CROLLO CATRASTROFICO DELLA LINGUA ITALIANA

Crollo catastrofico nell’apprendimento della lingua italiana La situazione attuale nella scuola italiana in generale, e nella scuola elementare in particolare, è talmente grave e drammatica che ci sarebbe bisogno di una palingenesi di portata epocale. Il processo di massificazione e di annientamento dei valori culturali ha portato a una sorta di indifferenza/disprezzo per l’apprendimento della lingua italiana determinando un crollo catastrofico nella volontà e nella passione di comprendere e di utilizzare correttamente la lingua che unifica il nostro paese con la conseguente discriminazione di insegnare a pensare. In realtà il tema della sopravvivenza della lingua italiana, se non il suo perfezionamento, è un problema per tutta la comunità italiana. La prima elementare di Alberto Asor Rosa Alberto Asor Rosa ama ricordare che quando frequentava la prima elementare, nel 1939, nel pomeriggio scendeva nel cortile di un palazzone abitato da dipendenti delle ferrovie per giocare con i suoi coetanei: “di quei ragazzini nove su dieci erano predestinati a seguire infallibilmente le eroiche orme paterne. Si sapeva in partenza quello che sarebbe accaduto: la divisione sociale era già presente in quel cortile”. Del resto la licenza di quinta elementare poteva essere sufficiente per cominciare a intraprendere il percorso della propria vita lavorativa. Da quel tempo le cose sono enormemente cambiate anche all’interno delle scuole elementari, tant’è che la scuola si è predisposta per attenuare le divisioni sociali e le contrapposizioni. Malgrado il livello assai discutibile di alcuni maestri, malgrado “negli ultimi trent’anni la scuola italiana ha avuto i ministri e le ministre peggiori che si possano immaginare” (Asor Rosa), malgrado una sostanziale indifferenza al riguardo dell’opinione pubblica, il ruolo svolto da migliaia e migliaia di maestri elementari è stato ed è straordinariamente alto e deve essere sempre opportunamente valorizzato. I maestri elementari del Goi Nelle fila del Goi ci sono stati e ci sono tanti valenti insegnanti, ma attualmente è assai carente il grande patrimonio dei maestri delle scuole elementari, “maestri universali”, per usare un’espressione attribuita al maestro Pietro Musso. Ciò è dovuto anche al fatto che in questi decenni la stragrande maggioranza dei maestri è costituita da donne che il Goi non può accogliere e i maestri elementari fra i massoni sono una categoria quasi MAESTRI ELEMENTARI MASSONI di Giovanni Greco Alberto Asor Rosa. Foto Lapress estinta e questo è un grave limite che va adeguatamente valutato e a cui bisogna far fronte. Dalle documentate analisi di Ferdinando Cordova relative alla massoneria calabrese dal 1863 al 1950 si registra una matrice piccolo-medio borghese con una quota di maestri elementari di maggiore rilievo rispetto ai medici, agli avvocati, ai benestanti. E questi dati erano ampiamente generalizzabili per l’intero meridione – la loggia “Riscossa” di Gioia del Colle aveva tre maestri elementari, la loggia “Mongibello” di Giarre nove, la loggia “Guzzardi” di Adernò dieci, ecc. ecc. – fino a Roma dove per esempio la loggia “Goffredo Mameli” lavorava con sette maestri. Non sono perciò molto numerosi i maestri elementari massoni di oggi, ma non per questo meno valenti e preziosi come ad esempio Massimo Ciavaglia, M.V. della “Procacci” di Fano e altri cari appassionati fratelli, consapevoli della formidabile funzione civile della parola e della formazione al pensiero critico. I maestri di “Massonicamente” La rivista di storia del Goi ha perciò ritenuto di dedicare un numero speciale ai maestri elementari perché la loro sapienza, l’equilibrio, lo stile, la pazienza, la sensibilità, la passione per la costruzione di una educazione alla legalità, l’amore per i ragazzi, sono doti di cui avvertiamo costantemente il bisogno. Senza dimenticare il notevole livello di attenzione politico-sociale voluto da Michele Coppino, iniziato presso la loggia “Ausonia” di Torino, che si battè per una scuola elementare obbligatoria e gratuita. A fronte, soprattutto in passato, di titolazioni di logge a volte sinanco fantasiose e discutibili, ad alcuni di questi maestri, come l’abate molisano Francesco Longano, autore di un pregevole Purgatorio ragionato o Alberto Manzi di Pitigliano non sono state dedicate logge del Goi. E’ infatti assai opportuno tener dacconto la grande lezione di questi maestri elementari come Guglielmo Miliocchi di Perugia, su cui ha scritto Sergio Bellezza e come Alberto Manzi, già valutati in questa rivista, come Pietro Musso, iniziato nella loggia “Vita nuova” di Cuneo, su cui si è soffermato Edoardo Ripari, che donava il pranzo ai trovatelli e ai bimbi in condizioni disagiate e al termine di ogni anno scolastico organizzava una gran festa nel giardino di casa sua a Margarita. Francesco Longano e Antonio Jerocades, abati e massoni Desidero anche ricordare la bellissima figura di Francesco Longano (1728-1796), abate irrequieto e assai profondo, il cui nome compare a piè di lista nelle logge “La parfaite union”, “L’Harmonie” e la “Vittoria” nelle quali fu molto attivo negli anni sessanta e settanta. Ebbe un’esistenza travagliata per le sue continue denunce di soprusi e di vessazioni puntando il dito soprattutto sulla iniqua distribuzione delle ricchezze, sul lusso smodato di una parte del clero, subendo attacchi feroci dai

“preti messaioli e dai frati ignoranti” capaci solo di stendere “il velo nero della superstizione” per realizzare appieno la tutela dei propri interessi. Insegnò latino a Napoli e poi latino e filosofia a Cerreto Sannita in scuole private dove la sua maestria è stata ricordata da molti suoi allievi. Nel 1779 scrisse “Sull’esistenza del Purgatorio, limitato ai lumi della ragione”, opera ostacolata dagli ambienti ecclesiastici in ogni modo, ma alla fine l’opera ha trovato la sua strada perché nel 2014 Francesco Lepore ha curato il trattatello con una brillante introduzione nella Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae e il 29 ottobre di quell’anno il G.M. Stefano Bisi a Roma, a casa Nathan, ha ricordato le caratteristiche umane, culturali e massoniche di Longano. Francesco Longano era stato allievo prediletto di Antonio Genovesi, studioso e massone prestigiosissimo – ottimamente ricordato dalla omonima loggia salernitana – alla stessa stregua di Antonio Jerocades (1738- 1803), abate massone che nel 1759 aprì una scuola privata a Parghelia, suo paese natale presso Tropea nella Calabria Ulteriore, e che insegnò anche nel Collegio “Tuziano” di Sora prima di insegnare Filologia ed Economia e commercio presso l’Università di Napoli. Recluso nel carcere vescovile per eresia e sedizione, come è stato egregiamente scritto da Davide Monda nel saggio “Antonio Jerocades, massone militante, educatore e poeta” (2003), insegnò poi a Tropea e dopo a Napoli dove nel 1768 pubblicò il “Saggio sopra l’umano sapere ad uso de’ giovanetti di Paralia”, una delle opere pedagogiche più belle dell’età illuminista. Qui, in un volume di oltre trecento pagine, grazie alla stamperia Simoniana di Napoli, con licenza de’ Superiori, sottolineò l’intenzione dell’Autore di “istruire la gioventù a pensare rettamente”, cercando di rinvenire buoni documenti “per conseguire sì giusto fine”. Iniziato presso la loggia marsigliese S. Jean d’Ecosse, nel 1784 scriveva al suo M.V.: “Questa loggia è la mia madre, qui rinacqui alla luce” e nell’ambito latomistico rafforzò la sua opinione che l’Italia fosse fertile e povera producendo miserabili in abbondanza: “Il regno di Napoli è il paese dei preti. Ivi tutto è della Chiesa. E questa forse è la prima caggione della miseria”. Felice Iervoglini, Luigi Quartucci e Pietro Celestino Giannone A questi maestri vanno aggiunti coloro che poi sono diventati direttori didattici dopo aver svolto per anni la professione di insegnanti, come per esempio il beneventano Felice Iervoglini della loggia “Liberi e coscienti” di Lecce, podestà di Martano o coloro che dopo aver svolto l’insegnamento nelle elementari poi si sono laureati come Luigi Quartucci, sindaco di Cardeto della loggia “Giovanni Bovio” di Reggio Calabria o come molti esuli che hanno insegnato ai bambini per passione e per sbarcare il lunario, come per esempio Pietro Celestino Giannone di Camposanto. Inoltre si è avvertita l’esigenza di riflettere sul modo in cui il nostro Edmondo De Amicis della loggia “Concordia” di Montevideo, percepiva il ruolo delle scuole elementari oltre ad un immortale Pinocchio inventato da Collodi nelle nostre logge, allorquando si reca a scuola e quando è in classe con i suoi compagni. Per riflettere storicamente su queste problematiche e analizzare l’operato di questi maestri, ci si è affidati inoltre alle sapienti penne di alcuni studiosi di vaglia come Stefano Scioli, Gabriele Duma, Lorenzo Bellei Mussini. Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia Altri due preziosi contributi, uno del dottor Giovanni Casa, già coordinatore responsabile di “Informazione scozzese”, la rivista del Rito scozzese antico e accettato, dal 2011 al 2015 e che conobbe in quegli anni il periodo di maggior fulgore, su Gesualdo Bufalino, il quale ebbe a dire: “Un giorno la mafia verrà sconfitta da un esercito di maestri elementari”. Due magnifici siciliani, Gesualdo Bufalino e Giovanni Casa, che hanno saputo indicarci una via perché – come ribadisce un altro siciliano di razza, Andrea Camilleri – nei siciliani “c’è il sangue di tredici dominazioni. Credo che oggi, noi siciliani, abbiamo l’intelligenza e la ricchezza dei bastardi, la loro vivacità ed arguzia”. L’altro profilo è stato redatto dal prof. Marco Veglia dell’Università di Bologna su quell’incomparabile maestro elementare di Racalmuto e grande scrittore italiano, che è stato Leonardo Sciascia (“che era siciliano prima che la Sicilia fosse Sicilia”, I. Montanelli). Bellissimo il racconto che Sciascia fa del suo preside, il maestro Luigi Monaco: “ne ho un ricordo talmente vivo e profondo che sempre mi capita di confrontare a lui ogni persona severa e serena, veramente colta, veramente giusta, veramente ragionevole … quando lui è morto mi sono accorto che era la ragione per cui ero rimasto a Caltanissetta”. Quando l’università di Messina decise di conferire a Leonardo Sciascia una laurea honoris causa rifiutò, ribadendo l’importanza delle scuole “vascie”, basse, come le più formative per i ragazzi, commentò: “ma perché,

maestro già sugn!”. Come ricorda Veglia, Sciascia poco prima di morire, ribadì che mai in nessun momento della sua vita o nei suoi scritti aveva “fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio”. E’ questa, si può dire infine – conclude Marco Veglia – la lezione di un maestro. MANZI: EDUCARE A PENSARE Uno straordinario punto di riferimento è rappresentato da Alberto Manzi, figlio di Ettore e di una casalinga, Maria Mazzei. Una delle figure più originali e brillanti della pedagogia italiana, autore di oltre 120 titoli di libri, racconti e fiabe per ragazzi che gli valsero riconoscimenti in tutto il mondo. Alberto Manzi cominciò la sua attività di maestro, giovanissimo, nel 1946, presso l’Istituto di rieducazione Aristide Gabelli di Roma. Secondo Manzi “l’intelligenza si sviluppa pensando. Educare a pensare non significa imporre contenuti, non significa dire cosa si deve fare, ma significa porre un individuo in attività. Educare a pensare significa anche creare un’atmosfera intelligente dove crescere”. In realtà Manzi era profondamente kantiano nel ritenere che il maestro non doveva insegnare pensieri, ma insegnare a pensare. Soprattutto dopo l’esperienza della guerra aveva un’idea fissa, quella cioè di contribuire a cambiare tante antiche regole scolastiche, oramai per lui stantie e desuete, una scuola da rinnovare per sollecitare al meglio “lo sviluppo di tutte le capacità intellettive del bambino”. Provino Rai: “questo è quello buono, l’abbiamo trovato!” La sua attività culminò nella celebre trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi” nata da un’idea di Nazzareno Padellaro, pedagogista cattolico e responsabile di “Tempo di scuola” e direttore generale del Ministero della pubblica istruzione. Allora insegnava presso la scuola elementare Bandiera di Roma, e quando fece il provino per la nuova trasmissione televisiva, volle improvvisare la lezione a modo suo, convinto com’era che tanto non aveva nulla da perdere e che sarebbe entrato in Rai il solito raccomandato. Chiese ed ottenne che gli comprassero dei cartoncini, dei pennarelli e dei fogli di carta molto grandi. Sino al momento in cui una voce dall’oltretomba disse: ”questo è quello buono per noi, mandate a casa gli altri, l’abbiamo trovato”. L’obiettivo era quello di fare del pubblico la propria classe, disegnando e scrivendo su fogli mentre spiegava: riuscì in una impresa quasi impossibile, entrare nel cuore, nella mente di tanta gente, guardando negli occhi una vastissima classe di invisibili. Alla fine dei vari cicli saranno quasi un milione e mezzo gli italiani che grazie a lui, attraverso la sua trasmissione, conseguiranno la licenza elementare. Più che insegnare a leggere e a scrivere, invogliava gli allievi a farlo perché “occupare una posizione di comando è una opportunità per essere utili, non uno squillo di tromba per la propria presunzione”. Fu un successo strepitoso. Vi voglio bene, Popolizio Antonio Ebbe un’infinità di riconoscimenti, ma quelli a cui tenne di più, provenivano “dalla gente semplice, da coloro a cui dò una mano perché siano padroni del loro pensiero”: “mio fratello – scriveva una signora – ha 35 anni, ha tentato il suicidio diverse volte. Sono 30 anni che è inchiodato sulla carrozzella. Niente scuola, niente di niente. Ma da quando lei ha cominciato a parlare, da quando lo vede in tv, è cambiato. Ora legge, sta tentando di scrivere. Che dice, ce la farà?”. Ce la fece, imparò a leggere e scrivere, ebbe nuovi stimoli per la sua vita e quando prese la maturità scientifica Alberto Manzi, venutone a conoscenza, come mi raccontò nel 1993, andò ad abbracciarlo. Su un foglietto con una calligrafia titubante, Marzia diceva: “Caro maestro ti volio bene e ti lego sempre”, mentre la signora Margherita Popolizio gli voleva far sapere che, per merito suo, il piccolo figliolo che non poteva camminare e usare le manine, vedendolo e ascoltandolo, aveva cominciato a scrivere, tenendo in bocca la penna. La signora, madre di otto figli, parlava del piccolo Antonio che “in compenso è intelligentissimo. E il maestro sapete chi è stato? Siete stato voi, il vostro volto, la vostra voce gli hanno insegnato la cosa più bella, scrivere e leggere. Segue ciò che voi insegnate, pende dalle vostre labbra e non dimentica nulla di quanto voi dite. E’ un vostro alunno devoto che vi rimarrà grato per tutta la vita”. Il bimbo poi aggiunse: “Vi voglio bene, firmato Popolizio Antonio”. Fa quel che può, quel che non può non fa Sempre in lotta con la burocrazia, fu persino denunciato perché non voleva compilare le schede di valutazione, con particolare riferimento ai casi negativi, perciò venne sospeso per alcuni mesi con

ripercussioni sullo stipendio. Amava mettere un timbro su quelle schede dove era scritto: FA QUEL CHE PUO’, QUEL CHE NON PUO’ NON FA. Il motivo derivava dal fatto che non intendeva bollare un allievo carente con un giudizio che poteva rimanere lì nel tempo. Le persone cambiano, si evolvono, sono in continuo movimento e non è giusto etichettare così i casi più difficili. Alberto Manzi, maestro nella vita e nella loggia A Pitigliano, dove fu sindaco – sin quando le cattive condizioni di salute non lo avevano costretto alle dimissioni, e dove venne commemorato a 73 anni nella chiesa di S. Maria Assunta – alcuni ambienti affermano che Manzi appartenne al Goi, così come un anziano massone dell’Oriente di Viterbo ha sostenuto, de oculi, la sua appartenenza latomistica. Del resto la loggia “Giordano Bruno” all’Oriente di Ferrara ha dedicato ad Alberto Manzi una bella tavola intitolata: “Alberto Manzi, maestro nella vita e in loggia”. Non casualmente Manzi non dimenticò mai di lavorare e di riflettere sulle opere di massoni scrittori per ragazzi da Collodi a De Amicis, senza dimenticare taluni massoni a lui cari via via incrociati nel suo percorso. Ciò che veramente gli interessava era sviluppare più che si poteva il senso critico delle nuove generazioni e dimostrare che la vita è fatta per essere usata, e usata bene, non per essere un inutile suppellettile sul comò del niente. Manzi 1950: “La scuola di oggi è la rovina del prossimo futuro” E’ stato il primo incomparabile mito della televisione educativa, strada poi seguita da un altro uomo della sua stessa razza, Piero Angela – il cui papà Carlo è stato uno dei personaggi più prestigiosi del Goi – tutte e tre persone capaci di stupirsi con l’amabilità dei bimbi: “chi perde la capacità di stupirsi è un uomo interiormente morto. Chi considera tutto un dejà vu e non riesce a stupirsi di niente ha perso la cosa più preziosa, l’amore per la vita” (R. Kapuscinski). Quando nel 1950 scriveva ai vertici ministeriali sferzanti considerazioni (“pensierini cattivi avvelenati dalla bile di un fegato marcio”), sosteneva che “la scuola di oggi è la rovina del prossimo futuro. Il male è alle radici, è nel tronco, è nei rami, dovunque. Maestri impreparati e che non vogliono prepararsi sono dilagati nella scuola travolgendo i pochi onesti”. Parole brucianti, attuali ogni giorno di più.

Caro Alberto, eri destinato a diventare un maestro Alberto Manzi è una figura esemplare, per il profondo senso critico, per l’ironia, per la problematica del dubbio, per il rigore e l’onestà intellettuale, per il sorriso ammaliante, per la sua capacità di stupirsi anche a settant’anni, per la sua tensione ad un miglioramento continuo, perché era eternamente curioso, perché era un sognatore e un idealista che voleva solcare mari sempre più vasti, per lo straordinario solidarismo internazionale, eternamente alla ricerca dell’essenza più intima della sua persona e di quella degli altri. I suoi tratti sono stati magistralmente dipinti in copertina dal caro amico della loggia Galvani di Bologna, l’artista Roberto Giusti anch’egli di Pitigliano: un omaggio delicato e profondo da un figlio della terra di Pitigliano ad un altro. Grazie, caro Alberto, per esserti cimentato ogni giorno della tua esistenza alla realizzazione del miracolo di dare forma d’arte e di nobiltà all’insegnamento e alla vita. Grazie per averci fatto capire che noi siamo una istituzione che non si può permettere di vedere le cose quando vengono portate a riva dalla risacca e perciò dobbiamo puntare quasi tutto nella costruzione del nostro futuro altrimenti potremmo rischiare di trovare solo le ragioni dell’essere, nell’essere stati. Eri destinato sin da ragazzo alla sensibilità, eri destinato a diventare un maestro, eri destinato a diventare uno scrittore, eri destinato a diventare Alberto Manzi. Fraterno amico, continua là dove sei a raccontare le tue storie che noi qui continueremo a raccontare di te!

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