CONCORSO LETTERARIO R. LOGGIA “N. GUERRAZZI” DONNA E’ …

Primo Premio

MARTINA GALLI

Liceo Scientifico “C. Cattaneo”

FOLLONICA

MOTIVAZIONE

L’elaborato affronta con lucida razionalità il tema assegnato attraverso un saggio ben articolato in cui viene analizzata la condizione della donna nella sua lenta e difficile emancipazione storica e nella variegata e complessa realtà delle società e culture della nostra epoca.

La rivoluzione incruenta che ha consentito alle   donne di essere finalmente considerate elemento fondamentale dell’umanità e valore aggiunto, indispensabile  nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni, tinge sempre più di rosa il nostro mondo.

“La donna di oggi e’ meravigliosamente bambina, può avere tutto, tutte le porte sono spalancate”.

SVOLGIMENTO

Una rivelazione, da cui è fiorita una rivoluzione. La prima, forse, assolutamente incruenta, incubata all’ombra di un paese abbandonato, spogliato dei propri uomini, prosciugato delle più fresche energie. La prima forse a non avere imbracciato armi, a non essersi ammantata di un colore politico, a non riportare le macchie del reato, strumento tragicamente immancabile in ogni lotta sociale. Non programmaticamente organizzata, non ufficialmente rappresentata, ampiamente inconsapevole della propria portata. Nata piuttosto come misura di emergenza, come sussidio ai meccanismi stessi che sino a quel momento ne avevano ostacolato lo sviluppo.

        E’ la grande rivoluzione di quello che la storiografia indica sotto il nome di Secolo Breve, ai cui albori troviamo un conflitto senza precedenti: la Grande Guerra. E’ proprio negli anni della somma esaltazione della virilità al fronte, della massima valorizzazione della forza maschia, della retorica celebrazione dell’eroismo in termini di medagliette appuntate sulla divisa (enfasi destinata a declinare, fino all’eclisse totale, con la consapevolezza della futilità del massacro), che timidamente, silentemente, si innesca l’ordigno non-violento della partecipazione femminile. Sotto l’egida della salvaguardia del “focolare”, nella stessa morsa della necessità, in tutta Europa, concordemente ha inizio la marcia a passo di danza per risollevare le sorti dei paesi coinvolti nel conflitto. Era necessario continuare ad erogare i servizi, ricoprire cariche, svolgere i lavori (dalla burocrazia alla semina nei campi) un tempo appannaggio degli uomini. Un innesto quanto mai fruttifero: la sorprendente riuscita di quello che era un esperimento dall’esito incerto, rese poi impossibile il ritorno alle condizioni di partenza.

        La rivoluzione, che si è catalizzata nelle rivendicazioni del diritto al suffragio dei movimenti femministi (sulla scia dì Emmeline Pankhurst) non si esaurisce però nell’ufficializzazione della parità dei diritti civili, politici e sociali: la conquista si è compiuta infatti lontana dal clamore, nell’atmosfera dimessa dell’incubo della guerra, attuata da attrici ignare. Le grandi tappe su cui sventola il vessillo rosa, cioè le date delle prime elezioni in cui anche le donne ebbero accesso al voto (solamente dal 2005 in Iraq, nel giugno ‘46 in Italia e negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale in Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Urss e Germania), sono la testimonianza, il vestigio dei passi compiuti tuttavia nel silenzio. La raccolta in campi coltivati dal tempo.

        Tuttavia, il decollo del nuovo sistema non fu immediato e affatto indolore,  il riconoscimento dell’inestimabile valore aggiunto, l’accettazione della donna come parte irrinunciabile dell’ossatura della società e di una sua funzione attiva nell’universo lavorativo non solo fu intempestivo, ma mai completamente (senza scarti tra intenzione ed effettiva applicazione) attuato.

        E soprattutto frammentario, discontinuo, asimmetrico. Emisferico, direi. La vernice rosa che lentamente è affiorata dalla coltre incrostata di un maschilismo antico di millenni non si è affatto allargata a macchia d’olio, rimanendo piuttosto arginata entro i confini del mondo occidentale.

        Nei paesi  cosiddetti “islamici” (termine che dovrebbe essere tuttavia approfondito, date le peculiarità etniche che restituiscono un significato davvero polivalente) il “velo” è soltanto il termine esteriore di quella che è una concezione dalle radici profondissime. Soffermarsi a biasimare un costume quale il nascondere ogni possibile centimetro di pelle nuda significa rimanere ai margini della questione. La riflessione, dall’occultamento del corpo come mortificazione della bellezza femminile, dovrebbe spostarsi sul messaggio: assoggettamento.

        I dibattiti politici che infiammano in questi giorni la Francia circa il divieto per le donne islamiche di celarsi sotto il burka, incentrati su sottili questioni politico-diplomatiche, fomentati dal timore che sotto la “gonnella” possa celarsi il terrorista, sono solo vento sul problema più scottante. Non fanno altro che aggiungere strati di stoffa alla tunica, dimenticando chi vi respiri sotto. Non si tratta di sostenere il diritto ad osservare i dettami della propria religione, piuttosto che controbattere affermando l’inesistenza di un passo del Corano in cui venga imposto il velo integrale. Sostenere poi un’argomentazione a favore del velo basandosi sul fatto che non vi sia alcuna intenzione di smetterlo da parte della donna stessa, è un puro sofisma: una schiava felice (perché inconsapevole) non giustifica l’abominio ontologico della schiavitù. Il capo della fune per sciogliere il cappio che soffoca la figura femminile non è da ricercare tra le pagine di un testo sacro, bensì in un codice fisico, scritto, consultabile che traduca sotto forma di diritto civile il valore della dignità dell’essere umano, qualsiasi combinazione cromosomica lo abbia portato alla vita.

        Proseguendo verso est, la sepoltura della donna si fa ancora più profonda: non la si ricopre di tessuto, la si fa sparire ancora prima che possa mostrare un solo centimetro di pelle. Il genocidio chimico e chirurgico dell’aborto forzato si consuma nel più totale anonimato, all’ombra del sorriso di un padre soddisfatto della sua prole dal sesso forte. Soltanto le demografie coatte di Stato espongono poi lo scompenso alla comunità internazionale, presentando pubblicamente un’infamia legittimata. Tra India e Cina, negli ultimi decenni, duecento milioni di bambine non sono nate a causa della combinazione mefitica di un’usanza patriarcale brutale con una legge ufficiale malsana. E’ evidente come l’omicidio “casalingo” (perché non si pensi che sia data alcuna assistenza ospedaliera alle madri) sia duplice. Si può infatti immaginare quale sia l’esistenza di una donna costretta ad interrompere la maternità, con l’aggravante della motivazione: una società che disprezza e rigurgita gli esseri simili a lei. Se poi la “femmina” nasce, nel rispetto del rapporto proporzionale (la riproduzione deve essere d’altra parte garantita!), la si trasforma in ombra: nessuna traccia all’anagrafe, nessun diritto politico, rinuncia all’istruzione e a qualunque assistenza sanitaria. Nelle comunità dell’Africa poi, la femminilità è una concezione interna alla logica del baratto: non solo attraente merce nell’ambito della sessualità, ma anche grande potenziale di sfruttamento come forza-lavoro. Che siano proprio braccia di donne a sostenere l’economia familiare e della comunità non è in questo caso di certo segno di emancipazione, ma estremizzazione dello sfruttamento. Perché accanto alla carta non scritta dei doveri e responsabilità ben definite, non si trova neppure un accenno ai diritti.

        Una geografia alquanto tragica, in cui vige il principio di conservazione: delitto consuetudinario. Estirpare radici così tenaci e infestanti è la sfida del nuovo secolo. Da una serra insalubre di boccioli sgualciti, un tappeto di corolle magnificamente spiegate: questo l’obiettivo, prefisso a Vienna nel 1993 nella Conferenza Mondiale sui Diritti Umani.

        L’operazione, di dimensioni globali, deve partire proprio dal nostro giardino, il mondo occidentale. Qui la rappresentanza garantita dalle costituzioni, le quote stabilite, i pari diritti sono l’ufficializzazione del decadimento di un costume non ancora tuttavia di fatto pregresso. La piena concordanza tra il “de iure” e il “de facto” è ancora chimera.

        La donna non deve più far notizia. Se è vero che lentamente i pois rosa sul tessuto delle professioni di rilievo si vanno via via infittendo, resta come la percezione di una disomogeneità strutturale. La donna è ancora troppo legata al linguaggio del corpo, osservata nella sua gestualità, nella forma più che nei contenuti, troppo poco attentamente ascoltata, portata sul palmo della mano come vanto, orpello di una società che voglia presentarsi come paritaria. Ancora diverso il metro di giudizio e la bilancia con cui vengono pesate le sue parole, diversamente tarata. L’accusa di “carrierismo” di fronte ad un suo possibile successo, è il passo successivo.

        Ella immancabilmente si trova di fronte ad una scelta esclusiva: il lavoro o la famiglia. La terza via, quella della conciliazione è quanto mai impervia: è la scelta del sacrificio, del non riposo, del non respiro. La doppia elica del nostro DNA sociale è ancora imperfetta: l’imparità principale sta proprio nella diseguale distribuzione degli oneri. E’ importante in questo senso non confondere la parità con l’uniformità. Serve uno “statuto speciale” per situazioni “eccezionali”, norme per evitare la scissione psicologica di una donna tra desiderio di maternità e volontà di salvaguardare la propria funzione sociale, ad esempio, in modo che ogni possibile “dolcezza” della vita non si trasformi in vincolo e rinuncia. Serve soprattutto una vera collaborazione tra i due generi. E quest’ultima può nascere soltanto dalla consapevolezza delle proprie differenze, che a partire da peculiarità biologiche, scientificamente individuabili, sconfina sul piano comportamentale e psico­attitudinale. Competenze e predisposizioni, anche prima che venga proposto qualsiasi modello educativo o apparato culturale, non si corrispondono tra uomo e donna, ma si completano. Il fatto che la donna nella propria strategia del “pensare intelligente” prediliga l’aspetto emozionale, abbia migliore capacità di sintesi piuttosto che di analisi, maggiore fluidità espressiva, non si rileva soltanto dai risultati delle più avanzate ricerche neurologiche, ma è esperienza quotidiana. Se tuttavia il procedimento di pensiero femminile prende altre strade rispetto a quello maschile, il punto di arrivo, il risultato dell’attività astrattiva è potenzialmente lo stesso: la capacità intellettiva non ha genere. La complementarietà, nella reciproca valorizzazione, è alla base del principio di funzionamento di qualsiasi ingranaggio. In primis quello di una società valoriale democratica.

        La donna é naturalmente dotata di un pensiero orizzontale, capace di estendersi ed abbracciare chi le sta intorno perdendo spesso la cognizione del suo essere centro (in fondo lo spostamento di baricentro, come fine di ogni possibile egoismo, è un’operazione direttamente collegata all’istinto materno), che completa quello verticistico tipicamente maschile: trama e ordito.

        Sono questa profondità e ampiezza di sguardo che rendono la donna sempre più richiesta nel mondo della scienza: pare che siano proprio le ragazze, inaspettatamente forse, a poter dare il migliore contributo in uno dei principali campi di ricerca, quello della cibernetica e della robotica. La loro moderazione, meticolosità e capacità interattiva, la loro capacità di una competizione sana molto meno intaccata dalla frenesia dell’arrivismo, la loro naturale predisposizione alla solidarietà, sarebbero gli ingredienti principali per la realizzazione di robot che possano trovare un’applicazione realmente utile nei sistemi sociali (a partire dall’assistenza sanitaria fino all’educazione dei bambini). Purtroppo il contributo delle donne alla scienza è sempre stato raccontato in forma aneddotica, in termini di eccezionalità e marginalità, cosicché i nomi al femminile o sono emersi dalle pagine della storia, insieme allo scalpore suscitato, oppure sono rimasti sempre tra le righe: è invece importante livellare i numeri e portare la scienza ad avere due voci, con grande guadagno della stessa.

        Nel loro essere una fonte di energia nuova, così poco sino ad ora sfruttata, le donne sono detentrici di un enorme potenziale intellettivo. Stupisce infatti che molte ragazze, così brillanti nell’ambito scolastico, non riescano poi a sviluppare a pieno le proprie capacità una volta terminati gli studi.

        C’è chi addita, come causa della loro fioritura sterile, un’educazione sottilmente pestifera, in particolare quella proposta tra i banchi di scuola, che rende la donna insicura delle proprie capacità, svuotandola di ogni velleità di autodeterminazione. Proprio la letteratura sembra distillare il veleno più dannoso, proponendo costantemente un genio maschile che spoglia la donna dei propri connotati umani per ora angelicarla, ora demonizzarla, ora farne una musa, ora la causa della propria infelicità. Da impalpabile, eterea, fuggevole creatura avvolta in un alone di sacralità, dalla beatitudine di “Beatrice” e dall’aura di “Laura”, la donna può trasformarsi in una “Elena” (“élein” significa appunto distruzione) mefistofelica (sia essa la bionda della mitologia, o la moretta dannunziana), in una “Angelica” quanto mai terrena, in una “Fosca” mortifera. Se è vero che la più grande letteratura si è servita di eterni femminini dalla discutibile profondità psicologica, o abbassati al ruolo di amanti seducenti e oggetto di desiderio sensuale, o innalzati al di sopra di ogni limite umano spogliandoli di ogni diritto ad occuparsi di “cose terrene”, non è credibile che i testi di insegnamento siano la causa della “debolezza” femminile. Puntare il dito contro un’arte eccessivamente classista, piuttosto che contro il sistema sociale di cui essa era specchio, appare davvero limitativo.

        Ciò che sembra ostacolare maggiormente la donna, non sono nemici o impedimenti esterni. Non sono gli uomini, non sono le leggi. E’ soltanto la giovinezza della loro “coscienza di classe”, la timidezza dell’inesperienza, la difficoltà di adattamento ad un ambiente loro estremamente ostile. Ma è proprio l’assenza di una “tradizione”, di miti e percorsi già tracciati a fare della donna di oggi l’incarnazione dell’innovazione: il senso di “insicurezza” che è proprio del principiante, la coscienza della propria perfettibilità, l’anelito al miglioramento, l’inesausta voglia di fare, sono ciò che rendono la donna la zona di accrescimento della nostra società e non il ventre molle.

        L’umiliante eredità di un passato nell’ombra deve aiutare a comprendere la misura della conquista e rimanere ben presente come modello di esemplarità negativa. L’8 Marzo non è la celebrazione della figura femminile, ma un promemoria, è l’occasione per parlare, adempiere il dovere della testimonianza. Come scrive Oriana Fallaci in “La Rabbia e l’Orgoglio”, alzare la voce diviene “un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre”. La donna di oggi è meravigliosamente bambina, può ancora tutto, tutte le porte sono spalancate. Dispiegando la propria coscienza, deve iniziare a parlare di sé al fine di abrogare totalmente la primitiva legge di natura che concedeva diritto di cittadinanza alla sola forza bruta. Definire cosa la donna sia è riportarla dentro allo schema metrico da cui è riuscita a svincolarsi, dentro al quadro inespressivo da cui è riuscita a fuggire. E’ togliere di nuovo la “S” al grandioso affermarsi di un Soggetto. Oggi la donna sceglie chi essere.

        La musa prende in mano la penna: e scrive.

Martina  Galli

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