Yerushalem), gli sviluppi della storia al posto del regno di Yahweh hanno fatto nascere la chiesa romana, Gerusalemme è stata rasa al suolo e Roma, mentre a Qumran non rimanevano che silenziose briciole di pietra, ha travalicato i secoli come gloriosa capitale di un gigantesco impero.

Così, per quella che possiamo senz’altro definire una immensa fortuna per tutto il genere umano, al posto del fondamentalismo etnico religioso degli ebrei esseno-zeloti ha trionfato in tutto l’occidente l’universalismo spirituale pensato da San Paolo. Il quale, seppur con gravi difficoltà, contraddizioni e ipocrisie, ha senz’altro aiutato il mondo a liberarsi da certe barbarie del passato per muoversi verso un concetto del diritto fondato sull’uguaglianza e sulla giustizia (lungi dall’essere pienamente acquisito). Il Jeoshua ha Nozri, l’uomo vero della storia, che inneggiava, come un moderno terrorista islamico, alla distruzione fisica del nemico spirituale e politico, è stato sconfitto dal Gesù Cristo, prodotto della fantasia teologica, che insegna a porgere l’altra guancia. E di ciò non possiamo che ringraziare il cielo augurandoci, naturalmente, che all’idea possa un giorno seguire l’applicazione.

Questa voce è stata pubblicata in Lavori di Loggia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *