LA CRISI DEI COMMERCI MONDIALI

La crisi dei commerci mondiali, spiegata bene

Sta provocando carenza di merci in tutto il mondo e un aumento dei prezzi: e le cose potrebbero peggiorare prima di tornare a posto

di Eugenio Cau

(Mario Tama/Getty Images)

Da alcuni mesi diversi beni di consumo e generi di prima necessità scarseggiano in tutto il mondo: dalle automobili ai microchip per i prodotti elettronici, dalla carta su cui stampare i libri ai tacchini, un po’ ovunque mancano prodotti importanti e molto usati, ci sono ritardi nelle consegne oppure, a causa della scarsità, si è verificato un aumento dei prezzi. Queste carenze potrebbero durare ancora a lungo e potrebbero mettere in crisi i consumi di Natale, uno dei periodi più importanti per moltissimi settori commerciali e produttivi.

La preoccupazione che la crisi possa «rovinare il Natale», come ha scritto il sito Wirecutter, è molto sentita soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Sembra meno accentuata in paesi come l’Italia, dove almeno per ora non si rischia tanto di rimanere senza prodotti; anche qui, tuttavia, sono probabili ritardi nelle consegne e un aumento dei prezzi.

Non è ancora nemmeno chiaro quando le cose miglioreranno: si parla almeno della metà del 2022, mentre altre stime citano il 2023. In ogni caso, nei prossimi mesi la scarsità di beni, i ritardi nelle consegne e gli aumenti dei prezzi potrebbero peggiorare ulteriormente, prima di tornare alla normalità.

Economisti ed esperti definiscono questo fenomeno di scarsità di molti beni e prodotti come crisi della “supply chain” (letteralmente “catena dell’approvvigionamento”), cioè del complesso e interconnesso sistema di trasporti e rifornimenti su cui si basano il commercio e l’economia mondiali e che, di fatto, è l’elemento centrale della globalizzazione.

Questo sistema, che è stato costruito negli ultimi decenni e che finora si era sempre dimostrato straordinariamente efficiente, è entrato in grave affanno in tutte le sue parti a seguito della pandemia da coronavirus: la produzione non riesce a stare dietro alla domanda, il sistema globale dei trasporti non riesce a stare dietro alla produzione, e mancano la manodopera e le fonti di energia necessarie per molti processi fondamentali.

Come ha scritto il ricercatore Stavros Karamperidis su The Conversation, nei suoi aspetti essenziali la crisi della supply chain è «un classico squilibrio tra domanda e offerta»: i consumatori vogliono comprare beni e prodotti ma il sistema non è in grado di fornirli a ritmi sufficienti.

In realtà, questa crisi è composta da numerose crisi messe assieme, che riguardano la produzione, i trasporti, le materie prime, la manodopera, le politiche commerciali delle aziende e le decisioni economiche dei governi; e il sistema è a tal punto interconnesso e complicato che anche per gli economisti è difficile raccapezzarsi e dare il giusto peso a tutte le cause: come ha scritto Tyler Cowen su Bloomberg, «alcuni fondamentali centri nevralgici dell’economia mondiale sono stati colpiti da un misto di COVID e sfortuna».

La pandemia
È sicuro che uno dei fattori scatenanti della crisi sia stato la pandemia da coronavirus. All’inizio della pandemia, oltre un anno e mezzo fa, diversi paesi produttori ed esportatori di beni, come la Cina e il Vietnam, ma anche la Germania, furono colpiti dalla prima ondata di contagi. Molte fabbriche furono costrette a interrompere la produzione o a rallentarla sensibilmente, a causa dei contagi o delle misure introdotte dai governi per limitare il diffondersi del COVID-19. In generale, nel primo periodo della pandemia si ritenne che una parte consistente dell’industria manifatturiera sarebbe crollata.

Come ha scritto il New York Times, anche le imprese che si occupano dei trasporti, prevedendo un crollo dei commerci mondiali, ridussero notevolmente le loro spedizioni, tagliarono migliaia di viaggi e in alcuni casi ne approfittarono per ristrutturare le proprie navi portacontainer, prevedendo di tenerle ferme per molti mesi.

Le previsioni erano però sbagliate. Alcuni servizi come per esempio la ristorazione e il turismo effettivamente crollarono, ma la domanda di beni da parte dei consumatori non si ridusse: piuttosto, si modificò notevolmente. Costrette a casa dalle restrizioni provocate dalla pandemia, le persone cominciarono a comprare computer, stampanti e monitor per poter lavorare da casa, mobili per organizzare uffici domestici, TV, console e videogiochi per passare il tempo, elettrodomestici e accessori per cucinare in casa, tra le altre cose.

L’aumento della domanda fu forte e improvviso, e mise in crisi tutta una serie di settori manufatturieri la cui programmazione della produzione è abitualmente molto prevedibile e scandita da ritmi regolari, che si trovarono spiazzati.

I microchip
Non è un caso che una delle prime crisi sia stata quella dei microchip, i componenti necessari per il funzionamento di computer e smartphone, ma anche di elettrodomestici e console, e praticamente ogni apparecchio elettronico: durante la pandemia, questi prodotti hanno visto un aumento importante della domanda, ma la loro produzione è limitata per ragioni tecniche. Produrre microchip, soprattutto quelli più evoluti, è un processo tecnologicamente complesso, che richiede importanti infrastrutture, investimenti e manodopera qualificata: non è possibile ampliare o diversificare la produzione con scarso preavviso, come sarebbe stato necessario in questi mesi.

Inoltre, la produzione dei microchip più evoluti è concentrata quasi esclusivamente in due paesi: Corea del Sud e Taiwan. Questo ha reso ancora più difficile la gestione della logistica quando, come è avvenuto, ci sono stati blocchi causati dall’aumento dei contagi o da altri fattori.

La carenza di microchip ha colpito tutti i settori, ed è stata una delle ragioni del rallentamento di molte filiere produttive: dapprima ha riguardato i settori di minor peso come l’automobilistico (che utilizza chip poco sofisticati, dunque meno costosi e di minor valore) via via fino ai committenti più pregiati. Questo mese perfino Apple, una delle aziende più ricche del mondo a cui di solito i fornitori danno la priorità, ha annunciato che dovrà tagliare la produzione dei suoi iPhone a causa della carenza di microchip.

La crisi della produzione
Nei mesi successivi alla prima ondata della pandemia, man mano che le economie mondiali riprendevano l’attività, si è verificato un ulteriore aumento della domanda di prodotti e beni di vario tipo da parte dei consumatori.

L’aumento è stato generato in parte dalle riaperture e in parte dal fatto che la disponibilità economica di molti era aumentata durante il periodo del lockdown, a causa dei benefit generosi forniti da molti governi e in alcuni casi delle spese minori da affrontare. Secondo una stima fatta dall’agenzia di rating Moody’s nella primavera del 2021, in tutto il mondo sono stati accumulati durante la pandemia 5.400 miliardi di dollari di risparmi in eccesso rispetto alla quota degli anni precedenti.

Il denaro risparmiato è stato in buona parte speso, o sarà speso nei prossimi mesi, provocando un aumento della domanda a cui il sistema produttivo mondiale fatica a far fronte.

Per soddisfare la domanda crescente, molte fabbriche hanno tentato di aumentare la produzione, ma il problema è che il sistema mondiale della produzione, dei trasporti e dei commerci ha poca flessibilità e scarsissimi margini d’errore.

Per assemblare un computer portatile in Cina, per esempio, è necessario fare arrivare microchip da Taiwan, uno schermo LED dalla Corea del Sud, componenti chimici dall’Europa e parti elettroniche da varie altre regioni del mondo. Questo modello produttivo è basato su una programmazione dettagliata e di lungo periodo, ed è poco flessibile: se soltanto uno dei fornitori è in ritardo, tutta la produzione è costretta a fermarsi.

Per questo quando, dopo un lungo periodo di chiusure e rallentamenti, le fabbriche hanno tentato di aumentare la produzione tutte assieme, la catena lunga delle forniture si è interrotta o rallentata, e il sistema si è ingolfato.

Uno degli elementi fondamentali di questo ingolfamento è stata la crisi dei trasporti: il sistema produttivo mondiale si basa sullo spostamento continuo dei componenti e delle merci da una parte all’altra del mondo, ma questi spostamenti sono diventati sempre più difficili, lunghi e costosi. Anzitutto perché mancano i container, cioè le grandi scatole di metallo trasportate dalle navi cargo, su cui viaggia più dell’80 per cento delle merci mondiali.

Il problema principale dei container è che all’inizio della pandemia sono andati a finire nei posti sbagliati: dalla Cina ne sono partiti a migliaia per portare mascherine e dispositivi sanitari in regioni marginali per i commerci mondiali, come per esempio l’Africa orientale o l’Asia meridionale, e siccome i paesi che si trovano in queste regioni non sono paesi esportatori, rimandare indietro i container vuoti non conveniva. Quando però la domanda di beni nei paesi ricchi ha ricominciato ad aumentare, i grandi paesi esportatori come la Cina si sono trovati senza container.

Inoltre, da mesi molti grandi porti di tutto il mondo sono bloccati o lavorano a rilento, per varie ragioni. In alcuni casi, come per esempio è successo in Cina, i porti sono stati chiusi per lunghi periodi a causa di contagi e focolai; inoltre, le operazioni spesso procedono a rilento per via dei controlli resi necessari dall’emergenza sanitaria.

In altre regioni del mondo, invece, le operazioni nei porti sono bloccate o rallentate perché mancano i lavoratori. Questo è un problema molto pressante soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove mancano decine di migliaia di persone per caricare e scaricare i container (e dunque le merci) e per le varie operazioni portuali. I lavoratori mancano sia a causa delle restrizioni, delle quarantene e dei lockdown sia perché le condizioni del mercato del lavoro sono cambiate, ed è diventato sempre più difficile trovare persone disposte a fare mestieri poco qualificati.

Il risultato è che in porti come quelli di Los Angeles e Oakland, tra i più importanti degli Stati Uniti, le navi cargo in arrivo devono aspettare per giorni prima che i loro container siano scaricati, e poi ricaricati per partire verso nuove destinazioni. Nei due porti, come ha scritto Business Insider, si è verificato un aumento del 30 per cento della quantità delle merci movimentate e al tempo stesso una riduzione del 28 per cento dei lavoratori disponibili.

La conseguenza di questa crisi è stata un aumento eccezionale dei costi di trasporto: prima della pandemia, mandare un container da Shanghai a Los Angeles poteva costare all’incirca 2.000 dollari; all’inizio del 2021 ne costava 25 mila, con un enorme aumento dei profitti per l’industria dei trasporti su container, che nel complesso sono passati da 15 miliardi di dollari nel 2020 a una previsione di 100 miliardi quest’anno.

La crisi non riguarda soltanto i trasporti marittimi. Come si è visto con la crisi del carburante nel Regno Unito, in molti paesi sviluppati mancano anche gli autotrasportatori, che sono un elemento fondamentale della “supply chain” perché portano le merci dai container ai magazzini, e dai magazzini ai luoghi di vendita al dettaglio. Nel Regno Unito mancano 100 mila autotrasportatori, in Germania 80 mila, e in tutta l’Unione Europea si stima che ne manchino 400 mila.

Questo ha portato, ovviamente, a ulteriori rallentamenti e aumenti dei costi.

Accaparramento
A complicare le cose ha contribuito tutta una serie di scelte da parte dei vari operatori coinvolti che in un momento di crisi hanno messo ulteriormente sotto stress il sistema. Per esempio, un fenomeno diventato piuttosto comune è quello dei “phantom orders”, gli “ordini fantasma”, cioè l’accaparramento da parte di molti produttori che, davanti ai problemi della supply chain, hanno ordinato più forniture del necessario, pur sapendo che i fornitori non sarebbero stati in grado di soddisfare le richieste.

A questi fenomeni ha contribuito anche la politica: per esempio, quando nel 2020 l’amministrazione statunitense di Donald Trump annunciò che avrebbe impedito ad aziende cinesi come Huawei di usare componenti che contenevano tecnologia americana per ragioni di sicurezza nazionale, queste aziende fecero incetta di microchip prima che i divieti entrassero in vigore, lasciando i produttori senza scorte.

Tutte le altre crisi
La supply chain è stata coinvolta anche in altre gravi crisi sistemiche, che hanno origini indipendenti dal sistema dei commerci globali e che stanno provocando altri ordini di problemi, ma che contribuiscono ai rallentamenti e ai disagi.

Anzitutto c’è stato in questi mesi un forte aumento del costo delle materie prime, dall’acciaio al legname al petrolio, fino al caffè. In alcuni casi le materie prime sono diventate più difficili da reperire, e comunque l’aumento dei costi si è riflettuto sui costi di produzione delle merci finite.

Un altro serio problema riguarda la crisi energetica: il prezzo degli idrocarburi è ai massimi da diversi anni, e questo ha portato a un rallentamento o addirittura all’interruzione della produzione di vari settori produttivi in alcuni paesi del mondo. Anche in questo caso, per le fabbriche che non hanno chiuso sono comunque aumentati i costi.

Disastri naturali e fenomeni climatici
In un momento in cui tutta la catena degli approvvigionamenti è in affanno a causa dell’accumularsi di numerose crisi sistemiche – la pandemia, la produzione, i trasporti, il mercato del lavoro, le materie prime, l’energia – anche un piccolo contrattempo può causare enormi danni. Molti problemi hanno riguardato disastri naturali e fenomeni climatici.

Per esempio, la grave tempesta di neve che ha colpito il Texas quest’inverno ha provocato un rallentamento della produzione della forte industria petrolchimica dello stato americano, generando una carenza di semilavorati della plastica e di altri prodotti come le vernici.

A Taiwan, il più grande produttore mondiale di microchip, la produzione quest’anno è stata interrotta o rallentata prima da una gravissima siccità (per produrre microchip servono enormi quantità d’acqua) e poi, qualche mese dopo, dalle inondazioni.

Conseguenze
Non è ancora del tutto chiaro se la crisi della supply chain finirà davvero per «rovinare il Natale». In alcuni paesi ci sono rischi piuttosto concreti, ma i governi stanno adottando varie misure per provare a evitare il peggio. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, per esempio, ha ordinato che nel porto di Los Angeles si lavori 24 ore su 24 (gli effetti di questa misura sono comunque limitati, perché mancano i portuali).

In altri paesi si potrebbe assistere a un aumento dei prezzi, ed è comunque probabile che i periodi tradizionali di sconti e saldi saranno meno convenienti: secondo alcuni analisti, durante la stagione delle festività i commercianti faranno a gara a chi avrà maggiori forniture, piuttosto che a chi avrà i migliori sconti.

L’aumento del costo delle materie prime, della produzione e dei trasporti, oltre alla difficoltà di reperire molti beni, è anche una delle ragioni principali del forte innalzamento dell’inflazione che si sta verificando un po’ in tutto il mondo, e che è uno degli elementi di maggiore preoccupazione per l’economia globale. Di recente, per esempio, il Fondo monetario internazionale ha tagliato di un punto percentuale le previsioni di crescita per il 2021 negli Stati Uniti, citando come cause proprio la crisi della supply chain e l’inflazione.

Anche molte importanti aziende, come Amazon e Apple, in questi giorni hanno presentato risultati che hanno deluso le aspettative, e hanno citato i problemi ai trasporti e alle forniture come la causa principale.

La ripresa economica nella maggior parte dei paesi sviluppati rimane comunque piuttosto sostenuta, e gli effetti della crisi della supply chain dipenderanno in gran parte dalla sua durata sul lungo termine. La maggior parte degli esperti prevede che le cose torneranno alla normalità tra il 2022 e il 2023 ma, come ha scritto l’Economist, «le forze più profonde» dietro alla crisi, a partire dalla fragilità intrinseca del sistema globale, non potranno essere eliminate rapidamente.

Articolo inviato dal Fr.’.  A.  F.

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