IL TEMA SINDONICO NELLA CULTURA ESSENICO EBRAICA DEL I SECOLO E LA SUA EREDITÁ

Conferenza di

PROFESORESSA MARIA  GRAZIA SILIATO

A cura di Luigi Sessa

Segnalato da Riccardo Corsi             

Il 18 marzo c.a., inaugurando il ciclo degli Incontri Culturali del RSAA del 2002, promosso dall’Ispettorato Regionale del Lazio, in Palazzo Altemps, a Roma, alla presenza del S.G.C., Ven.mo e Pot.mo Fr. Corrado Balacco Gabrieli 33° e del S.G.I.G., Pot.mo Fr. Rosario Morbegno 33° M.A., Ispettore Regionale del Lazio che ha accolto a nome dell’Ispettorato il folto pubblico di FFrr. Scozzesi e di Ospiti, il Pot.mo Fr. Luigi Sessa 33° ha presentato la Prof.ssa Maria Grazia Siliato, archeologa e sindonologa di chiara fama, la quale ha intrattenuto l’uditorio sull’argomento: “Il Tema sindonico nella cultura essenico ebraica del I secolo e la sua eredità”.

Posta una serie di interrogativi, M.G. Siliato seguendo una particolare metodologia, ampiamente fondata sulla “Stilometria”, si è proposta di rintracciare, inseguire e descrivere l’evolversi del Tema sindonico nella cultura essenico ebraica del I secolo, mettendo, altresì, in rilevo anche l’eredità raccoltane nei secoli successivi, fino alla fine del Medio Evo.

Di quali interrogativi si tratta?

– Perché antichi documenti in siriaco dicono che profughi Giudeo Cristiani portarono una Sindon nella lontanissima ed eretica città di Edessa?

– Perché un Principe Bizantino nel 1205 scrive al Papa chiedendo gli sia “restituita la Sindon rubata”?

– Perché una Sindon compare misteriosamente nel XIV secolo in mano al Nipote di un Cavaliere Templare francese?

– Perché alcuni studiosi hanno sostenuto con accanimento che gli scritti essenici di Qumran furono composti intorno agli anni sessanta della nostra Era e non circa due secoli prima?

Per rispondere a questi interrogativi, M.G. Siliato parte dalla scoperta dei Rotoli di Qumran e, dopo una interessantissima escursione su questo argomento, pone l’accento sul fatto che essi, agli esami paleografici, risultano essere i più antichi manoscritti ebraici, risalenti a circa due secoli prima della nostra era.

È interessante, seguendo il filo logico della Siliato, non trascurare il fatto che questa eccezionale scoperta, stranamente, abbia suscitato poco entusiasmo in alcuni gruppi di studiosi.

Proseguendo lungo il suo filone esplicativo, la Siliato si sofferma, poi, dettagliando complicatissimi particolari evolutivi, sulla Bibbia in generale, sulle sue originarie raccolte di testi in ebraico ed in aramaico, su varie compilazioni, da quella dei “Settanta”, a quella di S.Girolamo, a quelle delle Chiese d’Oriente, alla “glagolitica” per le genti croate, alla “gotica” per i popoli del Nord.

Per quanto riguarda l’Occidente Cattolico non può ignorarsi che l’idea stessa di “traduzione” della Bibbia rimase impedita per secoli. La sua libera lettura, si diceva, era la madre di tutte le eresie.

Nel 1300, John Wycliffe, inglese, si provò a tradurre la Bibbia. Fu tale scandalo che il Concilio di Costanza ordinò di bruciarne il cadavere.

Un altro inglese, che si permise di stampare un’altra traduzione, William Tyndale, fu condannato per eresia, strangolato e buttato sul rogo.

La prima edizione a stampa della Bibbia Ebraica si ebbe a Venezia nel 1525.

Ciò offrì la possibilità di cogliere clamorose differenze paragonando le diverse versioni.

L’evoluzione della raccolta biblica, specialmente in Germania, in seguito alla Riforma Luterana, seguiva dei percorsi del tutto nuovi determinanti l’esclusione dei Libri che erano stati aggiunti dai primi cristiani.

Constatata la diversità dei tanti testi, Paolo III stabilì che, per leggere la Bibbia “nella lingua del popolo”, occorresse la licenza dell’Inquisizione.

La prima, storica traduzione italiana della Bibbia, scritta, nel lontano 1600, da un toscano che si chiamava Giovanni Diodati rifugiato a Ginevra, con una mole di commenti dal latino, dal greco, dall’ebraico, poté riapparire liberamente a Roma il 20 settembre del 1870, con i Bersaglieri allorché, come alcuni testimoni scrissero, dietro a loro, arrivò un trasportatore con il suo carretto, pieno di libri proibiti fino al giorno prima.

Per secoli, i fedeli, esclusi pochi specialisti, hanno del tutto ignorato le pesanti differenze, – persino nel numero dei Libri, – poiché le divisioni teologico-politiche impedivano confronti.

Con questi millenari e tempestosi precedenti, continua la Siliato, è comprensibile che, quando si venne a sapere come – a Qumran, – fossero riemersi brani della Bibbia, scritti materialmente prima della nostra Era, alcuni gruppi di studiosi s’inquietassero.

Qumran diventava anche per questa ragione un punto di riferimento, un luogo della testimonianza di fatti non del tutto conosciuti. Un luogo ascetico, quasi inaccessibile in cui, i reperti archeologici lasciano intravedere le tracce di una Comunità dal segreto infrangibile, particolarmente attrezzata per studiare e scrivere.

Un lungo studio, – in cui l’Archeologia si appoggia al Computer Image Enhancement, alla Stilometria Informatica, all’introduzione di migliaia di dati d’ogni tipo in una programmata Griglia Storica, – va facendo luce sulla rete di legami che saldavano la nascita del cristianesimo, la “nova religio”, all’antico mondo spirituale ebraico.

Si può disegnare, con parole di oggi, l’ambiente politico in cui sorsero i cosiddetti Giudeo Cristiani:

all’estrema destra, i “Saddukim”, cioè i “Sadducei”: poche centinaia di aristocratici, ricchi e scetticamente ellenizzati, collaborazionisti con Roma.

Al centro, fluttuava un colto e composito ceto medio, forte di alcune migliaia di individui, fedele alla tradizione: in aramaico i “Perishayya”, in Occidente i “Farisei”.

All’altro estremo, si annidavano gli oppositori ideologici indomabili, in cui l’antica fede ebraica si mescolava alla sete d’indipendenza. Erano gli Uomini del Deserto, gli “Hasidim”, latinizzati in “Esseni”, con almeno quattromila supporters ufficiali; da cui uscivano i futuri rivoltosi, i “Kananaim”, tradotti in greco ” Zeloti”.

Dai Rotoli di Qumran sono uscite informazioni importanti: alcuni gruppi di Esseni vivevano in Jerushalem. La loro sinagoga sorgeva sul Monte Sion, accanto alla millenaria Tomba di Davide. L’archeologia ne ha trovato le tracce, sotto i rifacimenti dei Crociati. Essa portava anche una sala al piano superiore: l’ambiente dove, secondo i Vangeli, s’era celebrata la drammatica Ultima Cena, secondo il rito riscoperto a Qumran.

Oggi, finalmente, afferma la Siliato, si comprende perché gli Ebrei e i Giudeo Cristiani, cioè i cristiani di etnia ebraica, in seguito all’esilio da Jerushalem, decretato da Costantino, si rifugiarono tutti insieme sul Monte Sion. Ora, infatti, sappiamo che lì erano riunite la Tomba di David, la sinagoga essenica e la sala dell’Ultima Cena.

Quando gli scavi hanno riportato alla luce il cimitero essenico di Qumran, si è visto che gli scheletri, erano, contro l’uso consueto, tutti orientati verso Nord.

Anche il sepolcro scavato sul Golgotha, sottolinea la conferenziera, è stranamente orientato a nord, come si può vedere nella Basilica di Jerushalem. Ma a questo fatto non si era posta attenzione alcuna. È, per altro, significativo che uno scritto essenico, recentemente decifrato, dica che i morti debbono venir disposti così perché, a nord, si trova l’Eden, il perduto Paradiso Terrestre.

A Jerushalem, pochi anni prima dell’assedio, l’apostolo Jacob, – i Vangeli lo chiamano: “fratello del Signore” – governava i suoi fedeli come una sinagoga.

Essi vivevano dentro le Leggi religiose ebraiche. Non esisteva una chiesa separata. Non s’erano proclamati dogmi. Sarebbe parso ingiusto separare il messaggio del Maestro dall’antica fede. Infatti, Jacob aveva imposto i Precetti giudaici anche ai proseliti non ebrei.

Ma su questo comportamento di un uomo, che aveva udito l’insegnamento del Maestro dalla sua stessa voce e in quella stessa città, i successori sorvolarono con inquieto disagio.

“I quattro Vangeli sono arrivati a noi scritti in lingua greca. Da sempre, in Occidente, si è sostenuto che così erano nati, e non in ebraico.

La cancellazione delle radici e dei legami fu così rapida che, appena un secolo dopo, un vescovo imbevuto di erudizione classica, – si chiamava Ireneo – che arrivò a Jerushalem, si stupì grandemente.

Si scontrò con idee stranamente diverse da quelle che, negli stessi giorni, s’insegnavano a Roma. In Giudea, i fedeli veneravano il messaggio del Maestro ma osservavano la Legge Mosaica: consideravano giorno santo il Sabato e non la Domenica. E dicevano che Matteo aveva compilato il suo Vangelo, non nel greco che tutti conoscevano, ma nella sua lingua madre, l’ebraico. Chiamavano se stessi “Ebionim”, o “Nazirei”.

Siccome nessuno in occidente si ricordava che “chiesa degli Ebionim” significava: chiesa dei Poveri, si disse che era un’eresia e ci si inventò il suo capo e si disse che si chiamava “Ebion”. E l’invenzione entrò nei libri di storia.

Quanto a “Nazirei”, cioè Votati, Fedeli a Dio, si pensò che significasse: abitanti di Nazareth, città che, ai tempi Biblici, non esisteva.

Nel XVI secolo, da letture più scientifiche, risaltarono nel greco dei Vangeli Sinottici,- cioè quelli di Matteo, Marco e Luca, – alcuni errori rozzi e strani che, osserva la Siliato, non si volle rilevare, anzi gli si cercarono astruse spiegazioni. Nel Seicento, qualcuno addirittura li attribuì alla “Lingua Speciale” dello Spirito Santo.

Solo a fine    , Julius Wellhausen,   conoscitore dell’ebraico, del siriaco-aramaico, dell’arabo, ebbe il coraggio di dire che i Vangeli erano opera di cultura ebraico-aramaica, e poi tradotti in greco con scarsa competenza. Fu attaccato violentemente. Solo oggi, conferma la Siliato, la critica testuale va scoprendo il sottofondo ebraico di quella scrittura. E ulteriori sorprese potrà darci la Stilometria computerizzata.

Per esempio, il greco “Kananaios”, a lungo interpretato come “abitante di Cana”, era la maldestra traduzione dell’aramaico “Kanana”, cioè “impegnato, preso da zelo”, – nomignolo degli Insorti contro Roma,- che giustamente Flavius Josef aveva tradotto nel greco: “Zelota”.

L’ebraico non annotava le vocali. Per i traduttori greci furono problemi. E da ciò derivò una miriade di errori.

Perché gli antichi errori non erano stati riconosciuti né corretti? La dipendenza da un originale ebraico-aramaico era politicamente insopportabile? Perché nacque un così intollerante disprezzo per la lingua usata dal Maestro stesso?

In Oriente, invece, qualcosa aveva continuato a vivere, segretamente, come un fiume carsico.

Quando Jerushalem fu conquistata da Tito, Flavius Josef,- che era vissuto fra gli Esseni, a Qumran, per tre anni,- scrive che gruppi d’Insorti s’aprirono varchi tra i Romani e si dispersero fuggendo “….verso il Deserto.” Perché, nel caos, sottolineò proprio quel dettaglio?

Dove conducevano i cunicoli nelle viscere del Tempio, che mille e cento anni dopo, al tempo delle crociate, i Cavalieri Templari avrebbero tentato di ritrovare e forse, come suggeriscono gli scavi, riscoprirono?

Gli architetti del re Herodes avevano prodotto un’edilizia teoricamente inespugnabile. Avevano assimilato le tecniche costruttive di templi e tombe egizie, i sofisticati meccanismi per mascherare camere e gallerie, i congegni “a caduta” di massi d’ostruzione.

L’enigmatico Flavius Josef, che vide e raccontò quella guerra, parlò degli Esseni, gli Uomini del Deserto, usando cripticamente tutti i verbi al tempo presente: chi “sapeva” doveva capire che, nonostante le stragi, essi continuavano a esistere; anche in luoghi lontani.

Nel IV Secolo, il vescovo Eusebio da Cesarea scese in Egitto e scoprendovi, prima che vi fosse nato il Cristianesimo, una Comunità di vita rigorosissima, si meravigliò perché costoro, non cristiani, praticavano la confessione e dal loro Maestro ricevevano il perdono. Nella massima festa annuale, la Pentecoste, indossando vesti bianche, sedevano in ordine di grado per il Pasto Sacro, dodici intorno al Sacerdote, in cui si distribuivano il Pane e il Vino benedetti.

Poi, nelle Terre Sante arrivò anche Epiphanius, il vescovo di Cipro, che aveva scoperto ben ottanta diverse “eresie” tra la Grecia, la Samaria, la Giudea. Anche lui fu confuso da strani incontri. Comunità religiose che non volevano chiamarsi “christiani”, alla greca, ma Nazirei, “votati a Dio”, “Fedeli”. Epiphanius, che ne storpiò i nomi, scrisse che si chiamavano “Osenios” e non sapeva perché, e che vivevano sulle rive del Giordano, nel luogo dell’antico Battesimo.

In Egitto, vicino a Denderah, intorno all’anno 320, un uomo chiamato Pakhomius fondò il primo “Cenobio”, il primo Ordine Religioso della storia cristiana. Si era sempre creduto che la Regola Monastica di Pakhomius, san Pacomio, fosse la prima e la più antica. Ma quando, come racconta la Siliato, abbiamo scoperto, a Qumran, il Rotolo della “Serekh”, la Legge, si è visto che tutto ciò era stato inventato quasi cinque secoli prima.

Questo testo della Serekh probabilmente, è proprio l’originale di tutte le Regole religioso iniziatiche della storia. E’deteriorato, porta cancellature, inserti e correzioni. Ma gli Esseni lo imballarono e nascosero con amorosa diligenza. Probabilmente vi lavorò l’autore. Per esempio, il testo steso dal copista dice: – … io nasconderò con discrezione la conoscenza agli estranei…- Ma un’altra mano, quella del Maestro, forse, cancella con un tratto la parola limitativa: “nasconderò”, e sovrascrive un paterno: ” con discrezione impartirò….”

Solo quando è riemersa Qumran, si è capito che il termine “Essenoi” o “Asidoi” nei testi greci, “Osenios”, “Ossei” o “Jesseni” nei racconti di Epifanio, “Esseni” nei testi latini, erano le grossolane trascrizioni,- da parte di certi sbrigativi traduttori,- di un’unica parola: “Hasidim”, gli Uomini del Deserto, la società iniziatica che forse risaliva al tempo dei Faraoni.

Molte volte, gli archeologi, in Giudea, in Samaria, in Galilea, in Siria hanno trovato graffito o scolpito su sarcofaghi e tombe, sia ebraici che giudeo-cristiani, un segno incomprensibile: una piccola ascia, a una o due lame. Se ne è trovato uno anche sulla Tomba di un vescovo. Un segno di riconoscimento, un simbolo da società segreta? Solo oggi noi sappiamo che, nel corredo rituale degli Esseni di Qumran, era compresa una piccola “ascia.”

Antichissimi documenti dell’eretica Chiesa Siriana, – che non erano stati né tradotti né studiati, ma chiamati leggende, – dicono che profughi giudeo cristiani, prima dell’assedio di Jerushalem, portarono un oggetto chiamato Sindon nella città di Edessa, attraversando la valle del Mar Morto.

Il regno di Edessa, nella Mesopotamia occidentale, era il più vicino territorio libero per chi fuggisse dal potere di Roma o dall’Impero dei Parti.

Quando, – per l’opera certo non confessionale di Avinoam Danin, paleobiologo della Hebrew University, – si è trovato che l’oggetto archeologico oggi denominato Sindone di Torino portava su di sé i pollini di una pianta specifica del Mar Morto,- la Gundelia spinosa,- e quindi era incontrovertibilmente passato di là, nessuno ha pensato, osserva la Siliato, che padrona di quel territorio era la potente e inafferrabile “Yahad” che aveva scritto i Rotoli di Qumran, la Comunità Essena.

Quale e quanto importante era il rapporto tra gli Esseni e i Giudeo Cristiani in fuga?

Noi oggi sappiamo anche che analisi fisico chimiche, spettro e termografiche hanno dimostrato che l’Impronta sindonica è la reazione della cellulosa del lino al contatto del sebo e il sudore acido della pelle umana. Essa è strutturalmente vicinissima alla cosiddetta “Impronta Volkringer”, la reazione che la linfa di una foglia produce sulla cellulosa della carta di un erbario.

Ma, in quei giorni lontani, l’oggetto con l’Impronta entrò nella miracolistica. Un’icona del V secolo, come rileva la Siliato, ci ha tramandato il momento in cui ufficialmente si aprono ai profughi le porte di Edessa. Il re Abgar Manu dispiega sulle ginocchia il famoso lino, il quale è lunghissimo e segnato al centro dall’Impronta del corpo e del Viso.

Per conservare l’oggetto, fu costruita in Edessa la “Chiesa Grande”, con un pronaos a colonne e una immensa cupola. Ai nostri giorni ne sono state riconosciute le rovine.

Nel 638, cinque anni dopo la morte del profeta Muhammad, Edessa si arrese agli invasori arabi. Secondo la legge islamica, il patto di vassallaggio la scampò dal saccheggio. La Chiesa Grande passò intatta, con la sua reliquia, attraverso la guerra.

Da allora in poi, per parlare della Sindon, si incominciò a usare il termine arabo “Mandil”, grecizzato in “Mandylion” che entrò presto nella Lingua in cui comunicavano tutte le marinerie del Mediterraneo per significare estensivamente fazzoletto grande, asciugamano, tovaglia, lenzuolo.

Solo oggi si sarebbe compreso che tutte le volte in cui antichissimi documenti, in aramaico, paleosiriano, arabo, greco medievale parlavano del Volto Acheiropoietos, del Telo Tetradyplon, dell’Impronta Edessena, l’Apomasso, la Theoteuktos Eikon, il Mandylion, il Sisne, il Sydoine, la Sindon parlavano di un Oggetto solo.

Durante la lunga guerra contro il Califfato islamico di Bagdad, nell’anno 942, i Bizantini attaccarono Edessa e costrinsero il Califfo a chiedere la pace. Da Costantinopoli, il quarantenne Imperatore Costantino VII “Porfirogenito” si disse disposto a trattare, se gli consegnavano la Sindon. L’accordo fu raggiunto. La Sindon arrivò a Costantinopoli.

Noi sapevamo pochissimo di tutto questo, per la millenaria separazione teologico politica tra Roma e Costantinopoli. Ma oggi, i documenti arabi, gli storici bizantini e gli scritti della scomunicata chiesa d’Oriente si leggono con una nuova angolazione.

Gregorio, Metropolita di Santa Sofia, che consegnò materialmente l’Oggetto all’Imperatore, in un Manoscritto dimenticato nella Biblioteca Vaticana, dichiara con lucidità moderna, che la Sindon non era “un miracoloso ritratto”,. E riconosce le due separate caratteristiche: l’Impronta di viso e corpo, e le macchie di sangue del     romano.

In un codice greco, scritto da Giovanni Skylitzes, conservato nella Biblioteca Nazionale di Madrid, una miniatura descrive “to aghiou manduliou”, il santo Mandylion nell’atto della consegna. Ma, sottolinea la Siliato, nessuno nel mondo occidentale, vi aveva mai prestato attenzione.

L’Imperatore, coltissimo bibliofilo, consultò e fece tradurre dal siriaco gli antichissimi documenti di Edessa.

Ma per noi occidentali, rileva la Siliato, tutto questo era rimasto sepolto nei libri della scomunicata chiesa d’Oriente.

Gli imperatori di Costantinopoli ricevettero molti ospiti dall’Occidente e, a tutti, mostrarono la Sindon.

La mostrarono al ventenne Luigi VII di Francia, che s’era imbarcato nell’ennesima inconcludente Crociata, e ad Amaury di Lusignan, re di Gerusalemme, accompagnato da Guillaume di Tiro, gran cancelliere che in latino avrebbe raccontato il viaggio.

Ma, intorno al 1204, un giovane pretendente al trono di Costantinopoli, che si chiamava Alessio, chiese con incoscienza l’aiuto di truppe straniere.

Cavalieri Franchi e marinai Veneziani erano già ammassati per l’impresa di una crociata, voluta da papa Innocenzo III. Ma stavano ferme a Zara, perché i Franchi non avevano denaro, e i Veneziani vedevano a rischio i loro crediti. Il giovane Alessio trovò accoglienze entusiaste, in quanto la sua irriflessiva richiesta legittimava una ricchissima ma spudorata impresa: lasciar perdere la lontana e povera Jerushalem, e indirizzarsi verso la vicina e ricchissima, nonché eretica, Costantinopoli.

Così, l’armata levò le ancore e portò l’esercito a Costantinopoli e Alessio fu incoronato Imperatore e Baroni Franchi e patrizi veneziani chiesero il pagamento per l’aiuto prestato.

Ma le finanze imperiali erano disfatte e il giovane Alessio, per acquistar credito, commise l’errore fatale di invitare i capi alleati nei meravigliosi palazzi di Blachernae. Robert de Clary descrisse l’evento in un suo manoscritto che si trova oggi nella Real Biblioteca di Copenhagen.

Così, noi oggi sappiamo che i suoi occhi furono gli ultimi che, dentro la città di Costantinopoli, videro l’oggetto chiamato Sindon. “Sydoine,” dice Robert nel suo francese antico.

Intanto Alessio non pagava. Fra i Crociati si favoleggiava dei tesori accumulati là dentro in ottocento anni, mentre in Europa l’impero era stato spogliato dai barbari. Scoppiò, così, la battaglia che fu durissima. I latini dilagarono in città. Devastarono i palazzi imperiali; fecero a pezzi i veli d’oro e seta che ornavano Hagia Sophia, diedero la caccia alle Reliquie famose, aprirono le Tombe degli imperatori. Quella di Giustiniano mostrò, dopo quasi sette secoli, il cadavere intatto; e nemmeno questo li fermò, perchè era coperto d’oro. Fusero i bronzi, gli argenti, il vasellame e i calici per farne monete. Ma il nobile Borgognone Othon de la Roche s’impadronì del complesso di Blachernae, dov’era conservata la Sindon, e pose i suoi armati a difenderne l’ingresso.

Nel tumulto, si ebbero violenze e saccheggi. I Capi Crociati comminarono la scomunica e la pena di morte ai trafugatori di reliquie. Molti disertarono e si reimbarcarono per l’Europa.

Circa la Sindon, Robert de Clary, che l’aveva contemplata prima dell’assalto, scrisse: “Nessuno, né Greco né Franco seppe che cosa ne avvenne, quando la città fu presa.” La frase sottintende un’inchiesta, e sicuramente tanto più rabbiosa in quanto quell’Oggetto, di tutte le prede, era il più celebre.

La Siliato continua dando ulteriori particolari sulle vicende del misterioso Oggetto. Era l’inizio del 1205. Le province dell’Impero furono divise fra i vincitori. La città di Atene fu consegnata a Othon de la Roche, colui che per primo era entrato nel complesso di Blachernae.

Nell’anno 1910, nella Biblioteca Nazionale di Palermo fu esposto un Codice, un “Chartularium”, finito in Sicilia insieme agli scampati da Costantinopoli. Esso raccoglieva documenti della Famiglia Imperiale.

Ma nessuno o quasi badò a un breve foglio: la minuta della Supplica che, dopo il saccheggio, un parente dell’ultimo Imperatore Bizantino, di nome Teodoro Angelo Comneno, aveva presentato a Papa Innocenzo.

Diceva: “L’anno scorso, nel mese di aprile, con il falso pretesto di liberare la Terra Santa, l’esercito crociato è venuto a devastare la città di Costantino… Sappiamo che la sacra Sindon è in Atene… I predatori si tengano l’oro e l’argento; noi supplichiamo il Tuo intervento affinché ci sia restituito ciò che è sacro…”

Non siamo in grado di sapere se questa lettera ricevette risposta.

Mentre Othon de la Roche, ne era governatore, il Legato pontificio, Cardinale Benedetto di Santa Susanna, giunse ad Atene e il suo segretario annotò il viaggio con cura. In questo documento, che ha dormito negli archivi per settecento anni, egli scrive che i Crociati erano entrati in Costantinopoli “come ladri” e molte reliquie erano sparite. Ma la Sindone, no.

Mentre Robert de Clary, seguendo l’opinione generale, diceva che era scomparsa, il segretario del Cardinale di Santa Susanna scrisse che il Cardinale e lui l’avevano segretamente veduta.

E ormai lo sapeva troppa altra gente: per Othon de la Roche, sotto l’incubo della scomunica, dovette farsi difficile conservare un tale oggetto.

Così, in quei giorni, un nerbo di Cavalieri Templari, s’imbarcò dalla Siria per raggiungere i Crociati. Ma non arrivarono mai a Costantinopoli, dirottarono sul Pireo ed entrarono in Atene.

Fu forse allora che, – affidandosi a un potere così misterioso e inattaccabile quale l’Ordine Templare, – Othon si liberò della sua sacrilega preda e la cedette, o vendette a gran prezzo.

Abbiamo trovato tracce di un prudente percorso, via san Giovanni d’Acri, dov’era la possente fortezza Templare, e poi l’isola di Cipro, per alcuni anni loro feudo, fino a Marsiglia.

Cent’anni dopo, osserva ancora la Siliato, nel 1307, gli Atti del terribile Processo ai Templari portano fra le accuse che essi covavano al loro interno il culto segreto di un misterioso “Volto” barbuto, la cui breve visione era concessa agli Adepti solo dopo una iniziazione severa.

Durante i feroci interrogatori, il Templare Raul de Gizy confessò, sotto tortura, di aver venerato una testa barbuta che gli faceva paura. Era forse l’Impronta Sindonica, con le sue ombre enigmatiche sul lino bianco, con le palpebre chiuse?

Lo storico inglese Jan Wilson ha portato alcuni riscontri archeologici a questa accusa. Intorno al 1950, in Inghilterra, in un antico edificio appartenuto ai Templari, fu scoperta, dietro un pannello scorrevole, la duecentesca pittura, ancora ben conservata: la copia di un “Volto”, che nessuno al momento seppe decifrare.

E’ logico pensare che, nella tempesta della persecuzione, i Templari cercassero di nascondere, senza distruggerlo, un Oggetto che mescolava la conferma di riti segreti a quella del trafugamento sacrilego.

Se così andò, l’Oggetto poteva essere nascosto solo presso chi, in qualche modo, era già stato complice del segreto.

Così, d’improvviso, settant’anni dopo quei roghi, un nobile francese, di nome Geoffroy, espose nella chiesetta del suo feudo di Lirey, un oggetto chiamato “quondam figura sudarii Domini Nostri….”

L’esposizione provocò un’affluenza alluvionale di fedeli e il Vescovo del luogo cercò informazioni. Geoffroy rispose che gli era stata regalata: “liberaliter”, ma non fece nessun nome.

Il Vescovo aprì un’inchiesta.

Geoffroy si rivolse subito al Legato papale in Francia. Per una coincidenza che molti avevano dimenticato e molti in futuro non avrebbero notato,- costui era il Cardinale Pietro di Santa Susanna, successore nel Titolo, cioè, di quell’altro cardinale che a suo tempo, in Atene, aveva segretamente veduto la Sindon nelle mani di Othon de la Roche.

Non è azzardato immaginare che qualche documento sopravvivesse negli archivi. Certo è che il Cardinale di Santa Susanna autorizzò subito l’esposizione di quell’Oggetto, anche se la provenienza era ignota.

Il vescovo locale, scavalcato, si appellò al Papa. Ma Papa Clemente ebbe di certo altri documenti su cui giudicare: con eccezionale rapidità, fu spedita la bolla pontificia che confermava l’autorizzazione: alla Sindone si dovevano rendere gli onori dovuti non a un’icona ma a una reliquia. E al vescovo s’imponeva di tacere in perpetuo.

Con prudenza, si evitava ogni riferimento all’Oggetto portato milletrecento anni prima,- attraverso mani Giudeo Cristiane o addirittura Esseniche,- in Edessa, la città degli eretici Baradeus e Nestorius. E poi     dai Crociati nella scismatica Costantinopoli. E infine invano richiesto dal cugino dell’imperatore. La Sindon entrava nella nostra cultura, completamente sradicata dal suo passato.

Ma, alla fine dell’Ottocento, fu ripescata nella Senna una strana Placchetta di piombo. All’inizio, non si comprese che significasse. Al centro, è impressa l’Impronta anteriore e quella posteriore di un Corpo disteso, senza vesti, le mani incrociate, i lunghi capelli. In basso sono impressi due stemmi appaiati.

Si capì che era una Placca Souvenir per i Pellegrini. E oggi sappiamo che la fece fabbricare il Geoffroy, sire di Lirey, perché l’araldica ci ha detto che gli stemmi sono il suo e quello di sua moglie.

Su questo punto, concludendo il suo interessante discorso, la. Siliato offre all’attento uditorio un’ultima sua enigmatica riflessione: il casato della moglie di quel Signore di Lirey era celebre; risalendo di quattro generazioni, s’incontra un potente trisavolo: Othon de la Roche, il saccheggiatore di Blachernae.

Ma ancor più celebre era il casato di lui: un altro Geoffroy de Charny, cavaliere Templare, Precettore dell’Ordine in Normandia, era salito sul rogo insieme a Jacques de Molay, Gran Maestro del Tempio.

Alla fine della conferenza, il S.G.C., Ven.mo e Pot.mo Fr. Corrado Balacco Gabrieli 33°, ringraziando la Prof.ssa Siliato, le indirizza parole di vivo compiacimento per la sua pregevolissima relazione.

Il Pot.mo S.G.I.G., Fr. Rosario Morbegno 33° M.A., Ispettore Regionale del Lazio, complimentandosi, a sua volta, con l’illustre Ospite, a nome dell’Ispettorato del Lazio, in segno di stima e di gratitudine, le offre una pregiata Opera editoriale.

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