DANTE ALIGHIERI; UOMO POLITICO E POETA INIZIATICO

 Dante Alighieri uomo politico e poeta iniziatico :

 di Emilio

Mentre da destra e da sinistra si tende ad appropriarsi della figura e dell’Opera dantesca, si dimentica con troppa facilità l’atteggiamento critico, illuministico, tipicamente massonico che costituisce il nocciolo ideologico dell’opera del Poeta. I nazionalisti vedono in lui il precursore dell’unità nazionale, colui che ha dato all’Italia una lingua ufficiale e che ha fissato inequivocabilmente i suoi confini al Brennero ed al Quarnaro; i preti lodano in lui l’autore del Poema sacro della Cristianità; i letterati magnificano la grandiosa architettura del poema e l’armonia solenne della terzina endecasillabica; infine gli esuli, i fuorusciti, i falliti della politica hanno fatto di Dante un emblema di forza morale o addirittura di resistenzialismo oltranzista. Figura poliedrica, l’Alighieri si manifesta singolare, originalissimo, avulso dal suo secolo e decisamente proiettato nel futuro, sì da essere annoverato fra i precursori ed i profeti del Rinascimento italiano. In questa luce noi vogliamo valutare Dante: un esempio luminoso di mentalità e di dottrina massonica « ante litteram », un uomo cioè che seppe accendere nelle tenebre del Medioevo una fiaccola che permise finalmente agli italiani d’allora di guardarsi in faccia e di prendere coscienza di sé medesimi come individui e come popolo. Nei libri di storia si legge che il Medioevo finisce nel 1492 colla. scoperta dell’America: per il nostro Paese però questa data ha un valore puramente formale. Se per Medioevo si intende quell’arco di tempo che va dalla caduta dell’impero romano d’occidente alla rivalutazione della Romanità perduta, dalle invasioni barbariche alla fusione dell’elemento italico con quello germanico, dal crollo della cultura classica, pagana € solare, sepolta da un cristianesimo malinconico e punitivo, fino alla nascita di una nuova cultura libera da eccessive ipoteche religiose, ebbene, il Medioevo non termina con Cristoforo Colombo, ma con Dante Alighieri. Con lui il timido esperimento letterario noto come « dolce stil – nuovo » prende forma e vigore: la produzione letteraria in lingua volgare ha un esempio colossale a cui ispirarsi e la nuova poesia + esce dalle corti e dai castelli ove era timida ospite ad imitazione dii quella provenzale ed entra trionfalmente nella vita cittadina non più come robetta da trovatori o da canzonettisti, ma come pura espressione letteraria di una nuova cultura foriera di nuovi tempi. Se i concittadini ed i contemporanei non apprezzarono abbastanza l’Alighieri ed i suoi meriti eccezionali, la immediata posterità invece non gli fu avara di quei giusti riconoscimenti che al Poeta vivente furono purtroppo negati. In fatti il Trecento ed il Quattrocento furono pieni di lui e della sua opera: nacque una vera e propria scienza, la dantologia, che ancora oggi, a sette secoli di distanza, è ancora viva ed indaffarata a risolvere antichi problemi biografici e ad interpretare il pensiero dantesco. Chi fu, in sostanza, quest’uomo piccolo, magro, di colorito fosco, che inaspettatamente balza alla ribalta della cronaca politica fiorentina, cade in disgrazia e nell’oblio, poi, in tutta modestia, lentamente si ipertrofizza fino a giganteggiare nella letteratura del suo paese come un innovatore della espressione linguistica ed un riformatore di quella poetica? Veniva dal popolo, da quel popolo benestante, pulito, che costituisce il braccio e la mente della Firenze comunale di allora: lo dice il suo stesso nome, Durante di Alighiero, nome privo di serti nobiliari e suonante di semplicità borghese. Del padre, egli non parla mai: era un piccolo mediatore, una figura scialba di cui la storia tace. La gloria della famiglia era l’antenato  Cacciaguida, fine e spirituale guerriero, di cui il Poeta dimostra di andare molto orgoglioso: non è escluso comunque che in questo atteggiamento vi sia una punta di snobismo e di desiderio di nobilitare il lignaggio, un po’ come i nostri odierni arricchiti © arrivati che sbandierano il nonno garibaldino o un prozio vescovo, ignorando la schiera dei parenti nati, vissuti e morti nella più completa oscurità. Per quanto concerne gli studi, Dante aveva frequentato con successo il Trivio e il Quadrivio, corso che corrisponde al nostro Liceo Classico. Era stato poi un paio di anni scolare a Bologna, ma non pare vi si sia addottorato. Ritornato a Firenze, intenzionato a darsi alla vita pubblica, si era iscritto ad una delle arti maggiori e precisamente a quella dei Medici e Speziali. Cosa lo abbia indotto ad iscriversi proprio a questa corporazione non si sa: è certo però che, pur avendo in campo biologico una solida cultura, non esercitò mai la medicina o la farmacia. Guelfo di parte bianca, combatté a. Campaldino; fece rapida carriera politica e raggiunse la carica di Priore nel Comune di Firenze: tradita però da Bonifacio VIII la fazione Bianca, fu cacciato in esilio dal nuovo Podestà, messer Cante de’ Gabrielli da Gubbio, sotto l’accusa infamiate di broglio e baratteria. Amareggiato, in miseria, irato contro l’ingratitudine dei suoi concittadini, il Poeta andò  ramingo per l’Italia provando di persona

… come sa  di sale

Lo pane altrui e come è duro calle

Lo scendere  e salir l’altrui scale.

 La sua carriera politica fu dunque assai breve ed a 35 anni era già finita; inutili furon gli sforzi del Poeta per reinserirsi nella vita pubblica: i fiorentini non lo vollero più e non vi fu più fazione che lo riportasse in carica. Rotto ormai ogni rapporto col partito Guelfo e fattosi Ghibellino, sollecitò l’imperatore Arrigo di Lussemburgo ad intervenire a stabilire l’ordine in Firenze, ma ogni sforzo fu vano e l’imperatore, per quanto sensibile alla lode, non dimostrò mai sufficiente fiducia o simpatia per quell’agitato fuoruscito. Nelle corti ove fu ospite, l’Alighieri fu sempre tenuto in grande considerazione per la sua opera poetica, molto meno per la sua abilità politica o per la sua persona: gli incarichi a lui affidati dai suoi potenti protettori furono infatti sempre di modesto rilievo. Lo stesso Cangrande della Scala, che pure gli fu amico, lo tenne presso di sé diversi anni come confidente aulico, come animatore e « vedette » della sua brillantissima corte, ma non gli conferì mai un incarico politico né una cattedra universitaria. Guido Novello da Polenta, a Ravenna lo ospitò con grande affetto, ma non gli fu prodigo d’incarichi: l’unica volta che, nell’estate del 1 321, lo inviò come ambasciatore al Doge di Venezia, se ne dolse amaramente poiché il Poeta contrasse febbri  malariche nell’attraversare il  delta del Po e rientrato in Ravenna, si aggravò fino a morirne la notte fra il 13 ed il 14 settembre. . Questa è in sintesi tutta i la sua biografia: una vita avventurosa; se vogliamo, ma squallida, densa di frustrazioni e di insuccessi” che incidono sempre più profondamente sul suo carattere duro, indomito, dotato di un « humor » fine ma caustico che egli manifestava con battute che l’aneddotica del tempo ci presenta sempre mordaci e severe. Tutt’altra cosa la sua vita interiore: già nella « Vita nova », opera giovanile, egli ci dà una rappresentazione fantastica della realtà, idealizzandola al punto da far ritenere, non senza ragione, che egli di una scintilla di verità abbia fatto un fuoco. Esempio classico è quello di Beatrice: nella realtà egli vide Beatrice Portinari la prima volta ad una festa di bambini, quando lei non aveva che nove anni. La rivide nove anni dopo, quando entrambi erano nell’«età dei facili amori » ma non si parlarono nemmeno. Poco dopo Dante sposava Gemma Donati, sorella di Forese e nipote di Messer Corso, e Beatrice sposava Messer Simone de’ Bardi, morendo breve tempo dopo. Tutto qui: Dante e Beatrice non solo non erano amanti, ma neanche conoscenti e fra loro due non vi fu mai assolutamente nulla. Ma la fervida fantasia del Poeta volle dare all’immagine di donna ideale da lui concepita un corpo ed un nome e questo compito toccò alla defunta Beatrice Portinari in Bardi: ella divenne la creatura eterea, spirituale, incarnazione dell’Eterno Femminino, rappresentazione vivente della grazia celeste, personificazione dell’amore platonico e della carità. La moda stilnovistica di idealizzare la Donna, raccolta e potenziata da Dante, non aveva solamente precedenti poetici provenzali e cavallereschi, verificatisi praticamente in tutta Europa dopo il mille: aveva ben più profonde radici nell’antichità classica e bisogna riconoscere che, se pure nella forma Dante accetta gli schemi letterari del suo tempo, nella concezione filosofica egli va molto più indietro, fino a raggiungere quel concetto profondo di principio femminile dell’universo, cantata nella mitologia  vedica sotto il nome di Maia, la vergine madre di Krishna, di Iside dagli Egizi, di Demetra dai Greci: figure arcane, ideologicamente coincidenti, che dominano una « quarta dimensione » extrasensoriale. Nella mitologia cristiana questa figura è impersonata da Maria, i cui attributi (verginità, immacolata concezione) e la cui simbologia richiamano con impressionante analogia (manto, azzurro, luna ecc.) gli schemi pagani delle personificazioni analoghe. Perché Dante abbia scelto Beatrice e non Maria a simboleggiare l’Amore e la Grazia, appare abbastanza ovvio: infatti il culto della Vergine Maria, pressoché sconosciuto in epoca paleocristiana, si era esteso nel Medioevo in maniera’‘impressionante, fino a raggiungere sia tra il clero che tra le plebi la forma e le dimensioni di una vera idolatria. Lo stesso termine di « Mariolatria » coniato dagli studiosi di storia del cristianesimo ci dice chiaramente di quali proporzioni doveva apparire il fenomeno. Dante quindi non poteva mettere un personaggio tanto importante dell’Olimpo cattolico a fargli da cicerone in Paradiso: la scelta, oltre che di gusto discutibile ed eccessivamente pretenziosa, poteva essere considerata anche irriverente. Scelse cosf Beatrice, creatura sublime ma terrena, sua ispiratrice di opere giovanili, e nessuno può dire che non sia stata una scelta felice. Come e perché, dopo operette giovanili di non grande rilievo, l’Alighieri si sia accinto alla grande opera che per vent’anni e più l’avrebbe impegnato e « fatto macro », ce lo dice egli stesso nell’argomento del poema, cioè nella prima terzina dell’Inferno: a trentacinque anni, vale a dire agli albori del nuovo secolo, ebbe una crisi di coscienza. Questo è il significato della « diritta via smarrita » nella « selva oscura ». Sono parole sue: ammette quindi di essersi trovato in un ginepraio per non aver camminato sempre sul sentiero della saggezza e della virtù, sedotto dalle lusinghe del vizio, che gli appare sotto la forma simbolica delle tre belve (la lince, il leone e la lupa) che rappresentano chiaramente il desiderio smoderato di piaceri, la superbia, l’avidità di cariche e di guadagni. Vizi o tendenze più che comuni purtroppo in un uomo ancor giovane che vedeva in quell’anno il culmine della sua carriera: infatti Dante fu nominato Priore del Comune di Firenze, assieme a cinque colleghi, il 15 giugno 1300, e nella sua carica fu un duro, come del resto lo era stato anche cinque anni prima quando, come membro del Consiglio, rifiutò con estrema veemenza l’ospitalità ai fuorusciti pistoiesi: da vero oltranzista, ordinò di tagliare la lingua ai traditori che in occasione della « rivolta dei Magnati » avevano voltato gabbana e si oppose decisamente al richiamo dall’esilio di messer Corso Donati, nonostante la mediazione e le garanzie offerte dal cardinale d’Acquasparta. E non bisogna dimenticare che Corso era zio di sua moglie, quindi può darsi che l’Alighieri, oltre che l’avversione ideologica, abbia buttato sulla bilancia anche qualche bega familiare. Il 30 luglio, a dispetto di Bonifacio VIII e del Cardinal Legato, Dante e i suoi Priori concludono alleanza con Bologna ed il Papa, indispettito, monta i Lucchesi contro i Fiorentini. Il priorato di Dante scade il 15 agosto: il nuovo Consiglio conferma le decisioni del precedente ed il Cardinal Legato, perduta ogni speranza di piegare i Fiorentini ai voleri del Papa, lascia Firenze non senza aver lanciato un anatema contro il governo della città. 1 rapporti col Papato sono così definitivamente rotti: un’ambasceria, capeggiata da Berto Frescobaldi, pare che pacifichi la situazione, ma il 30 novembre il Papa, inopinatamente, annuncia ufficialmente che il 2 febbraio Carlo di Valois, fratello del re di Francia, sarebbe giunto in Italia alla testa di un esercito allo scopo preciso di ricondurre la Toscana sotto l’obbedienza della Chiesa. A questo punto il partito Bianco si spezza: mentre lo stesso « leader » Vieri de’ Cerchi propone una politica di moderazione e di compromesso col Papa, Dante e i suoi fedeli esplodono colla consueta decisione e si pongono a capo di una corrente decisamente intransigente che purtroppo prende il sopravvento ed adotta una linea di condotta estremamente cruda e faziosa. Durissima fu la sentenza contro i Neri di Pistoia, attuata dal fiorentino Andrea Filippi inviato a Pistoia come podestà: furono fatte esecuzioni in massa, processi sommari, epurazioni spaventose; in questa bella azione, i Guelfi di parte Bianca ed i loro mortali nemici, i Ghibellini, si trovarono d’accordo e finirono per fare amicizia: il che dimostra ancora una volta che nel nostro paese i costumi non cambiano col passare dei secoli. 1 Neri residenti a Firenze, temendo che nella loro città si ripetesse la strage di Pistoia, fuggirono in quel di Montevarchi per attendere i liberatori, che quella volta erano rappresentati dai Francesi di Carlo di Valois, il quale mandava proclami di resistere e di raccogliere decime, ma tardava a venire. L’ultimo discorso politico di’Dante al Consiglio dei Cento porta la data del 28 settembre 1301: chiede pieni poteri ai Priori. Intanto i Francesi sono giunti a Bologna: i Bianchi inviano ambasciatori a Carlo, il quale risponde con fredda cortesia; i Neri invece ottengono un pieno successo diplomatico” e l’assicurazione da parte del Valois di schierarsi a loro favore. Quando si tratta di inviare un ambasciatore al Papa, i Priori propongono l’Alighieri; secondo quanto racconta Dino Compagni, Dante dà ai colleghi una risposta che è un condensato di spavalderia e di egocentrismo: «Se io vado, chi resta? E se io rimango, chi va? ». È chiaro che da questa frase traspare una velleità piuttosto forte di volere strafare e di assumere atteggiamenti dittatoriali da uomo necessario ed insostituibile. Non sappiamo 3e Dante abbia preso parte alla ambasceria oppure no: certo è che essa costituì un errore diplomatico. Dino Compagni infatti commenta: « Demmo loro intendimento di trattare la pace quando si convenia  arrotare i ferri >». Ma ormai l’errore era commesso e bisognava insistere nel processo di pacificazione. Fu nominato un nuovo consiglio misto di quaranta membri, metà Bianchi e metà Neri, per dimostrare che la pace era fatta e che a Firenze il partito Guelfo aveva raggiunto la riunificazione. Il 1° novembre, festa d’Ognissanti, Firenze addobbata attendeva l’arrivo del paciere ufficiale, Carlo di Valois, seguito da un esercito di francesi, affiancati da complementi marchigiani, guidati da Cante de’ Gabrielli, e da un contingente di romagnoli, alla cui testa cavalcavano Maghinardo da Susinana e Malatestin da Rimini. Il principe Carlo, al contrario del re suo fratello, era un gentiluomo, buono e forse un po’ ingenuo, che credeva fermamente nella nobiltà della sua missione: quindi niente epurazioni, niente vendette, niente guai. Tutto doveva consistere in un perdono generale ed in una solenne cerimonia di pacificazione, seguita da una propiziatoria funzione in Duomo. Ma la sua sola presenza in città lavorava in favore dei Neri: molti Bianchi cambiarono colore e Pazzino de’ Pazzi, il più nero dei Neri, era addirittura ospite in casa di Lapo Saltarelli, esponente della  parte Bianca. Tutto ciò spinse Vieri de’ Cerchi ad accostarsi al Papa, proponendogli la cessione della città in cambio della sconfessione e della umiliazione dei Neri, i quali, venuti a conoscenza della subdola manovra degli avversari, passarono immediatamente a vie di fatto, ferendo gravemente Orlanduccio Orlandi e provocando disordini di piazza per indurre Carlo ad assumere i pieni poteri. Messer Corso Donati, uomo di eccezionale tempra e coraggio, da anni esule, di notte rientra in città e raduna i suoi partigiani, i quali furiosamente si buttano al saccheggio ed alla vendetta: aprono le carceri ed assoldano i delinquenti comuni perfarsi aiutare nella distruzione delle famiglie avversarie. E al buon Carlo, destato nella notte dal clamore della canaglia e dal bagliore degli incendi, si dà ad intendere che si tratti dell’incendio accidentale di qualche casupola dal tetto di paglia, cosa che aveva seminato un po’ di panico fra il popolino… I francesi se ne stettero tranquilli nei loro alloggiamenti e lasciarono che il massacro continuasse, mentre veniva nominato podestà quel Cante de’ Gabrielli che era entrato in Firenze al seguito del Valois: a questo punto le epurazioni raggiungono proporzioni enormi, nonostante la presenza del principe, che personalmente le condannava ma non poteva in alcun modo impedirle. Fra i primi ad esser colpiti vi fu proprio Dante, ma prima che la sentenza fosse promulgata, l’Alighieri aveva già preso il largo. Nel libro «del Chiodo », conservato negli archivi fiorentini, la sua sentenza di morte porta la data del 27 gennaio 1302 ed è motivata così: « Per aver turbato la pace a Pistoia, per essersi opposto al Papa ed al Valois, infine per broglio elettorale e baratteria ». Fuggito col fratello Francesco in Valdarno, poi ad Arezzo, Dante nutrì vive speranze che il regime instaurato dai Neri cadesse, ma ogni illusione fu abbandonata colla partenza del Valois ed il Poeta prese stabile dimora in Arezzo in una casa degli Ubertini, assieme al fratello ed ad un tal Ser  Petracco, il cui figlio Francesco avrebbe  dato tanto lustro alla lirica italiana del secolo. Qui lo raggiunse Gemma coi figlioli, anch’essi cacciati da Firenze nonostante la stretta parentela non Corso Donati. Questi gli avvenimenti di quei fatidici anni 1300 e 1301 che coincisero col « mezzo del cammin di nostra vita» per l’uomo politico Alighieri: è chiaro quindi che quando il Poeta si autoaccusa di superbia, di avidità di potere e di lusso, lo fa in piena coscienza ed implicitamente riconosce di esser stato un fazioso ed un estremista spietato. Ecco la « sélva oscura » nel suo più crudo e profondo significato: l’attaccaménto materialistico ai beni ed agli amori terreni, errore profondo simile a foresta impenetrabile ove non brilla la luce del sole ma cova costante il pericolo di esser vittime di belve subdole e spietate; errore nel quale purtroppo il Poeta, per fatalità o carattere o potenza delle circostanze, riconosce di esser caduto. E si noti il fatto che mentre succedevano quei tremendi avvenimenti a Firenze, il Poeta, pur al centro della tenzone, già scriveva la prima cantica della « Commedia », tant’è vero che nella fuga si preoccupò di mettere in salvo appunto i primi tre canti dell’Inferno, che si suppone siano stati scritti quando al furore della lotta era ormai subentrata la nausea per gli orrori della guerra civile ed un poetico bisogno di quiete per dedicarsi a più elevate attività. È verosimile quindi che il pentimento sia stato precedente alla disfatta politica dell’Alighieri e non frutto di un complesso di frustrazione ed è logico pensare che egli, mentre tuonava contro i Neri dai banchi del Consiglio cittadino, già aspirasse a tirarsi fuori dalle brutture della politica per dedicarsi alla sua grande vocazione artistica: vero è, comunque, che la sua linea politica non cambiò, né si addolcì il suo estremismo, ma la purificazione dello spirito richiede tempo, molto tempo libero e Dante purtroppo non ne aveva e gli avvenimenti incalzavano. Ma nei momenti di tregua, nella pace della sua casa, il Poeta sentiva il bisogno di evadere, di elevarsi, di purificarsi alla luce della cultura classica. Riprende lo studio dell’Eneide e, affascinato dall’arte virgiliana, riceve l’ispirazione per la costruzione di quella gigantesca architettura poetica dell’aldilà che doveva costituire l’ossatura del poema, chiamato modestamente « Commedia ». I tre viaggi compiuti dal Poeta nell’Inferno, Purgatorio e Paradiso non hanno nulla di didascalico né di bigotto: essi simboleggiano invece i tre tempi di una vera e propria iniziazione a misteri sublimi; essi raffigurano con chiarezza lampante la graduale, lenta ascesa dell’uomo alla conquista della conoscenza e della grazia. Il primo viaggio simbolico si svolge nel regno del vizio e della dannazione, conseguenza inevitabile degli errori commessi per amor della carne da coloro che « hanno perduto il ben dell’intelletto ». Il secondo viaggio rappresenta la purificazione, l’espiazione e l’oblio delle colpe di coloro che, caduti nell’errore, hanno saputo ravvedersi in tempo. Il terzo viaggio, il Paradiso, rappresenta la iniziazione suprema; la grazia e la pace di cui godono coloro che hanno sempre camminato sui sentieri della virtù. i Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, è proprio nel Paradiso che la concezione dantesca si avvicina di più agli schemi classici iniziatici: analogamente a Ermete Trismegisto ed ai Pitagorici, Dante pone la sede delle « forme cosmiche » nelle sfere dei sette pianeti; nettamente pitagorica è la concezione matematica dell’armonia delle sfere celesti, aventi fra di loro gli stessi rapporti proporzionali che hanno le sette note musicali. Delle tre cantiche, l’Inferno è quella dove i concetti pagani classici maggiormente si fondono colla concezione cristiana: il fatto è d’altronde spiegabile, in quanto gli antichi autori, da Omero a Virgilio, si erano cimentati a descrivere il regno delle ombre e Dante, fedele seguace, non ha inteso allontanarsi troppo dagli schemi illustri ormai così validamente codificati. Quindi, pur mantenendo fermo il concetto cristiano di « peccato », inesistente o molto ambiguo nella letteratura classica, nonché il concetto di « punizione di vari gradi », la topografia dell’Inferno è quella pagana: l’Acheronte, lo Stige, la città di Dite; i supplizi descritti sono di ispirazione classica, come quello di Tantalo e di Sisifo. Gli stessi mostri (Caronte, Cerbero, Gerione, il Centauro) sono presi di sana pianta dalla letteratura pagana ed i dantologi non hanno nemmeno tentato di dare alle loro figure un significato allegorico cristianeggiante. Minosse solamente, che in vita fu giudice imparziale e spietato, rappresenta la giustizia divina in senso assoluto che regna sovrana nel diabolico penitenziario. .La Gorgone, che ha serpi al posto dei  capelli e impietrisce chi la guarda, è l’emblema del dubbio: esso infatti rende le idee aggrovigliate come serpenti e paralizza ogni attività in colui che «ne venga posseduto; esso è il contrario della fede che dà ai mortali la sicurezza dei propri pensieri e delle proprie opere. Dante non dà spiegazioni su questo punto, ma lascia al lettore la facoltà di interpretare il giusto significato della figura, colla famosa allocuzione

«O voi ch’avete gli intelletti sani

Mirate la dottrina che s’asconde

Sotto il velame delli versi strani! »

 Non si creda che i «versi strani » di cui è piena la Commedia costituissero un comodo sotterfugio per nascondere ad occhi profani il reale pensiero dell’Autore: Dante non ha mai avuto di queste viltà, ma ha sempre chiaramente manifestato il proprio pensiero sull’avarizia del clero, sul potere dei Papi, sulla politica del suo tempo, con una spregiudicatezza che non aveva precedenti nella letteratura di tutto il Medio Evo. Va bene che quando scriveva il canto XIX dell’Inferno Dante non era più Guelfo e che gli gravava sul collo una condanna al rogo in contumacia; però bisogna notare che in quei tempi colla religione non si scherzava e che la gente saliva sul rogo per insulti ben inferiori a quello di identificare la Chiesa colla meretrice descritta da Giovanni nel XVII capitolo dell’Apocalisse!:

 « Quando colei che siede sopra l’acque

Puttaneggiar coi regi a lui fu vista,

Quella che con le sette teste nacque

E dalle dieci corna ebbe argomento

 Finché virtute al suo marito piacque ».

 Nei tre versi che seguono, agli occhi del Santo Uffizio c’era veleno ed eresia più che sufficiente per far incenerire l’opera ed il suo autore, ma quei distinti prelati arrivarono tardi e quando si accorsero del pericolo, Dante era già morto e la vendetta postuma fu impedita a furor di popolo, come vedremo in seguito.  La forza penetrante di questa affermazione dantesca è paurosa: vi è in essa la potenza dialettica di un Savonarola e la intransigenza mistica di un Calvino:

«Fatto vi avete Iddio d’oro e d’argento

E che altro è da voi all’idolatre,

Se non ch’egli uno, e voi ne orate cento? »

È quale è la causa di questa spaventevole decadenza mistica e morale del clero, se non il potere temporale dei Papi?

« Ahi, Costantin, di quanto mal fu: matre

 Non la tua conversion, ma quella dote

Che da te prese il primo ricco patre! »

 Bastano queste poche affermazioni per affermare il pensiero massonico di Dante Alighieri e per scrivere il suo nome sull’albo d’onore dei precursori del riscatto umano dalla schiavitù ideologica medioevale. Già nel « De monarchia » egli, ancora Guelfo, aveva auspicato una netta indipendenza del potere civile da quello spirituale, per il bene dei popoli e della stessa Chiesa: concetto nuovo per quei tempi, specialmente nel nostro paese, il quale, destinato a subire per ben altri cinquecento anni l’ipoteca politica papale, ben meritava l’invettiva del canto VI del Purgatorio:

« Ahi, serva Italia di dolore ostello,

 Nave senza nocchiero in gran tempesta,

 Non donna di provincie, ma bordello!… »

L’un l’altro ha spento, ed è giunta la spada

Col pastorale; e l’un con l’altro insieme

Per viva forza mal convien che vada…»

 «…di oggimai che la Chiesa di Roma

 Per confonder in sé due reggimenti

Cade nel- fango e sé brutta e la soma ».

  Bollato a fuoco il politicantismo papale, Dante non esita a dichiarare la sua fede nella dottrina cristiana e nella validità dei suoi principi etici e spirituali. Nel canto XXIX del Purgatorio ci presenta l’allegoria della Chiesa secondo i suoi intendimenti. Essa è rappresentata da un carro avanzante in solenne processione, preceduto da stendardi dei colori dell’iride e da 24 vecchi venerandi, simbolo dei libri dell’Antico Testamento, e da quattro animali con faccia d’aquila, di uomo, di toro e di leone, rappresentanti i quattro Evangeli. Il carro, imponente sulle due ruote, simboleggianti la vita attiva e quella contemplativa, è trainato da un Grifone, mitico animale dal corpo di leone e dal capo e dalle ali d’aquila, simboleggiante il Cristo. Attorno al carro, danzano sette vergini (le virtù teologali e cardinali); chiude il corteo una coppia di vecchi, dall’aspetto l’uno di seguace di Esculapio, l’altro di uomo d’arme (Luca e Paolo di Tarso). Sul carro, trionfante e fiorita di gigli, appare raggiante Beatrice, simbolo della grazia e dell’amore, impersonante l’eterno femminino delle tradizioni mistiche iniziatiche. L’etica dantesca, per quanto fondamentalmente aristotelica, è nella sua essenza tipicamente cristiana e scevra di qualsiasi sfumatura paganeggiante. Il cammino della virtù è rappresentato come un monte da scalarsi cioè come una conquista faticosa e progressiva

 «…questa montagna è tale

Che sempre al cominciar di sotto è grave

E quanto uom più va su e men fa male »

 Concetto perfettamente aderente al simbolismo massonico, quello della via che si spiana sotto i piedi dell’uomo che persevera a camminare sui sentieri della virtù: e, una volta. trovata la via giusta, continuare su quella gioiosamente, certo che essa si presenterà  sempre più agevole: e tutto ciò senza curarsi affatto del parere volgo:

« Vien retro a me e lascia dir le genti

Sta come torre ferma che non crolla

Giammai la cima per siffiar de’ venti! »

È evidente nel pensiero dantesco il concetto cristiano di « libero arbitrio », moderato e diretto da quel senso di « coscienza » più fichtiano, cioè massonico, che kantiano: in altre parole, le buone azioni nascono dalla consapevolezza e dal piacere interiore di opera- re nel bene e nella giustizia ( Fichte) e non dalla caparbia decisione (« imperativo categorico ») di voler fare ad ogni costo il bene ed il giusto anche se costa fatica e dolore (Kant). E sopra tutto, mai curarsi delle chiacchiere altrui e delle apparenze: ognuno giudica col proprio metro e dal proprio egocentrico punto di vista le azioni degli altri, senza tener alcun conto dei sentimenti e delle circo- stanze che le hanno prodotte. Per questo i giudizi del prossimo sono così spesso errati! Nell’etica dunque, così come nella politica e nella religione, gli atteggiamenti mentali e gli ideali di Dante appaiono chiaramente massonici. Tipicamente massonico è il disprezzo che il Poeta nutre per i tiranni temporali, specie quando questi si alleano coi tiranni spirituali per combattere le idee foriere di tempi nuovi e sbarazzarsi degli oppositori, È questo il caso del Re di Francia, Filippo IV il Bello, odiato da Dante non tanto perché fratello del Valois, ma soprattutto per la disumana ingiustizia perpetrata sotto il suo regno a danno dell’Ordine dei Templari. Il famigerato processo si celebra nel 1312, a seguito delle decisioni prese dal papa Clemente V, al Concilio di Vienna, di sopprimere l’Ordine, sospettato di immoralità, di dialogo cogli infedeli e soprattutto di attività magi- che, cabalistiche ed alchimistiche severamente proibite. Nel 1313, Giacomo De Molay e i suoi cavalieri salgono il patibolo scagliando

contro il Papa e il Re la loro terribile maledizione. Efficientissima maledizione, si può dire, in quanto entro otto mesi entrambi questi personaggi decedono di misteriose ma inesorabili malattie. Già nel canto VIII del Purgatorig Dante, incontrando Filippo III ed Enrico I di Navarra, li chiama:

«Padre e suocero son del mal di Francia,

Sanno la vita sua viziata e lorda

E quindi vien il duol che sì li lancia ».

Addirittura, la pena inflitta ai parenti di Filippo il Bello sarebbe causata dalla cognizione dei vizi del loro rampollo e dalla loro incapacità a correggerli. Nel canto XX, è il fondatore della dinastia, Ugo Capeto, che si autoaccusa di una colpa analoga:

«Io fui radice della mala pianta

Che la terra cristiana tutta aduggia »

 e si rammarica di vedere i fiordalisi di Francia patteggiare col Papa ad Alagna la rovina di Firenze:

« Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso

 E nel vicario suo Cristo esser catto,

Veggiolo un’altra volta esser deriso;

 Veggio rinnovellar l’aceto e ’l fele

E tra i vivi ladron esser anciso ».

Ultima visione, la più mostruosa di tutte: Filippo il Bello viola illegalmente la sede dei Cavalieri del Tempio a Parigi:

Veggio il nuovo Pilato sì crudele

 Che ciò nol sazia, ma senza decreto,

 Porta nel Tempio le cupide vele.

 O Signor mio, quando sarò io lieto

 A veder la vendetta che, nascosa,

 Fa dolce l’ira tua nel tuo segreto? »

Completata la catarsi attraverso i due viaggi simbolici dell’Inferno e del Purgatorio, Dante si accinge a varcare la soglia del regno degli eletti, il Paradiso. Ora il Poeta è in grado veramente di comprendere l’armonia delle sfere celesti e di avvicinarsi a coloro che godono la eterna gioia. Il lirismo dell’Alighieri raggiunge nel Paradiso le vette più alte: sfilano innanzi a lui i Beati ed i Martiri che la Chiesa ha glorificato nei secoli. Nessuna religione, antica o i moderna, aveva mai avuto un cantore di tanta classe e di tanto acume. Ma il Papato, ben lungi dall’accettare la Divina Commedia come il poema della Cristianità, rinnova i suoi strali contro il Poeta e la sua opera e non esita a porla all’Indice del Santo Uffizio come libro nefasto e proibito. Dante muore a Ravenna nel 1321, fra il compianto generale del popolo che si associa al cordoglio di Guido Novello da Polenta, Signore della città e amico fraterno del Poeta. Il suo corpo viene sepolto cristianamente nella chiesa di S. Francesco ed alle solenni onoranze partecipa tutta la città in lutto. Ma da Bologna giunge un ordine perentorio: il Cardinal Legato, Bertrando del Poggetto, vuole che la salma del Poeta, bollato di eresia, sia dissepolta e distrutta. Nel frattempo Guido Novello è caduto in disgrazia ed ha perso la Signorìa, ma il popolo, che venera le spoglie mottali di Dante, si ribella all’ordinanza ecclesiastica con generoso sdegno; gli stessi frati minori custodi del sepolcro si rifiutano di obbedire e fanno causa comune coi cittadini. Bertrando del Poggetto è così costretto a lasciar cadere l’ordinanza ed a ritirarsi in buon ordine. Passano i secoli e l’Umanesimo ed il Rinascimento fanno giustizia dell’oscurantismo medioevale: i Papi si evolvono, le condizioni politiche mutano ed all’opera dantesca viene riconosciuto tutto il suo reale merito letterario e religioso: la Divina Commedia, che per due secoli era stata riservata ad un numero limitato di iniziati ed aveva costituito un piccante successo antipapale, con l’invenzione della stampa entra nelle case del popolo evoluto, nelle canoniche del clero umanista e raffinato. Ogni diatriba, ogni rancore antico cade ed i fiorentini vorrebbero che le spoglie mortali dell’esule ‘trionfalmente entrassero nel «bel San Giovanni» che egli aveva per vent’anni inutilmente lacrimato. Sorge così la diatriba fra Ravenna e Firenze: la città che non lo volle vivo non lo avrà mai neppure morto. Gli stessi frati di S. Francesco, a scanso di colpi di mano clandestini o di ordini perentori, trafugano nottetempo le ossa cortese e le nascondono in una cassetta, che murano nelle pareti del, convento. Le ossa di Dante cessano così di esser fonte di contese: sono sparite per sempre. Solo alla fine dell’Ottocento, durante i lavori di restauro del convento, un muratore trova una misteriosa cassettina, la cui etichetta non lascia dubbi sul contenuto: OSSA  DANTIS. Nessuna città ha mai custodito con tanto amore e tanta gelosia i resti mortali di un cittadino onorario. Ravenna ha questo merito: essa che fu l’ultima tappa di un duro peregrinare, ha assunto nei secoli il diritto di proclamarsi seconda patria del Poeta. I tempi sono mutati: la vecchia città adriatica, silenziosamente sopita sulle antiche glorie e le vestigia illustri, oggi si evolve con una rapidità sorprendente e si avvia a diventare uno dei centri industriali più moderni del Mediterraneo. Ma di questo la vetusta « Città del silenzio » non se ne gloria: non delle mute testimonianze di un passato imperiale, non dei fantasmagorici opifici che specchiano nella notte miriadi di luci nelle acque cupe del Candiano, essa mena vanto. L’orgoglio di Ravenna vecchia e nuova è ancora là, in fondo a un vicolo, dentro un tempietto tondo e ridicolo come una zuccheriera, ed è costituito da poche ossa corrose dal tempo e dalle vicissitudini. Poveri resti della umana miseria; ma per il popolo ravennate quelle ossa sono più preziose di tutti i tesori perché testimoniano al mondo intero l’ospitalità sincera, l’apprezzamento di un’opera geniale ed anticonformista, la volontà di tutto un popolo di resistere alla sopraffazione e di abbracciare un ideale che il « Ghibellin fuggiasco » trascinava faticosamente per una Italia infida e litigiosa e che essi, i Ravennati, seppero comprendere ed impugnare come una bandiera. Sette secoli: tanto tempo è passato. Ma Dante è sempre attuale, perché i suoi principi sono universali, scientifici e duraturi. Egli appare ancor oggi più che mai il Profeta di una rinascita umana che iniziò ai tempi suoi e che del tutto non è ancora compiuta, egli 27

è ancora il Bardo della nuova concezione della vita e ‘della religione perché nel suo cuore, per quanto preso dalla politica, si nascondevano quei principi che sono universali ed eterni in quanto ispirati direttamente da Dio. E quando il Poeta, ripulitosi delle scorie psicologiche, dei pregiudizi, dell’odio di parte e di un vago intellettualismo, seppe scoprirli dentro di sé, la Verità balzò lampante e dalla sua penna sgorgarono fiumi di saggezza e di poesia.

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