SOGNI E BISOGNI DI UN UOMO CHE UNÌ GLI STATI UNITI D’AMERICA: ABRAMO LINCOLN
di Giovanni Greco
Università di Bologna
L’umiltà è quella virtù che,
quando la si ha,
si crede di non averla.
In occasione del film di Spielberf su Abramo Lincoln di un film drammatico che ha riscosso un grande successo in tutto il mondo, film in cui Lincoln osserva una condotta morale che cambierà il destino delle generazioni future, un film strico e biografico che fornisce l’immagine di un uomo tranquillo, di un uomo giusto e risoluto che grazie alla sua naturalezza ed umanità suscita negli altri benevolenza, persino da parte dei suoi avversari, il caro direttore di Hiram, il fr.’. Antonio Panaino, mi ha affidato il compito non lieve di svolgere qualche riflessione sull’operato del sedicesimo presidente degli Stati Uniti. Si tratta di una pellicola che qualche giornale ha definito “cinema-cinema-cinema, visivamente sontuoso e scritto benissimo” e che ruota intorno al Tredicesimo emendamento, cioè all’abolizione della schiavitù. Il nostro direttore pensa che fare storia, ricordare la storia, raccontare la storia, è come predisporre la memoria, è come preparare un raccolto, un granaio, per l’attuale durissimo inverno dello spirito. La circostanza ci è propizia anche per[1]ché ad ottobre di quest’anno una folta de[1]legazione dell’Oriente di Bologna, in particolare delle logge “Galvani”, “Giovine Italia” e “Zamboni De Rolandis”, si recherà ospite a New York presso la sede della loggia italo-americana “Garibaldi” per una serie di incontri e di manifestazioni in occasione del Columbus Day. Un viaggio presso fr.’. italo-americani, già figli di una grande intrapresa migratoria, come diceva Montaigne, “per strofinare i cervelli”, una specie di Grand Tourdei tempi odierni, fenomeno di moderna cultura itinerante dove non cisi limita a vedere le cose e gli uomini come riflessi in uno specchio, ma si tende reciprocamente ad investire con i propri sentimenti e con la propria sete di conoscenza. Vivendo i principi di universalità che caratterizzano in maniera così pregnante il nostro Ordine, si è cercato di mettere in pratica questi fondamentali precetti attraverso questa visita che punta a contribuire a rendere sempre più saldo il ponte fra le officine italiane e quelle degli Stati Uniti. È da tempo ormai che la Massoneria italiana respira con due polmoni, un polmone me di terraneo e un polmone internazionale, come poche istituzioni al mondo e ciò che particolarmente si pone al centro della sua attenzione è la sfida alla modernità, a cui la Massoneria internazionale non può non rispondere perché ne va del suo futuro. Sono convinto che solo recuperando una dimensione autenticamente cosmopolitica la Massoneria possa guardare con giusti occhi alla propria realtà nazionale e alla vita e alle prospettive stesse delle singole officine che ne compongono l’articolazione e la vita. Su queste basi si valorizza al massimo una Massoneria che è frutto di una scelta culturale: Mozart e il suonatore di organetto con vivono nella stessa loggia, secondo la brillante espressione di Marco Veglia, dando vita ad una straordinaria operazione culturale. Abramo Lincoln nacque nel 1809 ad Hondgensville, nel Kentuckye fu il sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Lincoln crebbe fra stenti di ogni sorta conquistandosi con grandi sacrifici un’istruzione adeguata. Fu battelliere sul Mississipi, primo mozzo sulle zattere per il trasporto del legname, garzone di un negozio, mugnaio, carpentiere, agrimensore, ufficiale postale a New Salem, soldato – col grado di capitano – contro il capo indiano Black Hawk. Il capo indiano Falco Nero era nato presso il Rock River, nell’Illinois, nel 1767, ed era della tribù dei Sauks. Non riconobbe l’accordo concluso nel 1804 fra i Saukse Foxes i con il governo degli Stati Uniti, accordo che prevedeva la cessione del territorio ad oriente del Mississipi e, aiutato dagli inglesi, combatté a lungo contro gli americani unendo varie tribù indiane, attaccando villaggi e forti e causando la morte di ben 126 bianchi. Fu un capo con notevoli capacità organizzative e militari operando una guerriglia che durò tanti anni con continui dissidi in particolare coi i mormoni. Fu fatto prigioniero nel 1832 e poi dettò le sue memorie. Democrazia e disuguaglianza, democrazia e logica dello sterminio, potevano tranquillamente convivere. Nella sua autobiografia Lincoln parla dei suoi antenati quacqueri della sua famiglia come di una famiglia di secondo ordine e ricorda che il nonno paterno, Abramo Lincoln, nel 1782 era stato ucciso dagli indiani “non in battaglia, ma a tradimento mentre lavorava per aprire una fattoria nella foresta”. Certo è che il genocidio degli indiani appartiene alla storia della perfidia umana. Gli indiani, massacrati ed umiliati, erano costretti a trasferimenti violenti e disumani nelle riserve durante i quali morivano a migliaia di fame e di stenti. Prevalse la teoria del capro espiatorio: gli indiani sono selvaggi, hanno sistemi e tradizioni incivili, posseggono terre che non sanno valorizzare, diffondono malattie, rappresentano un pericolo continuo ed incombente, scalpano le persone e perciò meritano la morte. Dopo aver studiato legge nei momenti liberi, avvocato a Springfield, cercò infruttuosamente di entrare in politica, ma poi nel 1834 divenne deputato e nel 1846 fu eletto al Congresso dell’Unione. Il suo esordio in politica non fu brillante tant’è che poco dopo gli elettori lo lasciarono a casa, senza concedergli la riconferma, per cui decise di dedicarsi maggiormente all’attività forense con particolare cura al campo dei trasporti sia fluviali che ferroviari. Fu proprio nel corso della sua attività forense che capì di possedere un’invidiabile oratoria tanto che nei processi che svolgeva, la gente accorreva ad ascoltarlo grazie all’efficacia del suo liguaggio semplice, lineare, diretto, al punto da conquistare giuria e uditorio con motivazioni singolari e strepitose, a volte condite da una ironia e da un sarcasmo senza pari, come quando riuscì a ottenere una difficile vittoria ironizzando contro il pubblico ministero che si era messo la camicia al contrario, mortificandolo e scoraggiandolo a tal punto da fargli vincere la causa. Ma nel 1854 rientrò appieno nella vita politica con il discorso di Peoria prendendo posizione contro il Kansas-Nebraska Act votato dal Congresso e che avrebbe consentito ai grandi proprietari del Sud di estendere la schiavitù a tutti i nuovi stati. Grazie al discorso di Peoria rientrò alla ribalta tanto da ottenere, l’anno dopo, una notevole affermazione come candidato re[1]pubblicano alla vice-presidenza. Il discorso di Peoria fondava la sua tesi antischiavista sul principio umanitario e democratico che “i nuovi stati liberi sono le terre dove possono andare i poveri per migliorare la loro condizione”. Nel 1858 soccombette di fronte a Douglas, suo diretto avversario, ma lo batté sul piano dell’opinione pubblica nazionale con discorsi che contribuirono alla crisi politica dei democratici e all’affermazione del partito repubblicano.
Lincoln era di alta statura, un po’ goffo sia nel corpo che nel modo di vestire, il volto magro, “spiritualizzato, limpido e triste, virile e tenero, giovanile e senza età”, era dotato di humor, ambizioso, assertore dell’ordine e della legalità, irriducibile nel considerarsi autenticamente modesto, con un linguaggio semplice, diretto, non ampolloso, quasi dimesso, a volte sarcastico, a volte ruvido, a volte poetico. Lincoln era un uomo che guardava le cose e le persone all’altezza degli occhi, né da sotto né da sopra, un uomo consapevole delle difficoltà della vita, un uomo che sapeva passare dalla sua pur cospicua solitudine alla partecipazione corale nel mondo globale, un uomo che forse non ha seminato e, soprattutto, non ha raccolto tutto quel che doveva, ma che ha smosso profondamente il terreno sin dalle zolle più dure. Lincoln, nel profilo da lui stesso redatto, così si descriveva: “sono alto circa sei piedi e quattro pollici, sono di corporatura magra e peso in media centoottanta libbre, il colorito è scuro, i capelli neri e incolti, gli occhi grigi”. Quando nel 1859 l’amico Jesse W.Fell di Bloomington, Illinois, gli chiese un pro[1]filo biografico per poterlo presentare agli elettori, Lincoln glielo fornì con la premessa: “non vi è contenuto molto, per il motivo, credo, che non c’è molto da dire di me. Se Ella volesse ricavarne qualcosa, desidero che sia modesta”. In quegli anni Lincoln aveva portato a compimento l’opera di organizzazione del grande partito repubblicano con un programma antischiavistico e le sue idee, avanzate ma moderate, gli avevano conferito sempre maggiori riscontri. Grazie a Lincoln il partito repubblicano aveva assunto posizioni antischiavistiche e aveva accolto nel suo programma politico sia le rivendicazioni della borghesia del Nord, fra cui dazi doganali più elevati, sia le rivendicazioni dei coloni dell’Ovest, fra cui la distribuzione gratuita di terreni demaniali. La schiavitù al Sud può essere ancora tollerata, ma ne auspica un naturale esaurimento o l’abolizione ad opera degli stessi uomini del Sud: “sotto alcuni aspetti -sosteneva – certamente la donna nera non è mia pari, ma nel suo diritto naturale di mangiare il pane che guadagna con le sue mani ella è una mia pari e pari di tutti gli altri”. Gli stati del Sud temevano l’apparente moderazione antischiavista di Lincoln, ritenendola di facciata e temendo che poi avrebbe voluto procedere alla completa abolizione della schiavitù. Lincoln era convinto, in ordine alla schiavitù, e questo fu il suo orientamento nei dibattiti con Douglas, che certamente era un male, per cui la schiavitù non andava alimentata ed anzi gradualmente avviata a spegnimento. Persuaso che a lui spettasse la gestione degli immani problemi dell’Unione, si candidò al supremo potere nel 1860 con una votazione che, per la prima volta, nella storia americana, registrò la divisione del paese in due blocchi ostili. Infatti mentre il Nord abolizionista (seppure senza una quota rilevante del New Yersey) diede il voto a Lincoln, il Sud votò compatto contro di lui. Lincoln vinse in tutti gli stati del Nord e ottenne la presidenza con una maggioranza del 40 per cento del voto popolare, ma con una maggioranza assoluta del voto elettorale, che secondo la Costituzione era quello che assegnava la vittoria. Neppure l’appello che Lincoln rivolse all’indomani della sua elezione, con spirito di tolleranza e moderazione, nel discorso inaugurale della sua presidenza al popolo americano del Sud, perché non distruggesse l’Unione, poté impedire lo scoppio della guerra di secessione. Durante la sua presidenza i rappresentanti della south Carolina, della Georgia, dell’Alabama, della Florida, del Mississipi, del Texase della Lousiana, riunitisi a Montgomery deliberarono di separarsi dal l’Unione e procedettero alla formazione degli Stati Confederali d’America sotto la presidenza di Jefferson Davis. Toccò perciò ancora a Lincoln il compito enorme di salvare il paese e ridurlo a nuova unità conciliando fra gli stati non secessionisti gli antischiavisti e quelli possibilisti, spezzando le forti interferenze della Francia e dell’Inghilterra pronte ad aiutare il Sud. scegliendo la strada della guerra e dello scontro armato, i confederati facevano affidamento soprattutto sulla migliore qualità delle loro forze armate e confidavano nell’intervento degli inglesi che erano i maggiori acquirenti del cotone del Sud. Gli stati del Nord invece confidavano nei nu meri a loro favorevoli, nella loro schiacciante superiorità e nel loro maggiore potenziale economico. La guerra civile che ne derivò fu una guerra popolare in difesa dell’Unione e contro la schiavitù. Se era certamente vero che “l’Unione si fondava in teoria su un libero contratto fra stati sovrani, era anche vero che il rifiuto di una parte del paese di accettare il responso della maggioranza avrebbe distrutto le basi stesse dello stato. Non viera alternativa alla guerra civile”. La guerra cominciò nell’aprile 1861 e il casus belli che scatenò la guerra fra i due stati fu l’attacco confederato a un forte unionista in south Carolina (12/4/1861) e dinanzi a quell’attacco Lincoln, che fino ad allora aveva temporeggiato sperando di trovare un accordo, risponde denunciando l’insurrezione degli stati meridionali (15/4/1861) diramando un appello all’arruolamento e annunciando così l’inizio delle ostilità. I soldati arruolati per la Confederazione erano 900.000 su 9.000.000 milioni di cittadini di cui quattro milionidi schiavi neri, due milioni di soldati per l’Unione che aveva ventidue milioni di abitanti quasi tutti liberi. Secondo non pochi storici la superiorità materiale del Nord era tale che per il Sud la guerra era perduta in partenza. Ma il Sud aveva comunque delle cospicue frecce al proprio arco: combatteva in prevalenza sulla difensiva, combatteva sul proprio territorio di cui aveva il pieno controllo delle vie interne, mentre gli invasori dovevano mantenere lunghe vie di comunicazione, stabilire guarnigioni e forti nelle zone occupate, combattere non solo contro un esercito, ma contro una popolazione tutta. Vennero utilizzati fucili e cannoni modernissimi e vi furono 364.000 morti fra gli unionisti e 258.000 morti fra i confederati con oltre 600.000 mila feriti. Gli americani registrarono più morti allora, in questa guerra civile, che nelle guerre mondiali del Novecento. se è vero che in tempi moderni si è cercato di salvare “il soldato Ryan”, nella guerra di secessione vi fu addirittura il caso di cinque fratelli tutti uccisi nel conflitto tant’è che il presidente, il 21 novembre del 1864, scrisse alla signora Lydia Bixby, madre dei cinque figli, la seguente lettera: “Gentile Signora, il Dipartimento di Guerra mi ha mostrato una dichiarazione del generale del Massachusetts che lei è la madre di cinque figli che sono morti gloriosa[1]mente sul campo di battaglia. Sento che le mie parole per alleviarle il dolore di una così forte perdita sono deboli ed inutili. Ma non posso evitare di scriverle perché sono il ringraziamento della repubblica per cui hanno lottato per la sua salvezza. Prego il Padre celeste perché l’orgoglio per il sacrificio dei suoi figli sull’altare della libertà prevalga sul dolore per la loro assenza. 1 più sinceri saluti. A. Lincoln”. La guerra durò quattro anni con tre milioni di uomini impegnati e oltre 600.000 morti. Gli schiavi riacquisteranno la libertà, ma non risolveranno certo le loro condizioni economiche, anche se ovviamente l’esito della guerra fu per loro un passo fondamentale. Fu senza ombra di dubbio la prima guerra totale dei nostri tempi, la prima ad utilizzare i portati più avanzati della ricerca e della tecnica, armi all’avanguardia, la ferrovia e il telegrafo. Nel 1863 col suo famoso “Proclama di emancipazione” dichiarò liberi e cittadini americani quattro milioni e mezzo di schiavi negri e così, due anni dopo, al termine di una guerra sanguinosissima, l’esercito sudista si arrese ad Appomattox. Il 1° gennaio 1863 Lincoln emanò il proclama di emancipazione della popolazione negra, limitatamente però ai territori controllati dai Confederati. Rivelatrice una sua lettera scritta nell’agosto del 1863 a James Conkling dove, fra l’altro, sosteneva: “C’è vo[1]luto più di un anno e mezzo per sopprimere la ribellione prima che fosse tenuta la proclamazione, gli ultimi cento giorni dei quali passati con l’esplicita co[1]scienza che stava arrivando, senza essere avvertita da quelli in rivolta, ritornando alle loro faccende. La guerra è progredita in modo a noi favorevole dall’annuncio della proclamazione. So, per quanto sia possibile conoscere le opinioni degli altri, che alcuni comandanti delle nostre armate in campo, che ci hanno dati i successi più importanti, credono nella politica dell’emancipazione e l’uso delle truppe di colore costituisce il colpo più pesante finora sferrato alla ribellione, e che almeno uno di questi importanti successi non sarebbe stato raggiunto se non fosse stato per l’aiuto dei soldati neri”. Il 13° emendamento abolita schiavitù su tutto il territorio dell’Unione e, negli ultimi mesi della guerra, battaglioni di neri, invitati a prestare servizio militare volontario, combatterono da entrambe le parti. Secondo Raimondo Luraghi, Lincoln si era reso conto che l’attenzione del mondo era concentrata sull’America e che lì si salvava o si perdeva il diritto alla vita di ogni futuro regime democratico. E perciò nel pomeriggio del 19 novembre 1863 pronunciò il famoso discorso di Gettysburg durante la guerra, alla cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg, autentica pietra miliare nella costruzione della futura nazione americana. Il testo riconosciuto dalla Biblioteca del Congresso di Washington così recitava: Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così votata, possa a lungo per[1]durare. Noi ci siamo raccolti su di un grande campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui dettero la loro vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto. Ma, in un senso più ampio, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo. I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato, ben al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o portar via alcunché. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò che essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono. Sta piuttosto a noi il votarci qui al grande compito che ci è dinnanzi: che da questi morti onoratici venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a partire dalla terra”. Il successo delle operazioni confortò la sua politica e la crescente popolarità gli assicurò la vittoria quasi plebiscitaria nelle elezioni presidenziali del 1864, nonostante l’opposizione all’interno del suo stesso partito. Ma il discorso dell’11 aprile 1865, in cui all’indomani della resa di Lee egli esaltò l’avvenuto ristabilimento dell’autorità nazionale nel trionfo dei principi di democrazia repubblicana, fu anche il suo testamento politico. Non poté però portare a compimento la sua opera perché l’attore John Wilkes Booth, fanatico partigiano sudista, tre giorni dopo, lo uccise al teatro Ford di Washington mentre assisteva ad una rappresentazione con la moglie. Lincoln aveva appena preso posto nel palco presidenziale quando l’assassino sparò un colpo di pistola calibro 44 alla testa del Presidente, gridando “sic semper tyrannis”, “così sempre per i tiranni”, motto dello stato della Virginia già pronunciato da Bruto all’atto del[1]l’uccisione di Cesare. Quella sera doveva essere presente anche il generale Grant, amico intimo di Lincoln, ma aveva poi declinato l’invito e quindi mancò la guardia del corpo di Grant, Ward Hill Lamon, oltre a un lassismo di scarsa professionalità. Più che una congiura in grande stile furono “l’odio, l’idiozia e la cattiva sorveglianza poliziesca che posero fine alla sua opera”. Dopo l’attentato Booth si lanciò giù dal palco rompendosi una gamba, ma riuscì egualmente a raggiungere il proprio cavallo e a fuggire, mentre il Presidente colpito a morte venne portato in una casa dall’altro lato della strada oggi chiamata Peterson House, dove giacque in coma per alcune ore prima di spirare. Booth fu poi scoperto in un granaio e venne ucciso, mentre altri cospiratori vennero catturati,
imprigionati o impiccati fra cui Mary Surratt la prima donna ad essere giustiziata negli Stati Uniti. Il corpo di Lincoln fu riportato in treno in Illinois, con un grandioso corteo funebre. In realtà colui che aveva indicato alla nazione intera la strada per la Terra Promessa, e che aveva condotto il suo popolo in sua prossimità, era destinato a non vederla. Per la nazione fu un danno durissimo e la costernazione unanime anche nel Sud perché, anche se col senno del poi, tutti ammisero che in realtà non voleva essere il capo dei vincitori, ma il primus inter pares di una nazione ricostituita. Numerose e significative le coincidenze fra l’assassinio di Lincoln e quello di Kennedy: entrambi difensori dei diritti civili, eletti al Congresso rispettivamente nel 1846 e nel 1946, a cento annidi distanza, esattamente come per la presidenza, nel 1860 e nel 1960,in entrambi i casi gli assassini, uomini del Sud, Booth e Oswald erano nati a un secolo di distanza, 1839/1939, in tutti e due i casi vennero uccisi prima del processo e uccisero di mercoledì con uno sparo alla testa. Il successore di Lincoln, Andrew John[1]son, scelto nel 1864 come vicepresidente perché esempio personale di unità fra Nord e Sud, fu leale nel seguire il programma di riconciliazione voluto da Lincoln, un buon presidente, senza infamia e senza lode, ma in ogni caso mille spanne superiore al generale Grant, eletto dai repubblicani a presidente, perché era stato un grande soldato, ma che poi invece “risultò il peggior presidente della storia americana”. La vittoria del Nord salvò l’unità nazionale statunitense, permise l’abolizione del[1]l’istituto vergognoso della schiavitù, pose le premesse per uno sviluppo vertiginoso del sistema industriale capitalistico. La fine della guerra segnò l’inizio di una grande ripresa e di uno straordinario decollo, anche se la tendenza a stringere sempre dipiù le zone occupate dagli indiani divenne irreversibile e gli indiani non poterono resistere alle violenze e all’ondata migratoria dei bianchi, e vennero decimati, le loro tribù distrutte, le loro donne e i bambini uccisi, i loro superstiti ridotti a vivere in riserve e in recinti. Discussa e controversa è l’appartenenza alla Massoneria di Abramo Lincoln. Secondo fonti massoniche americane Lincoln effettuò la domanda per entrare in Massoneria, a cui poi non si diede seguito per l’imminente scoppio della guerra, domanda che certamente sarebbe stata riproposta al termine della guerra. Ad ogni buon conto la decisione di Lincoln di entrare in Massoneria conferì onore all’istituzione massonica come rivendicato, alla sua morte, dalla Tyrian Lodge n. 333 di Springfield che ne esalta il gesto. Secondo la citata loggia di Springfield “per l’ammirazione e la fraternità di galantuomini che egli sapeva essere massoni, fece sì che aveva intenzione di entrare in massoneria”. In particolare la Gran Loggia dell’Illinois lo invitò nel 1860 ad una tornata pubblica nella quale Lincoln disse ai convenuti: “Io ho sempre avuto un profondo rispetto per la fraternità massonica e ho coltivato a lungo il desiderio di diventarne membro. Non l’ho mai chiesto perché ho capito la mia indegnità a farlo. Non potevo superare la mia esitazione perché ero candidato alla presidenza degli Stati Uniti e avrei potuto essere frainteso. Per questa ragione devo per il momento astenermi”. Un suo amico appartenente alla Massoneria volle comunque comunicare a Lincoln che però gli altri candidati erano appartenenti alla Massoneria, ma Lincoln rispose che in ogni caso, preso dalla campagna elettorale, sarebbe risultato pigro nell’espletamento dei suoi nuovi doveri rischiando di non dedicare alla Massoneria il tempo necessario. Dopo quindi aver fatto domanda di entrare nella Loggia “Tyrian” ritenne che la sua decisione poteva apparire, in quella fase, uno stratagemma per avere dalla sua parte la Massoneria ed i cospicui voti che ciò gli poteva portare e consigliò la loggia di conservare la sua richiesta per poi riprenderla in considerazione alla fine del suo mandato presidenziale. Per i massoni americani fu perciò un massone nel suo cuore e parlò spesso in occasione di funerali massonici, come per esempio nel 1842, per il suo amico Bowling Green, e in tante altre circostanze in cui ribadiva il desiderio di procrastinare il suo ingresso, ma il destino e i suoi assassini non glielo consentirono. Certa comunque la sua appartenenza al milieu rosacrociano, alla Società Rosacruciana, ordine dedito allo studio della natura con lo scopo di conseguirne la comprensione spirituale, e che si interessava di geometria, di alchimia, per alimentare il cammino interiore. L’appartenenza al cenacolo rosacrociano veniva vissuta da Lincoln con lo spirito di un fervore riformistico e di un rinnovamento spirituale che caratterizzava l’America di quel periodo, con una cura particolare alla problematica spirituale morte-rinascita. Inoltre il suo secondo vicepresidente, Andrew Johnson era massone, come il segretario di guerra, Edwin Stanton, mentre sua moglie Mary Todd si era sempre appassionata di occultismo. La Massoneria americana, dalla elezione del presidente Andrew Jackson nel 1828 sino alla fine della guerra civile nel 1865, secondo Lorenzo Bellei Mussini che ottimamente l’ha studiata, ha attraversato cospicui cambiamenti che coinvolsero anche numerose organizzazioni umanitarie ad essa connesse. Cisi riferisce per esempio all’American Temperance Society, all’American Peace Society, all’American Home Missionary Society perché, dopo il periodo anti-massonico verso la fine degli anni venti, la Massoneria ritroverà forza e vigore soprattutto cercando di rispondere alle preoccupazioni della popolazione in ordine ad una società amorale, corrotta e indecente. I massoni di questa generazione perciò reinterpretarono i rituali e i simboli via via smarcandosi da posizioni elitarie ed aristocratiche, fornendo una immagine nuova di sé, non effettuando più le riunioni nelle taverne ma in templi ad hoc, evitando di parlare di politica e di religione, abolendo l’utilizzo dell’alcool nelle logge, definendo una concezione umanitaristica enfatizzando taluni passaggi tratti dalla Bibbia per spiegare meglio determinati passaggi esoterici.
“Perfino nella conquista del West, uomini colti, illuminati dalla conoscenza delle civiltà classiche, dalle teorie di filosofia pratica, fecero dei principi massonici i parametri per la costituzione di nuove società, di nuove città e di nuovi stati”.
Nel periodo della guerra civile, malgrado la società del tempo ponesse fratelli contro fratelli, la Massoneria fu in grado di evitare una divisione più profonda, perché ogni Gran Loggia rimase fedele al proprio stato. Tra i più importanti massoni in armi si ricordano i generali George McClellan, Joshua Lawrence Chamberlain, Lewis Armistead e George Pickett nel mentre si formarono, tra gli eserciti, oltre duecentoventicinque logge “militari” che “divennero luoghi di rifugio dal caos della guerra, dove ci si poteva confrontare con lo spirito di uguaglianza”. E così, malgrado la terribile guerra civile, malgrado una guerra fratricida, moltissimi furono gli episodi in cui i fratelli non vennero meno ai loro doveri nemmeno nei confronti di fratelli “nemici”, dall’altra parte della barricata tant’è che, a volte, anche i fratelli catturati venivano invitati alle tornate delle logge “da campo” e numerosi furono i funerali massonici compiuti nei campi di battaglia, dal[1]l’una o dall’altra parte. In particolare la Massoneria a quel tempo fu ispirata verso l’associazionismo fraterno e solidale, come nel caso per esempio del Maggiore William McKinley che rimase colpito e affascinato da un medico massone che portò soccorso a prigionieri ribelli. Malgrado fosse dell’Ohio, McKinley chiese di poter entrare nella loggia confederata “Hiram n. 21 e più tardi verrà eletto presidente degli Stati Uniti (1896-1900). Fu anche e particolarmente grazie allo spirito volontaristico, all’assistenza ai malati, al rinnovamento di regole e rituali, alla creazione di una rete capillare di piccole logge, che la Massoneria americana riuscì a passare da ca. 440.000 affiliati del 1870 ai ca. 800.000 di fine secolo. Solo nel 1900, le undicimila logge americane, iniziarono cinquantuno[1]mila nuovi fratelli. Lincoln era molto amato dai suoi connazionali, considerava il denaro un mezzo, uno strumento e non il fine, non il padrone, era un uguale fra uguali, era un uomo autenticamente umile, ma allo stesso tempo il suo modo di fare, la sua sostanziale solitudine lo stagliava naturalmente al di sopra degli altri con una visione calma e riflessiva del futuro: “la miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta”. Lincoln era un uomo di grande dignità e pensava che la dignità fosse l’arco che lanciava le persone verso il domani, convinto com’era che ogni uomo ogni giorno tesse e disfa la tela della sua dignità. La cosa peggiore che possa capitare ad un uomo è la perdita di dignità e di rispetto di sé. Una grande lezione anche per un paese come il nostro, che è al punto di una evidente putrefazione morale e la vera casta è la nostra indifferenza, per cui la dignità rimane un caposaldo essenziale. Lincoln era un uomo rigoroso, intendendo il rigore come la sentinella della serenità, ed era una persona autenticamente umile, virtù che quando l’hai davvero credi di non averla. Ma soprattutto la vita di Lincoln fu tesa al raggiungimento delle libertà delle persone convinto com’era, per dirla con Benedetto Croce, che la libertà al singolare esiste solamente nelle libertà al plurale. In realtà la libertà “è una, non è multipla. È plurima la sua vita relazionale, perché si è liberi di, liberi con, liberi per, liberi tra, liberi da” e perciò alla fine fine, allora come ora, dobbiamo deciderci su ciò che veramente vogliamo: vogliamo la libertà dei servi o la libertà dei cittadini? Il ricco utilizzo da parte di Lincoln di ben articolate preposizioni (come si è visto col discorso sul popolo), fa opportunamente dire a Marco Veglia che “la preposizione, in[1]somma, ordina nell’atto stesso di legare, vive di contesti, in una contingenza sintattica che non resta vittima di se stessa, ma che edifica un’architettura, che determina significati […] Non solo la libertà, ma ogni virtù sembra vivere di una sorta di slancio preposizionale”. Non casualmente l’unità americana era sacra per Lincoln alla stessa stregua del giuramento che aveva prestato: “non possiamo separarci” ribadiva, “non possiamo allontanare l’una dall’altra le nostre due se[1]zioni, o erigere tra esse un muro invalicabile”. Lincoln non fu un apostolo, ma un politico abile e astuto, antischiavista al punto giusto, in disaccordo sulla mescolanza delle razze, ma attento alla cura degli uomini e degli animali, come dimostra l’episodio di un Lincoln che è al calesse col suo socio legale Herndon. Si accorgono che, in una fangosa strada di campagna, un porcellino grugniva disperatamente perché si era incastrato in una palizzata. Lincoln scese dal calesse, inzaccherandosi «completamente, ma liberò il maialino: “È stata un’azione egoistica. Se non l’avessi fatto, stanotte non avrei chiuso occhio: il grugnito di quel maiale mi sarebbe riecheggiato negli orecchi. Forse si sarebbe liberato da solo, ma io non potevo saperlo” In particolare aveva una visione del governo del popolo direi quasi proposizionale, mentre teneva in un palmo di mano la pietà, persino più della giustizia, considerandola il dono più grande di Dio agli uomini, la opportunità di leggere e valutare la Bibbia ritenuto il più grande libro nella storia dell’uomo. Sterminata è la mole di libri scritti su Lincoln, certamente oltre quindicimila, tant’è che esiste addirittura una torre di libri dedicata a lui realizzata nel Ford’s Theatre Center a Washington, centro museale di prim’ordine, coni migliaia di libri a Lincoln dedicati. In particolare i suoi scritti sono stati raccolti in The Writings curati da Artur Brooks Lapsley, 1888-1906. Ma non desidero concludere questo breve excursus sulla vita e l’operato di Lincoln, senza aver riportato una bellissima lettera che il presidente scrisse al maestro del figlio, in occasione del suo primo giorno di scuola, a testimonianza imperitura di in[1]segnamento e di profondità d’animo: “Il mio figlioletto inizia oggi la scuola: per lui, tutto sarà strano e nuovo per un po” e desidero che sia trattato con delicatezza. È un’avventura che potrebbe portarlo ad attraversare continenti, un’avventura che, probabilmente, comprenderà guerre, tragedie e dolore. Vivere questa vita richiederà fede, amore e coraggio. Quindi, caro maestro, la prego di prenderlo per dolcezza, se può. Gli insegni che, per ogni nemico c’è un amico. Dovrà sapere che non tutti gli uomini sono giusti, che non tutti gli uomini sono sinceri. Gli faccia però anche comprendere che, per ogni farabutto c’è un eroe, che per ogni politico disonesto, c’è un capo pieno di dedizione. gli insegni, se può, che dieci centesimi guadagnati valgono molto di più di un dollaro trovato; a scuola, o maestro, è di gran lunga più onorevole essere bocciato che barare. Gli faccia imparare a perdere con eleganza e, quando vince, a godersi la vittoria. gli insegni a essere garbato con le persone garbate e duro con le persone dure. Gli faccia apprendere anzitutto che i prepotenti sono i più facili da vincere. Lo conduca lontano, se può, dall’invidia, e gli insegni il segreto della pacifica risata. Gli insegni, se possibile, a ridere quando è triste, a comprendere che non c’è vergogna nel pianto, e che può esserci grandezza nell’insuccesso e disperazione nel successo. Gli insegni a farsi beffe dei cinici. Gli insegni, se possibile, quanto i libri siano meravigliosi, magli conceda anche il tempo di riflettere sull’eterno mistero degli uccelli nel cielo, delle api nel sole e dei fiori su una verde collina. Gli insegni ad aver fede nelle sue idee, anche se tutti gli dicono che sbaglia. Cerchi di infondere in mio figlio la forza di non seguire la folla quando tutti gli altri lo fanno. Lo guidi ad ascoltare tutti, ma anche a filtrare quello che ode con lo schermo della verità e a prendere solo il buono che ne fuoriesce. Gli insegni a vendere talenti e cervello al miglior offerente, ma a non mettersi mai il cartellino prezzo sul cuore e sull’anima. Gli faccia avere il coraggio di essere impaziente e la pazienza di essere coraggioso. Gli insegni sempre ad avere suprema fede nel genere umano e in Dio. Si tratta di un compito impegnativo, maestro, ma veda che cosa può fare. E’ un bimbetto così grazioso, ed è mio figlio”. Lincoln sa bene che il maestro non elargisce tanto la sua sapienza, quanto piuttosto la sua fede e il suo amore, e non invita ad entrare nella dimora del suo sapere, ma guida alle soglie della nostra mente. Anche da queste parole, oltre che dall’enorme lavoro svolto da Lincoln, si potrebbero ricordare le parole del fr.’. Giovanni Pascoli: “Sì io lavoro per il giorno dopo, per il giorno che seguirà la mia morte”. Per questo complesso di ragioni consiglio di valutare le opere e le attività di Abramo Lincoln in modo accurato, pensoso e responsabile, perché esse definiscono taluni pilastri reali e progressivi della civiltà e dell’umana dignità: tutto questo ha con[1]ferito un senso vero e profondo ad una vita autenticamente “pensata”. Torquato Accetto, bravissimo scrittore del ‘600, scriveva: “Nasce ciascuno con obbligo di lasciar qualche nobil segno, in cui mostri che un tempo visse”. E questo è il nobil segno, nobilissimo, che Abramo Lincoln lascia ai posteri continuamente com’è stato alla ricerca dell’eterno anche sotto l’accidentale.
HIRSM 2/2013