IL MITO DI ULISSE

Il mito di Ulisse

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

nell’Odissea omerica la leggenda di Ulisse ha un chiaro e ben definito epilogo. Dopo vent’anni di perigliose e fatali peregrinazioni il “non mai domo Odisseo, d’ogni angoscia vincitor felice”, ritorna alla sua pietrosa Itaca e si conforta al pensiero che la travagliata sua esistenza, dopo la vittoria sui Proci e dopo un’altra fortunata spedizione, avrà finalmente un placido e sereno tramonto:

“.. fuor del mare, mollemente consunto da una lenta vecchiezza, andrò incontro a una morte tranquilla mentre vivran le genti intorno ”.

Sono le parole che egli stesso rivolge alla fida Penelope, riferendosi al vaticinio che nell’Ade gli aveva fatto l’indovino Tiresia. Ma già nell’antichità classica un’altra traduzione, ‘raccolta da autori latini (Ovidio, Cicerone, Orazio, Seneca, Plinio), aveva narrato, con vaghi e misteriosi riferimenti, di un viaggio che Ulisse avrebbe compiuto dopo la sua partenza da Circe. Invece di ritornare alla;sua isola si sarebbe spinto, con pochi compagni ormai invecchiati, per vie intentate e pericoli inenarrabili, fino agli estremi dell’Oceano ed avrebbe raggiunto l’isola dei Morti. Un geografo del Ill secolo, certo Solino, nella sua Raccolta di cose memorabili, un compendio di notizie storico-geografiche assai diffuso nel Medioevo, attribuisce ad Ulisse la fondazione di Lisbona, perciò ben al di là delle Colonne d’Ercole. Questa trasformazione del Mito di Ulisse è dovuta al fatto che egli era diventato il simbolo dell’eroe indomito, insaziabile ricercatore di nuove terre e di nuove genti. Cicerone esaltava l’uom dal multiforme ingegno al quale sarebbe stata disdicevole una vita oziosa in Itaca. L’amore del conoscere e del sapere – commentava Cicerone – è così profondamente radicato nell’animo umano che la natura dell’uomo è trascinata verso di esso anche senza prospettiva alcuna di guadagno. Di qui deriva la concezione dantesca di un Ulisse insofferente di ritornare a restringere la propria esistenza entro gli angusti confini della rupestre Itaca. Dante, che non conosceva l’Odissea, è il primo poeta del nuovo Mito di Ulisse, in cui neppure gli affetti familiari e domestici riescono a vincere “l’ardore a divenir del mondo esperto e degli umani vizi e del valore …” Nel suo racconto, i temi e le motivazioni che erano state di Orazio e di Cicerone assumono toni di dolente terrestrità oltre che di alta poesia:

 “.. lo e compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov’Ercole segno li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;

da la man destra milasciai Sibilia,

dall’altra già m’avea lasciata Setta.

O frati – dissi – che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperienza

di retro al sol, del mondo senza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza …”

Ulisse rivive in una situazione nuova, totalmente diversa da quella omerica. Egli non si configura più soltanto come l’eroe desideroso di sempre più vasti orizzonti geografici: diviene il simbolo dell’uomo artigliato dall’ansia, dall’angoscia di arricchire la sua cultura attraverso l’ignoto, dell’uomo insofferente di ogni sapere dogmatico, che non accetta più una conoscenza che non sia frutto di una personale conquista, una conoscenza, in altre parole, che non sia provata e documentata dall’esperienza e dalla ragione. L’ardore del saper vincere in lui ogni altro sentimento: un ardore intimo, razionale, alimentato con piena coscienza, per il soddisfacimento del quale anche i Fratelli sono indotti a seguirlo, verso confini inesplorati e lontani. È il fascino dell’ignoto, ma è un fascino consapevole, che non si limita a credere, ma vuole sperimentare, cioè acquisire intellettualmente conoscenze più profonde, perciò più vere ed autentiche. È il risoluto e deciso richiamo alla qualità essenziale dell’ uomo che è quel che è solo in quanto supera, respinge da sé, l’esistenza del bruto e si apre alle forme che l’individuano e gli danno significato, cioè alla virtù, all’impegno etico ed alla conoscehza, all’indagine intellettuale fatta di curiosità e finalizzata a nuova conoscenza. Questo mito dantesco di Ulisse e la nuova situazione di cui esso si innerva avranno una vastissima eco di favorevoli riscontri nella civiltà culturale moderna. Ulisse viene via via identificandosi, e sempre con più persuasive ed appropriate motivazioni, nell’uomo assetato di verità e di conquiste in ogni campo dello scibile, bramoso di abbattere tutti i divieti e tutti i confini: insomma un simbolo di civiltà e-di progresso. Già Torquato Tasso sembra preludere al nuovo mito esoterico dell’Ulisse moderno, esaltando, nella Gerusalemme Liberata, la figura di Cristoforo Colombo dice: “vittorioso ed emulo del sole” si sforza “de buscar el levante por el ponente”. Ma è agli scrittori dell’Ottocento che spetta il vanto di aver rinnovato la creazione dantesca e di averne fatto – in termini di circostanziata casistica massonica – l’espressione dell’inesausta ricerca di verità da parte dell’uomo. L’inglese Alfred Tennyson, ad esempio, nel suo poemetto “Ulisse”, raffigura l’ingegnoso ed indomito Odisseo che, dopo essere ritornato ad Itaca, divenuto vecchio, non sa piegare l’animo al pensiero di una morte inerte e risentendo in cuore un desiderio irrefrenabile di nuove conoscenze invita i vecchi compagni a tentare, prima che giunga l’ora estrema, un’ultima prova. L’esortazione che Ulisse rivolge ai suoi uomini, e che proponiamo nella traduzione del Fratello Giovanni Pascoli, è tra le pagine più belle della lirica moderna:

“Ecco il porto, laggiù … Compagni,

cuori che avete tollerato, penato, pensato,

voi che accoglieste, ad ogni ora, con gaio ed egual saluto

tanto la folgore quanto il sereno, che liberi di cuori,

e libere fronte opponeste … Venite!

Tardi non è per color che cercano un mondo novello.

Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori via percuotete …

Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siam la forza

noi che nei giorni lontani moveva la terra e il cielo?

Noi, s’è quello che s’è: una tempra d’eroici cuori,

sempre la stessa: assaliti dal tempo e dal fato, ma duri

sempre di lottare e cercare e trovare né cedere mai”

Dove il significato profondo è tutto nel potentissimo verso: “Tardi non è per coloro che cercano un mondo novello

Ancora più massonicamente rilevato è il mito di Ulisse, espresso dallo stesso Fratello Pascoli nel poemetto intitolato L’Ultimo viaggio. Ulisse, risalpando da Itaca la primavera del nono anno dopo il ritorno, rivede i luoghi che già furono meta del suo tempestoso peregrinare. Rivede l’isola di Circe, ma la maga e la sua casa non ci sono più, perché si è spento in lui l’amore che le aveva create. Rivede la terra dei Ciclopi, ma il Ciclope e il dolce sogno di gloria che già avevano illuso il suo cuore sono svaniti, come sono svanite in lui le ultime illusioni. Alla fine arriva malinconico al lido delle Sirene. Forse almeno esse sapranno dirgli quello che solo occorre ricercare: il vero. Sull’immobile ed arcana quiete del mare innalza la voce alta e sicura verso le Sirene, alle quali, secondo quanto ha narrato Omero, prima era sfuggito:

“Son io! Son io, che torno per sapere!

Ché molto io vidi, come voi vedete me …

E il vecchio vide un grande mucchio d’ossa

d’uomini, e pelli raggrinzite intorno,

presso le due Sirene, immobilmente

stese sul lido, simili a due scogli.

Vedo. Sia pure. Questo duro ossame …

… ma, voi due, parlate!

Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,

e prima ch’io muoia …

Solo mi resta un attimo.

Vi prego. Ditemi almeno chi son io …

E tra i due scogli si spezzo la nave”.

 Le Sirene sono il simbolo tragico delle più alte aspirazioni che da sempre hanno affascinato l’uomo. Egli cerca angosciosamente nel mondo la ragione della propria vita € muore spesso senza averla trovata. Ma per quanto sconsolata e stremante sia questa diuturna ricerca, egli non deve rinunciare ad esplorare, non deve fermarsi alla soglia del mistero. Un Ulisse ancora più legato ai problemi del vivere quotidiano è quello presentatoci da James Joyce. Lo scrittore irlandese ha scoperto che ogni umana esperienza, per quanto povera, semplice e squallida, può essere ricondotta a quel grande insuperabile modello che è Ulisse. La vicenda del suo romanzo si riduce infatti ad un sol giorno, dalle otto del mattino alle due di notte del 16 giugno 1904. Ne è protagonista un ebreo, agente di pubblicità per un giornale di Dublino, tale Leopold Bloom. Le sue avventure, i suoi incontri, le sue viltà, i tradimenti, le gioie, le passioni sono l’espressione della nostra quotidiana odissea, senza splendori e senza miti. Perché il fine che si propone Joyce è proprio questo: offrire agli uomini un punto di riferimento nel cercare di venire a capo del proprio destino. L’Ulisse dantesco aveva dovuto scendere fino al regno dei morti perché gli fosse chiara la via della salvezza. Joyce si cala nel buio della coscienza, anzi nell’inconscio dell’uomo, per scoprire i drammi, reconditi e misteriosi, del vivere quotidiano.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’.  G. Bltt.

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