IL GRAN MAESTRO SCOMODO

IL GRAN MAESTRO SCOMODO  

di Alessandro Mola

Contro quanto molti ritengono, la Massoneria italiana non ha mai fatto i conti con la figura storica di Giuseppe Garibaldi. La notizia della morte del nizzardo giunse al Grande Oriente d’Italia mentre era in corso l’Assemblea che elesse a Gran Maestro Aggiunto Adriano Lemmi, elevò da 5 a 10 lire la tassa per il diploma di maestro massone, ribadì il divieto dell’erezione di ‘logge operaie‘, propose di studiare il modo migliore di partecipazione della donna al «lavoro massonico» e ventilò la convocazione di un congresso massonico internazionale per la unificazione dei rituali e degli statuti delle logge: 1 groviglio degl’insoluti assilli che avrebbero travagliato la vita dell’Ordine sino alla sua temporanea eclissi, sotto la marca di persecuzioni e leggi speciali.
Pianto «come padre e come figliuolo» della Libera Muratoria 2 , dal 1883 Garibaldi cominciò a essere relegato nel reliquario dell’Istituzione, col solenne dono della sciarpa massonica cinta dal nizzardo a New York e recata da G.B. Fauché, 18°: l’uomo che aveva fornito i due vapori per l’imbarco dei Mille, la notte del 5 maggio 1860.
«La Massoneria – aveva ammonito la ‘Rivista Massonica‘ nella rievocazione dell’ex Gran Maestro all’indomani della morte – non si preoccupa delle piccole gare dei partiti, che se ne contendono le spoglie ed il nome per farsene bandiera».
Tracciare un profilo storico di Garibaldi avrebbe comportato, inevitabilmente, di definirne la parte avuta anche nella vita dell’Ordine, dalla sua tormentata ricostituzione all’elezione del nizzardo alla Gran Maestranza 3 e dalle sue repentine dimissioni agli anni in corso, segnati certo dall’intreccio tra Libera Muratoria e mondo politico – parlamentare e non – ma senza che nessuno s’azzardasse a trarre un pur provvisorio bilancio e a indicare il senso riposto e ultimo di quelle intersezioni.
Molti nomi rimbalzavano dal Comitato della Lega della Democrazia e dalla sua stessa Commissione esecutiva al Consiglio dell’Ordine e da questi ai direttivi d’organismi fiancheggiatori dell’uno e delle altre. Al contempo, tuttavia, rimaneva insoluto il quesito sulla più autentica vocazione della Massoneria italiana, nell’anno che vide taluni autorevoli esponenti della sua componente mazziniana – quale Ettore Ferrari – far ingresso nella Camera, elettiva e giurante e, al tempo stesso, consolidarsi al vertice dell’Istituzione uomini – come Adriano Lemmi – di cui nessuno sapeva dire con certezza sino a qual punto si ritenessero vincolati allo Statuto.
Garibaldi era pertanto destinato a una rapida assunzione nell’Olimpo politicamente indistinto di eroi al disopra della discussione ma, pertanto, sottratti a una proba valutazione storiografica: come di fatto presto accadde, anche per opera di suoi intimi compagni di lotta, le cui biografie garibaldine subito divennero canoniche non solo per la scelta dei momenti e dei temi da privilegiare nella ricostruzione del ‘personaggio‘, ma anche nella sproporzione tra il periodo antecedente e quello seguente Aspromonte e, in subordine, nel silenzio dal quale rimase quindi circondata l’intera partecipazione di Garibaldi alla vita della Massoneria italiana, infatti del tutto taciuta nelle pur corpose opere di Jessie White Mario, Giuseppe Guerzoni, Enrico Guastalla… 4
La stretta correlazione tra le file dell’Ordine e quelle della militanza politica – del resto celebrata da Garibaldi stesso nella convocazione e nell’annunzio dell’esito, apparentemente positivo, del ‘Patto di Roma‘ del 21 aprile 1872 -, poiché avrebbero riverberato specularmente qualsiasi giudizio formulato sul Garibaldi massone o sul Garibaldi politico, scoraggiarono o consigliarono di rinviare un esame critico della figura e dell’opera del nizzardo al momento (mai raggiunto, invero) nel quale il ricordo e la discussione delle singole tappe della ‘Democrazia italiana‘ più non avessero rischiato di riaprire antiche e malsopite polemiche e di compromettere precari equilibri e instabili convergenze.
D’altra parte, mentre governo e parlamento attraversavano la complessa e controversa esperienza del ‘trasformismo‘, la Massoneria doveva fronteggiare la prima greve fase dell’offensiva clerico-reazionaria, già sospetta di connivenze con interessi d’Oltralpe, scandita dall’Enciclica Humanum genus e dalla bordata di ‘rivelazioni‘ dell’ex confrère Léo Taxil: proprio l’autore di libelli anticlericali che s’eran fregiati di calorose prefazioni firmate da Giuseppe Garibaldi. 5
Non solo per l’inconfrontabile rilievo nella storia del pensiero la Gran Maestranza Lemmi perseguì quindi, sopra ogni altra, l’evocazione di Giordano Bruno, assunta a terreno di coagulo tra laici e laicisti e quale asse capace di congiungere la cultura della Terza Italia con le sue remote radici rinascimentali e umanistiche, sì da affermare l’esistenza di una più grande Italia nel confronti della quale la dinastia sabauda non risultava affatto necessaria.
Perciò il Gran Maestro non prese personalmente parte al ‘Pellegrinaggio Nazionale a Caprera‘, guidato da Menotti Garibaldi, che pur aveva fatto parte del Gran Consiglio dell’Ordine. Parimenti non fu concessa alcuna patente di rappresentatività dell’Ordine ad Autori che negli stessi anni impugnavano questo o quell’aspetto del ‘massonismo garibaldino‘ per farne insegna e strumento anche di battaglie propugnate dal Grande Oriente: tra gli altri l’antroposofo e storico della filosofia della storia R. Escalona, il cui opuscolo Il rogo di Garibaldi 6 raccoglieva, tuttavia, anche nel sottotitolo (Il suo testamento – il rogo antico e l’ara crematoria di Campo Verano) uno dei punti programmatici della Gran Maestranza Lemmi, l’erezione di un famedio massonico a ridosso dell’inaugurazione del crematorio nel cimitero monumentale di Roma.
L’abbondanza di ‘numeri unici‘, ‘ricordi‘ e ‘discorsi‘ su Garibaldi nei primi dodici anni seguenti la sua morte fu icasticamente stigmatizzata il 12 maggio 1894 da Antonio Labriola, che ai ‘cari amici‘ promotori di un ennesimo fascicolo di Caprera (In Commemorazione di Giuseppe Garibaldi e di Alberto Mario) 7 scriveva: «I tempi che corrono sono poco lieti. Auguriamoci che l’Italia divenga degna di commemorare Garibaldi, non per lusso di vaniloquio, non a dileggio dell’immortale». Da Padova, Achille Loria a sua volta invocava «e sia fra breve… » «… un altro eroe della giustizia e della pace che adduca le falangi lavoratrici all’anelata redenzione».
Mentre il governo Crispi ordinava la repressione poliziesca dei ‘fasci siciliani‘ e del ribellismo endemico alimentato da profondo malessere economico, l’ombra di Garibaldi si proiettò sull’Ordine , quale spartiacque e causa di distinzione e persino di divisione, anziché come termine di riferimento unitario.
Già nella serie di discorsi pronunziati dal Gran Maestro Lemmi nei ricevimenti massonici nei principali centri della penisola (con omissione della Sardegna) 8 il nome di Garibaldi era ricorso meno di quello di Mazzini e persino di Carducci: esso era poi stato del tutto taciuto a Milano il 16 giugno 1892, come nel discorso conclusivo del periplo, a Roma nel gennaio 1893, sulla cui traccia Lemmi avrebbe infine svolto l’orazione introduttiva alla Conferenza massonica di Milano, il 20 settembre 1894 9: vero punto d’arrivo del dibattito sulla ‘questione sociale‘ in corso nell’Ordine dalla morte di Garibaldi alla crisi del progetto di ‘riforme dall’alto‘ espresso dai governi Crispi e, in larga misura, dal primo ministero Giolitti.
Eludere i nodi non significa però scioglierli. Se n’ebbe conferma poco appresso, quando proprio l’inaugurazione del monumento di Giuseppe Garibaldi in Roma divenne occasione della manifestazione di un dissidio che avrebbe lacerato per un decennio la Comunione massonica italiana.
L’art. 2 della legge 3 giugno 1882 n. 780 aveva stabilito l’erezione di un monumento garibaldino in Roma 10 . Solo un anno dopo, però, il progetto prese corpo, con un primo stanziamento pubblico, approvato dalla Camera al termine di un dibattito nel corso dei quale l’On. Ettore Pais-Serra aveva proposto Caprera quale ubicazione del monumento, contro l’avviso del presidente del consiglio, Depretis, e del relatore sul disegno di legge, Crispi, secondo i quali esso doveva sorgere in Roma e precisamente – come di fatto avvenne – sul Gianicolo: a memoria della difesa della Repubblica Romana, in linea, cioè, ancora una volta, con un asse storico che non conduceva necessariamente a Casa Savoia. Perciò, in Senato, il relatore Caracciolo di Bella aveva avanzato una trasparente riserva: la subordinazione dei lavori per il monumento di Garibaldi all’assicurazione che anche quello di Vittorio Emanuele II sarebbe stato realizzato a tempi brevi, quale sede definitiva delle ‘auguste ceneri‘ del Gran Re, solo provvisoriamente tumulate al Pantheon.
Negli anni seguenti, il Grande Oriente d’Italia aveva seguito con vigile assiduità i lavori della commissione reale incaricata di seguire il progetto (e folta di uomini intrinseci all’Ordine: da Ferdinando Martini a Giuseppe Fiorelli) e massone era risultato anche il vincitore del concorso, Emilio Gallori. Il Governo dell’Ordine – riformato nel 1893, con l’istituzione della Giunta, che di lì innanzi ne sarebbe stato l’organo decisionale supremo, accanto al Gran Maestro – puntò sull’inaugurazione del monumento garibaldino al Gianicolo, quale momento qualificante a solenne sanzione dell’identità tra l’Ordine liberomuratorio e l’ordine del Regno.
A render più solenne l’evento il parlamento proclamò il XX settembre festa nazionale, con una schiacciante maggioranza e il voto contrario di una pattuglia di uomini nei quali l’acuto notaio dell’Italia di fine secolo, Domenico Farini, antivide i lineamenti di un ‘partito cattolico‘, peraltro non privo di suggestioni su certi ‘democratici‘, quali Imbriani 11 . Ma all’approssimarsi della data fatidica – 20 settembre 1895 – anche un osservatore niente affatto tiepido nel confronti del presidente del consiglio, il sen. Alessandro Rossi, in una lettera da S. Orso (4 marzo 1895) riprendeva la parola d’ordine lanciata da mons. Carini a Guido Fusinato: «disfarsi della Massoneria» e notava compiaciuto che «se non di nome, di fatto Crispi si è staccato dalla massoneria», commentando: «ecco un altro dei suoi intuiti d’uomo superiore di Stato» e contrapponendo al siciliano la pervicacia anticlericale del Gran Maestro in carica.
Lemmi, in effetti, da mesi era in posizione quanto mai imbarazzata: non tanto per le bordate d’accuse scandalistiche che continuavano a piovergli addosso da varie parti 12, quanto per l’ormai palese divaricazione tra la condotta di Crispi e le attese di tanta parte della Famiglia liberomuratoria, il cui governo era quotidianamente tempestato da richieste ultimative di energico intervento sul presidente del consiglio o, quanto meno, della sua sconfessione, senza mezzi termini, da parte del Grande Oriente, che, diversamente, rischiava di rimanere implicato nell’odiosità delle misure repressive adottate da Crispi non solo contro gli anarchici, bensì, in genere, contro tutte le opposizioni: radicali, repubblicane, democratiche avanzate, tutt’insieme eredi e continuatrici di quel Garibaldi che il secondo dei Mille s’apprestava a evocare sul Gianicolo per il 25° di Porta Pia.
Il 20 settembre 1895, venerdì, Crispi pronunziò in effetti il discorso d’inaugurazione «per la sostanza canonica e chiesastica, per la forma polemica e piuttosto volgaruccia non conveniente all’occasione», a giudizio di Domenico Farini 13 .
La Massoneria s’era preparata alla manifestazione di Roma con tutt’altro slancio. Le Logge erano state invitate a farsi rappresentare dalle bandiere , venne progettata una lapide da apporre nel Palazzo Senatorio in Campidoglio per ricordare i Fratelli «che cospirarono , soffersero e morirono per la liberazione di Roma» 14 e uno speciale comitato fu incaricato di approntare adeguati ricevimenti per i delegati delle Comunioni straniere e delle Officine italiane. Ma quale bilancio fu poi tratto dalla manifestazione? La prima riunione della Giunta di governo della Massoneria italiana successiva alla solenne festa garibaldina (21 ottobre 1895) non dedicò neppure un istante a compiacimenti retrospettivi. Bisognava infatti rispondere alle Logge milanesi Cisalpina Carlo Cattaneo e La Ragione che chiedevano se il Gran Maestro avesse continuato a incalzare per condurre a buon porto l’iter parlamentare del disegno di legge a tutela degl’infortuni sul lavoro e, soprattutto, venne sul tappeto il fermo rifiuto di Ernesto Nathan di prender parte ai lavori massonici sino a quando l’Ordine non avesse «veduto chiaro nelle accuse mosse contro il F. Francesco Crispi» 15 .
In effetti da mesi Nathan aveva invitato il Gran Maestro ad affrontare di petto la ‘questione Crispi‘ : che non era, ben inteso, un corollario dello ‘scandalo della Banca Romana‘, un brandello della lotta per il potere, né un duello tra l’anziano statista e Cavallotti o Giolitti, bensì chiamava in causa i rapporti tra la Massoneria e il governo, mentre questo, presieduto da un massone, anziché col paese – cioè con la dinamica sociale – s’identificava strettamente con lo Stato cioè con istituzioni contro le quali non solo si stavano schierando molti ‘fratelli‘ ma era proceduto a lungo il Risorgimento stesso, compreso quel Giuseppe Garibaldi che dopo trentadue anni di elezioni alla Camera se n’era dimesso con una motivazione lapidaria – «… non posso più contare tra legislatori in un paese ove la libertà è calpestata e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà dei gesuiti e ai nemici dell’Unità d’Italia…» , 16 – che s’attagliava a Crispi e a chi gli stava dietro non meno che all’incipiente trasformismo del 1880.
La manifestazione garibaldina di Roma – presenti il re , la regina , i presidenti dei due rami del parlamento – costituì tuttavia il momento di massimo accostamento tra la cometa massonica e il sistema monarchico : con i labari delle Logge italiane schierati a ridosso del monumento , ornato di simboli liberomuratori e oratore ufficiale un presidente del consiglio notoriamente in odore di Grande Oriente.
Tutt’altro fu invece l’esito della partecipazione massonica alla celebrazione delle Cinque giornate di Milano, sullo scorcio dell’anno precedente. Infatti, come deprecò il Potentissimo in Giunta, il 12 novembre 1894, «… fino da quell’epoca si manifestavano in molti FF. di Milano (le tendenze) di trascinare la Massoneria in mezzo alle lotte della politica militante». 17
L’ala massonica – decisamente schierata per le riforme sociali – nel 1893-95 dette battaglia per portare il Grande Oriente a fianco dei partiti di sinistra.
A fine 1893 il Gran Maestro aveva fatto rispondere da Nathan a incalzanti appelli di logge attestate a favore dei fasci siciliani che «… non tutto ciò che si domanda da quelle organizzazioni è giusto e possibile». Parallelamente era stata sottoposta a censura grave l’iniziativa di alcune Officine che avevano discusso pubblicamente intorno alla compatibilità con l’Ordine di personaggi del mondo bancario e politico implicati nello scandalo della Banca Romana, in tal modo mettendone a nudo la qualità massonica. La tendenza a propalare i nomi degli iniziati dilagava tuttavia dal sud al nord, se Lemmi dovette intervenire anche nei confronti della Loggia La Cisalpina Carlo Cattaneo, diffidandola dal render noti i nomi dei relatori impegnati nel dibattito sulla politica sociale propugnata dall’Ordine. Quelle insistenze erano però difficili da contenere giacché non erano dettate solo da una voglia di sfida dinanzi alle sortite dei clericali, indirettamente incoraggiati dalle roventi polemiche di certe frange democratiche contro Crispi (e Lemmi), bensì dall’orgoglio di chi, dall’interno delle Officine, si sentiva (e si credeva) tutt’uno col governo del paese e s’arrogava pertanto poteri che il Gran Maestro dichiarava invece insussistenti: come a proposito dei provvedimenti governativi nei confronti dei fasci: «… il Grande Oriente ha fatto e fa quanto gli è stato possibile per i condannati dai Tribunali Militari della Lunigiana e nella Sicilia, ma, non essendo esso al governo dello Stato, non può che limitarsi ad un’azione consigliatrice. Poichè l’ha fatta e la fa ha compiuto e compie il proprio dovere». Era poco: ma era anche tutto ciò che in effetti il Grande Oriente potesse fare.
Anche nell’ambito della Giunta dell’Ordine dilagavano ormai opinioni difformi se a Ernesto Nathan pareva che i suoi membri potessero «… prendere pubblicamente questo o quell’atteggiamento nella lotta dei partiti e in ragione della loro rappresentanza massonica, comportandosi come cittadini, a norma dei convincimenti loro e della loro coscienza» senza recar nocumento all’Istituzione.
Come far intendere – in tale situazione – che in mancanza di precise imputazioni massoniche Francesco Crispi non poteva essere sottoposto ad alcuna pubblica sentenza (misura del resto eccezionale per l’Ordine) e neppure a procedimento formale?
Al rigoroso rispetto delle Costituzioni dell’Ordine da parte degli uomini di vertice della Comunione molte Officine risposero tuttavia con atteggiamenti d’aperta ribellione mentre già taluno propendeva per adattar le norme alla realtà invece di sforzarsi di estrarre l’ordine dal caos. Caso emblematico, clamoroso nei riflessi pubblici e rovinoso per gli effetti interni, fu la decisione della loggia La Ragione di Milano di guidare un manipolo di Officine lombarde, a bandiere spiegate, alla manifestazione celebrativa delle Cinque giornate, che voleva far da monito nei confronti di un’amministrazione che le sinistre giudicavano ormai più vicina a Radetszky che alla tradizione liberale e garibaldina.
In tale condizione – che di seduta in seduta vedeva il Gran Maestro impegnato a respingere pressioni, appelli, rimbrotti delle Officine più disparate – non v’era spazio propizio per dibattiti storiografici che entrassero nel merito del ruolo svolto da Giuseppe Garibaldi nella travagliata vicenda della democrazia italiana. Perciò le manifestazioni che di quando in quando riproponevano il nome del Primo Libero Muratore d’Italia erano, per quanto possibile, avviate sui binari morti della pura e semplice celebrazione di un nome senza soggetto, di una formula astratta, ridondante di formule enfatiche, quanto privo di connotati storici documentati. Su quei binari Garibaldi rimase – carro da parata, da mettere in circolazione di quando in quando, ma sempre più stinto, con palesi i segni del tempo – per i decenni seguenti.
Il centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi – salutato nel paese dal discorso detto in Campidoglio da G.C. Abba e da una messe di robusti studi storici, già in vista del cinquantenario della spedizione dei Mille e della proclamazione del regno – fu anno di lutto per la Comunione italiana, abbrunata l’anno prima dalla morte di Adriano Lemmi. Passò infatti all’Oriente Eterno il fratello Giosuè Carducci, che non fece in tempo a ricevere dall’Istituzione la statua d’argento della Poesia, fusa da Ettore Ferrari su mandato dalla Massoneria italiana.
Per contro scialba e quasi imbarazzante fu la presenza – o piuttosto l’assenza – di Giuseppe Garibaldi nell’attenzione di una Comunione pur intenta a procacciar le fortune di quei “blocchi popolari” la cui remota origine risaliva appunto a ‘patti‘, ‘leghe‘ e altrettali ‘fasci‘ a suo tempo raccolti da Garibaldi tra le diverse componenti della democrazia italiana.
A Milano a tutto giugno del 1907 si doveva convenire che «Per le onoranze a Garibaldi… si è forse al punto di prima se non si è fatto un passo indietro» 18 . A Palermo la celebrazione garibaldina si risolse in un’agape fraterna in onore non tanto del duce dei Mille bensì di quel R. Vittorio Palermi, che sarebbe poi stato navarca di tutt’altre venture. Per Roma, un Comitato appositamente creato presso il Grande Oriente giunse a proporre «un grande corteo massonico verso le 5 pomeridiane del 3 luglio» al monumento del Gianicolo, con deposizione di corona bronzea modellata dall’instancabile Gran Maestro, Ettore Ferrari, esecuzione degl’inni garibaldini con ‘appositi cori‘ e lettura di versi patriottici. Un grande banchetto avrebbe concluso la manifestazione, per la cui riuscita sottoscrissero fratelli e Logge italiane e straniere: 124 lire l’Ausonia di Torino (qualcosa come 150-200 mila lire di oggi), 50 la Cavour dello stesso capoluogo subalpino, 135 l’Aurora Risorta di Genova (altra Officina ‘storica‘), 122 la Concordia di Firenze, 160 la Lirae Spada di Roma, 200 la XX settembre di Firenze, 100 la Michelangelo della stessa città, e via discendendo, sino alle 40 de La Terza Italia di Palermo, che da sola versò quanto le emblematiche Giuseppe Mazzini di Livorno e Giuseppe Garibaldi di Porto Maurizio: ventimila lire d’oggi per Loggia (cinquecento ogni ‘Fratello‘, in media) per ricordare la nascita del Primo Libero Muratore d’Italia, Gran Maestro effettivo nel 1864 e Gran Maestro Onorario ad vitam.
In un tripudio di manifesti dal testo già allora improponibile 19 – pel ritardo culturale anche nei confronti dell’allineamento operato con le modifiche alle Costituzioni dell’Ordine – cadde la commemorazione di Garibaldi, pronunziata da Ulisse Bacci al Teatro di Sansepolcro il 20 settembre 1907 20 . L’unico esplicito cenno al rapporto tra il nizzardo e la Massoneria propostovi dal Gran Segretario della Comunione peninsulare – il cui Libro del Massone italiano dall’anno seguente avrebbe fatto testo – anziché sciogliere interrogativi, ne apriva di nuovi: e soprattutto sull’attendibilità di un metodo che certo non confortava quanti identificavano Massoneria e positivismo, quanto meno sul versante del positivismo storiografico, fondato sulla rigorosa documentazione d’ogni asserto. Diceva infatti Bacci che Garibaldi «… forse in quel tempo (1834 circa), ma non può asseverarsi con certezza assoluta, chiese ed ottenne la iniziazione nell’Ordine Massonico, che di concerto coi Mazziniani, nelle Logge segretissime allora, cospirava per la redenzione e l’unità d’Italia»: affermazioni che costituiscono un arco voltaico tra Taxil e Luzio, ma poco hanno a che fare con la storia.
Peraltro – in forza di non si comprende qual riserbo – nessun cenno vi veniva fatto ai rapporti corsi tra Garibaldi e le Officine di Montevideo , New York, Londra, né, del resto, alla parte avuta dal nizzardo nell’Istituzione – Grande Oriente e Riti – prima e dopo la fuggevole assunzione della Gran Maestranza.
Il cinquantenario della morte del nizzardo (1932) vide la Massoneria italiana in una posizione anche meno favorevole per ‘fare i conti‘ con Garibaldi. L’anno prima il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia in esilio, Alessandro Tedeschi, dette mandato alle sparute Logge alla sua obbedienza di rievocare Mazzini e il XX settembre. Il 1932 21 trascorse tra difficoltà e amarezze: su quanto rimaneva dell’Ordine scese l’ombra di Domizio Torrigiani, spentosi nella terra di Tommaso Crudeli duecent’anni dopo l’iniziazione di Antonio Cocchi nella prima loggia inglese in terra toscana. Il pegno alla Massoneria nei confronti di Garibaldi rimase da riscattare: esso venne lasciato in deposito ai posteri, per quando si fosse fatto appello al senso della storia per trovar le ragioni dei travagli antichi e nuovi della Libera Muratoria nella penisola. 1 U. BACCI, Il libro del massone italiano, Roma, 1911, vol. 2, p. 360. La mattina del 3 giugno 1882 la ripresa dei lavori assembleari fu preceduta da una seduta funebre in onore di Garibaldi.

2 Rivista Massonica, 1882.

3 A tale proposito rimandiamo a ALDO A. MOLA, LUIGI POLO FRIZ, I primi vent’anni di G. G. in Massoneria (1844-1864). Da Apprendista a Gran Maestro., Nuova Antologia, Firenze, f. 2143, luglio-settembre 1982.

4 Vedansi, per es., G. GUERZONI, G., Firenze, Barbera, 1882, voll. 2; L. PALOMBA, Vita di G. G., Roma, Perino, 1882 J. LABOLINA(A. Vecchi), G. Vita e gesta, Bologna, Zanichelli, 1882; J.WHITE MARIO, G. e i suoi tempi, Milano, Treves, 1884 (ora in ed. anastatica, con pref. di G. Spadolini, Napoli, De Dominicis, 1982). La stessa sproporzione ha del resto continuato a caratterizzare (condizionandone quindi i risultati) le biografie successive: comprese quelle, recenti, di RIDLEY, G., Milano, Mondadori, 1975 (che dedica meno di cinquanta pagine al quindicennio successivo a Mentana sulle oltre settecento del volume), M. MILANI, G. G.: biografia critica, Milano, Mursia, 1982 (con 50 pp. su oltre 500) e M. GALLO, G.: la forza di un destino, Milano, Rusconi, 1982, (70 pp. su quasi 500). Superfluo ricordare che in tutte queste opere è sistematicamente taciuta o appena accennata – senza tentativi di approfondimenti critici – l’appartenenza di Garibaldi alla Massoneria: tema che, eluso per ragioni politiche sulla fine dell’Ottocento, viene ora ‘dimenticato‘ o troppo sbrigativamente liquidato con approssimazioni ferme alle viete argomentazioni di A. Luzio. Così il citato M. Milani afferma: «G. ha della M. un’idea strumentale in senso politico», aggiungendo che G. si «mostrò massone piuttosto distratto». Per un aggiornamento sul tema rinviamo a C. GENTILE, G. G., il gran maestro dell’Umanità, Foggia, Bastogi, 1981 e ad A.A MOLA, Garibaldi vivo: antologia degli scritti con documenti inediti, pref. di Lelio Lagorio, Mazzotta, 1982, sezz. VI-VII.

5 TAXIL, Le fils du Jèsuite, précedé de pensées anticléricales, intr. par le Général G. Garibaldi, Paris, Strauss, 1879; ID., Les jocrisses de sacristie, pref. Lettre de Garibaldi sur le cléricalisme, Civitavecchia, 27 aoút 1879, Paris, Librairie National, 1879. Taxil invelenì poi anche su Garibaldi in I misteri della massoneria svelati, (trad. L. Matteucci), Genova, Fassicorno, 1888, alle pp. 830-97.

6 Roma, Agenzia giornalistico-libraria E. Perino, 1883. Escalona era altresì autore di un saggio su G. e la rivoluzione delle due Sicilie, Napoli, 1861, e di libelli antipapali.

7 Sassari, Stabilimento grafico Dessi, 1894, con testi di Gabriele Rosa, Giuseppe Sergi, Arturo Graf, Stefano Canzio, Achille Loria, Giuseppe Mazzoni, Giovanni Bovio, Alfonso Aroca, Giuseppe Castiglia, Antonio Labriola e inediti di Garibaldi e di Mazzini.

8 Lemmi accennò a Garibaldi nel discorso di Genova (dopo la celebre evocazione di Mazzini: «E tu Grandissimo Maestro, che solitario riposi a Staglieno… ») e in quello di Torino (ove Garibaldi fu definito espressione del «genio democratico e laico ( .. ) custode incorrotto deli diritto e della dignità nazionale» e invocato quale incitamento alla difesa della patria: cioè, in quel momento, in funzione antifrancese, in linea con l’atteggiamento di Crispi).

9 Atti Ufficiali della Conferenza massonica di Milano, a cura del Grande Oriente d’Italia, Roma, 1895, pp. 9-16: per un’analisi del pensiero di Lemmi negli anni Novanta rinviamo ad A. A. MOLA, La risposta della Massoneria alla “Rerum Novarum”, in Storia della Massoneria: studi e testi, Torino, Centro di documentazione massonica, 2, 1982, in corso di stampa. 10 D. FARINI, Diario di fine secolo, a cura di Emilia Morelli, Roma, Bardi, 1961, p. 650.

11 Garibaldi in Parlamento, a cura di S. Furlani, Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ufficio stampa e pubblicazioni, 1982, vol. 2, pp. 735 e ss..

12 La campagna scandalistica contro Lemmi (a tacere degli anni 1860-70, durante i quali presero a circolare in Italia i famosi estratti di sentenze pronunziate a Marsiglia nel 1844 contro un Adriano Lemmi di Firenze di anni 22, poi utilizzati negli Anni Novanta) seguì un complesso sviluppo: le accuse contro Lemmi provenivano da un’unica fucina francese (quel Léo Taxil che sicuramente aveva avuto rapporti con elementi dell’estrema frangia democratica italiana negli anni durante i quali era famoso libellista anticlericale) e da Oltralpe venivano riciclati sulla stampa italiana. Essa, cioè, rispondeva contemporaneamente agl’interessi di quanti in Italia consideravano Lemmi il principale appoggio di Crispi, ‘traditore‘ della democrazia, e di quanti, Oltralpe, vedevano nello statista siciliano un pericolo per la sicurezza francese. Perciò i vari Taxil, Margiotta, Diana Vaughan, Docteur Bataille e simili scagliarono le loro frecce alternativamente ora contro Lemmi, ora contro Crispi. Taxil – assai significativamente – uscì dal gioco quand’ormai da un anno Crispi era stato travolto da Adua, Lemmi s’era dimesso da Gran Maestro e la tensione franco-britannica per la gara coloniale sconsigliava Parigi d’inasprire i paesi. Sulla letteratura antimassonica rinviamo all’eccellente J. A. FERRER BENIMELI, El contubernio judeo-maçonico comunista, Madrid, Editorial Istmo, 1982. Il versante italiano del tema meriterà tuttavia una specifica ricerca, che prevediamo ricca di sorprese.

13 D. FARINI, Op. cit., p. 776.. Farini notò anche che Crispi, in pratica, non aveva quasi parlato di Garibaldi, nè di Cavour, insistendo, invece sull’opera del governo in carica.

14 Verbali della Giunta del Grande Oriente d’Italia, istituita dall’Assemblea Costituente Massonica del Maggio 1893, seduta del 25 giugno 1895 (che fu l’ultima prima delle manifestazioni del 20 settembre).

15 Ivi, seduta del 21 ottobre 1895. Alla seduta, presieduta da Lemmi, presenziarono Ballori, Sani e Meyer. Il verbale della seduta risulta però firmato anche da Ettore Ferrari, Luciano Morpurgo e Ulisse Bacci (verbalizzante). Dai Verbali risulta in modo inconfutabile che Crispi – benchè non quotizzante, nè, per quanto si sa, assiduo alle sedute di Loggia (del resto egli era stato da tempo iscritto alla Loggia Propaganda Massonica) – era considerato a tutti gli effetti ‘Fratello‘ e come tale sempre annotato.

16 Garibaldi in Parlamento, op. cit., vol. 2°, p . 816.

17 Verbali, cit., alla data.

18 Rivista Massonica, 1907, 15 giugno, p. 254. Per contro una solenne celebrazione rituale massonica di Garibaldi ebbe luogo presso la Gran Loggia di Francia, sotto la presidenza del Potentissimo Gran Maestro, Mesureur. Ma nelle stesse settimane le file dei massoni di Roma erano impegnate per assicurare la vittoria del ‘blocco popolare‘ di Nathan nelle elezioni supplettive per la conquista dell’amministrazione capitolina.

19 Per alcune esemplificazioni rinviamo a Rivista Massonica, 1907-1908.

20 Ivi 1907, 30 novembre, pp. 386-97.

21 Seduta del Governo dell’Ordine, 5 giugno 1932 (Parigi), presenti A. Tedeschi, Giuseppe Leti, Giacomo Carasso, Ettore Zanellini, Alberto Giannini, Francesco F. Nitti. Accanto a Chiesa fu rievocato Filippo Turati, «soldato valoroso della nostra comune battaglia».

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{15-08-2001}

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