LINGUAGGIO, MITOLOGIA E MISTERO

Linguaggio, mitologia e mistero in F.W.J. Schelling

Fabrizio Sciacca

L’orientalista e pastore protestante Joseph Friedrich Schelling inizia precocemente il figlio agli studi classici e teologici, greci, latini e orientali. Wilhelm Jeremias Jacob Cless, il nonno materno del giovane

Schelling, è un erudito teologo svevo. L’ambiente familiare influirà non poco sulla curiosità (prima che sull’educazione) intellettuale di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, che lo accompagnerà dagli anni dello Stift di Tubinga, poi negli studi universitari a Lipsia e Dresda, sino al primo tormentato periodo di insegnamento a Jena e Würzburg.

Dal 1806 al 1820, a parte una breve parentesi a Stoccarda, Schelling è a Monaco. Occupa un posto con funzioni di segretario all’Accademia Bavarese delle Scienze, presieduta da Friedrich Heinrich Jacobi. Vi insegnerà solo a partire dal 1827, dopo qualche anno a Erlangen, quando la città diventerà sede universitaria. Nel 1809 aveva pubblicato le Ricerche filosofiche. Gli anni 1810-15 sono importanti perché attestano l’intrecciarsi di due segmenti speculativi, il primo giovanile e il secondo della maturità, la filosofia della natura e la filosofia della mitologia. La filosofia della natura sta per passare in secondo piano rispetto alla filosofia della mitologia. Questo itinerario è segnato da alcuni passaggi: le inedite conferenze di Stoccarda del 1810; nel 1812, la replica a Adam Karl August von Eschenmayer e lo scritto contro Jacobi; nel 1815, infine, lo scritto sulle divinità di Samotracia, importante anche come traccia dell’intersezione tra filosofia della natura e filosofia della mitologia, , “appendice alle Età del mondo”: è l’ultima vera opera non postuma di Schelling, se si eccettua la prefazione a un volume di Victor Cousin, di molti anni successiva. Lo stile filosofico è dunque quello delle Età del mondo: uno stile descrittivo che si inserisce nello svolgimento delle analisi dialettiche, prima fra tutte quella del rapporto tra l’umano e il divino. Tuttavia, è un’opera del tutto dotata di autonomia; come lo stesso Schelling precisa, un trattato che deve essere considerato del tutto separatamente; e che desidera pure altrettanto separatamente essere esaminato, secondo il suo contenuto particolare.

A Monaco, Schelling sviluppa e intensifica quell’interesse per la vaghezza cronologica e geografica del mondo più antico, quello la cui cultura si esprime nei miti. È un interesse non incompatibile con un disegno razionale: una sorta di vaghezza strumentale che permette di cogliere nei miti orientali i tratti di un linguaggio comune alla storia mitologica dell’identità occidentale. Si tratta di un dispositivo metodologico capace di individuare nella tradizione degli antichi il fondamento della facoltà di creare il nuovo. Questa è pertanto una facoltà filosofica, quello stesso metodo storico-critico che gli consente di enunciare compiutamente il concetto di formazione di un popolo. Il disinteresse per il diritto non gli precluderà la possibilità di elaborare un’idea sia pur minimale di diritti individuali, sorretta da una struttura teorica culturale ad ausilio della quale gli gioveranno le opere giuridico-politiche kantiane, e una concezione non pervasiva della legge in cui lo stato assume una funzione garantista della persona. Nella Storia della filosofia occidentale, Bertrand Russell liquida Schelling in poche righe, per scarsa importanza filosofica. Senza voler condividere per forza questo severo giudizio, chi di Schelling leggesse solo Le divinità di Samotracia potrebbe essere indotto a dare ragione a Russell. Schelling presenta all’Accademia un saggio chiaro e semplice nel testo, ma corredato di un apparato di note densissimo, in cui conferma, enfatizzandola, un’erudizione filologica e linguistica impressionante. Un’opera in cui sembrerebbe aver addirittura abbandonato la filosofia. Il rigore filologico e un indubbio compiacimento micrologico non sono tuttavia fini a se stessi, ma strumentali a un’argomentazione di natura filosofica. Schelling vuole dimostrare come le tre divinità cabiriche – Axieros, Axiokersos, Axiokersa (con l’aggiunta della quarta, Cadmilo o Casmilo) – vadano oltre il riferimento ai misteri di Samotracia e costituiscano, attraverso una serie di mutazioni semantiche, categorie archetipiche della filosofia della mitologia occidentale. Secondo Schelling, la mitologia non necessita di strumenti esterni ad essa per essere oggetto di comprensione e di significato: la filosofia della mitologia non ha per oggetto la mitologia, ma sarà essa stessa filosofia positiva. Si considerino le Annotazioni dello scritto sulla Samotracia: in questo corpus due volte più ampio del testo (“è sembrato necessario eccedere il testo, proprio perché occorreva fondarlo”, scrive nell’avvertenza  introduttiva alle note), Schelling mette insieme riferimenti mitologici, etnologici, archeologici, esoterici, citazioni da fonti classiche e studi della migliore filologia dell’età moderna; e fa dialogare testi sacri, dal paganesimo al cristianesimo, forse anche per dimostrare il carattere universalizzante della religione.

Ne è ad esempio prova il riferimento ad analogie tra il potere mistico-magico delle divinità femminili della mitologia mediterranea e quelle nordiche, come ad esempio accade tra Artemide/Persefone e la divinità norrena Freyja. Questo spiega il costante riferimento di Schelling agli studi sulle religioni nordiche, dall’Edda di Snorri agli studi di Troels Arnkiel e di Friedrich Münter. Lo stesso Münter, nello studio sulle divinità religiose nordiche a sua volta utilizzerà la ricerca di Schelling. Dunque, un’erudizione non priva di significato filosofico: “Se poi le argomentazioni linguistiche dovessero apparire composte con eccessiva acribia, l’autore preferisce essere rimproverato per questo che non esser lodato per l’opposto: perché tali ricerche, se non sono condotte con serenità e con cura spesso dolorosa, non valgono nulla”. Il significato di Schelling è qui filosofico, proprio perché la mitologia non è intesa come interesse per il mito in quanto narrazione storico-documentale, ma come scienza filosofica.

L’approccio filosofico alla mitologia gli sembra in grado di dimostrare come la filosofia possa essere ‘positiva’ anche esprimendosi come filosofia del significato. In tal senso, la mitologia in Schelling è anche filosofia del linguaggio. Attraverso le singolari, capillari ricerche linguistiche contenute nelle Gottheiten, Schelling esplicita come nel linguaggio esista già la chiave di comprensione di significati capaci di trascendere il singolo mito e di porsi come veri e propri universali, categorie positive del pensiero e della cultura: “Ci incamminiamo dunque lungo la perigliosa via della ricerca linguistica […] Si dica pure che, in un periodo in cui ciascuno si credeva capace di fare qualsiasi cosa, una sorta di furore etimologico pretendeva di derivare tutto da tutto, e allo stesso tempo di mescolare nel modo più dissennato anche le antiche leggende divine: tuttavia, rimane il fatto che la ricerca dell’origine e della radice delle parole, svolta non ciecamente ma con arte, e secondo le regole che le sono proprie, sia la parte più nobile della linguistica”.

In tal senso, la filosofia della mitologia di Schelling è addirittura la negazione dell’autoreferenzialità del singolo mito. D’altra parte, la posizione geografica di Samotracia, nell’Egeo settentrionale, segnava per i greci una linea di confine oltre la quale finiva la civiltà e iniziava la barbarie: l’isola era un crogiolo anche dal punto di vista culturale. I riferimenti ai Cabiri non gli impediscono di cogliere affinità persino con la mitologia scandinava, si pensi ad esempio all’islandese Edda. Schelling suona antimoderno e prefigura ciò che Ludwig Wittgenstein, filosoficamente lontanissimo, scriverà nelle sue osservazioni su Frazer: “nel nostro linguaggio si è depositata un’intera mitologia”. Anche le non poche annotazioni di Schelling nei diari attestano un interesse per le migliori fonti etimologico-linguistiche comparate, come l’Alphabetum Tibetanum di Agostino Antonio Giorgi (1762), non a caso già annoverato da Herder e Kant, a conferma che nelle Gottheiten, con strumenti della tradizione mitologicoesoterica Schelling non lavora da storico, ma scrive da filologo e pensa da filosofo.

La filosofia è una sola, ed è uno strumento per decifrare il significato di ciò che ci accade. Tutto ciò che ci accade, scrive nelle Età del mondo Schelling, è una continua alchimia: “ciò vale anche per ogni processo interiore, quando la bellezza, la verità o la bontà, liberate dall’oscurità e dalle impurità che vi sono attaccate, appaiono nella loro purezza. (L’alchimista, a dire il vero, ricomincia dal basso – a prima materia, che egli vorrebbe portare ad ultimam). Coloro che avevano intelligenza di ciò che cercavano, cercavano non l’oro, ma, per così dire, l’oro dell’oro, ossia ciò che rende oro l’oro”.

Perciò anche e proprio in queste pagine emerge con coerenza il fatto che l’approccio di Schelling è teoretico, non ermeneutico: nonostante il frequente ricorso a confronti e comparazioni, le interpretazioni e le divagazioni storiche non lo interessano, spesso lo spazientiscono. Queste pagine, quindi, al di là di pur giustificabili apparenze rivelano una consistenza tutt’altro che segmentata o rapsodica, e una sostanza sistematica tipica della filosofia schellinghiana. Così, la mitologia è un sistema capace di essere filosoficamente catturato nella fissità della sua struttura e perciò dotato di una solidità ben più forte delle narrazioni, storiche o mitiche. Di tali narrazioni essa è, per così dire, la linfa vitale. Rileva ma non meraviglia, dunque, il fatto che anticipando l’idea del mito come modalità epistemologica e cognitiva, Schelling sia citato più volte nelle riflessioni di Károly Kerényi, uno dei padri fondatori dei moderni studi sulla mitologia greca. Nei diari di viaggio in Italia e Grecia, spesso Kerényi rammenta le sue letture delle Gottheiten, che lo accompagnano appena dopo il soggiornoa Samotracia. Quanto ai Cabiri, trova che la soluzione del significato dei grandi dèi stia proprio nella traduzione linguistica dei nomi enigmatici delle divinità di Samotracia; sono per il profano veri e propri enigmi, che si risolvono quasi da soli; pensare a ciò come alla interpretazione più ovvia trasforma semplici traduzioni in piccole scoperte: Axieros è la divinità degna della consacrazione, Axiokersa e Axiokerso quelle degne delle nozze; l’intero passo delle Kunstreisen è ripreso nella grande opera sulla mitologia greca, dove Kerényi aggiunge che Cadmilo è semplicemente un ragazzo o un giovanetto, perché i primi tre nomi erano perfettamente greci, mentre di Cadmilo si capiva solo che la desinenza indicasse un diminutivo: rispettivamente le quattro divinità corrisponderebbero a Demetra, Persefone, Ade e Ermes. Si tratta di considerazioni analoghe a quelle esposte da Schelling, già con chiarezza annotate nei diari del 1815: Axieros è Demetra e Cerere, Axiokersa è Persefone e Proserpina, Axiokerso è Ade, Plutone ma anche Osiride; Cadmilo è Ermes, l’ultimo, inserito per quarto, ma il più elevato: i Cabiri avrebbero avuto la consistenza mitica di archetipi dell’uomo. Non a caso Goethe, che aveva ricevuto il testo personalmente da Schelling, nel Faust allude – con una certa ironia – ai tre più uno nomi dei Cabiri: “Se n’è portati fin qui tre./ Il quarto non voleva./ Lui, diceva, era quello che/ per tutti provvedeva”.

Probabilmente legati alla fertilità, i misteri venivano celebrati nelle isole di Samotracia, Lemno, Imbros (l’attuale Gökçeada, in Turchia) e in Asia Minore. In realtà, la plausibilità della trasposizione al mondo greco e latino non toglie incertezza a significato, origine e funzione delle divinità cabiriche. Non è privo di rilevanza che pur nella monumentale opera di JohannJakob Bachofen, delle feste in onore dei Cabiri a Lemno vi è appena una citazione. I misteri cabirici a Lemno in onore di Efesto vengono infatti solo una volta citati da Bachofen nello studio sul matriarcato.

I misteri che iniziavano al loro culto rimangono quasi del tutto ignoti, così come del tutto particolare sembra a Diodoro Siculo il linguaggio degli abitanti originari di Samotracia: scopritori del ferro (come gli Efesti di Lemno) e lavoratori di metalli, servitori della Grande Madre, talora identificati coi Cabiri o con i  Coribanti e i Cureti, a seconda dei luoghi, come riferisce un’altra autorevole fonte, Strabone. Diodoro Siculo dice che gli abitanti originari di Samotracia usavano un linguaggio loro proprio, di cui gran parte dei termini si è mantenuta fino a oggi nei sacrifici. Karl Lehmann illustra come i coloni greci sarebbero giunti a Samotracia intorno al 700 a.C. e vi avrebbero trovato una popolazione appartenente alla famiglia trace: il culto della polis si sovrappose a quello preesistente, dando vita a due culti contemporaneamente vigenti. Questa bella idea della sovrapposizione è ripresa anche in maniera concettuale da Jean-Pierre Vernant: «come la filosofia si sviluppa dal mito, come il filosofo trae origine dal mago, così la città si costituisce a partire dall’antica organizzazione tribale in una forma che implica un pensiero più positivo e più astratto».

E qui è possibile capire quale fosse il ruolo della verità nella mitologia per Schelling, anche attraverso la sua difesa della posizione di Friedrich Creuzer. Pur non potendo ancora avvalersi delle più aggiornate edizioni della monumentale Symbolik und Mythologie, nelle Gottheiten Schelling appoggia chiaramente la tesi sostenuta da Creuzer sulla mitologia non come collezione di storie avulse dalla storia, ma informazioni sulla verità della storia se non sulla stessa verità storica: in tal senso, queste rinviano a un’unica sorgente simbolica in grado di essere posta come fonte originaria, una sorta di fonte universale significante anche nell’ambito della storia della cultura. D’altra parte, lo stesso Creuzer ricambierà, riferendosi nella seconda edizione del 1821 al “geniale Schelling”, così come nella terza edizione del 1836 lo ricorderà più volte. La mitologia obbedisce per entrambi a una funzione simbolica, è uno strumento di invenzione della storia della coscienza: un processo fisiologico e perciò antecedente al problema politico-normativo della libertà e dei valori.

Come storia della filosofia coscienziale, la mitologia è forse uno strumento al di fuori della filosofia della storia, ma non al di fuori della filosofia: attraverso le immagini, essa rivela ciò che è: “Poiché la scienza a un certo punto è indivisibile dalla storia, ed è quasi necessariamente transito dell’una verso l’altra. La ricerca generale non a caso è preceduta da quella, più specifica, del sistema samotrace. L’intenzione era quella di porre ciò a fondamento: poiché la dottrina cabirica è come una chiave, fatta apposta per aprire tutte le altre: sia per profonda antichità, sia per chiarezza e semplicità della sua forma”.

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