I COLORI MASSONICI DEL TRICOLORE


I colori massonici del tricolore

di Giovanni Greco

Università di Bologna

L’attuale politica culturale della nostra società non propone, di norma, il raggiungimento di mete ideali: oggi esistono sistemi sofisticati che appaiono e scompaiono, che parlano il linguaggio della democrazia paludata, utilizzando la ricattabilità di taluni uomini politici per infiltrarsi nelle istituzioni, per sedurre gli intellettuali più fragili. Il nostro è un paese che fa scintillare le opere d’arte, le bellezze antiche, i musei, fa brillare generosi talenti e ingegni mirabili, ma poi in realtà, dalle radici alla sommità, nel campo politico e civile, è ricoperto di immondizia morale, fetida e maleodorante, che ha pochi eguali al mondo. Il nostro è un paese dove persino la nostra bandiera nazionale sembra, in qualche caso, recare la scritta: perdonate l’imbroglio, ma ho famiglia, bandiera simbolo di libertà, in un tempo nel quale non manca la libertà, ma a volte gli uomini liberi.

In realtà il tricolore è il nostro granaio, il nostro salvadanaio dello spirito, è come il compasso che fora la carta nel punto dove gira, mentre la seconda gamba descrive un cerchio lontano: come tutti i grandi percorsi anche questo è un percorso circolare.

Uno degli scopi di questo convegno è sia quello di ribadire lo spessore storico del tricolore, che quello di rappresentare la costruzione della modernità fondata sui rapporti fra individuo e società, fra storia e progresso, attraverso la continuità dello sviluppo sociale e civile del paese mediante il dispiegarsi della nostra bandiera. L’albero-tricolore

è nato e vive perché mille e mille uomini gli hanno nel tempo conferito forza e valore, sino al sacrificio della vita, e tantissimi fra questi sono appartenuti all’istituzione massonica o al suo milieu.

In particolare per quanto concerne la città di Bologna, sul finire del Settecento, essa avvertiva fortemente il cambiamento di clima politico

dell’Europa, sull’onda della rivoluzione francese. D’altro canto, il malcontento per la politica economica e sociale del papato da tempo era latente e aveva convinto un gruppo di studenti alla ribellione aperta (1793-1794), contro un governo considerato illiberale e tirannico. Il progetto aveva irrisorie possibilità di riuscita e Luigi Zamboni e il suo fedele amico Giambattista De Rolandis, che furono fra i primissimi a proporre la coccarda tricolore, ad adottare per vessillo il tricolore, come attestato da Antonio Aldini, non poterono evitare una tragica fine, ma non ammainarono mai la loro bandiera, ancorché tragicamente bagnata dal loro sangue, come da par loro ci hanno raccontato i professori Giuseppe Re e Marco Veglia e il dottor Gabriele Duma.

È comunque a quelle vicende che si deve la scelta del tricolore come segno e simbolo di riconoscimento, oltre all’introduzione della nozione di sfera pubblica, fino allora estranea alla politica, passando le aspirazioni unitarie italiane dal piano letterario a quello della politica concretamente operante e partendo, il tricolore, da una debolissima connotazione nazionale.

Si evidenziò con chiarezza il disegno napoleonico, come ha già raccontato egregiamente il prof. Angelo Varni, che tendeva a far riassumere alle vecchie magistrature il potere di una sorta di città-stato, dovendo però nel contempo gestire la politica delle requisizioni e delle spoliazioni. Non casualmente le bandiere donate da Napoleone ai volontari lombardi avevano sull’asta il livello massonico, perché il tricolore era la bandiera delle vendite carbonare, della Giovine Italia e da sempre delle officine massoniche, col verde colore iniziatico del latomismo.

Si attraversarono così gli “alberi della libertà” di stampo giacobino, oltre ai vessilli massonici e carbonari, come ampiamente documentato nei musei cittadini. Nel museo civico del Risorgimento di Bologna, per esempio, sono conservate la sciarpa e la bandiera appartenute a Girolamo Tipaldo de’ Pretenderi (1800-1874), che proveniva dall’isola greca di Cefalonia, e che nel 1831 era a Bologna come studente. Partecipò attivamente ai moti di febbraio e fece parte del corpo di spedizione che combatté a difesa delle Province Unite. Ciò lo costrinse, a capitolazione avvenuta, a prendere la via dell’esilio verso la Toscana e la Corsica, dove comunque continuò a partecipare a vendite carbonare e massoniche.

Nel 1864 il sindaco Carlo Pepoli della loggia “Concordia umanitaria”,

implicato nei moti mazziniani del 1830, ed amico di Giacomo Leopardi,

lo invitò nuovamente a Bologna per donargli la cittadinanza onoraria ricordando, peraltro, l’operato della setta degli Apofasimeni, in cui si incrociarono l’azione e le storie di numerosi appartenenti al mondo latomistico, come Giuseppe Galletti, Giuseppe Petroni, Augusto Aglebert, Cesare Guidicini. La setta fondata da Carlo Bianco di Saint-Jorioz negli anni venti, partecipò ai moti del 1831 ed ebbe, anche a Bologna, una zona di sua intensa diffusione riuscendo a combinare elementi massonici, carbonari e patriottici dell’area romagnola e bolognese. Mentre Cesare Guidicini viene ricordato anche nella documentazione del museo civico del Risorgimento di Bologna, Augusto Aglebert passò dalla loggia “Severa” alla loggia “Galvani”, a cui appartenne anche Giuseppe Galletti, loggia che si riuniva in un tempio

ricavato nella casa di Berti Pichat in via Santo Stefano 96, mentre Giuseppe Petroni diventò poi il Gran Maestro del Goi dal 1882 all’85. E furono proprio Augusto Aglebert e Felice Venosta a raccontare che la mamma e la zia di Zamboni confezionarono bandiere e coccarde tricolori, che venivano appuntate sulle giubbe dei rivoltosi, come distintivo di riconoscimento, come attesta un documento bolognese del 18 ottobre 1796.

Ma fu Giuseppe Mazzini che assunse il tricolore con la parola “libertà-uguaglianza” da un lato, e “unità indipendenza” dall’altro, compiendo il salto di qualità dal recupero acritico della policromia repubblicana alla fondazione di un’imagerie indiscutibilmente italiana.

Tant’è che nell’estate del ’43, nelle Romagne, la mai sopita attività cospiratoria dei giovani patrioti, in gran parte di formazione mazziniana, si riaccese e si prepararono nuovi moti insurrezionali. E’ il caso del moto che si sviluppò a Savignano il 15 agosto 1843 nella forma di guerra per bande. L’intervento dei carabinieri, dei dragoni e gendarmi svizzeri fu rapido: dopo alcuni scontri episodici, gli insorti si

sbandarono e solo un gruppo, guidato da Pasquale Muratori, anima insieme col fratello del tentativo insurrezionale, resistette nel territorio di Loiano fino al 23 successivo, quando, vista inutile ogni ulteriore resistenza, si sciolse definitivamente. La bandiera utilizzata a Savignano, ed ancora conservata, era semplicissima e recava dipinta

sulla banda bianca la parola “Italia”. Numerosi anche i religiosi che parteciparono alle guerre d’indipendenza, pagando a volte con la vita il loro fervore patriottico. Tra questi, ben noto, il caso del barnabita e massone Ugo Bassi di Cento, fine catturato dagli austriaci e fucilato a Bologna nel 1849. Notevole l’ammirazione e la riconoscenza sinanco di Carducci verso Bassi, tant’è che per lui invoca: “Ma lascia tu nel gran concilio sgombra, Roma, una sedia”.

Non pochi i massoni fra i componenti dei cosiddetti “corpi franchi” organizzati dal generale Durando, che andarono a costituire una linea

di difesa sul Po (anche la bandiera dei corpi franchi è ancora fra i cimeli più preziosi) sino ai “Cacciatori a cavallo” garibaldini, quasi tutti conglobati nella massoneria, sotto l’egida di Bixio e Garibaldi, poi Gran Maestro del Goi.

Il tricolore divenne così la bandiera nazionale nella quale si riconoscevano coloro che erano accorsi a combattere per la libertà. E’ infatti con la formazione degli stati moderni che la bandiera acquista in tutto e per tutto il significato di simbolo dell’individualità dello stato. In questo quadro emerge la figura di Goffredo Mameli, precocissimo poeta e patriota, che dimostra ancora una volta che il massone o è un

testimone o è un ingombro e che scrisse il Canto degli italiani, che diventerà poi l’inno nazionale associato alla bandiera tricolore, come formidabile segno del desiderio di indipendenza nazionale. Mameli aderì giovanissimo al mazzinianesimo e alla massoneria, combattendo gli austriaci sul Mincio nel 1848 e regolandosi valorosamente durante le cinque giornate di Milano. Successivamente a Ravenna con Garibaldi, e poi in difesa della Repubblica Romana dove nel 1849 perdette una gamba, e dopo l’amputazione, morì per una sopraggiunta

cancrena. Nel 1847 scriveva “raccolgaci un’unica bandiera, una speme” e cento anni dopo venne adottato in Italia il suo inno.

Nel 1888 si svolse a Bologna la celebrazione dell’ottavo centenario dell’Università, ed il discorso per la solenne ricorrenza pronunciato proprio da Giosue Carducci fu un inno al tricolore: “Noi che l’adorammo

ascendente in Campidoglio, noi che negli anni della fanciullezza avevamo imparato ad amarla e ad aspettarla dai grandi cuori degli avi e dei padri che ci narravano le cose oscure ed alte preparate, tentate, patite, sulle quali tu splendevi in idea, più che speranza, più che promessa, come un’aureola di cielo a’ morienti e a’ morituri, o santo tricolore”. Circa dieci anni dopo, a Reggio nel 1897, già però parla di un tricolore avvilito, involgarito e dimenticato dai “volghi affollatisi intorno ai baccani e agli scandali officiali”.

Il rapporto nazione-emozione si traduce nella simbologia dei colori e nella loro capacità evocativa. Nell’officina delle emozioni, il tricolore ha un valore anche  è capace di mescolare la cifra degli elementi storico-politici con le suggestioni del passato, in cui la composita filigrana dei

sentimenti suscitati ne sintetizza la chiave di lettura.

L’unico modo di valorizzare il passato è proprio quello di saper essere innovatori, cercando d’immettere il ricordo e le immagini dell’antico entro un circuito rinnovato di simboli e di pensieri.

Da ciò che è emerso, e soprattutto dal cantiere degli studi si può sostenere che il tricolore italiano nasce nel milieu lato mistico, è profondamente massonico, è figlio di martiri fratelli massoni ed è sorto

anche nella fertile e generosa terra di Bologna. L’onore di Colombo non è tanto quello d’aver scoperto l’America, quanto quello di aver intrapreso il viaggio per scoprire l’America.

Le delusioni, per tante fasi negative della nostra storia, non devono far dimenticare i fermenti originari ed i doveri di tutti noi. Un paese come il nostro, disordinato, burocratico, dotato di uno scarso orgoglio nazionale, che non coltiva grandi ideali, se perde la sua tradizione, se perde la sua memoria, perde la sua identità, perde la sua moralità ed è ormai un paese da riedificare.

Carlo Calcaterra ebbe a scrivere: “Soltanto nel pensiero e dal pensiero può cominciare la riedificazione”. Quel che va fatto va fatto ora, perché vi è in gioco un accumulo di esperienze, di capacità, di memoria che non possono andare perdute per cui oggi dobbiamo riappropriarci del nostro paese e del nostro stato.

Il tricolore incarna perciò precisi significati e valori, ed i valori, al contrario dei bisogni, sono per definizione gratuiti.

Il compenso del valore risiede nel valore stesso. Noi siamo qui uniti al tricolore perché, da un lato costituisce il simbolo dei sentimenti e della cultura della nostra comunità, dall’altro richiama a sintesi i doveri di ciascuno di noi, fornendo una legittimazione ad una loro duratura garanzia. Il tricolore, restituito al suo significato più alto, è un simbolo

di pacificazione e di unità, capace di coagulare intenti nuovi e antichi eroismi.

Noi dobbiamo avere la fierezza di essere quello che siamo, mettendo in campo la sfida della modernità, a cui non si può non rispondere, perché ne va del nostro futuro, perché dobbiamo decidere cosa abbiamo nel sangue. La coccarda tricolore alla quale ci stiamo richiamando, la sua storia, gli uomini incomparabili che l’hanno illustrata nel tempo, la sua straordinaria tradizione, deve essere un punto di riferimento assoluto e la dobbiamo portare con onore sul petto. Anzi, come la stella di David per gli ebrei, sarebbe meglio portarne due: una per obbligo e una per orgoglio.

TRATTO DA “HIRAM”  1/2010

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