DANTE,SIMBOLOGIA, ESOTERISMO, MITI, LEGGENDE E STUDI SCIETIFICI

Dante: simbologia,

esoterismo, miti,

leggende e studi

scientifici

Questo breve contributo di apertura ha – nell’intenzione dell’autore – valore di una sorta di prefazione ai lavori successivi, con un

rapida panoramica su alcuni degli argomenti piu significativi in una rivista come questa che rivolge l’attenzione maggiore al

punto di vista esoterico, iniziatico e simbolico

Gianmichele  Galassi

Dante e sicuramente uno dei più studiati ed interpretati della storia umana: grandezza e genialità del suo lavoro lo hanno reso universale e, di conseguenza, seguito in ogni epoca ed in ogni angolo del globo. In questo contesto, vista la mia più che modesta conoscenza dell’autore, vorrei più che altro spingere ad una riflessione e ad un approfondimento coloro i quali lo studiano da una vita intera.

La morte, l’aldilà e la tradizione iniziatica

L’unica certezza della vita e che prima o poi finirà. La consapevolezza di ciò    ha da sempre impegnato la mente umana sin dagli albori della sua evoluzione e, di conseguenza, ha sempre occupato un posto di primo piano nella storia del pensiero e della cultura. Si sono cosi diffusi culti e religioni di ogni tipo in tutto il mondo: alcuni individui, facendosi tramite con la divinità, hanno dato una risposta dogmatica, quindi vera per definizione ed indiscutibile, ai fedeli su ciò che sarebbe accaduto dopo la morte, dando allo stesso tempo delle direttive comportamentali e morali per beneficiare di un futuro migliore nell’aldilà. Per molti altri individui che non hanno ricevuto il dono della cieca fede e sempre stato difficile non porsi alcune domande dedicando poi l’intera loro vita alla ricerca razionale delle risposte; cosi l’interrogativo su cosa possa avvenire dopo il trapasso e come affrontarlo e ed e stata causa principale della nascita della “Tradizione” intesa come trasmissione della “conoscenza”, del ”sapere” metafisico e spirituale, raggiunto dai sapienti. E per conseguenza sono nate le scuole e gli ordini iniziatici, il cui obiettivo primario era quello di preparare, in qualche modo, gli affiliati ad affrontare le difficolta della vita ed in particolare quella finale della morte. L’aldilà, come facilmente percepibile, affonda le sue radici nella notte dei tempi, quindi nell’economia di questo testo non sarà possibile ripercorrerne le tappe in modo dettagliato. Ad esempio, l’idea di Inferno era già   presente nella cultura egizia che molto ha influenzato la cultura occidentale e le tre religioni monoteiste del “Grande Libro”, come ricorda Budge: “In tutti i libri  sull’altro mondo troviamo pozzi di fuoco, abissi di tenebre, lame micidiali, corsi d’acqua bollente, esalazioni fetide, serpenti fiammeggianti, mostri spaventosi e creature dalle teste di animali, esseri crudeli e assassini di vario aspetto simili a quelli che ci sono familiari nell’antica letteratura medievale; e quasi certo che le nazioni moderne devono all’Egitto molte delle loro concezioni dell’Inferno”. Lo stesso dicasi per il giudizio divino ben rappresentato dalla “pesatura dell’anima o del cuore” (o psicostasia) raffigurata sovente nelle antiche tombe egizie e nel notissimo Libro dei Morti di Ani nel capitolo 125. Toth (la “sapienza”) prende nota del risultato della pesatura effettuata da Anubi (psicopompo ovvero trasmigratole delle anime che accompagnava le anime nell’aldilà), la pesatura era effettuata con una bilancia: il trapassato veniva quindi accompagnato nel regno dei morti se era considerato un “giusto” ovvero se il suo cuore o anima erano risultati più leggeri della “piuma” (la “Maat”, ovvero verità e giustizia) posta sull’altro piatto. Cosi via via sino ai giorni nostri, passando per Dante, ci siamo chiesti come rendere leggero il nostro spirito, la nostra anima, il nostro cuore a seconda del convincimento di ciascuno.

Dante, il Purgatorio e il Limbo

La notte che mori Pier Soderini,

l’anima andò de l’inferno a la bocca;

grido Pluton: — Ch’ inferno? anima sciocca,

va su nel limbo fra gli altri bambini. —

(Niccolo Machiavelli)

Il genere in cui si inserisce la sua “Comedia” era molto in voga nel periodo, decine i testi prodotti in tutta Europa e fuori, alcuni più noti quali l’arabo “Il Libro della Scala”, di cui parleremo più avanti, altri meno come “La scrittura negra” o “Il Purgatorio di San Patrizio”. Ma l’idea di uno stadio intermedio fra la morte ed il giudizio eterno lo ritroviamo già in alcune fonti protocristiane, precedenti agli accenni apparentemente presenti nelle canoniche sacre scritture.

Molte di queste opere si possono inserire nel filone delle “visiones animarum” che prendono spunto ed origine dalla più remota antichità, basti per questo citare il viaggio di Enoch, narrato nell’omonimo Libro risalente al II sec. a.C., che guidato dall’angelo Raffaele visita le quattro caverne della montagna oltremondana ove le anime attendono il giudizio divino definitivo: le prime due riservate ai giusti, divisi fra martiri e non, le altre due ai peccatori, quelli che hanno già patito una pena terrena e quelli che invece devono scontare totalmente le malefatte nell’aldilà. La prima volta che si sente parlare di “purgatorio” seppur come aggettivo e probabilmente con Sant’Agostino, come conferma anche il Le Goff3, nel suo De Civitate Dei4 (XXI, 26) che comunque mantiene caratteristiche assai distanti da quelle dantesche: questo e ancora una sorta di “inferno superiore” cosi come ancora si trova sotto terra quello descritto nel famoso “Purgatorio di San Patrizio”, già ben noto in epoca dantesca. Sebbene il Concilio di Lione del 1274 avesse riconosciuto ufficialmente il Purgatorio, si tendeva a porlo vicino all’Inferno, forse per mantenere quel timore “necessario” nei fedeli, la definizione più completa e finale e quella del Concilio di Trento tenutosi in tre momenti diversi a cavallo della meta del 500. Quindi se Agostino e – come dice Le Goff – il “padre del Purgatorio”, sicuramente Dante sarà colui che ne dara la connotazione finale per i secoli a seguire: tutte le più  note rappresentazioni figurali, pittoriche, artistiche utilizzeranno infatti come base la descrizione contenuta nella Commedia.

Riguardo al Limbo, poi, non esistono lavori come quello notissimo sul Purgatorio di Le Goff, probabilmente perché  non ha mai avuto una definizione precisa a livello teologico: il termine “limbus inferni (“l’orlo o il margine dell’inferno”) comincio a essere usato dai teologi occidentali dalla meta del XII secolo”, per poi esaurirsi totalmente in una sorta di abolizione operata a gennaio 2007 da una lunga nota emanata da Benedetto XVI, come ricorda la studiosa Chiara Franceschini. Il Limbo dantesco ha un posto di primo piano nell’idea generale di una interpretazione esoterica della Commedia, in quanto Dante ne da una connotazione assolutamente inedita ed inusuale…

Precedentemente, ma anche successivamente almeno fino al Catechismo Romano tridentino, nel Limbo (limbus patrum)  venivano posti esclusivamente i patriarchi ebrei (Abramo, Mose, Noe etc.) che vennero salvati dal Cristo nella sua discesa agli inferi avvenuta fra la morte per crocifissione e la resurrezione.

Oppure ci si riferiva al “limbo” per gli innocenti (limbus puerorum) ovvero dei bambini non ancora battezzati. Dante, non proprio in conformità  con il canone del suo tempo, pose nel Limbo, ovvero “tra color che son sospesi” (Inf. II, 52), tutti coloro, Virgilio compreso, che pur essendo senza battesimo (Inf. IV, 35) erano “gente di molto valore” (IV, 44), gli “spiriti magni” (IV, 119) insieme a donne e bambini, “d’infanti e di femmine e di viri” (IV, 30). In quello che sarà uno dei più lunghi elenchi di personaggi dell’intera Commedia, vogliamo qui porre l’accento sui tre musulmani presenti e, soprattutto, sull’ultimo dell’elenco “Averois che ’l gran comento feo” (IV, 144). Il “grande commento” a cui Dante si riferisce e quello di Averro e al De Anima di Aristotele, in cui egli presenta alcune interpretazioni che poi saranno assai sgradite alla Chiesa di Roma che bandirà  l’averroismo cristiano come eresia. Dante, sembra apprezzare alcune di queste idee, tanto che poi metterà  Sigieri di Brabante, uno dei maggiori rappresentanti dell’averroismo Cristiano addirittura nel Cielo del Sole (Par. X, 133-138) e ne farà  cantare le lodi proprio a San Tommaso che con lui si ritrovava a passare l’eternità dopo averlo combattuto in vita.

Per concludere, ciò che e importante sottolineare e che nel limbo non si godeva della felicita nella luce divina, ma si godeva comunque di una felicita come quella terrena senza patire alcun tipo di pena o dolore, sebbene si vivesse senza la speranza di una redenzione ne tantomeno di vedere la Luce divina: “che sanza speme vivemo in disio” (Inf. IV, 42); perciò appare almeno curioso trovarvi dagli eroi greci ad altri personaggi vissuti dopo la venuta di Cristo come, ad esempio, il Saladino, la cui anima comunque risiede, sebbene con malinconia, in un luogo ameno ed affatto terribile.

E questo 1563, dove si parlava finalmente del Limbo e non più di “carcere” delle anime ricalcando adesso idea e forma espresse nella Commedia da Dante. Infatti, nel capo VI del quinto articolo riguardante la discesa agli inferi di Cristo del Catechismo della Dottrina Cristiana, volgarmente detto Catechismo Maggiore di San Pio X, compendio in forma di domanda e risposta del Catechismo Romano del Concilio di Trento, si legge (dal Compendio della Dottrina Cristiana prescritto  da Sua Santità Papa Pio X alle diocesi della provincia di Roma. Roma,

Tipografia Vaticana, 1905).:

“115. Che cosa c’insegna il quinto articolo: Discese all’inferno, il terzo

di risuscito da morte?

Il quinto articolo del Credo c’insegna: che l’anima di Gesu Cristo, separata che fu dal corpo, andò al Limbo dei santi Padri, e che nel terzo

giorno si uni di nuovo al corpo suo, per non separarsene mai più.

116. Che cosa s’intende qui per inferno?

Per inferno s’intende qui il Limbo dei santi Padri cioè quel luogo dove

erano trattenute le anime dei giusti aspettando la redenzione di Gesù

Cristo.”

Episodio questo narrato anche da Virgilio in risposta a Dante (Inf. IV,

52.61):

“Io era nuovo in questo stato,

quando ci vidi venire un possente,

con segno di vittoria coronato.

Trasseci l’ombra del primo parente,

d’Abel suo figlio e quella di Noe,

di Moise legista e ubidente;

Abraam patriarca e David re,

Israel con lo padre e co’ suoi nati

e con Rachele, per cui tanto fe,

e altri molti, e feceli beati.”

La Commedia: un compendio di vizi e virtù, ragione e fede, dalla materialità alla più alta spiritualità in un apparente percorso iniziatico.

Come ho già ripetuto in passato, magari citando studiosi di grande fama, come il De Sanctis, non c’è dubbio che Dante fosse un uomo del suo tempo, che la sua visione fosse permeata da tutti quei dogmi che scaturivano dalle fonti, ritenute assolutamente autorevoli tanto da essere addirittura riverite se non venerate. Le Sacre Scritture prime fra tutti, e, poi, Aristotele insieme ai grandi classici latini, poeti, storici, filosofi, scienziati, del calibro di Virgilio, Orazio, Ovidio, Cicerone, Seneca, Ippocrate, Galieno fra gli altri. Tutto ciò e incontrovertibile.

Da un altro punto di vista, però, qual cos’altro nel suo lavoro ha attirato da anni la mia attenzione, solitamente più focalizzata in ambito esoterico-simbolico: la sensazione che trapela, soprattutto nell’ultima cantica, e quella di una volontà, più o meno conscia dell’autore, di capire, spiegare e riportare razionalmente ciò che è divino, sembra in qualche modo – mi si perdoni l’ardire – non volersi arrendere alla cecità della fede. La sua fervente e capace razionalità traspare sovente nelle descrizioni, nelle considerazioni che stridono con le premesse e le numerose dichiarazioni di Dante sulla propria fede ed incapacità materiale a trattare un argomento così  alto. La caratteristica della religiosità di Dante propende – a mio giudizio – alla conquista razionale, intellettuale che si manifesta nella visione, come per San Tommaso, piuttosto che nell’atto d’amare, conseguente questo alla comprensione di Dio. E questa caratteristica sembra certamente non proprio calzante con l’esperienza mistica e l’abbandono, l’estasi che la caratterizzano. La sua religiosità  appare quindi in primis speculativa in quanto, sebbene – come vedremo – fosse ben cosciente dei limiti della conoscenza razionale, egli tenne sempre in altissima considerazione e ribadì  in ogni occasione l’eccellenza della mente umana, tanto che per lui la scienza e alla base della felicita e perfezione dell’anima, quindi dovere e responsabilità di ciascun uomo era vivere nei valori più alti, insegnati dalla Filosofia, per giungere alla felicita terrena prima che in quella ultraterrena. Del resto la “ragione”, rappresentata da Virgilio, gli viene in aiuto sollecitata dalla Verità  e dalla Fede/Bellezza (Beatrice) nello smarrimento umano (selva oscura) per sottrarlo all’azione di lussuria, superbia e cupidigia (le tre fiere), ovvero gli “impedimenti” per giungere al colle luminoso. Quindi la “ragione” lo guida prima, in profondità,  nella conoscenza delle debolezze e vizi comuni agli esseri umani, per poi condurlo alla purificazione della redenzione, nelle difficolta e nel controllo delle stesse. In modo da poter finalmente elevarsi agli “alti cieli” in compagnia di Beatrice, ove potrà scoprire la Luce più intensa dell’Amore universale che tutto pervade e regola nell’assoluta armonia.

Beatrice, quindi, rappresenta l’Amore ideale che trascende la materialità  e di conseguenza – come accennato poco sopra – Verità e Bellezza tre concetti che in tale occasione tendono a sovrapporsi, e successivamente addirittura identificarsi in quel “L’Amor che move il sole e l’altre stelle”. Mentre per l’ultimo passo sarà San Bernardo a guidare Dante: chi meglio del “Doctor Mellifluus” per intercedere presso la Vergine in modo che Dante possa rivolgere lo sguardo verso Dio. Come sottolinea il Gilson, la scelta di Dante cade “sempre su colui che comanda in quest’ordine, come Virgilio in poesia, Tolomeo in astronomia, Aristotele in filosofia, s. Domenico in teologia, s. Francesco in teologia affettiva e s. Bernardo in teologia mistica”, quindi e chiaro che, al di la, della indiscutibile venerazione e considerazione mariana del Santo, ben sottolineata anche nell’Enciclica di Pio XII sopracitata, tale scelta sembra la più opportuna nel momento conclusivo e più alto del suo “viaggio”, quello appunto della visione di Dio che, per forza di cose, dev’essere intuitiva.

Quindi riassumendo, il percorso “esoterico” descritto nella Commedia si sviluppa su tre livelli successivi: cominciando da quello razionale-filosofico, guidato da Virgilio, si passa a quello teologico, accompagnato da Beatrice, infine – come appena descritto – si giunge all’unione con Dio in quello intuitivo e mistico. Come tre sono le Cantiche che, per certi versi, possono rappresentare rispettivamente il mondo interiore, trasposizione simbolica della tradizionale catabasi, ovvero il rapporto

con se stessi, poi il rapporto con il mondo esterno alla ricerca di comprensione, armonia ed empatia, infine, la spiritualità con l’elevazione intuitiva di se ad un piano metafisico. Lo stesso, come ebbi già a sottolineare, vale per l’Amore nelle tre forme illustrate da Dante: da quella più bassa, passionale, di Paolo e Francesca (V Inf.) si sale a quella salvifica ideale, platonica circondata da un alone di Vera Bellezza di Beatrice, tramite per la salita al Cielo, per giungere infine all’Amore più alto, divino che tutto permea.

Tutto ciò, anche se dovessimo considerare la nota epistola a Cangrande come non autentica, appare sovente dai continui richiami nel testo della Commedia (Inf. IX, 61-6323, e Pur. VIII, 19-2124) e del Convivio (II, 1 e segg.25): esistono anche vari livelli interpretativi del testo stesso sia per le Sacre Scritture sia per il componimento poetico. Questa caratteristica rende un testo – secondo il mio parere – “sapienziale”, ovvero contenente degli insegnamenti morali e spirituali universali, capaci quindi di mantenere la propria valenza al di la del luogo e dell’epoca in cui saranno letti; questo, naturalmente, per quanti avranno acquisito la capacita di comprenderli da punti di vista man mano più elevati. Per spiegarci meglio, esiste il significato letterale ovvero quello immediato, diretto, esplicito, poi l’allegorico che ha due aspetti, sovente frammischiati: il primo tale che la parola, il testo o l’opera possa trasportare e condurre verso la riflessione e compenetrazione di un concetto astratto più elevato e profondo, una Verità nascosta, mantenendo comunque un significato esplicito evidente a tutti, il secondo, invece, ha come unico fine l’espressione del concetto astratto tramite la forma retorica o figurale di un’opera; in questo secondo caso, quindi, la forma in se ha poca ragion d’essere. In altre parole, semplificando, l’allegoria mette in relazione il testo letterale, ovvero una realtà concreta che le corrisponde per caratteristiche, con un concetto, un’idea astratta. Il senso morale invece e quello che si può trarre dalla relazione fra il senso letterale e la sua corrispondenza metafisica, sovrannaturale, ovvero l’insegnamento dedotto dall’interpretazione più  alta, spirituale, divina, la “anagogica”.

Dante, le presunte affiliazioni templari e le similitudini con la “scala di Maometto”.

Vista la fama, la diffusione, la complessità e l’importanza dell’opera dantesca, innumerevoli autori hanno, durante gli ultimi sette secoli,  elaborato teorie, interpretazioni e ipotesi delle più varie sull’autore, la sua vita e la sua opera. Se molte sono in qualche modo documentate, approfondite e rigorose, alcune altre poggiano le loro fondamenta su ben poco di reale, se non a volte addirittura in antitesi alla documentazione storica. In questo breve paragrafo, senza perciò dimenticare la necessaria economia di un articolo come questo, darò degli spunti ideali e bibliografici di valore scientifico per chi vorrà constatare la bassa valenza di alcune teorie e ipotesi tanto diffuse quanto assai poco documentate.

Cominciando dalla presunta appartenenza di Dante – ipotizzata con una certa fermezza da Valli e riportata con tratti diversi dallo stesso Guenon- alla fantomatica società segreta dei “Fedeli d’Amore” secondo loro di “chiara estrazione Templare”, possiamo senza dubbio affermare che non esiste alcuna fonte documentale in merito all’esistenza di tale “società  segreta” e che tutte le supposizioni in tal senso derivano da un passo di un sonetto della Vita Nova (III, § 9): E pensando io accio che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quel tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, nel quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore…. Tale passo, per molti seri studiosi, non presenta affatto nulla di oscuro o misterioso, in quanto la formula dei “fedeli d’Amore” era appunto utilizzata sovente dai poeti provenzali, peraltro citati nella stessa opera, ad indicare gli amanti che, servendo la dama – la signora”, in senso feudale – servono Amor. La tesi del Valli, poi utilizzata dai suoi  allievi e da altri autori nel più recente passato, si radica poi sulla convinzione che tutti gli appartenenti alla società dei Fedeli d’Amore fossero ghibellini e tale assunto e stato indiscutibilmente controvertito da studiosi del calibro di Natalino Sapegno. Quindi, se da un lato tali teorie sono servite a concentrare l’attenzione e stimolare la discussione di molti studiosi importanti, come quelli del notissimo gruppo di Eranos, le affermazioni sui “Fedeli d’Amore”, la loro origine e appartenenza Templare appaiono quanto meno improbabili, cosi come l’asserzione sui Cavalieri “Santi” (Kadosh) di Guenon. Riguardo la scelta di San Bernardo come ultima guida, non ci pare motivo sufficiente per Dante che il santo fosse stato l’estensore della regola Templare, questo sarebbe quantomeno riduttivo vista la sua profonda attenzione a tali “dettagli”, mentre motivi assai più plausibili sembrano quelli già esposti poc’anzi.

Del resto, Dante non sembra poi affatto mostrare mai nessun trasporto ne tantomeno ardore per la guerra, anche se “santa”: sebbene, come ogni “buon” cristiano della sua epoca, credesse che il Santo Sepolcro dovesse essere liberato dall’Islam, gli unici blandi riferimenti alle crociate si risolvono in poche parole – più  che altro polemiche nei confronti del papato – nell’episodio col suo avo Cacciaguida (Par. XV, 142-14431) e poco prima nelle parole di Folco da Marsiglia (Par. IX, 125-126 e 136-13732). L’idea che Dante fosse un iniziato all’Ordine del

Tempio e, di conseguenza, un monaco guerriero che aveva giurato di difendere con la vita i pellegrini in Terra Santa, appare lontana dalle sue stesse parole, scritte sicuramente in epoca successiva a quella che dovrebbe essere stata la sua investitura. Adesso, sono doverose anche alcune considerazioni sull’annosa questione delle fonti arabo-islamiche della Commedia, scaturite all’inizio del secolo scorso dall’opera di Asin Palacio ed, in qualche modo, riportati alla ribalta dalla Longoni e dalla Corti. Se Dante conoscesse il testo de “La scala di Maometto” dal suo Maestro Brunetto Latini o se ne fosse venuto in possesso alla biblioteca di Bologna non ci e dato sapere, unica cosa appurata e che esso circolava in Italia ed Europa, ma, proprio come avvenuto per le opere citate sul Purgatorio, difficilmente e pensabile che tali fonti possano effettivamente aver influenzato, con concretezza, la volontà  narrativa e poetica di Dante.

Infatti, sebbene la Corti ed altri studiosi abbiano trovato somiglianze fra i due testi, la Commedia e la precedente Scala di Maometto, ad una diversa analisi comparativa si riducono per altri studiosi al ruolo di semplici analogie, sostanziali differenze non solo a livello formale sono state, infatti, palesate sui concetti di luce divina.

Concludendo l’argomento, vorrei porre l’accento su un paio di considerazioni, magari utili ad una riflessione più ampia che coinvolge l’idea generale di una cultura occidentale ed europea assai più intimamente legata all’oriente di quanto si sia sovente affermato. La prima e più  immediata osservazione e che, vista la vasta cultura di Dante, e assai probabile che si fosse documentato sul genere letterario con cui si sarebbe poi cimentato e, di conseguenza, conoscesse le opere più  note e diffuse al suo tempo, ivi comprese quelle di origine islamica. Il secondo rilievo, più sottile, riguarda il fatto che, da modesto studioso, quale sono, di ordini esoterici e della loro simbologia, non reputi affatto inconsueto e strano che la struttura del poema dantesco ricalchi quello di altre composizioni del genere, cosi come alcune descrizioni simboliche figurali sono comuni a molte tradizioni esoteriche: l’idea che il componimento dantesco sia uno dei pilastri di quel filone che ha poi condotto nel sei-settecento alla nascita della Libera Muratoria lo avevo

già nitidamente affermato in passato.

Conclusioni

Nel tentativo di fare chiarezza e fornire una panoramica attendibile sulle più dibattute, studiate e controverse questioni riguardanti Dante e la sua Commedia, ci siamo cimentati con risvolti a volte più immediati, come quello riguardante l’affatto probabile appartenenza ai “Fedeli d’Amore” o ai Templari, altre volte assai più sottili e di difficile soluzione, come l’autenticità della XIII epistola a Cangrande o la questione delle fonti islamico-orientali. Ma, al di la degli importanti e noti studi effettuati nei secoli, in questa particolare sede importa porre l’accento sull’esoterismo dell’opera dantesca che, sebbene con caratteristiche proprie al più stretto cristianesimo medievale ed alla sua teologia, si inserisce nella migliore e genuina Tradizione iniziatica occidentale, e poi sulla valenza che ancora oggi mantiene per tutti coloro che vogliono migliorare la propria esistenza terrena giungendo al momento del trapasso con il cuor più leggero, consapevoli di aver compiuto uno sforzo per un’Umanità migliore, più libera e giusta. Il viaggio di Dante appare proprio un viaggio di istruzione, il cui scopo più evidente e quello di cercare la Verità; esso non si ferma neppure davanti ai più spinosi quesiti metafisici sulla fede, quelli in qualche modo più “pericolosi”: affidarsi alla fede sembra a volte addirittura una necessità razionale della sua fervida mente, ove scienza e intelletto non possono fornire risposta. Nella complementarietà di dogma e ragione, scienza e fede si possono, per me, più facilmente spiegare quelle che ad alcuni sono apparse come contraddizioni, Dante riesce così a completare la sua visione, a darle un senso che altrimenti non avrebbe

potuto abbracciare universalmente l’essere umano, le sue debolezze più basse e le speranze più alte, in un’opera che dopo ben sette secoli ancora fa discutere e dibattere un largo pubblico ed un gremito palco di addetti ai lavori. Infine, credo che una delle più grandi e maestose idee contenute nella Divina Commedia e che Dante riesce a vedere, sentire, incontrare Dio da vivo, mediante un viaggio corporeo e reale, cosa – se non per gli averroisti – impossibile e, perfino, eretica per la Chiesa e San Tommaso.

Detto ciò, spero in qualche modo di aver fornito una sorta di introduzione o prologo agli articoli dei più ben valenti esperti che seguiranno in questo numero speciale di Hiram su Dante nella ricorrenza dei settecento anni dalla sua morte.

HIRAM 2021-2

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