IL TEMPO MITICO E IL TEMPO MASSONICO


Il tempo mitico ed il tempo massonico

Ottorino Catani

Prove interpretative sul per “La recitazione periodica dei miti spezza i muri eretti dalle illusioni dell’esistenza profana. Il mitoriattualizza di continuo il Gran Tempo e così  facendo proietta l’udienza su un piano sovraumano e sovra storico e tra l’altro , consente a tale udienza di accostarsi ad una realtà impossibile da raggiunger e sul piano dell’esistenza profana individuale”. ( Mircea Eliade

È risaputo che il mito del tempo ciclico, ovvero dei tempi cosmici, è proprio delle società tradizionali. Da Guenona Mircea Eliade, abbiamo ricevuto lezioni sapienziali di straordinaria fattura su questi argomenti.

Il mito dell’eterno ritorno e dell’eterno ricominciare fu intuito probabilmente e colto dall’uomo primitivo nella constatazione della periodicità lunare.

I ritmi lunari segnano sempre una creazione (luna nuova) se­guita da una crescita, (luna piena) un calo ed una morte (le tre notti senza luna) . Quindi l’intuizione dei primi uomini circa la periodicità della Vita e della Morte si è cristallizzata grazie al­l’immagine di questa eterna nascita e morte della luna.

Nell’uomo primitivo quindi il Tempo è ciclico, il mondo viene periodicamente creato e distrutto ed il simbolismo lunare dinascita-morte–rinascita è manifesto in un gran numero di miti e rituali.

Da sempre il tempo resta un quesito filosofico fondamentale.

Sulla concezione della realtà e del suo divenire si sono affa­stellati i pensieri dei filosofi di ognitempo.

Per il pensiero filosofico greco il tempo è un flusso unico e omogeneo, nel quale sono immerse tutte le cose soggette a mutamento. Tale flusso è per lo più circolare ed il suo simbolo è la ruota o l’ouroboros, il serpente che si mangia la coda.

L’interiorizzazione del tempo e la sua riduzione a dimensione della coscienza è propria di sant’ Agostino che con il concetto di “distensione dell’anima” (di stensi o animi) identifica il tempo ad una questione di esclusiva coscienza dell’uomo: il passato ed il futuro hanno realtà solo nel presente della coscienza, come memoria e come aspettativa rispettivamente. Con New­ton il tempo diventa realtà oggettiva grazie allo studio della cosmologia e della meccanica.

Per Newton comunque il tempo è un attributo di Dio. Questo Tempo assoluto è una successione uniforme e può essere mi­surato (in tempo relativo) facendo riferimento ai movimenti celesti. Kant individua il Tempo con una concezione che non è né un flusso oggettivo né una ipostasi ossia una emanazione dell’esperienza interna dell’Uomo: esso è una intuizione pura e solo grazie ad essa è possibile concepire l’ordine causale del mondo.

Oggi la concezione classica soggettiva o oggettiva del Tempo è stata messa in crisi grazie alle grandi svolte della fisica mo­derna. L’irreversibilità dei fenomeni studiati dalla termodina­mica, il principio di indeterminazione di Heisenberg e la relatività di Einstein esigono che siano accettate, come fisica­mente reali, serie temporali diverse a seconda della velocità dei moti a cui possono essere coinvolti i vari osservatori.

Infine nell’esistenzialismo di Heidegger e di Sartre il tempo non è più concepito come una struttura necessaria dell’essere ma la condizione dell’esistenza come possibilità e progetto. Il futuro, luogo delle nostre scelte, diviene in tale concezione la dimensione fondamentale del tempo, e la chiave del suo si­gnificato metafisico. Ma ripartiamo dal principio, dalle origini, dal pensiero Tradizionale.

La suddivisione dei cicli cosmici, della cosmogonia, la nascita dell’universo e del suo periodico e diacronico nascere, espan­dersi e morire trova struttura ed origine negli antichissimi testi vedici. Quando ci riferiamo agli yuga di tradizione indiana ci riferiamo alla definizione del tempo scandito dai cicli cosmici. Come ben sappiamo il kali yuga, l’ultimo yuga, quello che ci troviamo a vivere in questo momento, è considerato l’età delletenebre ( Yuga- tempo , Kala– Kalì, la dea nera).

La dottrina induista degli yuga nasce evidentemente con i suoi incalcolabili ed infiniti eoni per “terrorizzare” l’uomo e resti­tuirgli un valore soteriologico (cioè salvifico) costringendolo a rendersi conto che deve ricominciare miliardi di volte questa esistenza e sopportare le stesse sofferenze se non si spinge in­fine a trascendere la sua condizione di “esistente”.

Quindi l’uomo che si disciplina in questo percorso è portato a non credere unicamente alla realtà delle forme che nascono e fioriscono nel tempo storico : chi raggiunge l’illuminazione di­viene un liberato nella vita, e, proprio in virtù di questo, supera il Tempo, nel senso che non partecipa più alla sua durata. “…il sole resta immobile, ma dopo essersi alzato allo zenit esso non si alzerà e non si poserà più. Si terrà solitario nel Centro… giam­mai è tramontato, giammai è sorto…(Upanisad) ”. Allo zenit, cioè alla sommità della volta celeste, al centro del mondo, nel punto dove sono possibili la rottura dei livelli e la comunica­zione tra le zone cosmiche, il luogo “sacro” ove avvengono i passaggi più critici dei nostri rituali di iniziazione.

Il sole, cioè il Tempo, rimane immobile per colui che sa.

Il nunc fluenssi trasforma paradossalmente in nunc stans…nel centro, nel centro della ruota, dove ogni movimento trova quiete.

L’illuminazione, la comprensione, realizza quindi il miracolo dell’uscita dal tempo. Ed in un tempo immobile, fermo ed in­cantato, che il rituale respira ed esercita la sua originale e più

Il tempo mitico ed il tempo massonico

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genuina espansione. Nel: “Che ora è?” rivolto al secondo sor­vegliante si stabilisce il tempo sacro del nostro rituale, che let­teralmente va da mezzogiorno a mezzanotte, dal Nadir allo Zenit del nostro Sole, e siccome il tempo profano, a lavori aperti si ferma, ecco che non conta che sia mezzogiorno o mez­zanotte, che sia giorno o notte nel tempo sacro, nel Gran Tempo il sole è fermo… giammai è tramontato, giammai è sorto…

Che cosa sono allora i nostri rituali massonici, se non degli stra­ordinari strumenti ereditati e rivissuti per realizzare que­st’azione centripeta, questa tensione verso un centro che annulli il tempo storico e ci restituisca verso il Gran Tempo.

Lo zenit che al tempo stesso rappresenta la Sommità del mondo ed il Centro per eccellenza, il punto infinitesimale at­traverso cui passa l’asse del mondo (Axis Mundi) è un’imma­gine mitica già nota all’uomo antico, primitivo, alle società tradizionali e ad un pensiero arcaico. Il centro, su cui non mi soffermerò più di tanto per motivi di competenza di grado, è un punto ideale che non appartiene allo spazio profano, geo­metrico, bensì allo spazio sacro ed in cui si può realizzare la co­municazione con il Cielo o con l’Inferno, il luogo “paradossale” della rottura dei livelli, il punto in cui il mondo sensibile può essere trasceso.

Ma che cosa è allora per noi massoni il tempo? Ognuno di noi, venendo qui, porta un poco della sua quotidiana profanità, attraverso la sala dei passi perduti, fino alle soglie del Tempio.

Si conversa con i fratelli ed intanto, a seconda dello stato del proprio lavoro interiore di sgrossamento della pietra grezza, prima o poi, ci si rende conto che l’immagine di noi stessi non si identifica con la nostra reale natura.

Avvertiamo spiacevolmente che noi siamo e viviamo di s-iden­tificati a noi stessi. la nostra sensibilità ci dis-vela, spesso im­provvisamente, magari durante una frase gioiosa, quanto di non autenticamente nostro noi mostriamo agli altri, mentre ascoltiamo noi stessi soffiare sugli altri parole, galleggianti nell’aria per pochi istanti.

Quando nascemmo al mondo il nostro “IO” era puro e limpido, ancora privo della sua proiezione.

Ombra, senza schermature, centrato e coincidente nella nostra geografia interiore col proprio “Sé”.

Il Sé di ciascuno di noi è individuale, ma uguale a quello degli altri: perciò fu scritto “Nosce te ipsum”: la via centripeta verso il proprio sé è nello stesso tempo un cammino verso l’altro. Per questo il massone viene educato che nella solitudine del proprio lavoro non deve dimenticare chi è altro da sé.

Quando, fin dall’infanzia, imparammo a difenderci dai rischi del rifiuto altrui, fabbricandoci maschere e schermature, pro­gredimmo in un’arte profana che alla fine si è impadronita di noi, fino ad annegare in essa noi stessi.

Ordinariamente, noi ci rendiamo conto, che in realtà anne­ghiamo ogni giorno in un fiume che ci trascina senza scampo, da cui non possiamo uscire, le cui rive non ci danno appigli.

Questo Fiume, che chiamiamo Tempo, è noi stessi. Scrive Bor­gès:

“Il Tempo è la sostanza di cui sono fatto

E’ un Fiume in piena che mi trascina ma io sono il Fiume

E’ una tigre che mi divora ma io sono la tigre

E’ un Fuoco che mi consuma ma io sono il Fuoco”.

Se dunque noi vogliamo fermare il Fiume, noi dobbiamo spo­gliarci “alchemicamente” delle nostre cortecce per riaccentrare noi stessi sul nostro ritmo interiore.

Se il Tempo si ferma, anche lo spazio non c’è più: è la condi­zione ontogenetica prenatale, quando non avevamo ancora la percezione spazio temporale del mondo fenomenico. E’ l’ “Al­terjia”, “il tempo del sogno” dei rituali iniziatici degli aborigeni.

Per tornarvi, bisogna entrare nella “Fase della contempla­zione”: Se lo spazio qui sparisce e ricreiamo l’antica catena ri­tuale allora il Tempio non è più chiuso in alto, ma aperto verso il cielo stellato. Con i nostri corpi e le nostre menti, fermiamo per un poco il tempo fenomenico e ci riappropriamo, tornando al centro di noi stessi, delle nostre vite. Anche per pochi minuti, talvolta, entriamo nell’esperienza del “Satori” la “piccola illu­minazione”.

Il vero conoscere, lo scrive Eliade, come per Platone e per gli aborigeni, è “ricordare”.

“Il mito e la sua rievocazione strappano l’uomo al tempo che gli è proprio, al suo tempo individuale, cronologico, storico, e lo proietta, almeno simbolicamente, nel Gran tempo, in un istante paradossale, che non può essere misurato in quanto non costituito da una durata” (Mircea Eliade ).

TRATTO DA “Hiram” 1/2018

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