LA SAPIENZA POLITICA E IL MONDO CONTEMPORANEO

LA SAPIENZA POLITICA E IL MONDO CONTEMPORANEO

di Giancarlo Elia Valori

Mappa dell’Italia nella Galleria delle carte geo­grafiche, che si  trova nei musei Vaticani. In basso a sini­stra, sul cartiglio, si riconosce, se­duta sul trono, la personificazione allegorica dell’Ita­

Cosa ha fatto, e addirittura continua ancora a fare dell’Ita­lia una “nazione necessaria” o, perfino e ancor oggi un unicum politico e spirituale?

Anche nella barbarie del presente, nella più diretta e imme­diata decadenza della storia moderna del nostro Paese, si scor­gono ancora gli zigomi della antica tradizione, i semi di una rinascita sapienziale e di massa.

Non lasciamoci andare alla immediata fenomenologia dello sfascio attuale.

Chi oggi “fa politica” o alta amministrazione è, spesso, solo una tenue copertura per molti interessi, spesso di oltreoceano o transalpini, oppure cerca piccoli affari per poi ritornare alla vita di provincia.

Le idee sono morte, nessuno oggi ripensa al Risorgimento del Paese, che deve essere alla base dei nostri pensieri.

Non è questo tran tran giornaliero che può cambiare la so­stanza e il tessuto di un Paese.

Anche se, naturalmente, occorrerebbe che le vecchie, ma an­cora ottime, case di selezione delle classi dirigenti ricomincias­sero a funzionare appieno.

Se c’è un limite, oggi, nel sistema nazionale è quello della ces­sazione dei canali di selezione delle classi dirigenti.

Dico classi dirigenti, non manager o funzionari o, magari pro­fessori universitari o mâitres à penser.

La selezione della nostra specie non si fa con i Master, si opera con saperi ben più sottili di un business plan.

No, la continuità italiana, tra filoni occulti e tratti palesi, esiste ancora, è profonda, inattaccabile. Le mode sono irrilevanti, lo sanno anche gli adoratori del Master.

Ma sono certamente cambiati i modi di apprenderla, la nostra continuità storica, anche con le sole categorie dell’ intelletto che Kant ci ha lasciato. Che sono oggettivamente empirizzate e quindi non ci sono, oggi, utili.

Un primo dato, da non dimenticare mai: la continuità mai in­terrotta con la tradizione antica.

Qui i teorici del “pitagorismo” nazionale, pur se legati al vec­chio regime, non avevano certo errato.

Tra Etruschi, Romani, Imperium cristiano, Medio Evo o, per es­sere esatti, quel “medio” periodo di costruzione della Civiltà Europea che chiamiamo, positivisticamente e con scarso senso logico, Medio Evo, fino al Risorgimento e il resto, non c’è mai stato un vuoto che non si sia colmato in due generazioni.

Italia, “terra dei Vitelli” ma, forse, secondo Apollonio Rodio, terra dei vulcani e delle fucine ferrose delle isole etrusche o meridionali…aperture dal basso ma anche la luce del ferro e della sua Età, con l’uomo che costruisce strumenti sempre più  perfezionati… la continuità tra i collegi dei Salii romani, fon­dati da Numa Pompilio, con le tradizioni proto-cristiane del Ver Novum, di cui tutti abbiamo sentito parlare al Liceo, con Virgi­lio, ma che non abbiamo preso nel loro senso “costruttivo”. Che e quando la sapienza romana decide di diventare meta-terrena e arrivare all’Imperium mediterraneo e orientale con la sua capacità sintetica…ecco, qualunque sia la storia politica visibile dell’Italia e delle sue classi dirigenti, questo è l’esatto inizio. Una continuità assoluta. Legata indissolubilmente all’econo­mia e al diritto, peraltro. L’Italia è il mondo infinito e eterno degli usi civici, quelle pra­tiche che i Fisiocrati, alla nascita dell’economia politica cosid­detta “moderna”, ritengono più utili al calcolo economico fruttuoso delle vecchie norme del diritto comune codificato.

E’ il caso che si ordina, cosmicamente, da solo.  Peraltro, l’economia politica moderna proprio quando, rompendo una tradizione sana e profonda del pensiero clas­sico greco, si confondono stabilmente i programmi di accu­mulo a tempo con i progetti di stabilizzazione produttiva, quelli che modificano i rapporti sociali e quelli economici “visibili”.

La Coltivazione, come diceva Lucio Giunio Moderato Columella, è anche arte della formazione dell’uomo, del suo ambiente e, soprattutto, delle sue tradizioni, dei suoi “usi civici” profondi,  interni e esterni, che creano le tradizioni e il loro continuo, sa­piente e occulto mutarsi.

La civiltà italiana, da sempre, è opera di ville, orti, coltivazioni e centri pubblici in cui si radunano tutti gli uomini.

Fare politica è quindi, da sempre, coltivare non “il proprio giar­dino”, come dirà il Candide volterriano, ma l’orto di tutti e il campo di ognuno. Ecco qui che appare uno dei grandi para­digmi della civiltà italiana, del suo paesaggio, della psiche pro­fonda che essa ha indotto in tanti popoli che l’hanno conosciuta e che in essa si sono fusi.

Mappa dell’Italia nella Galleria delle carte geo­grafiche, che si  trova nei musei Vaticani. In basso a sini­stra, sul cartiglio, si riconosce, se­duta sul trono, la personificazione allegorica dell’Ita­

La natura non è una Ratio gettata casualmente sopra il caos, come potremmo dire con Newton; piuttosto la Ragione è un equilibrio naturale tra scopi, analisi della realtà, scienza, carat­tere e sensibilità.

Nella nostra storia sapienziale e politica, la Tradizione non è mai una raccolta di formulette che si possono mettere da parte o usare per l’occasione.

La Ragione è allora il punto in cui, alla fine, si fondono storia, cultura, ragione e estetica.

L’uomo separato e rotto della angst e della rabbia romantica l’individuo spezzato tra dovere e passione, non è un italiano, non può fare risorgimenti o rinascenze.

La Ragione italica e lo sviluppo della sua storia sono quindi una natura che si sviluppa intorno a un lento processo storico, che appare casuale solo perché lo osserviamo per breve tempo.

Non Karl R. Popper, qui, è da prendere a modello, allora, con i suoi tentativi di costruire ipotesi senza spesso alcun fonda­mento ma comunque a getto continuo; ma piuttosto usiamo come modello Friedrich von Hayek, con la sua idea di un “or­dine spontaneo” della storia, della economia e della società, un ordine che si realizza da solo, senza troppe mani umane, ma con assoluta efficienza.

E che noi, questo ordine, lo dobbiamo leggere e favorire, esat­tamente come un mago cinese legge, da taoista, le linee, che sono casuali solo per noi, della giada.

Solo nella tradizione politica italiana vi è, peraltro, una così lunga analisi del “carattere degli italiani”. Insegnare, pedago­gizzare creare exempla per ritornare, insieme, ad una fase an­tica che è anche l’unico nostro avvenire.

Penso qui a Pietro Chiapponi, nel 1878, che parla di una ten­denza del nostro popolo a “non avere una fiamma di entusia­smo”, con la creazione “di una apatia e di una depressione” che fiacca le “generose aspirazioni”. Ovvero, noi non siamo come inglesi e francesi, che si accendono in un attimo, tutti composti nella loro tradizionale boria di Paesi che derivano da Roma, ma che non vogliono accettarlo.

Tema, questo della “calma”, che rientra anche nelle analisi di Monaldo Leopardi.

Ben più attento di suo figlio Giacomo alla natura reale delle cose politiche, che è proprio la vera “sapienza italica” più an­tica; per Monaldo la massa umana è e deve essere costruita giorno dopo giorno, formata, spesso sedata, ma sempre diretta con polso fermo ma invisibile.

Non appaia subito qui la solita e inutile tematizzazione della “reazione” contro il “progresso”.

Tutt’altro, è proprio perché il conte Monaldo la pensa così, che a Recanati si fanno le vaccinazioni di massa, sulla base del me­todo di Jenner, che sembra piuttosto l’elaborazione del vecchio criterio del “piccolo male per un grande bene” che è magico e illuministico insieme.

L’omeopatia esoterica, il “piccolo male” che produce il “grande” bene, è un tema profondo che va dalla medicina alla magia antiche fino ad arrivare, sulla base di temi cosmologici anti­chissimi, alla formuletta che Voltaire, scarsissimo come sa­piente, mette in bocca al suo personaggio più noto.

Italia che si ricostruisce, quindi, secondo la sua cifra sapienziale e profonda, che è fatta di Natura, di artificio politico, ma anche di ricostruzione lenta ma sicura della sua stabile identità tra i popoli europei.

Loro non ce la daranno mai, l’identità, si credono una folla di individui desideranti e atomici.

E’ qui al lavoro la regola del Gioberti: se l’Italia è riuscita a do­minare il mondo e, addirittura, a dargli la sua forma classica, allora questo progetto è ancora possibile, ma in modo indiretto e non-violento.

Ecco la ragione del “primato” cattolico, giobertiano ma anche sapienziale, degli Italiani.

E oggi? Il primato nazionale è del tutto inesistente, la civiltà non porta più i segni della sana classicità, la storia sembra uscire, tutta insieme e rapidamente, dai meccanismi occiden­talisti per arrivare ad un Globo Futuro in cui chi ha già vinto appartiene alla steppa d’Oriente o, magari, alle steppe e alle praterie dell’estremo occidente.

Erano quelle due aree perdute che, come diceva Hegel, avreb­bero assorbito e distrutto, come in una grande invasione, il Centro di Luce che si irraggia, da sempre, in un punto di Occi­dente.

O, per dirla più esattamente con Dante, un punto né d’Oriente né d’Occidente, tema sciita e occultista che si ritrova dai ma­nuali di guerra indiani (l’Artashastra) fino alle stele di re Ashoka, tra India, civiltà alessandrina e grecizzante e buddhi­smo primitivo afghano.

Se ritroveremo quella cifra sapienziale, sarà salvo anche l’occi­dente, altrimenti il Centro si inabisserà.

Occorre allora riprendere, oggi, questo tema sapienziale, e ren­derlo non solo “educazione degli italiani”, come facemmo nel Risorgimento, ma anche una nuova educazione dell’umanità, tema eminentemente mazziniano.

Giacomo Gay, nel 1878, ritiene, altro tra i numerosissimi esperti di pedagogia politica, che la grandezza di una nazione stia nel carattere degli abitanti, non nella sua ricchezza media.

Tema illuminista ma, soprattutto, fisiocratico.

E, oggi, è proprio questo il nostro tema futuro e essenziale: ri­costruire una costante e stabile “educazione degli italiani” e, insieme, una nuova linea di civiltà classica per un mondo, che, per la prima volta, sta uscendo dalle verghe di ogni forma d’Oc­cidente.

Il carattere nostro è noto, dice sempre Gay: immaginazione vi­vissima, sensibilità facilmente eccitata e compressa, facilità ec­cessiva verso le belle arti.

Tema leopardiano, e più precisamente di Giacomo: eccesso di sensibilità femminea, facilità al sentimentalismo, estetismo.

Ma anche, cultura profonda e intuitiva senza troppi libri, genio soggettivo ma sopraffino, creatività nel lavoro, attenzione im­mediata alle esigenze della società. Poi lo spirito di gruppo, ma fuso naturalmente con l’amore dell’individualità.

Dovremo ripartire solo da questo quando, alla fine di questo piccolo e sciocco eone della post-modernità, sarà dato a noi, e solo a noi, ricostruire l’anima dell’Europa e dell’Italia, che è ben più necessaria all’Europa di quanto non sia al contrario.

Nulla ci sarà, dal punto di vista sapienziale, risparmiato: ve­dremo ogni sventura avvicinarsi, ma sapremo che è anch’essa il segno della rinascita.

Ogni materia si crederà autonoma, come nel caos primordiale che, per un attimo, si avvicinerà a noi.

C’è da fare il nuovo Risorgimento, questo è il problema e niente di meno.

Se non lo faremo noi, l’Italia sarà snaturata fino in fondo, di­ventando una massa poverissima e informe di quelli che Nietz­sche, nei suoi testi postumi, chiamava i “cinesini”.

Ovvero, per usare il termine più recente di Ernst Juenger, gli italiani e gli europei saranno dei “lèmuri” che produrranno poco o nulla, essendo il tutto uguale a tutto il resto.

La civiltà umana arriverà al suo standard minimo, che sarà mantenuto per secoli.

Oggi, per la prima volta nella storia umana, il presente ci mo­stra, nella tecnica e nella scienza, la forma iniziale del maligno.

E a cui si aggiunge, come nota la Patriarca in “Italianità, la co­struzione del carattere degli italiani”, un vecchio e utile testo del 2010, che ormai il carattere italico si è costruito solo come gli altri lo vedono: cinico, opportunista, calcolatore ma solo per il proprio vantaggio, irrispettoso delle leggi e pigro.

C’è molto di politico e utilitario in questa immagine; e aveva ragione Giulio Andreotti quando polemizzava, da censore ci­nematografico, con il poveraccismo del neorealismo di De Sica e Rossellini.

Certo, c’era da contrastare la retorica tronfia del ventennio, ma  questo non vuole certo dire che l’Italia sia sempre e solo quella che i nostri nemici-concorrenti vogliono che sia.

Ci siamo vestiti da camerieri, ci siamo dimenticati i Crespi, gli Olivetti, i Bene duce, i Guido Carli, gli uomini e i tecnocrati cat­tolici del Codice di Camaldoli, i Fanfani, ma anche gli Agnelli e i Pirelli.

Una storia lunghissima italiana si è rotta perché non c’è più proprio quel capitalismo che, come ci ricordava Schumpeter, avevamo inventato proprio noi, e lo storico dell’economia au­striaco citava, soprattutto, il Verri, “economista più bravo di Adam Smith”.

Essere oggi, ed è tristissimo, quei camerieri truffatori che la re­torica “protestante” vuole che noi siamo.

E si pensi, qui, alle straordinarie sciocchezze che abbiamo letto sulle “cicale” italiane che, nella crisi decennale del 2006-7avrebbero speso i soldi, sudatissimi, del lavoro protestantico-anglosassone e tedesco, che è sempre cosa, ovviamente, di for­miche assennate e nordiche.

Cultura politica da innovare, in Italia, cessazione di una casua­lità della formazione e della selezione delle nuove classi diri­genti, che non sono mai solo politiche e elettorali, impostazione di una nuova e profonda pedagogia di massa, anti-plebea e molto attenta alle scuole e ai mass-media, che faccia immediatamente cessare questa plebeizzazione senza forma della cultura di massa del popolo italiano. Che è il nostro bene primario, ben prima delle fabbriche e dei capitali.

Si pensi, qui, alla straordinaria popolarità che ebbero, da noi, alla fine dell’Ottocento, i testi di Samuele Smiles, con il suo self-help.

Ne parlarono i positivisti vicini al PSI (anzi, che lo fondarono, per certi versi) ma anche Gramsci, ma ci furono echi ulteriori in una serie di note del cattolicesimo liberale, molto interes­sato a questa teologia pratica dell’autorealizzazione.

Certo, gli italiani furono prima i signori del mondo antico, poi i grandi creatori del Medio Evo e della sua particolare ci­viltà universale, fatta di commerci e manifatture.

E di sapienza, tra Oriente e Occidente.

L’ambivalenza pericolosa dell’italiano era diffusa, nel Nord Europa: uomo di evidente superiorità, ma anche “infido” e “incomprensibile”.

Si pensi qui alla tipologia degli eroi italiani di Shakespeare, mentre Macbeth o Re Lear sono invasi dal loro destino, i ca­ratteri italici del Bardo il loro Fine lo creano e lo impongono, infidamente, agli altri.

Qui, il problema è soprattutto mazziniano.

Per Giuseppe Mazzini, lo ricordiamo, il tema primario è la “felicità dei popoli”, che è sempre tale da includere ogni na­zione. Senza limiti o parzialità storiche.

Ma che cos’è allora la felicità delle masse, nella storia del­l’identità italiana?

La vita stessa dipende da un sistema politico. Ce lo siamo di­menticati, ma questo tema di Mazzini è sempre attualissimo.

Nazione, Umanità, Associazione sono ormai, oggi, progetti diversi, ovvero il contrario della loro verità.

E qui arriviamo a una questione mazziniana essenziale: la felicità, appunto. Per il maestro genovese la vita non finisce quaggiù, certamente.

Ma tutti quelli che hanno pensato il benessere dei popoli, tra Bentham, Fourier, Cabet, Blanc, hanno sempre visto la questione in termini solo materialisti e pratici, la “cucina dell’Umanità”.

Quindi, questa non è una via possibile, quella sensistica e il­luministica del “maggior benessere (materiale) per il mag­gior numero”.

Quindi, la morale, tema molto attuale del mazzinianesimo, non si fonda sul benessere o sulla felicità “del maggior nu­mero”.

Che è il mito, fin da allora, di ogni illuminismo politico.

E allora? La ricerca della felicità nasce, dice sempre Mazzini, quando le forti credenze scompaiono, e il vincolo tra cielo e terra si è rotto.

E quindi, quello che emerge dalla teoria della felicità di Maz­zini, una teoria mai fondata sulla materia, non è un cristia­nesimo illuminista, o una sorta di teologia politica della massa “moderna”, o ancora tutta una teoria folle dell’elettrico, come in Fourier o nelle tradizioni esoteriche e democratiche americane, da Whitman a Bolivar, ma piuttosto una nuova idea soggettiva: la reincarnazione.

E’ questo il punto in cui la “nazione-Stato” si unisce alla “na­zione-comunità”.

Esistenza terrena, immortalità soggettiva ma solo nella co­munità continua e mai cessata delle anime e dei corpi di  tutta la civiltà umana, scambio in cui il singolo perfeziona la massa e viceversa, attraverso Vie che sono conosciute solo a Dio, dantescamente “termine fisso d’eterno consiglio”.

E’ su questo tessuto sapienziale che la politica diventa “reli­gione civile”, esattamente quello che deve continuare ad es­sere oggi.

La polis non è un mercato, non è una sommatoria di soggetti chissà come riuniti insieme, magari per scambiare mele e uova, come dice in giro uno pseudo-economista molto in voga.

Lo strumento politico rimette in circolo il Sacro, che è civile e, appunto, non politico; e questo è un atto del tutto reli­gioso.

Almeno nel senso delle teorie isidee e teosofiche della Bla­vatsky, che pubblica il suo testo più noto pochi anni dopo la morte di Mazzini.

E che Mazzini conosceva molto bene, per tutte le t

Quindi, lo ripetiamo, occorre costituire una nuova religione della politica, che permetta la costruzione di un nuovo carat­tere degli italiani.

Che sarà la continuazione sapiente di quello antichissimo.

Senza però dimenticare tutti i consigli, dai due Leopardi a Giovanni e Piero Capponi, da Gay a Gioberti, fino al Manzoni che descrive l’evoluzione collettiva e liberal-cattolica di un Io popolare, Renzo, che si tempra nella storia fino a “fuggir i co­mizi”.

Ricostruire il carattere dell’Italiano, per poi ritrovare il codice profondo dell’Europa, che proprio noi abbiamo fatto, fino a rielaborare la linea di un grande passaggio, religioso, sapien­ziale, culturale e perfino nei mass-media che eviti la ridu­zione del soggetto ad animale istintivo.

grandeoriente.it

 TRATTO DA “HIRAM”  N.1/2019

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