HO SEMPRE AMATO LA VITA

«Ho sempre amato la vita. Chi ama la vita non riesce mai ad adeguarsi, subire, farsi comandare. Chi ama la vita è sempre con il fucile alla finestra per difendere la vita… Un essere umano che si adegua, che subisce, che si fa comandare, non è un essere umano» (da un’intervista del 1979, di Luciano Simonelli).

Oriana Fallaci nacque a Firenze il 29 giugno 1929, negli anni del potere mussoliniano.

Durante la giovinezza, lo stato politico e sociale dell’Italia ebbe un notevole influsso sulla sua vita, così come la figura del padre, un liberale contrario alla corsa al potere di Mussolini, il quale continuò l’opposizione per tutto il periodo fascista. Quando l’Italia decise di entrare attivamente nella Seconda Guerra Mondiale, Oriana Fallaci aveva poco più di dieci anni. Unendosi al padre nel movimento clandestino di resistenza, divenne membro del corpo dei volontari per la libertà contro il Nazismo. Nell’occupazione di Firenze da parte delle truppe naziste, il padre fu catturato, imprigionato e torturato, prima di essere rilasciato vivo. A quattordici anni, ricevette un riconoscimento d’onore dall’Esercito Italiano per il suo attivismo durante la guerra. Il conflitto finì nel 1945 e di lì a poco, Oriana avrebbe deciso di diventare una scrittrice: «La prima volta che sedetti alla macchina da scrivere, mi innamorai delle parole che emergevano come gocce, una alla volta, e rimanevano sul foglio… ogni goccia diventava qualcosa che se detta sarebbe scivolata via, ma sulle pagine quelle parole diventavano tangibili».

Molti sono i ricordi della figura paterna, alcuni dei quali affiorano in un’intervista di Luciano Simonelli del 1979, svoltasi nella suite del Grand Hotel Excelsior di Roma e durante la quale la scrittrice rivela: «[…] Andavo a caccia, mi ci portava mio padre. Avevo nove, dieci anni quando, al capanno, il babbo m’insegnò a sparare. E continuai fino verso i venticinque anni, trenta. Poi un giorno mi accorsi che il fucile era sporco. Sai, lo sporco che impolvera l’interno delle canne quando non lo si usa. E mi chiesi da quanto tempo non l’adoperavo. E scoprii che era un tempo lunghissimo […]»

E poi il ricordo della madre, cui s’intrecciano i giorni trascorsi insieme a Panagulis, l’uomo, poeta e martire di Un Uomo (1979), cui la scrittrice è stata legata sentimentalmente: «Le due creature che amavo di più. Le amavo tanto che dividere il mio amore per loro era una fatica quasi drammatica; voglio dire, il tempo che passavo con l’uno mi sembrava rubato a quello che avrei dovuto passare con l’altra e… Una della scale, tra piano terreno e primo piano, nella mia casa di campagna, è quella che unisce l’appartamento dove viveva la mamma e l’appartamento dove vivevamo io e Alekos. Ebbene, quando ero lì con entrambi, era tutto un correre su e giù per quelle scale… Su e giù, su e giù. Poi, di colpo, nel giro di pochi mesi, l’immobilità. Se ne erano andati tutti e due.»

Oriana Fallaci iniziò la sua carriera di giornalista con un articolo di cronaca, ma le sue doti spiccate le valsero in fretta degli incarichi importanti. Presto cominciò ad intervistare figure politiche di rilievo e a seguire gli eventi internazionali. Ha lavorato per il settimanale «Europeo» fino a quando, lo stesso, ha smesso le pubblicazioni e collabora con altre testate, sia in Europa, che nel sud America. Ha intervistato figure del calibro del direttore della Cia William Colby, il primo ministro pakistano Ali Bhutto, l’Ayatollah Khomeini dell’Iran, concentrandosi sul loro ruolo di figure dominanti nel sistema politico internazionale.

«Non mi sento di essere e non mi sentirò mai come un freddo registratore di ciò che vedo e sento, scrive nella prefazione a Intervista con la storia, il libro che le ha raccolte tutte (1974). «Su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima e partecipo a ciò che vedo o sento come se riguardasse me personalmente e dovessi prendere una posizione (infatti ne prendo sempre una basata su una precisa scelta morale).»

Una delle sue interviste politiche più famose, almeno nella memoria degli americani, rimane quella con il segretario di stato americano, Henry Kissinger. Prima dell’intervista con Oriana Fallaci, Kissinger era stato sempre restio a rivelare alla stampa fatti riguardanti la sfera privata. Durante l’intervista, la Fallaci aveva chiesto al segretario di stato di spiegare la celebrità che, come diplomatico, aveva raggiunto. Inizialmente Kissinger evitò la domanda ma, in seguito all’implacabilità della Fallaci, rispose dicendo: «A volte mi vedo come un cowboy che guida la carovana da solo sul suo cavallo, un western se preferisce.»

È interessante notare, tuttavia, come la Fallaci consideri la sua intervista con Kissinger una delle peggiori mai fatte.

Tra le altre, si possono ancora ricordare quella con Federico Fellini e Sean Connery, Yassir Arafat e Von Braun. Per il suo passato di membro del Movimento di Resistenza con cui combattè i nazisti durante la guerra e per i suoi sentimenti verso quegli stessi uomini che avevano arrestato, imprigionato e torturato il padre, la Fallaci fu portata ad avere una forte reazione verso Von Braun, ex soldato e scienziato del governo di Hitler. Lo ammette nel suo racconto dell’intervista, anche se la trascrizione della stessa mostra una straordinaria e assai professionale imparzialità. L’odore di limone nel respiro di quell’uomo e la memoria di quel profumo la disturbò. Lei stessa ne disse: «Ricordo i soldati tedeschi, tutti lavati con il sapone disinfettante che odorava di limone. Tutti sentivamo quell’odore.»

La dedizione della Fallaci all’espressione di sé iniziò molto presto. Ricorda di aver scritto “brevi storie ingenue” a nove anni. «Ma — continua — iniziai a scrivere davvero a sedici, quando divenni reporter a Firenze. Ho iniziato con il giornalismo per diventare scrittrice.» Quando le chiesero quali circostanze fossero state importanti per la sua carriera, la Fallaci rispose: «prima di tutto il fatto di appartenere ad una famiglia liberale e impegnata politicamente. E poi, il fatto di aver vissuto — durante l’infanzia — i giorni eroici della Resistenza in Italia attraverso mio padre che ne era leader. E ancora, il fatto di essere fiorentina. Insomma, è il risultato di una certa civiltà e cultura. Comunque, a volte mi chiedo se il fattore più motivante non sia stato il fatto di essere nata donna e povera. Quando sei una donna, devi combattere di più. Di conseguenza, devi vedere di più e pensare di più ed essere più creativa. Lo stesso quando nasci povero. La sopravvivenza è una grande motivazione.»

Il fine della sua scrittura, secondo quanto lei stessa ha riferito, «è quello di raccontare una storia con un significato, non certo i soldi». Invece, il fattore motivante di tutti i suoi libri è «una grande emozione, un’emozione psicologica o politica e intellettuale. Niente e così sia [1969], il libro sul Vietnam, per me non è nemmeno un libro sul Vietnam, è un libro sulla guerra».

Lettera ad un bambino mai nato (1975), nacque a causa della perdita di un bambino.

«Un uomo [1979] è stato scritto in seguito alla morte del mio compagno Alekos Panagulis e al dolore di una simile perdita. Comunque, si dovrebbe notare che il motivo portante dei miei libri è il tema della morte. Questi tre libri parlano sempre di morte o si riferiscono alla morte, al mio odio per la morte, alla mia battaglia contro la morte… La libertà è solo uno tra i tanti altri argomenti. Ciò che davvero mi spinge a scrivere è la mia ossessione per la morte.»

Il suo luogo di lavoro è spartano. «Inizio a lavorare presto la mattina (otto, otto e mezza) e vado aventi fino alle sei o sette di sera senza interruzione, senza mangiare e senza riposare. Fumo più del solito, il che significa circa cinquanta sigarette al giorno. Dormo male la notte. Non vedo nessuno. Non rispondo al telefono. Non vado da nessuna parte. Ignoro le domeniche, le feste, il Natale, il Capodanno. Divento isterica in altre parole e infelice e colpevole se non produco molto. A proposito, sono una scrittrice molto lenta. E riscrivo ossessivamente. Quindi mi ammalo e divento brutta, perdo peso e divento più rugosa.»

Nel romanzo Insciallah (1990), la Fallaci scrive la storia delle truppe italiane stazionate in Libano nel 1983. Come nei suoi altri romanzi, presenta gruppi e individui che lavorano per mettere la parola “fine” alle loro oppressioni. Tra i suoi scritti si ricordano ancora Sesso inutile (1961), Penelope va alla guerra (1962), Se il sole muore (1965).

I suoi libri sono stati tradotti in trentun Paesi. Consegnandole la laurea ad honorem in letteratura, il rettore del Columbia College of Chicago la definì: «Uno degli autori più letti ed amati al mondo.»

Seppure di origini fiorentine, Oriana Fallaci risiede tuttora a New York: «Firenze e New York sono le mie due patrie», racconta lei stessa.

C’è tutta una tradizione critica che la vuole egocentrica, «incapace di ascoltare altre voci oltre la propria» (C. Dikey del «Los Angeles Times Book Review»), inavvicinabile, burbera e talvolta stizzosa; ma a Oriana Fallaci questo importa poco, infatti non conserva le critiche ai suoi libri e dice: «Non mi interessano i critici. Sono quasi sempre scrittori falliti e, di conseguenza, invidiosi e gelosi di chi scrive. Trovo la loro professione vergognosa perché è così sleale e stupido improvvisare giudizi in un piccolo articolo dopo il lavoro di anni di uno scrittore. Credo che i veri critici siano i lettori […]»

Nella sua lettera a Pier Paolo Pasolini, scritta in seguito al tragico evento della morte dello stesso, affermava: «[…] In una strada deserta, c’era un bar deserto, con la televisione accesa. Si entrò seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: “Ma è vero, è vero?” E la padrona del bar chiese: “Vero cosa?”. E il giovanotto rispose: “Di Pasolini, Pasolini ammazzato!”. E la padrona del bar gridò: “Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! ammazzato! Gesù! Sarà una cosa politica!”. Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio d’immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se ti dico che non eri un uomo, eri una luce e che una luce s’è spenta?»

Sempre Luciano Simonelli, nell’intervista precedentemente citata, aveva chiesto alla famosa scrittrice: «Ma tu ci credi agli uomini?» E lei, con il suo solito fare, aveva replicato: «[…] Non è saggio dare troppa fiducia agli uomini: È saggio guardarli con un occhio chiuso e uno aperto e non farsi mai troppe illusioni su di loro, su noi. E ricordarsi che, ahimè, il più delle volte non ci si batte per quello che vorremmo che gli uomini fossero ma non sono, per quello che noi vorremmo essere ma non siamo. Ci si batte per noi stessi e basta.»

In risposta all’orrore dell’11 settembre 2001, Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni dando alle stampe La rabbia e l’orgoglio, uno sfogo duro e appassionato che pone a confronto due culture, l’America e l’Italia, «lontani non solo sulle cartine, ma anche nell’anima». Riemersa da un esilio autoimposto, l’autrice espone come un fiume in piena le proprie idee sulla politica, la società, la Guerra Santa, l’Islam, inframezzando il tutto con i ricordi delle proprie esperienze personali, di giornalista e scrittrice.

Il 12 marzo 2004, all’indomani della strage alla stazione Atocha di Madrid [11 marzo n.d.r.], compare sugli scaffali delle librerie, nelle edicole, sui banchi dei supermercati La forza della Ragione, un altro libro controverso, denso di pensieri e di esperienze personali che mostrano al lettore il percorso di maturazione di un sincero rancore verso l’Islam e verso il mondo arabo in generale. Un libro di attualità, discutibile, ma pregno anche di spunti e di interessanti riflessioni.

Infine, un libretto allegato al quotidiano «Corriere della Sera» del 6 agosto 2004. L’ultimo personaggio intervistato nel ciclo della Storia vissuta e riportata dalla vulcanica giornalista è un simbolo dell’epoca che stiamo vivendo. Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. Ovvero, perché intervistare una «nullità» come Chirac o Schröder, quando si può scendere al bar sotto casa e ottenere lo stesso risultato? Anzi, perché non fare tutto da soli e intervistare se stessi?

A cura della Redazione Virtuale

«È una pallottolina dell’M16. Una, una sola basta ad uccidere un uomo: senza bisogno di sparare a raffica: Perché lei viaggia ad una velocità molto vicina alla velocità del suono, e mentre viaggia è sempre al limite dell’equilibrio, e quando arriva non si ferma dentro la carne come una brava pallottola, no, e neanche attraverso un braccio o una gamba, no, lei si gira e si ritorce, e strappa e taglia e ti vuota in pochi minuti di tutto, del tuo sangue… L’ha inventata un uomo» (Niente e così sia).

E se fosse questa la frase più emblematica per rappresentare la scrittrice, la “corrispondente” di molte guerre dei nostri giorni, la donna che proprio ad Un uomo combattente e amato (è pur sempre un uomo però che ha costruito quella pallottola e «… che ha calcolato forma e peso, polvere, velocità, traiettoria, momento d’impatto… ») ha dedicato uno dei suoi libri più famosi?

Oriana Fallaci è, se così si può dire, una “donna di guerra”: nata a Firenze nel 1929, già da bambina si oppone ai tedeschi a modo suo, poi, ormai adulta e giornalista, vive sul campo la guerra del Vietnam, cercando una spiegazione alla follia che la circonda, e in seguito osserva in prima persona il conflitto del Medioriente. Nasce da questa esperienza Insciallah, in cui personaggi e trama sono immaginari, ma vera è la guerra e l’atmosfera in cui si svolge l’azione. E lo dedica a tutti gli esseri umani trucidati a Beirut.

Da quasi tutte le tragiche esperienze di violenza collettiva (ultima la guerra del Golfo), nascono interviste a personaggi chiave della storia recente (H. Kissinger, il Generale Giaip, Yassir Arafat, Indira Gandhi, Alekos Panagulis e tanti altri) e documenti nei quali scrive di guerra, osservandola con l’anima, senza accontentarsi mai di una semplice cronaca.

Nel suo primo libro, invece, Il sesso inutile, parla con stile giornalistico, ma partecipe e solidale, del suo viaggio attraverso diversificate condizioni femminili: e le donne da lei incontrate, con le narrazioni semplici e umanissime delle loro esistenze qualunque, danno vita ad un reportage avvincente che nulla ha del saggio o del racconto documentaristico.

In Lettera a un bambino mai nato, la Fallaci affronta in forma squisitamente letteraria, il dramma della scelta tra maternità e aborto. Il monologo tragico, attraversa tutte le domande che la protagonista senza volto né nome pone a se stessa — e di riflesso alla creatura che attende — sulla significatività dell’esistenza e sulla priorità delle scelte che come donna dovrà compiere, decidendo se sacrificare se stessa o il bambino.

E per poter dare una risposta alla propria coscienza e a suo figlio, immagina che i sette personaggi che la circondano (i genitori, il padre del bambino, il medico…) siano membri di una giuria ideale, chiamati a giudicare e sentenziare sulla sua decisione.

Il libro rappresentò in quel momento un vero e proprio “caso letterario e sociale” e le interpretazioni furono addirittura antitetiche. Le fazioni abortiste a antiaboriste ne faranno, ciascuna, uno strumento per avvalorare le proprie tesi, disegnando ancora una volta, inconsapevolmente, la figura della scrittrice come quella di una donna che emblematicamente vive su se stessa l’esperienza dolorosa di due parti che si fronteggiano.

Oriana Fallaci, fiorentina di nascita ma residente negli Stati Uniti, dichiara in un’intervista: «Firenze e New York sono le mie due patrie.» I suoi libri sono tradotti in più di trenta Paesi e il Rettore del Columbia College of Chicago, conferendole la laurea ad honorem, la definì: «uno degli autori più letti ed amati nel mondo.»

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