I DIRITTI UMANI NELLA STORIA

I DIRITTI UMANI NELLA STORIA

a cura di SOLIDEA

Nella Dichiarazione dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948 per la prima volta nella storia un’assemblea di Stati si impegna formalmente a tutelare e promuovere i diritti fondamentali della persona.

Ma quella del 1948 non è la prima Dichiarazione che viene proposta come modello filosofico e giuridico per a definizione dei diritti umani.

In effetti parlare di diritti umani significa riferirsi ad ambiti legislativi che fissano diritti e doveri per una comunità e in questo senso si può dire che i diritti dell’uomo incominciano ad essere affermati e riconosciuti da quando le comunità si sono date delle leggi.

Quindi la storia dei diritti umani si presenta come una “opera in divenire” a cui hanno contribuito differenti aree di pensiero (dallo Stoicismo al Cristianesimo, all’Illuminismo e al Marxismo, per citarne alcune) e che è giunta alla sua forma attuale tramite lotte tra parti sociali e in maniera non lineare.

Qui tracceremo un percorso di questa storia riferendoci all’area europea e nordamericana, perché al suo interno sono rintracciabili la nascita e la trasformazione dei diritti che hanno portato fino alla Dichiarazione del ’48.

Le Democrazie Ateniese e Romana

L’idea che comunemente si ha della vita sociale ateniese è legata all’immagine dell’agorà, in cui gli abitanti di Atene si confrontano e prendono decisioni: un prototipo di società aperta e di democrazia.

In realtà il cittadino ateniese, colui che partecipa alla vita politica, è il maschio-adulto-libero.

Donne, bambini, schiavi e coloro che non abitano nella polis non hanno diritto di partecipare alle decisioni che regolano la vita comunitaria.

Ma, a questo proposito, già nell’Atene di Pericle e dei sofisti (V secolo a.C.) emerge una conflittualità tra legge e natura, tra le regole dell’uomo e l’ordine naturale.

Nella coscienza degli Ateniesi si fa strada l’idea che gli schiavi sono tali non per condizioni naturali ma per stato sociale.

La tragedia greca comunica questa riflessione quando dichiara che la condizione sociale alla nascita è determinata dal fato e quindi implicitamente afferma una parità originaria tra gli uomini.

Lo Stoicismo rafforza questa modalità di pensiero nel momento in cui la crisi della polis e la decadenza dell’egemonia greca portano il cittadino ad una diminuzione del suo potere decisionale, così l’organicità della polis viene traslata alla concezione di una “città universale” nella quale tutti gli uomini sono uguali in quanto partecipi della stessa natura, anche se questo non garantisce loro un ordinamento democratico.

Stoicismo : scuola filosofica ellenistica fondata nel 300 a.C., si protrae fino al III secolo d.C. dopo essersi insediata nella cultura romana.

La dottrina stoica è costituita da un insieme di discipline che le hanno permesso di rispondere alle esigenze di sintesi culturale, sociale e religiosa della società greca e romana.

L’etica stoica esalta il dovere e il sacrificio, predica la moderazione e una vita secondo natura e ha una sensibilità giuridica cosmopolita (l’uomo è cittadino del mondo ed è libero) unita all’impegno politico e sociale.

A Roma la titolarità di tutti i diritti e doveri è prerogativa di un ambito sociale forse più ristretto che ad Atene: essa appartiene al libero cittadino maschio che sia anche pater familias. Tuttavia attraverso gli Stoici e gli Epicurei, e in seguito con il Cristianesimo, si diffonde nelle classi colte l’idea dell’uguaglianza morale originaria e si giunge all’elaborazione del concetto di humanitas: anche gli schiavi compiono azioni responsabili che li rendono moralmente simili ai cittadini liberi.

Neanche il Cristianesimo contesta l’istituto della schiavitù, ma la valorizzazione della persona, derivata dalla diffusione dell’idea di pari dignità tra gli uomini, incomincia a introdurre un conflitto tra ordinamento naturale e ordinamento giuridico, cioè tra condizione naturale e regolamentazione sociale. E’ comunque rilevante che già in Cicerone, in epoca precristiana, sia presente una concezione universale di alcuni diritti che prescindono dall’appartenenza a gruppi sociali specifici e privilegiati (ad es.: officia adversus hostes, cioè l’insieme dei doveri che il diritto romano prevedeva nei confronti dei nemici e dei belligeranti in genere; ius gentium, riconoscimento delle legislazioni dei diversi stati; lex Iulia maiestatis, criminalizzazione dell’uccisione di ostaggi).

Il Medioevo

Nel momento in cui il Cristianesimo si afferma come religione dell’Impero esso porta con sé l’idea che di fronte a Dio gli uomini sono tutti uguali. A questo punto il potere politico, che invece si basa su gerarchie e disuguaglianze sociali, nel confronto con la Chiesa rischia di essere messo in discussione.

L’autorità politica allora si investe di valore morale proponendosi come strumento della Provvidenza, al quale si deve quindi obbedienza per motivi etici e religiosi.

Chiesa e Impero, sacerdotium e regnum, derivando entrambi da Dio si legittimano reciprocamente e chiedono all’individuo assoluta obbedienza.

Così mentre il giurista romano definiva diritti e doveri in un ambito separato dalla religione e dalla morale, nell’alto Medioevo ciò che è dichiarato giuridicamente lo è anche moralmente.

La deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre, nel 476, segna convenzionalmente la nascita del Medioevo ma, a questa data, è già in via di definizione l’organizzazione feudale, caratterizzata dalla servitù della gleba e dalla decadenza della vita cittadina.

La società medievale si divide in una serie di ordini e soggetti con diritti e doveri molto differenziati: si è uguali davanti a Dio ma disuguali davanti alla legge.

Il re è a capo di uno stato teocratico nel quale il potere è “contrattato” con una gerarchia feudale di nobili. Il vassallo ha diritto alla vita, all’onore, alla libertà personale e, in caso di bisogno, al soccorso da parte del re. Se il re non rispetta questi diritti il vassallo può legittimamente ribellarsi.

Nella società feudale, quindi, il potere deriva dall’alto, cioè per grazia divina, ma anche dal basso, cioè dal consenso dei nobili guerrieri.

Questa forma primigenia di contrattualismo, che si attua con forme pattizie locali e private, ha dato luogo a più estese garanzie di diritti civili.

Ricordiamo che la “Magna Charta Libertatum”, documento che Giovanni Senza Terra sottoscrive nel 1215, riconosce ai Lords garanzie concernenti il possesso dei beni, la libertà personale e il diritto di essere giudicato dai propri pari.

La Magna Charta tutela anche i diritti dei mercanti e in generale dei liberi homines, ne sono esclusi gli abitanti del contado i quali soprattutto nella prima fase del feudalesimo sono del tutto privi di diritti politici.

Il tardo Medioevo recupererà il diritto romano, considerandolo un modello da imitare perché affonda le sue radici in un diritto naturale universale.

Questa concezione del diritto va sotto il nome di giusnaturalismo, corrente di pensiero che sostiene che esistano diritti naturali che precedono ogni ordinamento positivo, che è invece costituito dall’insieme delle norme che regolano le dinamiche relazionali tra gli individui che compongono una comunità.

Comunque si articoli e vari il pensiero giusnaturalista nel corso della Storia, nel Medioevo esso ha l’effetto di costituire un limite del potere politico, il quale doveva tenere conto di diritti considerati oggettivi e innati.

Giusnaturalismo : con la laicizzazione dell’idea di Stato, cioè svincolandolo da un fondamento religioso, Ugo Grozio (1583-1645), filosofo e giurista olandese, dà forma compiuta al concetto di giusnaturalismo.

Secondo il pensiero giusnaturalista l’attività del legislatore è condizionata da alcuni principi universali, rintracciabili in un ipotetico stato di natura, che costituiscono diritti incoercibili e immediatamente riconoscibili dalla ragione: diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà.

Per garantirsi questi diritti gli esseri umani stabiliscono dei patti mediante i quali rinunciano alla vita allo stato naturale, accettando le limitazioni che consentono la convivenza civile.

Verso la fine del Medioevo si assiste ad una modificazione del concetto di libertà al quale contribuisce l’opera di Tommaso D’Aquino.

Riprendendo le tesi del giusnaturalismo Tommaso D’Aquino definisce legge naturale la “partecipazione della legge eterna nella creatura razionale”, ma mentre sostiene che l’origine del potere legislativo deriva da Dio ai governanti, dichiara che ciò avviene comunque attraverso il consenso del popolo e quindi afferma la distinzione fra potere civile e potere religioso.

La lex naturalis di Tommaso implica che si distingua il bene dal male, che si faccia il bene, si eviti il male, non si nuoccia a coloro fra i quali si deve vivere, si tenda ad una vita in cui si realizzi la natura razionale dell’uomo, cioè la vita in società.

Gli Stati Nazionali

Il Rinascimento segna l’ascesa economica e politica dei ceti borghesi. Si afferma una concezione individualistica e razionalistica dell’uomo. La cultura umanistica, attraverso una rilettura dei classici greci e romani, ripropone i bisogni dell’uomo e la forza della sua ragione al centro della riflessione filosofica, determinando la tendenza verso un ordine sociale che rispetti la dignità dell’individuo.

Razionalismo : con questo termine si intende ogni teoria che pone come fondamento della realtà un principio intelleggibile (il vero, il bene, la necessità causale, ecc.).

In senso più stretto viene storicamente riconosciuta come razionalismo una corrente di pensiero che si è sviluppata in Europa nel Seicento.

Essa sostiene che è possibile conoscere la realtà attraverso un procedimento matematico-dimostrativo, applicabile anche ad analisi di tipo economico-sociali.

La lotta tra il papato e l’Impero asburgico ha incrinato definitivamente il principio divino del potere monarchico e gli stati nazionali, costituiti nel Rinascimento, appaiono come opera dell’uomo svincolata dai dettami ideologici e quindi economici, politici e culturali dell’autorità ecclesiastica.

La richiesta di autonomia morale e libertà di coscienza scatena violente lotte di religione, di cui orrendo simbolo fu l’azione repressiva dell’Inquisizione.

E’ questo uno dei periodi storici in cui è possibile constatare che la conquista di libertà e diritti non è un processo lineare: mentre va in crisi il principio di autorità e incomincia ad affermarsi quello di tolleranza si assiste a fenomeni sociali come quello della persecuzione religiosa, al tentativo di riaffermazioni dell’unità di diritto e morale (Lutero e Calvino) e al ritorno prepotente della schiavitù.

La conquista delle Americhe introduce in Europa la convinzione di trovarsi di fronte a popoli inferiori e passibili di acculturazione, e la successiva tratta dei neri fu una pratica razzista i cui effetti nefasti si sono estesi fino all’epoca contemporanea.

La nuova società borghese ha bisogno di tutelare la fonte e il frutto della propria ricchezza: il commercio e la proprietà privata. Essa ha perciò bisogno di limitare le prerogative del monarca e di sviluppare i diritti dei sudditi. Il potere sempre più forte della borghesia, mentre introduce una estensione dei diritti politici, lascia evidente la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse del potere economico. Tuttavia, tra il XVII e il XVIII secolo inizia ad aprirsi in Europa lo spazio per l’affermazione concreta della sovranità popolare e dei diritti umani.

Con la “Petition of Rights” del 1628 si chiede al re Carlo I di non costringere i suoi sudditi “a nessuna tassa, imposta, contributo o altro onere simile, senza il comune consenso dato in parlamento”.

Il contrasto tra il re e l’aristocrazia feudale da una parte e il parlamento, che rappresenta la borghesia capitalistica, dall’altra si risolve in una guerra civile che dura quattro anni (1642-1646) e che vede la vittoria delle forze parlamentari guidate da Oliver Cromwell.

I vincitori mostrano comunque profonde divisioni politiche e sociali; dopo un ulteriore scontro con il re, Cromwell si propone di portare a compimento la rivoluzione borghese stabilendo l’uguaglianza di tutte le persone davanti alla legge, la garanzia dei diritti fondamentali della persona tra i quali quello di non subire condanne se non per sentenza di un giudice dopo un processo, quello della libertà di culto e l’attribuzione al parlamento dell’intero potere legislativo.

Tra le fila dell’esercito di Cromwell si profila però un nuovo orientamento politico sostenuto dal partito dei Livellatori; costoro, oltre ai provvedimenti richiesti da Cromwell, avanzano istanze come l’abolizione dei dazi, l’istituzione di un’imposta unica sul reddito complessivo delle persone, la piena libertà di commercio, l’abolizione dei canoni d’affitto terrieri e l’istituzione di un catasto. Ma soprattutto vogliono l’abolizione della monarchia e l’instaurazione di una repubblica parlamentare a suffragio universale.

I Livellatori propongono il Patto del popolo, un programma che è oggetto di discussione nei dibattiti di Putney, in cui si verifica uno scontro politico su tematiche tra le più avanzate della storia moderna.

Nel 1679 l'”Habeas corpus Act” proclama il diritto di non essere arrestati arbitrariamente. E nel 1688 la monarchia inglese accetta un documento, il “Bill of Rights”, nel quale si dichiara che l’attività legislativa spetta congiuntamente al re e al parlamento, e viene garantita la libertà religiosa, di parola e di stampa.

Con il Bill of Rights, che costituisce un accordo tra nobiltà terriera e borghesia, e con “Due trattati sul governo”, un’opera di John Locke, viene sancito sotto l’aspetto costituzionale e filosofico un sistema sociale che va sotto il nome di Liberalismo. 

Liberalismo : indica una generalizzazione della Libertà. Nasce come corrente filosofica e politica quando John Locke nella seconda metà del 1600 sposta la discussione sulla libertà – storicamente molto vivace ma anche molto astratta – nel campo della concretezza, e afferma che la libertà può essere considerata solo nelle cose che l’uomo può “fare” e non in quelle che può “volere”. La libertà di fare è un diritto inerente l’individuo; è un diritto primitivo, essenziale e inalienabile, i cui limiti sono quelli posti dalla legge della natura intesa semplicemente come legge della ragione, per la quale il diritto alla libertà di uno finisce dove inizia quello dell’altro.

Principi cardine del liberalismo sono il diritto alla vita, alla libertà, agli averi, dove il diritto alla vita conferisce all’uomo il diritto di procurarsi tutto ciò che serve alla sua vita, di modificare la natura con il suo lavoro, di appropriarsi di tutti i risultati del lavoro stesso. In quanto esaltazione dei diritti dell’individuo, il liberalismo si oppone al potere sia quando viene esercitato dal monarca, sia quando è affidato al popolo, respinge quindi sia l’involuzione reazionaria che l’eccesso rivoluzionario.  Hobbes aveva sostenuto, nel “Leviatano”, che i rapporti umani consistono in una guerra di tutti contro tutti che l’individuo sostiene per garantirsi quelli che Hobbes riconosce come diritti naturali: la sicurezza e la difesa della proprietà. Per ottenere la pace sociale, che permette lo svolgimento delle attività civili, gli individui si sottomettono al potere assoluto dello Stato, al quale demandano il totale controllo sociale.

Locke invece conferisce connotazione positiva a quei diritti e li considera come aspetti essenziali del vivere civile, che lo Stato deve proteggere. Per evitare derive dispotiche da parte dello Stato nell’esercizio dei poteri, Locke ne teorizza la divisione: il parlamento esercita il potere legislativo e il governo il potere esecutivo.

La Guerra d’Indipendenza Americana e la Rivoluzione Francese

Nei primi decenni del ‘700 il fermento sociale e culturale si sposta dall’Inghilterra in Francia, a Parigi. Un movimento di intellettuali, consapevoli del ruolo storico che stanno svolgendo, innesca un processo di trasformazione culturale basata sulla critica radicale della chiesa cattolica, dei regimi politici tirannici, dell’intolleranza, dei privilegi fiscali.

Nel 1748 Montesquieu pubblica “Lo spirito delle leggi”, in cui riprende le tesi di Locke sulla divisione dei poteri ma dichiara che il governo repubblicano non è adatto alla Francia.

I “filosofi” – così si facevano chiamare gli intellettuali del movimento francese – per affermare i “lumi della ragione” si convincono che si debba agire attraverso l’istruzione popolare e la graduale sensibilizzazione delle fasce sociali che detengono il potere.

Il fallimento di tale strategia radicalizza la loro posizione politica fino a sfociare anche nell’utopia: nel 1755 viene stampato “Il codice della natura” di Morelly, un progetto compiuto di società comunista.

Dal canto loro le monarchie, in parte suggestionate dagli Illuministi, per favorire il progresso economico e quindi l’aumento del prelievo fiscale per finanziare esercito e burocrazia, intraprendono un’azione riformista che comprende l’istituzione dei catasti, una maggiore libertà religiosa e di stampa, l’inizio dell’abolizione delle prestazioni feudali, la mitigazione delle pene.

Nel 1764 Cesare Beccaria pubblica “Dei delitti e delle pene”, nel quale viene proposta l’abolizione della tortura e, per la prima volta nella storia, l’abolizione della pena di morte.

Nel 1762 viene pubblicato “Il contratto sociale” di Jean Jacques Rousseau, che rappresenta il pensiero di riferimento per la parte più democratica del movimento illuminista. Rousseau sostiene che non esiste reale uguaglianza tra gli uomini se è presente una forte sperequazione della ricchezza, la cui equa distribuzione invece è una condizione basilare per “trovare una forma di associazione che difenda e tuteli con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca in definitiva che a se stesso, e resti libero come prima”. Vengono così introdotti i concetti rousseauiani di sovranità e di volontà generale, secondo i quali lo Stato si forma attraverso un contratto tra pari che rinunciano ad una libertà incondizionata per sottomettersi alla decisione di tutti i membri della comunità. L’influenza di Rousseau è chiaramente rintracciabile negli articoli 3 e 6 della Dichiarazione dell”89.

In America il conflitto di interessi tra le colonie e l’Inghilterra, sfocia nel Congresso panamericano di Filadelfia, nel settembre del 1774, cui seguiranno le convenzioni, assemblee rappresentative elette a suffragio universale che hanno potere decisionale in quanto patti tra coloni.

I rappresentanti delle Convenzioni sottoscrivono, il 4 luglio 1776, la Dichiarazione di indipendenza, collegata ad una dichiarazione dei diritti dell’uomo, nella quale – sul modello della Dichiarazione della Virginia del 1775 – si sostiene il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità; il governo deriva i propri poteri dal consenso del popolo e quest’ultimo ha il diritto di destituirlo quando esso non garantisca “la sua sicurezza e felicità”.

Va sottolineato che l’idea di “felicità”, come viene considerata nelle Dichiarazioni americane e come sarà riaffermata nella Costituzione francese del 1793, va intesa ancora come diritto-libertà, cioè come una non ingerenza da parte dello Stato nella vita del cittadino, e non come un diritto-rivendicazione che lo Stato deve garantire.

La Dichiarazione d’indipendenza, influenzata dal dibattito culturale illuminista, “si basa sulla legge naturale istituita da Dio,he ha dotato gli uomini di “diritti inalienabili” la cui protezione costituisce il fine dei governi” (Philippe Raynaud).

La Costituzione del 1787 non sarà completamente conseguente alle  intenzioni delle precedenti Dichiarazioni; saranno necessari successivi emendamenti per ampliare le libertà politiche e civili necessarie alla gestione di un laboratorio sociale come quello dei neonati Stati Uniti.

La guerra per l’indipendenza dei coloni americani, provocata dal rifiuto di imposizioni fiscali da parte del governo inglese, costituisce un volano per la Rivoluzione francese dell”89.

Il sostegno della Francia alla guerra ha fatto aumentare il debito pubblico e ha contributo a determinare un punto di crisi che rende necessaria una trasformazione profonda dell’organizzazione sociale ed economica del paese.

Vengono convocati gli Stati generali ma un’accelerazione delle esigenze di rinnovamento porta alla presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789.

La notte tra il 4 e il 5 agosto l’Assemblea nazionale “abolisce interamente il regime feudale”.

Il 26 agosto viene approvata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui, oltre alle istanze politiche e sociali che si sono venute formando, confluiscono le elaborazioni teoriche di Locke, Montesquieu e Rousseau.

Nella Dichiarazione si riscontrano infatti la separazione dei poteri, i diritti naturali dell’individuo (libertà personale, libertà di espressione e di culto, libertà di stampa, diritto di proprietà), l’uguaglianza di fronte alla legge, l’idea della sovranità nazionale e la definizione della legge come espressione della volontà generale.

La Costituzione del 1791 non arriva a stabilire il suffragio universale e pone tre livelli di partecipazione alla gestione pubblica, determinati in base alla ricchezza individuale.

Si riscontra così un compromesso tra il principio liberale e quello democratico, ancora più evidente nella Dichiarazione che precede la Costituzione del 1793. La contraddizione più evidente sta nel fatto che la dichiarazione di uguaglianza fra tutti gli individui è di fatto vanificata dalla difesa della proprietà privata, e quindi della condizione di privilegio nella quale si trovano i grandi proprietari terrieri e gli imprenditori. Ma troviamo anche affermazioni come nell’articolo 21 in cui si enuncia che “la società ha il dovere di provvedere alla sussistenza dei cittadini miserevoli sia col procurare loro del lavoro, sia con l’assicurare i mezzi di esistenza a quelli che non sono in grado di lavorare”.

Lo Stato liberale

La Restaurazione riporta in Francia un pensiero che sostiene l’intangibilità delle libertà civili e politiche e quindi dell’autonomia dell’individuo svincolato dal potere della collettività. Frutto dell’affermazione del capitalismo, questo modello di pensiero politico è fautore di una monarchia pienamente costituzionale il cui potere legislativo è esercitato dalla rappresentanza di una parte della popolazione, scelta per censo e cultura. Questa posizione teorico-politica, di cui Benjamin Constant è il principale riferimento, diviene il sostegno ideologico del liberalismo, che si afferma in Francia e in tutta Europa.

Malgrado la tendenza restauratrice seguita al periodo napoleonico, le conquiste della borghesia non possono essere ignorate.

I borghesi, che sono artigiani, commercianti e imprenditori industriali, a differenza dei grandi proprietari terrieri, non hanno diritto di voto come i salariati agricoli e industriali. Questi ultimi subiscono lo sfruttamento selvaggio imposto dall’organizzazione sociale capitalistica, che nei primi decenni dell”800 conosce le sue prime gravi crisi.

Nascono allora movimenti politici che da un lato rappresentano i salariati, dall’altro gli imprenditori.

In Inghilterra il movimento cartista, che si ispira al pensiero socialista di Owen, redige una Carta del popolo i cui obiettivi sono: suffragio universale maschile, segretezza del voto, uguaglianza completa delle circoscrizioni elettorali, durata annuale delle legislature, nessun requisito censitorio di eleggibilità, stipendio ai deputati.

Dal canto loro gli imprenditori chiedono di attuare un liberismo economico che prevede l’abolizione completa dei dazi doganali e la completa assenza di interventi statali nell’azione delle forze economiche e nell’iniziativa individuale.

Questa situazione conflittuale che è presente in tutta Europa, porterà alla crisi del 1848.

Le esperienze rivoluzionarie del 1830 e del ’32 in Inghilterra e del ’48 in Francia rappresentano una sconfitta per il proletariato. La media borghesia e gli imprenditori invece ottengono il diritto di voto e le riforme che consentono loro di rilanciare l’espansione capitalista. Il proletariato viene così abbandonato e le sue lotte sono facilmente represse sia per mancanza di supporti organizzativi sia perché alcuni miglioramenti retributivi, nonostante conservino un pesante sfruttamento, smorzano lo spirito di rivolta.

In questo clima sociale si inserisce la riflessione di Alexis de Tocqueville, il quale vede lo Stato come un possibile “grande e unico organizzatore del lavoro” in grado di moderare il potere esercitato sui lavoratori da parte delle aristocrazie economiche del sistema industriale capitalistico: una tendenza dell’organizzazione sociale definita come liberaldemocrazia.

“Il suffragio viene progressivamente allargato fino a diventare in parecchi casi universale o quasi, ma le tecniche costituzionali restano le stesse, uguali il concetto di rappresentanza politica, identica la divisione dei poteri e analoghi in genere i freni di fronte ad ogni pericolo di un reale manifestarsi della volontà popolare…anche là dove strumenti democratici furono accolti, essi però furono inseriti in una struttura e in una concezione dello Stato, del potere, della libertà, dei cittadini, che tendeva a perpetuare lo stato liberale…Lo Stato liberale conosceva solo dei cittadini, lo Stato democratico avrebbe dovuto conoscere invece l’uomo reale, con le sue differenti situazioni sociali e i suoi differenti bisogni, onde prestare la necessaria protezione alle classi e agli individui più bisognosi.” (Lelio Basso).

In Francia la rivolta del febbraio del 1848 e la successiva nuova Costituzione introducono sia importanti istituti sociali come gli ateliers nationaux – destinati a dare lavoro ai disoccupati sotto la gestione diretta dello Stato – sia diritti come il suffragio universale, anche se solo maschile.

Viene inoltre decretata l’abolizione della pena di morte, la soppressione delle imposte indirette, la limitazione della giornata lavorativa a 10 ore e il diritto al riposo festivo, l’abolizione della schiavitù nelle colonie, l’abolizione del carcere per debiti.

Tra i diritti affermati nell”89 e i diritti del 1848 si ha un passaggio da diritti-libertà – o diritti formali – e diritti-rivendicazione – o diritti sostanziali, quindi l’accento si sposta dai diritti naturali alla riflessione sul ruolo dello Stato.

Nel 1848 viene pubblicato Il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels, che interpreta la storia umana come risultato di lotte di classe e teorizza la trasformazione sociale verso il comunismo.

Con il richiamo al Rousseau dell’uguaglianza economica e sociale, l’opera di Marx si pone contro il garantismo liberaldemocratico che conserva squilibri sociali a favore del ceto borghese e contro la concezione giusnaturalistica che tende a individuare come innate alcune condizioni sociali degli esseri umani. Marx cala l’essere umano completamente nella società e nella Storia e lo considera determinato dai rapporti di produzione.

Il suo ideale di società, in cui l’essere umano è libero dal bisogno e dallo sfruttamento, sarà una base teorica di riferimento per le istanze e le lotte delle classi subalterne.

Verso la tutela internazionale dei diritti umani

La teoria marxiana costituirà elementi di principio sia nel percorso che porterà alla Rivoluzione d’Ottobre sia nella stesura della Costituzione russa del 1918. Essa ha come soggetto sociale di riferimento la classe proletaria, esalta i diritti economico-sociali e – aspetto peculiare delle Costituzioni russe enuncia mezzi e garanzie per ottenerli. La Costituzione conferma l’internazionalismo proletario del movimento rivoluzionario quando sostiene il diritto dei popoli all’autodeterminazione.

In Germania, alla fine della guerra e dopo la violenta repressione del partito comunista, la Repubblica di Weimar promulga la nuova Costituzione, che si presenta come il punto d’incontro tra socialdemocratici, democratici e cristiano-sociali.

La Costituzione di Weimar innesta nella tradizione liberale le sopravvenute istanze socialiste, per cui, mentre vengono garantite le classiche libertà liberali (libertà di espressione e di culto, difesa della proprietà e della sicurezza, libertà economica), viene tutelato “un minimo comune di diritti sociali” per la popolazione.

Nel ‘900 molte Costituzioni pongono particolari attenzioni ai diritti sociali, denunciando chiaramente l’esigenza del parallelismo tra democrazia “politica” e democrazia “sociale”.

La prima presenza rilevante della tutela dei diritti delle classi subalterne si ha nella Costituzione degli Stati Uniti Messicani del 1917: vengono proclamati con riferimento ai lavoratori il diritto alla libertà personale e i diritti politici, che non possono essere intaccati o limitati dal contratto di lavoro, il diritto alla libertà sindacale e di sciopero, il diritto alla soppressione di tutti i monopoli, il diritto a giusti salari e a soddisfacenti condizioni di lavoro, il diritto alla tutela e al mantenimento delle Casse di assicurazione, e più in generale il diritto della Nazione di imporre alla proprietà privata limitazioni e comportamenti dettati dal generale interesse della Nazione stessa.

Nel 1919, per impulso del presidente americano Wilson, viene creata la Società delle Nazioni, organismo deputato a regolare pacificamente le vertenze tra gli Stati e a punire gli atti di aggressione: anche in occidente incomincia ad affermarsi il concetto di autodeterminazione dei popoli.

Il trattato di Versailles del 1919 mette fine alla prima guerra mondiale e istituisce l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), affidandole il compito di tutelare i lavoratori all’interno dei singoli Stati.

Il 7 gennaio 1941, di fronte alla catastrofe sociale ed economica della seconda guerra mondiale, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt pronuncia il cosiddetto “Discorso delle quattro libertà”: accanto alla libertà di parola e di espressione e alla libertà di culto, vengono enunciate la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura. Questa dichiarazione d’intenti implica la richiesta agli Stati di intervenire a favore del benessere degli individui, impegno che viene riconosciuto – mentre si è in piena guerra – nel documento della Carta Atlantica.

La Carta afferma inoltre il principio dell’autodeterminazione dei popoli, la condanna delle conquiste territoriali, la necessità della cooperazione internazionale e della riduzione degli armamenti.

Delano F. Roosevelt : presidente degli Stati Uniti dal 1933 al 1944, segnò profondamente la storia americana, soprattutto con la svolta impressa dalla sua politica del “New Deal”, programma di riscossa morale contro una società caratterizzata da pesanti disuguaglianze economico-sociali.

Il 6 gennaio 1941 Roosevelt inviò un lungo messaggio al Congresso – passato alla storia come il “Discorso delle quattro libertà” – nel quale illustrava la nuova società mondiale che doveva nascere al termine della guerra. Il Progetto si fondava sul rispetto universale di quattro libertà: “La prima è la libertà di parola e di espressione. La seconda è la libertà di venerare Dio come sembra più opportuno. La terza è la libertà dalla miseria, il che, tradotto su scala mondiale, significa una riduzione degli armamenti così ingente ed efficace che nessuna nazione possa compiere un’aggressione militare contro qualche vicino. Non si tratta della prefigurazione di un utopico avvenire, ma di basi precise per un mondo realizzabile nei nostri tempi, dalla nostra generazione.”

Questi concetti furono inseriti nella Carta Atlantica (14 agosto 1941), redatta da Roosevelt e da W. Churchill, premier inglese, documento firmato da numerosi Stati Alleati e fondamento poi delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

L’ulteriore tragica esperienza della seconda guerra mondiale ha indicato che i diritti individuali e collettivi non possono essere tutelati separatamente dal sostegno alla democrazia e alla pace.

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