IL DIO DI VOLTAIRE

IL DIO DI  VOLTAIRE

Di Claudio Giulio Anta (Saggista)

Oramai non mi rivolgo più agli uomini, bensì a Te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e di tutti i tempi, se mai è lecito a deboli creature, sperdute nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, di ardire chiederti qualcosa, a Te che hai dato tutto, a Te i cui segreti sono immutabili ed eterni. Degnati di considerare con occhi pietosi gli errori inerenti alla nostra natura! E fa’ sì che questi errori non diventino la nostra sventura! Tu non ci hai dato un cuore perché ci odiassimo, e mani perché ci sgozzassimo; fa’ sì che ci aiutiamo reciprocamente a tollerare il fardello di una vita penosa € passeggera! Fa’ sì che le minime differenze tra le vesti che coprono il nostro debole corpo, tra le nostre lingue inadeguate, tra tutti i nostri ridicoli costumi, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre insensate opinioni, tra tutte le nostre condizioni così sproporzionate ai nostri occhi e così simili davanti a Te; che tutte le minime sfumature che distinguono gli atomi chiamati uomini non siano segnali di odio e di persecuzione! Fa’ sì che coloro i quali accendono ceri in pieno giorno per celebrarTi, tollerino coloro i quali si accontentano della luce del Tuo Sole! Che coloro i quali coprono la veste con una tela bianca per dire che bisogna amarTi, non detestino coloro i quali dicono la stessa cosa sotto un manto di lana nera! Che sia la stessa cosa adorarti in un gergo derivato da una lingua antica o in un gergo più recente! Fa’ sì che coloro i quali indossano una veste tinta di rosso o violetto, che dominano su una piccola parte di un mucchio di fango di questo mondo, e che posseggono alcuni frammenti arrotondati d’un certo metallo, godano senza orgoglio di ciò che chiamano grandezza e ricchezza, e che gli altri li guardino senza invidia: perché Tu sai che in codeste vanità non c’è nulla da invidiare, né da insuperbire. Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Che abbiano orrore della tirannia esercitata sulle anime, come in esecrazione il brigantaggio che con la forza rapisce il frutto del lavoro e della pacifica industria!  Se i flagelli della guerra sono inevitabili, non odiamoci, non laceriamoci a vicenda nei periodi di pace, e impieghiamo l’attimo della nostra esistenza a benedire in varie lingue diverse, dal Siam alla California, la Tua bontà che ci ha accordato questo attimo.  Con questa suggestiva  “Preghiera a Dio”, Voltaire – al secolo Frangois Marie Arouet (1694-1778) – concluse Le traité sur la tolérance (1763). All’epoca il sessantanovenne Voltaire aveva già approfondito alcuni temi fondamentali riconducibili all’età dei Lumi: la battaglia deista contro il cattolicesimo, la polemice contro le ingiustizie e le superstizioni, la concezione della libertà individuale, l’esigenza di un profondo rinnovamento dei costumi, l’auspicato ricorso al riformismo illuminato dei sovrani, lo sviluppo razionale delle attività produttive; argomenti trattati in una serie di opere di elevato valore letterario (Il Secolo di Luigi XIV, 1751; Pensieri sul governo, 1752; Saggio sui costumi, 1756). Inoltre, il filosofo francese stava collaborando attivamente alla realizzazione della monumentale Encyclopédie di Denis Diderot e Jean-Baptiste d’’Alembert, opera che avrebbe magistralmente incarnato lo – spirito illuminista. Voltaire coltivava grandi passioni intellettuali, possedeva una straordinaria cultura (era tragediografo, poeta, storico e filosofo) e una scrittura ironica e brillante, unitamente a una viva curiosità per gli avvenimenti del suo tempo; e fu proprio un avvenimento (ciò che oggi definiremmo un “fatto di cronaca”) a ispirare la stesura de Il Trattato sulla tolleranza. Infatti, nel 1762 egli aveva appreso che un ugonotto, Jan Calas, negoziante a Tolosa, era stato accusato in modo del tutto arbitrario di aver ucciso il figlio per impedirgli di convertirsi alla fede cattolica; più precisamente di averne causato il suicidio con la complicità della moglie e di un altro figlio. A furor di popolo Jean Calas era stato arrestato, torturato, costretto a confessare e, infine, condannato a morire sulla ruota; durante questa terribile tortura egli rivendicò la sua innocenza, perdonando anche i suoi carnefici. Un simile episodio non era accaduto casualmente a Tolosa; si trattava di una delle città più intolleranti della Francia, il luogo dove si festeggiava ogni anno la morte di migliaia di ugonotti massacrati dai cattolici circa due secoli prima, durante la notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572). Voltaire decise di fare del “caso Calas” l’occasione di una personale battaglia; attraverso Il Trattato sulla tolleranza egli descrisse con impressionante realismo i fatti, le reazioni della folla, il fanatismo del clero, l’impotenza dei pochi che non credevano alla veridicità delle tesi accusatorie, l’opportunismo dei giudici pronti a cavalcare l’ira popolare per trarne vantaggi. Ma attraverso quest’opera Voltaire non si limitò a delineare un graffiante ed efficace affresco sociale del suo tempo; egli descrisse altresì lo stato dei rapporti interconfessionali esistenti all’epoca in Europa. Con qualche forzatura tessé l’elogio della Gran Bretagna, dove i cattolici non godevano di tutti i diritti civili, ma erano umanamente tollerati; della Germania, dove i Trattati di Westfalia avevano creato tra cattolici e protestanti una clima di civile convivenza; dell’Olanda, dove gli ebrei erano pienamente inseriti in una società a maggioranza protestante; dell’Impero ottomano dove “il Gran Signore governa[va] in pace venti popoli di diverse religioni e duecentomila greci

[vivevano]

in pace a Costantinopoli”. Persino la Russia ortodossa e la Persia musulmana apparivano a Voltaire più tolleranti rispetto a quei Paesi in cui, come la Francia, la Chiesa era riuscita a forgiare mentalità e a imporre leggi. Non può dunque sorprendere che l’intransigenza rappresentasse ai suoi occhi un tratto distintivo della Chiesa cattolica e della sua storia. 1 greci, i romani e altri popoli dell’antichità – argomentò ulteriormente il filosofo francese attraverso un vivace excursus storico-politico – avevano consentito agli stranieri di professare la loro fede associandola spesso con quella praticata nel Paese ospitante. Un detto del Senato romano proclamava: “Deorum offensae diis curare”, vale a dire che sarebbe toccato agli Dei vendicare le offese fatte agli Dei; in altri termini, una bestemmia o un sacrilegio potevano diventare affari di Stato solo se avessero messo a repentaglio l’ordine pubblico. Qualcuno avrebbe potuto obiettare che i cristiani, nell’antica Roma, erano stati a loro volta perseguitati, torturati, dati in pasto alle belve; tuttavia, Voltaire non n’era convinto, tant’è vero che dedicò una parte de Il Trattato sulla Tolleranza a una rilettura ironica e tagliente degli antichi martirologi. È molto probabile, affermò il filosofo francese, che i numerosi racconti delle loro sofferenze appartenessero alla storia di un mito edificante costruito nel tempo, e che le condanne a morte, quando avvennero, fossero motivate da manifestazioni di dissenso politico. Come dire che quando Roma uccise i cristiani, lo fece per difendere la propria concezione dello Stato, piuttosto che per annientare la loro fede. La conclusione dell’opera era rappresentata da un inno ecumenico alla tolleranza; attraverso una preghiera laica Voltaire si rivolgeva direttamente a Dio chiedendogli di perdonare e illuminare coloro che avevano peccato in suo nome, che si erano serviti di lui per perseguire i loro simili, che pretendevano di amarlo in un solo modo uccidendo chiunque desiderasse farlo diversamente; una preghiera che rappresentava un manifesto dell’ecumenismo liberale e del relativismo culturale. Non era la prima volta che Voltaire approfondiva il tema della tolleranza religiosa; infatti, nel 1723 aveva pubblicato il poema La Ligue, scritto durante la prigionia alla Bastiglia (causata da alcuni versi satirici scritti nel 1717 contro Filippo d’Orléans, reggente di Francia che governava per conto del giovanissimo Luigi XV). L’opera era stata dedicata al re Enrico IV di Francia, esempio di tolleranza religiosa; una personalità diametralmente distante da Luigi XIV che, nel 1685, aveva revocato l’editto di Nantes ripristinando di fatto le persecuzioni contro ugonotti e giansenisti. Da allora Voltaire sarebbe diventato uno strenuo paladino della tolleranza sia in ambito politico che religioso; quella tolleranza che, per l’intellettuale parigino, stava agli antipodi rispetto al fanatismo di chi si scannava per l’interpretazione di un codice o per la forma di un culto religioso. La tolleranza stava alla pace come l’intolleranza alle guerre civili e religiose; inoltre, essa consisteva nel rifiuto del pregiudizio e della superstizione; ma era anche l’accettazione della religione naturale, di un Dio garante dell’ordine universale, ma non geloso ed esclusivo. Voltaire fu dunque un lucido interprete e testimonedi quella dottrina filosofico-religiosa tipicamente illuministica che si sviluppò nel XVII secolo in Gran Bretagna, trovando successivamente terreno fertile in Francia e in Germania: il deismo. In un’epoca contraddistinta dalle guerre di religione che stavano insanguinando l’Europa, il deismo si poneva quale antidoto per porre termine alle feroci lotte tra Paesi belligeranti in nomedelle religioni rivelate, facendo leva sulla ragione per accomunare gli esseri umani. Il deismo —- come Voltaire dimostrò attraverso il suo tenace e lungimirante impegno civile e intellettuale – riconosceva l’esistenza di una divinità suprema dell’universo, per spiegarne l’ordine, l’armonia; negava ogni forma di rivelazione; rifiutava qualsiasi dogmatismo e autorità religiosa; lasciava a ogni individuo la libertà di decidere circa la visione dellà vita dopo la morte. Ciò lo differenziava dalle religioni rivelate (in primis quelle monoteiste) nelle quali la divinità non esercita solo una funzione creatrice, ma anche quella di censore etico dell’uomo (un Dio che giudica e, all’occorrenza, punisce). Secondo la concezionedeistica, l’uso corretto della ragione avrebbe permesso all’uomodi elaborare una religione naturale e razionale, senza basarsi sui testi sacri; proprio per questo motivo Blaise Pascal non aveva lesinato critiche nei confronti dei deisti, contrapponendo al “Dio dei filosofi”, frutto dei Lumi della ragione, il Dio rivelato dalle Sacre Scritture. Numerosi intellettuali dell’Illuminismo europeo sostennero le tesi deistiche; su tutti John Locke e Immanuel Kant. E a partire dal Settecento, esse furono accolte e progressivamente sviluppate all’interno dei templi massonici grazie al contributo di prestigiosi intellettuali e politici; basti ricordare i nomi di Gotthold Ephraim Lessing, Thomas Jefferson, Johann Gottlieb Fichte e Voltaire. Proprio Voltaire fu iniziato alla Massoneria il 7 aprile 1778 a Parigi, nella neonata «Loge des Neuf Sceurs» (Loggia delle Nove Sorelle); un’officina che ebbe una rilevante influenza nell’organizzazione del sostegno francese alla rivoluzione americana. Maestro venerabile era il celebre astronomo Joseph-Jéréme Lefrancois de Lalande; Voltaire sarebbe entrato nel Tempio guidato da Benjamin Franklin, all’epoca ambasciatore della giovane repubblica americana nella capitale francese, Negli anni che precedettero la sua adesione alla Massoneria Voltaire aveva affrontato e messo a fuoco il tema del deismo in più occasioni; non solo in occasione de Le traité sur la tolérance attraverso la “Preghiera a Dio”. Già nel Trattato di Metafisica (1734), egli aveva criticato Senza mezzi ter- mini l’ateismo, considerato un atteggiamento mentale inadatto a spiegare “l’ordine del grande orologio dell’universo che richiede un grande orologiaio quale suo fattore”. Questa affascinante metafora – è evidente – fu utilizzata dall’intellettuale parigino per spiegare il “disegno intelligente” dell’universo e la sua relazione con Dio; in altri termini, così come i complessi meccanismi interni di un orologio necessitavano di un “progettista intelligente”, anche l’universo avrebbe avuto bisogno di un grande orologiaio in grado di regolarne l’ordine e la complessità, Dunque, si trattava di un’immagine che ben si coniugava con la visione di una religione naturale e Con un essere supremo avente le fattezze del Grande Architetto dell’Universo. Mentre anni dopo, nel Dizionario Filosofico (1764) Voltaire avrebbe biasimato le concezioni religiose troppo definite e dettagliate, vale a dire quelle che si basavano esclusivamente sulle scritture e cercavano di rivelare in maniera del tutto grossolana i misteri divini; non può dunque meravigliare che egli rifiutò le cosiddette prove dell’esistenza di Dio elaborate dalla Scolastica. La vera religione non consisteva nei dogmi e nelle cerimonie, ma in un processo di emancipazione morale e di tensione spirituale dell’uomo desideroso di rapportarsi in maniera intima e diretta con Dio. Il 30 maggio 1778, poche settimane dopo la sua iniziazione, Voltaire sarebbe passato all’Oriente Eterno; l’ultimo messaggio scritto di suo pugno lasciato ai posteri recitava: “Muoio adorando Dio, amando i miei amici, non odiando i miei nemici, e detestando la superstizione”. Anche se il percorso iniziatico era durato pochi giorni, nella vita profana il grande deista francese aveva dimostrato con tutta la sua verve intellettuale e spirituale, che ispirarono i suoi numerosi capolavori, di “edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigionial vizio e lavorare al Bene e al Progresso dell’Umanità” (per riprendere la parole tratte dal nostro rituale, pronunciate dal Primo Sorvegliante). Durante la vita profana Voltaire aveva già idealmente impugnato la squadra e il compasso, desideroso di attuare una proficua sintesi tra la ricerca interiore (simboleggiata dal compasso) e la rettitudine nell’azione (rappresentata dalla squadra). Di fatto, egli aveva già lavorato la propria pietra grezza, percorrendo e tracciando i sentieri della pace e della tolleranza tra i popoli, sostenendo una religione naturale fondata su un’entità divina sovrannaturale garante dell’ordine universale; sempre guidato da un afflato umanitario nel suo modus cogitandi e operandi. Ancor prima del suo breve viaggio iniziatico Voltaire aveva “incrociato” quel Grande Architetto dell’Universo che non identificò mai in un’entità messianica, ma in un essere supremo in grado di stimolare la gra- duale illuminazione delle menti umane. Non è azzardato affermare che la vita del filosofo francese, dall’alto della sua’ straordinaria statura culturale e morale,si era svolta quasi interamente in una sorta di personale “Gabinetto di riflessione”, Grazie alla sua esemplare lezione deista Voltaire avrebbe tramandato ai posteri la preziosa chiave di lettura della tolleranza per osservare e giudicare senza pregiudizi la società del suo tempo (e non solo). A suo parere, la miopia umana non poteva essere superata né attraverso la luce abbagliante del dogmatismo, padre dell’intolleranza, né mediante il buio completo dell’ateismo; solo cogliendo il contrasto tra luce e ombra gli avvenimenti politici, religiosi e sociali (come il “caso Calas”) sarebbero apparsi nella loro tridimensionalità, e l’umanità avrebbe potuto progredire lungo la strada della fratellanza universale. E poiché l’introspezione massonica si basa essenzialmente sull’esistenza di un essere supremo, un Grande Architetto dell’Universo che affonda le sue radici nella visione deistica, ritengo che, a distanza di due secoli e mezzo dalla pubblicazione de Le traité sur la tolérance, la “Preghiera a Dio” di Voltaire rappresenti ancora oggi una sorta di vademecum, una preziosa bussola di orientamento che ciascun Libero Muratore può utilizzare cum grano salis per affrontare i difficoltosi e tormentati meandri del dogmatismo e dell’intolleranza.

Tratto da “HIRAM”  n°2/2014

Questa voce è stata pubblicata in Simbologia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *