IL SECONDO SCOPO

IL SECONDO SCOPO

di Aldo Vandorno

Il rituale di apertura e di chiusura dei lavori in grado di apprendista è denso di significato filosofico, esoterico, poetico ed è così armoniosamente proporzionato e logico nelle varie sue parti da farci pensare ad una mirabile architettura gotica. Mi pare perciò veramente disdicevole sentirlo talvolta recitare in tempio come un noioso formulario notarile, con fretta e senza la necessaria, doverosa solennità; ma forse non tutti i fratelli lo comprendono nei suoi reali valori.

Credo che sia opportuno farne più sovente oggetto di riflessione e di studio, considerando il rituale sia nel suo insieme, sia in qualche suo dettaglio, come si propone infatti questo modesto scritto.

Nel corso dell’apertura dei lavori il Venerabile interroga il Primo Sorvegliante sugli scopi della riunione. La risposta è nota: «Per edificare templi luminosi alla virtù, scavare oscure profonde prigioni al vizio e lavorare al bene ed al progresso della patria e dell’umanità».

Il primo scopo, quello di edificare «templi luminosi alla virtù» meriterebbe un lungo commento per coglierne tutte le implicanze e conseguenze, mentre mi pare più semplice la comprensione del secondo scopo, quello cioè di «scavare oscure profonde prigioni al vizio». Credo poi che lo studio di quest’ultimo possa aiutare a capire anche il primo, essendone il suo simmetrico negativo.

Mi occuperò pertanto del secondo scopo dei lavori della officina in grado di apprendista.

La frase può essere non bene intesa se alla parola «vizio» si dà il significato oggi più corrente (dove i vizi non sono mai considerati delitti). In questo senso che cosa sono i vizi? Esistono vizi che in una certa misura possono persino essere tollerati (vizio del fumare, vizio del bere, vizio del giocare, ecc.); altri che dovrebbero essere curati, come la tossicomania. Se questi sono i vizi, e se ne possono pensare anche di peggiori, non si capisce perché dovrebbero essere chiusi in oscure, profonde prigioni. Proporsi di farlo non avrebbe senso. Infatti più che incarcerarli sarebbe meglio adoprarsi perché non ci fossero più, né fuori né dentro le prigioni. A questo punto è necessario chiederci se le parole del rituale sono soltanto una bella, ardita espressione di fantasia poetica, o se nascondono un significato, se non esoterico, almeno diverso. Credo però che basti un momento di riflessione per intuire che la parola vizio del rituale ha un valore che non è quello consueto. Se apriamo qualche dizionario filosofico leggiamo definizioni del vizio come queste: «l’abito operativo moralmente cattivo. L’abito al male» (A. Carlini in Enc. Filosofica); «la pratica del male» (Diz. del Ranzoli). Da ciò si desume che esiste uno strettissimo rapporto vizio-male, per cui, almeno nel nostro caso, uno può essere quasi sinonimo dell’altro.

Quasi sinonimo, ma non sinonimo. La scelta della parola vizio, fatta dal rituale, e non della parola male, è più significativa e moralmente più precisa. Per male si potrebbe intendere anche il male fisico; ad esempio una malattia, un terremoto.

Pensiamo ancora che il rituale è nato nel sec. XVIII e  si è consolidato nella forma attuale  nel primo Ottocento  e quasi certamente i suoi compilatori si sono ispirati non solo a formule iniziatiche antichissime, ma a concetti derivati dal pensiero speculativo del loro tempo, che aveva già raggiunto vette eccelse. Per le une e per gli altri la parola «vizio», più che per indicare mali o difetti più o meno determinati e individuati, viene usata per indicare un concetto generale, una sorta di categoria kantiana. È il Vizio o il Male, con la lettera maiuscola (qualcosa di simile al male  metafisico di Leibniz), una realtà insopprimibile, e come tale sempre esistente nella vita dell’uomo. Nel pensiero di molte filosofie il male è, insieme con il bene, il presupposto etico del libero arbitrio. Nel pensiero di altre il male viene considerato il momento dialettico (negativo) necessario al divenire della storia. Anche Kant afferma che nella specifica natura dell’uomo v’è una perenne inclinazione al male (male radicale). Questo modo di considerare il male ne comporta l’insopprimibilità. Non si può distruggere un «universale» (come si diceva un tempo) o un momento «necessario» (in senso filosofico) della vita e della storia. Allora se esiste il male (diciamo con il filosofo antico) «in potenza», bisogna impedire che diventi male «in atto».

Così lo scopo di scavare oscure prigioni, per tenervi prigioniero ciò che non può essere distrutto, incomincia a farsi chiaro.

Ma il vizio o il male, filosoficamente così concepiti, concepiti cioè come dati permanenti ed insopprimibili, hanno avuto presso molti popoli, primitivi o non, una figurazione mitologica o religiosa, una rappresentazione personificata nel dio del male o nello spirito del male, o nel maligno o nel demonio e simili. Una rappresentazione che può andare dall’idolo al diavolo, o al puro simbolo, a seconda del grado di civiltà e di cultura.

E come nella dottrina cristiana il demonio deve stare rinserrato nell’inferno, così il massone scava simbolicamente oscure, profonde prigioni per rinserrarvi dentro il vizio. AI di fuori del linguaggio simbolico e poetico, l’impegno massonico vuole che l’uomo nell’esercizio del suo libero arbitrio respinga sempre la scelta del male, optando per la virtù (la pratica del bene), per la quale edifica templi luminosi. Quindi il libero muratore lavora fra le colonne per dare a se stesso i presupposti morali atti ad impedire che nella vita che vive abbia libero corso la malvagità. Egli deve vietare non soltanto a se stesso di fare il male, ma deve impedire anche che altri lo compia. Nelle oscure prigioni va rinchiuso il male che è in lui e quello che è negli altri.

Va rinchiuso il male del mondo.  Concludendo possiamo ricordare che anche pagine liturgiche cristiane si esprimono con un linguaggio simile a quello del nostro rituale. Nella Messa v’è l’invocazione a S. Michele, affinché «incateni Satana nell’inferno»; e ancora con padre Dante ricordiamo il Te lucis ante, la bella preghiera citata nel soave inizio del canto ottavo del Purgatorio (l’inno che si canta dalla Chiesa a con pieta),

dove si chiede al creatore di tutte le cose: «tieni imprigionato il nostro nemico».

E così, condensando la saggezza e la sapienza dei secoli, con parole solenni come quelle di una sacra rappresentazione, il primo sorvegliante risponde al maestro venerabile, che il secondo scopo per cui la R. Loggia si riunisce è quello di scavare oscure profonde prigioni al vizio.

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