LEZIONE DELL’INNO DI MAMELI

Lezione d’inno per il liceo Mameli- Fabrizio Caccia

«Non siete un coro geriatrico», e cento ragazzi cantano con la mano sul cuore

Gli studenti del liceo classico «Goffredo Mameli» sono tutti in piedi, nell’ aula magna. Cantano. Sono arrivati alla fine della strofa: «l’Italia chiamò…Poropò, poropò, poropompompò…». Alt. Il professor Michele D’Andrea, storico del Risorgimento e musicologo raffinato, barba di Mazzini, occhialetti di Cavour, li ferma come se avesse in mano la bacchetta. «Alt. Voi non siete il coro geriatrico del cronicario di Bordighera – dice – voi siete le classi riunite del liceo Goffredo Mameli di Roma. Perciò l’inno nazionale va cantato in modo diverso. Dovete pensare che siamo nel 1847, che l’Italia è divisa in sette stati. Quest’inno, perciò, ha una forza devastante per il popolo, Fratelli d’Italia è pura rivoluzione! Perciò ora ricominciamo. L’inizio dev’essere cazzuto , scusi il termine signor preside. Fate tremare le pareti…». […omissis…]

«Sapete perché l’inno di Mameli è poco amato? – spiega il professor D’Andrea ai ragazzi – Solo perché viene eseguito male, come una marcetta, senza fluidità, ingessato, non possente qual è. L’inno di Mameli, invece, è perfetto perché richiama il senso musicale italiano, in fondo è il nostro suono. C’è chi sostiene, come Michele Serra, che è un inno antiquato. Ma scherziamo? L’inno olandese è addirittura cinquecentesco, quello americano deriva dalla marcia di un club massonico inglese del ’700…».

Sarebbe contento, il presidente Ciampi, se fosse qui. Giuseppe Nitoglia, 18 anni, terza liceo sezione B, confessa che lui in verità ama di più l’inno inglese: «Ma una volta, sentendo l’inno di Mameli, diretto da Muti alla Scala di Milano, mi sono emozionato». Federico Mastrolilli, suo compagno di classe, dice che il problema non è l’Italia, «ma gli italiani». Eugenia Magnanimi, Marie Rebecchi, Marina Falsetta, anche loro della terza B, concordano: «Il milanese è diverso dal napoletano, dal romano, il campanilismo prevale sul patriottismo. Ecco perchè l’inno è poco amato».

Il professor D’Andrea, poi, chiama 5 ragazzi sul palco per spiegare il concetto che a una qualunque musica si possono dare tanti significati. Per esempio quel motivetto cantato allo stadio: «Che ce frega del cileno, noi c’avemo Totti-gol». Se cambi le parole: «Noi pugnamo per la patria, noi vogliam la libertà». Ecco che da canto di curva si trasforma in canto patriottico, chiarisce il prof. I ragazzi si divertono, applaudono. Due ore scorrono veloci. Ma sono pur sempre i «ragazzi del Mameli», amano gli U2 e i Cranberries, però alla fine chiedono di poter fare il bis. Il preside Capozza gongola, D’Andrea allora riprende in mano l’ideale bacchetta. «Mi raccomando: cazzuti . Ci scusi, signor preside…».      

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