L’ALCHIMIA NEL SIMBOLISMO DEL TEMPIO

L’Alchimia nel simbolismo della decorazione del Tempio
Mi è stato fatto un grande onore chiedendomi di incidere questa tavola e, al contempo, un
grande piacere, poiché mi viene concesso di esprimere alcune idee su un argomento che mi è tanto
caro e che giudico meritevole di tanti sforzi e di tante notti insonni, nella speranza che il Grande
Architetto mi giudichi degno, un giorno, di ricevere l’inestimabile “donum dei” che apre la porta
dell’adeptato.
Contemporaneamente mi sia dato di esprimere il senso di esitante preoccupazione che assale
inevitabilmente un discepolo ai primi passi della sua via, invitato a parlare in quella via medesima,
che conosce ancora tanto poco, che ama però con il suo spirito, preoccupato di non dare adito a
male interpretazioni, con le sue parole tanto povere ad esprimere l’inesprimibile; preoccupazione
ancora accresciuta dal rumore profano che oggi si fa attorno a questo argomento, avvilendolo,
talora, a livello di speculazione commerciale e, comunque, contribuendo ad accrescere la confusione
delle idee che caratterizza il tempo presente.
In primo luogo, cercherò pertanto di chiarire i termini del vocabolario ed in particolare quale è
il significato che attribuirò alla parola “Alchimia”. Non credo di saper trovare parole più stringate, e
al contempo chiare, di quelle di Fulcanelli (cfr. “Demeures philosophales”, Ed. Jacques Pauvert,
pag. 79, cap. v): “la chimica è la scienza dei fatti, come l’alchimia è quella delle cause. … Se l’una
ha per oggetto lo studio dei corpi naturali, l’altra tenta di penetrare il misterioso dinamismo che
presiede alle loro trasformazioni. In ciò consiste la differenza essenziale fra le due e ci permette di
dire che l’alchimia, comparata alla nostra scienza positiva, è una chimica spiritualista, perché ci
permette di vedere Dio attraverso le tenebre della materia”.
Quelle che ci accingiamo ad evidenziare nel simbolismo massonico sono quindi la tracce e le
indicazioni relative a una Scienza, ad una scienza esatta che ha tutte le caratteristiche delle nostre
scienze positive, più qualcuna. Tra queste caratteristiche mi limiterò a citare, a titolo di esempio, la
ripetibilità di ciò che accade, indipendentemente dall’operatore, ma, a differenza elle scienze
positive, non dalle condizioni in cui si trova l’operatore, che nella nostra scienza non è né
indifferente osservatore, né presuntuoso creatore, ma umile demiurgo, strumento volontario e
volente di una nascita microcosmica che coinvolge tutto il suo essere di uomo e che, pertanto, non
può prescindere dalle condizioni in cui si trova. “La verità sulla superficie della terra, non può
essere che positiva, e per ciò medesimo, scientifica, affinché si a possibile all’uomo scoprirla”
(Canséliet, “Considerations liminaires à l’Alchimie et Révélations crétienne”, par Séverin Batford,
pag. 17).
Che l’iniziato riceverà, sotto forma simbolica, tutte le istruzioni relative alla via da
percorrere, gli è annunciato fin dal primo contatto con l’Istituzione, ancora prima dell’iniziazione
vera e propria, nel gabinetto di riflessione.
Qui gli sono presentati una serie di oggetti e di scritte, tutti sormontati da una banderuola, o
meglio da un filatterio, sul quale è scritto “vigilanza e perseveranza”.
Anche se l’iniziando non conoscesse l’uso tradizionale del filatterio che accompagna un’immagine,
sia essa scolpita o dipinta, per indicarne un senso nascosto, un’interpretazione non solamente
letterale, la parola “vigilanza” lo pone ancora sull’avviso, richiedendogli di “aprire bene gli occhi”,
di non essere tra coloro che “pur avendo occhi per vedere, non vedono e orecchi per intendere, non
intendono”, mentre la parola “perseveranza” gli indica una delle principali virtù delle quali deve
essere dotato per penetrare la simbologia e porre in atto l’insegnamento, malgrado i numerosi
insuccessi e i tentativi falliti. Pare di sentire riecheggiare il “Lege, lege, lege, relege, ora et labora”
che appare sulla prima tavola del “Mutus liber” .In alto, la ben nota formula di Basilio Valentino:
V.I.T.R.I.O.L., da leggersi “Visita Interiora Terræ, Rectificando Invenies Occultum Lapidem”,
ricorda all’iniziando il motivo per cui egli si trova in quell’ambiente oscuro, simbolo appunto della
“Interiora Terræ”, ossia della miniera da cui estrarre la materia bruta e della caverna dove avverrà la
nascita meravigliosa del rebus, minerale non più minerale, frutto dell’unione fisica del solfo e del
mercurio, attraverso la mediazione di quel potente catalizzatore che è il sale.
La falce, emblema di Saturno, pare indicare in modo abbastanza trasparente l’origine della
materia prima, mentre la disposizione a triangolo della coppa di zolfo, di quella del sale e della falce
stessa, quando il gallo, consacrato a Mercurio ed annunciatore di luce, li sovrasti, rappresenta in
modo mirabile l’azione misteriosa che un Cielo benigno può compiere sulla natura con l’aiuto
dell’Alchimista.
La candela e la clessidra si completano a vicenda: “se la candela rischiara poiché porta luce, la
clessidra appare come la dispensatrice di quella luce, la quale non è affatto ricevuta tutta d’un colpo,
ma a poco a poco, progressivamente, con l’aiuto del tempo.” (Fulcanelli: “Demeures
philosophales”, II, pag. 207).
Canséliet ci raccomanda “quanto importi che l’alchimista operi al livello più alto dell’onda,
che è quell’acqua secca che i classici tenevano nella più grande considerazione e che è il fattore
unico ed onnipotente della sapiente armonia del mondo. Quest’acqua che è dappertutto e senza la
quale nessuna forma di esistenza sarebbe possibile, il Cosmopolita la chiamò acqua del nostro mare,
l’acqua che non bagna le mani,” (Canséliet: “L’Achimie expliquée sur le textes classiques”, pag.
195), mentre più oltre lo stesso Canséliet ci sottolinea che “l’artista, ai suoi inizi, si sbaglierebbe
grossolanamente se gli venisse l’idea che occorre gettare, come inutile e senza valore, quel caos
sorprendente e curiosamente omogeneo, che è anche chiamato ‘testa di morto’” (Ibidem, pag. 205) e
che compare ad uno degli stadi iniziali dell’opera: orbene, nel gabinetto di riflessione proprio del
teschio e una brocca d’acqua paiono attirare la nostra attenzione su questi due punti tanto essenziali.
L’ultimo oggetto che l’iniziando ha ancora davanti è un tozzo di pane, cioè il risultato della
cottura della farina, acqua, sale e lievito: la legge dell’analogia, base della scienza dei simboli,
indica così la via per ottenere il risultato cercato, una volta conosciuta la materia che darà origine al
pane di vita.
Avendo così avuto, in un unico colpo d’occhio, i simboli della materia prima, dell’agente e
del modo di operare, l’iniziando, dopo aver volontariamente aderito alla via che gli è presentata,
ancora nella completa oscurità, rappresentata dalla benda, cercando di porre i piedi ove li pone la
sua guida, a cui è legato da una corda, intraprende il suo viaggio alla ricerca della luce. È il famoso
pellegrinaggio a Santiago de Compostela, meta di tutti gli alchimisti, che l’iniziando compie come
un pellegrino, scalzo e con gli abiti in disordine, durante il quale gli verrà data la luce, che lo
renderà un giorno Compos Stellae, padrone delle stelle, appunto. Ma è anche il viaggio della
materia bruta che dovrà essere introdotta in un tempio-forno, nel quale le verrà comunicata la luce,
e, dopo un certo tempo di cottura, sarà anch’essa Compos Stellae, padrona della stella, dominatrice
della stella.
Caduta la benda, le indicazioni del lavoro da svolgere si fanno più precise.
“Gli antichi hanno paragonato la materia dei saggi al caos della creazione, dove gli elementi e
i principi, le tenebre e la luce si trovano confusi, mescolati e fuori dalla possibilità di interagire. Per
questo motivo, gli antichi hanno indicato simbolicamente la materia prima nel suo stadio iniziale
con l’immagine del mondo, che conteneva in sé i materiali del nostro globo ermetico, o
microcosmo, riuniti senz’ordine, senza forma, né ritmo, né misura.” (Fulcanelli: “Demeures
philosophales”, pag. 167). Ed è un globo terracqueo, appunto, quello che sormonta la colonna B,
che unanimemente gli autori massonici fanno corrispondere all’elemento femminile e passivo.
Ma come portare il tanto prezioso materiale allo stato di purezza che a noi interessa?
Colpendo tre volte il ferro, come il simbolo puntualmente insegna nel rituale di iniziazione al grado
di apprendista, attraverso i tre colpi di maglietto sulla pietra grezza.
La pietra cubica, posta in posizione simmetrica ci indica il risultato del primo lavoro. È quella
stessa pietra cubica che Fulcanelli illustra nel bassorilievo di Chateau Dampierre (“Demeures
philosophales”, II, pag. 32) “dove si vede la pietra cubica degli antichi Liberi Muratori che galleggia
sull’onda marina. Malgrado una tale operazione paia impossibile, essa non cessa tuttavia di essere
naturale, poiché il nostro mercurio porta i sé il principio sulfureo solubilizzato, al quale si deve la
sua ulteriore coagulazione” e più oltre “… ci troviamo in effetti davanti a un reale mistero, per il suo
svolgimento, contrario alle leggi chimiche, mistero che, né il sapiente più istruito, né l’Adepto più
esperto saprebbe spiegare . … Questa pietra cubica la natura la genera dalla sola acqua – materia
universale del peripatetismo – e l’arte ne deve tagliare le sei facce, secondo le regole della geometria
segreta”.
Dalla stessa parte della pietra cubica la colonna J, tradizionalmente riconosciuta maschile e
sormontata da tre melograni spaccati: la scorza ruvida che racchiude il liquido rossastro nel quale
sono annegati dei granuli bianchi è, al contempo, splendido simbolo del frutto ermetico cui il
coltivatore alchimista dedica tante cure e trasparente rappresentazione del modo di estrarre il
mirabile catalizzatore che benedice l’unione del solfo e del mercurio.
Ma la simbologia sarebbe incompleta, se si dimenticasse il fuoco, l’elemento più importante
che entra in gioco fin dall’inizio della lunga elaborazione filosofale: il triangolo che,
tradizionalmente, indica l’elemento, compare con frequenza nel tempio ed in particolare nella forma
dell’ara e nel segno sovrastante il tronetto all’oriente, circondante la lettera G: quella lettera G,
settima dell’alfabeto, che è l’iniziale della materia prima, sostiene Fulcanelli. La profusione con cui
il triangolo compare nel tempio pare ricordare all’iniziato che il fuoco, sotto le varie specie, è attore
costante dell’opera filosofale e senza di lui nulla potrebbe essere fatto, né il sole e la luna che
compaiono ad oriente, simboli dell’oro e dell’argento filosofici o del solfo e del mercurio, il che è lo
stesso, potrebbero mai congiungersi.
L’albero secco è sempre stato, nella tradizione ermetica, il simbolo del metallo arrestato nel
suo sviluppo verso la perfezione rappresentata dall’oro. L’alchimista è tradizionalmente invitato a
riprendere il lavoro dove la natura lo ha lasciato, quando, per qualche accidente, l’albero metallico
si è seccato. In realtà l’azione di essiccamento è avvenuto perché è venuto a mancare il principio
maschile, attore dello sviluppo, o comunque è stato, per così dire, reso impotente. Un metallo in tali
condizioni è una materia orbata del suo principio maschile, una materia “vedova” del suo solfo o
oro, così come lo è in particolare la nostra materia prima. Quale toccante simbolo, racchiuso
nell’atto più materiale che si possa compiere in tempio, al limite più profano, che quello di
introdurre del denaro, cioè dell’oro, nel “tronco della vedova”!
Di scienza dunque si tratta, di una scienza che, a differenza delle discipline moderne, tiene
conto dell’agente igneo, principio spirituale e base dell’energia, sotto l’influenza del quale si
operano tutte le trasformazioni materiali.
“Voi credete – scrive Henri Hélier a Louis Olivier (cfr. “Lettre sur la philosophie chimique” in
Revue des schiences, 30 dicembre 1896, pag. 1227) – alla fecondità infinita della esperienza. Senza
dubbio; ma sempre la sperimentazione è condotta seguendo una teoria preesistente, una filosofia;
teoria molte volte quasi assurda all’apparenza, filosofia talora bizzarre e sconcertante”.
Credo che, anche nel nostro caso, sia importante notare che al di là di qualsiasi
interpretazione, solo morale o solo di elevazione spirituale, la azione celata sotto i simboli non è
null’altro che la prassi operativa della più pura tradizione occidentale, nella sua espressione, per così
dire, “ottimistica”: l’ermetismo.
Gli studi del Warburg Institute e, particolarmente, i contributi del Festugère hanno posto in
rilievo come il pensiero esoterico occidentale si sia diviso, con l’avvento dell’era cristiana, in due
grandi filoni, talora chiaramente distinti, talora inestricabilmente uniti, quello che, per usare la
terminologia del Festugère, chiameremo “visione pessimistica del mondo” e quella che chiameremo
“visione ottimistica del mondo”.
Secondo la visone pessimistica, il male è qualcosa di insito nel creato, opera di un demiurgo,
se non malvagio, quanto meno imperfetto e privo del sostegno della Sapienza Divina; lo Spirito è
stato imprigionato nella materia per errore o per una colpa iniziale e il suo unico obiettivo è la
liberazione dalla materia stessa, vissuta come catena, sofferenza e impurità. Così i Catari
giungevano al rifiuto, alla negazione della materia, rifiutando la procreazione e, talora, la vita stessa,
quando i “Perfetti” si lasciavano morire di fame, in un atto di estrema coerenza alla loro teoria.
Secondo la “visione ottimistica”, invece, la materia è sostanzialmente buona, come qualunque
opera del Creato, anche se affetta da una malattia, da un principio distorcente e malvagio: esso è
però eliminabile e la materia è salvabile in unione intima con lo spirito, del quale essa segue il
destino in modo inscindibile.
Genericamente proponiamo il riconoscimento della prima teoria nello Gnosticismo e in tutte
le sue manifestazioni; mentre la seconda è propria dell’Ermetismo. Secondo quest’ultimo – afferma
in un suo recente discorso un maestro che mi onora della sua amicizia – è perciò naturale
conseguenza della bontà sostanziale del creato che “lo studio della Natura, la conoscenza del senso
segreto delle cose, ci può condurre a una conoscenza più alta, quella del suo Creatore o, come si
suol dire, quella del suo Nome Ineffabile. Cosicché, se nello Gnosticismo si può parlare di una
iniziazione come di quel processo che aiuta lo Spirito imprigionato a liberarsi dal mondo della
materia, e dai cattivi demoni che lo suggellano, per raggiungere una conoscenza che sarà negazione
di questa realtà e vittoria sui demoni – gli Arconti delle sette sfere, per semplificare -,
nell’Ermetismo, la Saggezza è conoscenza di questa realtà completamente accettata, sempre
intravista in una profondità non comune; il problema che ci si porrà sarà quello di aiutarla a
perfezionarsi, eliminando un male, per altro, solo contingente. Il processo iniziatico sarà perciò
prassi attiva, che non potrà mai prescindere da un operare nel mondo stesso”.
La conclusione è ovvia. Nella misura in cui la Massoneria si fa veicolo di trasmissione della
tradizione esoterica occidentale – e, secondo noi, essa è oggi l’unico veicolo organizzato, per così
dire, di tale tradizione – i suoi simboli e i suoi rituali sono l’espressione fedele della Scienza, a
disposizione di coloro che, avendo occhi per vedere, vedono e orecchi per sentire, intendono.
Il dubbio che lasciamo sospeso a mezz’aria è se valga la vecchia distinzione tra Massoneria
operativa e Massoneria speculativa, nella quale la prima si sarebbe trasformata, o se in realtà, anche
oggi, come sempre, la Massoneria operativa, la Scienza operativa, non sia una realtà pratica
estremamente attuale.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. F. COLONNA

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