SHOAH E PAROLA

SHOAH  E PAROLA

  di   TONINO  NOCERA

Perché – dopo settanta anni – parliamo ancora di Shoah? Perché quel passato non deve passare. Non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo. Come scrive Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”:«Nun ce penso cchiu? È’ na parota. E chi po’ scurda!…» Poichè «Un’umanità che dimenticasse Buchenwald, Auschwitz, io non posso accettarla. Scrivo perché ci se ne ricordi» diceva Giorgio Bassani. Non per un rancoroso attaccamento a quanto accadde ma perché quanto accadde è – sinora – un unicum nella storia dell’Umanità. Non sono mancati altri orrori e, purtroppo, altri ne seguiranno sulla Terra. Ma la Shoah non ha eguali: si organizzò e sì pose in essere lo sterminio di un popolo e di tanti altri individui: colpevoli solo di essere. Con feroce determinazione e con un metodo industriale. Pertanto, pur potendo (e dovendo) effettuare legittime comparazioni: dobbiamo evitare le semplici analogie. Ma qual è stato il ruolo della parola nella Shoah? E prima ancora: cos’è la parola, a cosa serve? Nella vita quotidiana ci lega al resto del mondo. Attenti, però, perché con le stesse parole sì può dire quello che si vuole, anche cose diverse: come insegna il dispaccio di Ems. Pensate alla parola Massoneria: cos’è realmente e cosa scrivono e pensano tanti profani. O a un articolo di cronaca giudiziaria su un processo con dieci imputati. La sentenza è: cinque assolti e cinque condannati. Un giornale titola: Processo X: 5 condanne; un altro, invece, processo X: 5 assoluzioni. Entrambi dicono la stessa cosa: raccontano quanto accaduto. Suscitando diverse reazioni nel lettore. Quindi, fondamentale è il controllo della lingua. Perché la lingua appiattisce, leviga, dà forma alle cose ed è performativa: crea comportamenti. George Orwell in “1984” parla della ’neolingua’, lingua ufficiale di Oceania, creata per ridurre le capacità speculative e impedire le eresie: ossia – etimologicamente – compiere la propria scelta. Nella “neolingua” è possibile usare la parola libero: solo in frasi come «Questo cane è libero dalle pulci». Sulla Shoah la domanda più diffusa è: come è potuto accadere? All’inizio fu la Shoah della parola. Il tedesco – la lingua di Goethe e Kant- fu prostituito agli interessi nazisti. La lingua nazista era semplice. Victor Klemperer la chiamò “LT (Lingua Tertii Imperii)”. I nazisti ripetevano pochi concetti: all’infinito e in maniera martellante. Senza sosta. Senza esitazione. Con determinazione. Parole formalmente innocue: terribili nella sostanza. Soluzione finale: lo sterminio degli ebrei. Pezzi: i deportati. Sottuomini: gli internati. Le parole usate non erano molte; il nazismo non creò nuove parole: usò quelle già in essere. Mutando il loro significato. Furono aghi che inocularono i germi dell’intolleranza. L’obiettivo? Ridurre lo spazio per i pensieri e la coscienza. Tutto questo accadde nel cuore dell’Europa, nella civile e avanzata Germania: pochi decenni fa. “LTI” divenne l’arsenico quotidiano che lentamente corrose e inquinò la coscienza dei tedeschi. I discorsi erano semplici, chiari: dovevano colpire immediatamente la pancia e non il cuore: men che mai la mente. Infine, come diceva Goebbels, ripetete una bugia all’infinito diverrà una verità. E la parola delle vittime? intanto, vi era la difficoltà di narrare quanto accaduto. L’incomunicabilità di Auschwitz. E a chi? A chi non voleva sentire? Come insegna la bocciatura editoriale di “Se questo è un uomo” appena scritto da Primo Levi. O come scrive Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”. Gennaro Iovine, il protagonista, tornato a casa dopo la fuga da un campo di concentramento tedesco, vuole raccontare ai familiari la sua odissea e quella del suo compagno di viaggio: «Il povero cristiano era ebreo!». Ma il figlio Amedeo: «Va buo’ papà, Il’e’ passata brutta, ma mo’ sì’ turnato!». E il suo amico Settebellizzi: «Nun date retta, don Genna’, non ci pensate più!». Don Gennaro tenta di proseguire: «Miezo a ‘na campagna, annascunnuto into a ‘ nu fuosso, mentrattuorno cadevano granate e cannunate…» È la moglie Amalia: «Aggiu pacienza, Genna’, ce lo racconti più tardi, mo’ ci avimmo mettere a tavola!» Tutto ciò generò, per molti anni, silenzio ben rappresentato da Hurbinek: un bimbo nato ad Auschwitz. Lo racconta Primo Levi ne “La Tregua”. Nessuno sapeva chi fosse e come fosse nato. Era paralizzato dalla vita in giù e non parlava: come se volesse rappresentare l’incomunicabilità di Auschwitz e l’impossibilità di fuggire. Primo Levi si assunse il compito di testimoniare e parlare per chi non aveva più voce: i sommersi, Coloro che, entrando nelle camere a gas, avevano visto gli occhi della Medusa. Ma quale fu il prezzo pagato da Levi per le sue parole? Una costante e continua pressione che culminerà con il suicidio 1’11 Aprile 1987. | demoni evocati avevano preso il sopravvento: travolgendolo. Perché chi è stato ad Auschwitz non è mai uscito. Le parole ascoltate, gli eventi vissuti rimasero nella mente e nel cuore: come una immedicabile ferita mai rimarginata. Il suicidio di Primo Levi rappresentò l’ultima sua definitiva parola; come il gorgo che inghiottendo il naufrago lo trascina nell’abisso chiudendosi su di lui. Poi…. solo silenzio. E noi, Liberi Muratori? Siamo uomini di parola e della parola. La parola non detta: il silenzio dell’apprendista. La parola sacra e di passo. La parola data: la promessa solenne. E, soprattutto, il rituale perché lavoriamo con la parola e attraverso la parola. Ma fra tante parole: quale o quali sono il fondamento del nostro Ordine Iniziatico? Quali non dobbiamo, non possiamo e non vogliamo dimenticare? Ventisette parole appena (come il 27 Gennaio), da ricordare sempre perché sono un baluardo verso l’intolleranza e il fanatismo: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te e fa‘ agli altri tutto il bene che vorresti che gli altri facessero a te”.

Bibliografia

 Giorgio Bassani, Opere, Mondadori, Milano 2001

 Eduardo De Filippo, Napoli milionaria, Giulio Einaudi Editore, Torino 1977

Victor Klemper LTI La lingua del Terzo Reich. Taccuini di un filologo, Giuntina, Firenze 2008

Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2014 Primo Levi,

La Tregua, Einaudi, Torino 2014

George Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2016

Tratto da “HIRAM”  n° 2/2018

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