I SIMBOLI

I simboli

 

 

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

non serve una lunga militanza massonica per comprendere che all’interno della nostra istituzione convivono, più o meno fraternamente, diverse “anime”.
Vi è, infatti, con ogni evidenza, almeno un’anima razional-illuministica, una storico-risorgimentale , una esoterica e probabilmente altre ancora.
Se v’è un argomento che può suscitare conflitto tra queste diverse anime, ebbene questo è la scienza dei simboli.
Infatti, pur rappresentando i simboli una delle caratteristiche principali della scuola massonica, è di tutta evidenza che essi assumano valenze assolutamente molteplici e discordanti agli occhi dei massoni che si riconoscono nell’una o nell’altra anima.
Per i razional-illuministi saranno poco più che reliquie storiche, orpelli decorativi, buoni per addobbarci il tempio in ricordo di tempi gloriosi ed un po’ naif.
Per gli esoteristi saranno preziose ed arcane chiavi di segreti insegnamenti da riportare alla luce.
Per chi, come il sottoscritto, subisce il fascino della Tradizione e, in pari misura, quello dei Lumi, sono solo un argomento da affrontare senza pregiudizi e con rispetto dell’opinione di ognuno, con la consapevolezza che, alla fine della via, potrà trovarsi il Graal o il nulla.
E’, quindi, sapendo che parrò un superficiale senza speranza agli occhi degli esoteristi ed una sorta di mago Otelma a quelli dei razionalisti che mi accingo ad esporre queste mie personali considerazioni sull’argomento.
Ciò farò cercando di rispondere ad alcune domande.

Ecco la prima:

COSA PUO’ DEFINIRSI SIMBOLO?

Quasi tutti i sistemi esoterici e , più in generale, quasi tutte le culture precedenti all’affermarsi del razionalismo illuministico (i cui esponenti, da Newton a Locke a Voltaire, non disdegnavano, per vero, l’esoterismo) hanno fatto largo uso di immagini simboliche affermando che esse evocherebbero, velandole al tempo stesso, realtà superiori che non possono essere descritte e comunicate attraverso gli usuali schemi razionali e verbali.
Non è qui il caso di dilungarsi. Basti ricordare, a titolo d’esempio -oltre alla pletora di simboli lasciatici in eredità dalle culture del Mediterraneo Greco/Romano/Arabo/Giudaico- anche i misteriosi Triskells, i graffiti “Cup and Ring” e gli Ogham dei Celti, i decorati tamburi rituali degli Sciamani Siberiani, l’Yggdrasil e le Rune della mitologia Scandinava o i tatuaggi rituali dei popoli tribali per convenire che l’uomo pre-illuminista ha spesso privilegiato la rappresentazione simbolica del mondo rispetto a quella descrittiva ed analitica, la visione mitica a quella storica.
In tal senso, bisogna precisare che per simbolo non dobbiamo limitarci ad intendere solo un segno grafico suggestivo , bensì ogni forma di espressione metarazionale che, superando i lacci del linguaggio e della ragione, sappia raggiungere lo spirito umano, comunicando significati che la semplice parola-razionale potrebbe difficilmente esprimere.
Perciò, anche un suono, un profumo o un luogo possono essere simboli potentissimi, anche molto più di un’immagine grafica. Si pensi alla potenza evocativa di un pieno d’organo tra le arcate di una cattedrale gotica, al richiamo del passato che pare cogliersi nel suono di un’arpa celtica, o di una cornamusa, udito tra le nebbie e l’odore salmastro di una brughiera, all’ebbrezza dello spirito che provoca il profumo dell’incenso o il suono dei mantra in un tempio Buddhista ecc…
Proprio perché si tratta di una forma di comunicazione metarazionale, che va oltre la mera parola, si dice che il simbolo non possa essere compiutamente spiegato.
Ogni tentativo di farlo non solo non porterebbe ad alcun risultato ma addirittura svilirebbe ed annullerebbe il simbolo stesso, che verrebbe ad essere tratto dalla dimensione “magica” ed a-razionale che gli è propria per essere schiacciato a forza in una dimensione “logica” (dalla radice greca l o g – che rimanda tanto al concetto di parola quanto a quello di ragione) che non gli appartiene.
Un po’ come se pretendessimo di costringere un oggetto tridimensionale in uno spazio bidimensionale.
Peraltro, il fatto che il simbolo sia una forma di comunicazione metarazionale e anche metaverbale non significa che non possa essere costituito da una parola o composto di parole.
La parola, infatti, può avere addirittura una triplice valenza simbolica: come suono (ad es. un mantra), come immagine grafica (ad es. un Ogham) e come immagine evocata (ad es. una formula rituale).
In ogni caso, mi riferisco non alla parola come parte di un discorso razionale, ma alla “parola magica”, cioè a quel segno grafico o quel suono o quella pluralità di suoni che pur essendo quelli comunemente usati nel linguaggio scritto o parlato riescono ad andare oltre il loro comune significato e ad esplicare un’azione evocativa sullo spirito umano e ciò in forza di una determinata pronuncia, di una certa associazione o di come vengono scritti.
Un po’ come avviene nella poesia o nella letteratura in genere.
Cosa distingue, infatti, una poesia o un romanzo da una cronaca giornalistica?
Non certo le parole in sé e per sé.
Nulla vieta che si possa fare poesia o scrivere romanzi utilizzando le stesse parole che si usano in una cronaca giornalistica e taluni lo fanno con successo.
La differenza è data dal fatto che mentre in una cronaca le parole descrivono un fatto secondo un processo logico-analitico, con lo scopo di fornire un resoconto, in una poesia le parole non descrivono: evocano, alludono, tendono a stimolare un riflesso spirituale e non una comprensione razionale.
Si pensi ad esempio a certi passi di James Joyce (non a caso un Celta Irlandese, un Bardo dell’Era moderna). Nell’Ulysses si legge, ad un certo punto, di un gatto che se ne sta accanto ad un fuoco di torba, in una povera casa della vecchia Dublino e lecca un pezzo di carta oleata che fino a poco prima conteneva del rognone. In sé e per sé il soggetto potrebbe addirittura essere considerato ributtante, le parole utilizzate non hanno alcunché di straordinario, eppure, nell’insieme, si tratta di un passo tra i più poetici ed evocativi che abbia mai letto.
La poesia e l’evocazione nascono dalla combinazione sapiente delle parole, con un processo che non esiterei a definire alchemico e sicuramente simbolico.
Posto che i simboli possono essere di diversa natura, bisogna rispondere ad un’ulteriore domanda:

I SIMBOLI HANNO UN VALORE UNIVERSALE E COSTANTE NEL TEMPO?

A detta di molti, non tutto ciò che ha un valore simbolico -cioè evocativo- per un soggetto o in un’epoca, deve per forza avere lo stesso valore per ogni persona e in ogni epoca.
Il concetto è ben esemplificato sol che si pensi, ad esempio, al differente effetto che può produrre la visione di una Svastica su un Ebreo e su un Indù. Da simbolo di morte a simbolo di vita: non è certo un salto da poco.
Ho citato un caso eclatante ma, in generale, non è infrequente che lo stesso simbolo sia significativo per alcuni ed assolutamente insignificante per altri o che possegga significati opposti ed inconciliabili.
Perché? Taluni lo spiegano appellandosi alla diversità intercorrente tra le varie Tradizioni, tutte ugualmente legittimate a farsi portatrici, in singole epoche e locazioni geografiche, di una primordiale trasmissione iniziatica, ma sostanzialmente autonome per quanto concerne metodi e simboli.
Dal canto mio potrei forse ipotizzare che tra simbolo ed osservatore si instauri una sorta di “risonanza”, di vibrazione spirituale simpatetica determinata da fattori ancestrali, quasi una sorta di ricordo o di sottile nostalgia che ci coglie di fronte a suoni, parole, luoghi o profumi fortemente evocativi.
Da queste schematiche considerazioni discendono, secondo i sostenitori del relativismo dei simboli, due conseguenze ben precise:
-non esistono simboli di valore universale, validi in ogni epoca, in ogni cultura e per ogni persona;
-l’interpretazione o catalogazione dei simboli può essere un esercizio pregevole sotto il profilo storico-documentario-intellettuale ma è assolutamente sterile sotto il profilo esoterico.
Circa la prima affermazione, mi prendo la libertà di citare, a spanne, il Sufi Idries Shah, secondo cui non esiste un metodo iniziatico esoterico, e quindi anche un simbolismo, che possa essere ugualmente valido in tutte le epoche ed in ogni contesto geografico-culturale. La VIA è sempre individuale, anche quando si giova di una comune cornice, quale la Massoneria, e di uno scambio di esperienze.
Circa la seconda affermazione, ho personalmente constatato che qualsiasi tentativo di interpretazione dei simboli, cioè di riduzione degli stessi entro gli schemi della razionalità, è destinato a fallire o a produrre mostri. Alzi la mano chi ha mai letto un testo esoterico , o sedicente tale, e ci ha capito qualcosa!
Iniziano tutti, aulicamente, con iperboli del tipo: “finalmente disveleremo la chiave delle segrete cose ecc…”, e subito degenerano in uno sterile, irritante e contraddittorio sfoggio di erudizione che lascia il povero lettore in uno stato di totale confusione mentale e con la precisa sensazione di essere un minus habens senza speranza.
V’è chi afferma che tale oscurità sia determinata dalla necessità di dire senza dire, di svelare senza violare la consegna del silenzio imposta agli iniziati.
Uno come Voltaire farebbe notare, causticamente, che se chi parla di questi argomenti è costretto a farlo senza farsi capire tanto vale che se ne stia zitto.
Secondo Renèe Guenon, l’errore di fondo di chi pretende di accostarsi ai simboli così come si farebbe con qualsiasi altro ambito d’indagine di tipo scientifico è il non comprendere che i simboli, così come i riti, non vanno capiti razionalmente, vanno sperimentati, vissuti. Non si può non rilevare che, in spregio a tale ostentata convinzione, lo stesso Guenon ha scritto svariate centinaia di pagine interpretando simboli pur fingendo di non farlo.
Ciononostante, il Grande Iniziato ha creato le premesse per la successiva domanda:

 

COSA SIGNIFICA “VIVERE UN SIMBOLO”?

 

 

Non posso tacere che non mi è per nulla chiaro cosa voglia dire “vivere un simbolo” e posso solo ipotizzare che per “vivere” s’intenda “percepire l’influenza evocativa” o , al più, “fare oggetto di meditazione”.
I simboli , così come i riti, paiono offrire i loro doni esclusivamente ove trovino rispondenza nell’animo di chi li contempla o vi partecipa, ed appassire se divengono oggetto di un esame freddamente intellettuale.
La pretesa d’indagare razionalmente i simboli serve forse solo a stiracchiarli qua e là al fine di fornire un preteso supporto alle tesi, spesso sbilenche, dello scrittore di turno.
Tuttavia, gli uomini sono animali curiosi ed è normale che si interroghino sulle cose e formulino ipotesi, anche strampalate.
Lo farò anch’io tentando di intuire cosa significhi vivere i simboli attraverso esempi concreti.
I simboli del grado d’apprendista (fuoco, aria, terra ed acqua) possono essere una buona base di partenza per formulare delle ipotesi.
Essi richiamano gli elementi fondamentali dell’essere materiale, della vita fisica.
Essi richiamano, altresì, gli estremi e le fasi intermedie nelle manifestazioni della materia e possono essere collegati, secondo modelli ternari o quaternari, al ciclo vitale fisico: ad es. generazione, trasformazione, distruzione ed, eventualmente, rinascita.
Pertanto, i simboli fondamentali dell’apprendistato potrebbero rappresentare una sorta di metafora della vita fisica terrena e, conseguentemente, “viverli” potrebbe semplicemente significare “vivere” la vita, (naturalmente in modo consapevole), quale prima fase, quale apprendistato appunto, di un cammino di elevazione.
Del resto, non può negarsi che la vita in sè rappresenti una scuola o, se si preferisce, una palestra di evoluzione che, attraverso molteplici esperienze sui piani fisico, razionale ed emotivo, determina un’evoluzione dello spirito umano (nel caso di corretto, cioè consapevole, approccio all’esperienza) o un’involuzione (nel caso di approccio errato, cioè inconsapevole).
La lezione dell’apprendista sarebbe quindi quella di sperimentare a fondo il mondo fisico, i suoi estremi e sue fasi intermedie. Ad esempio: sesso, astinenza, temperanza oppure fantasia, ragione, apertura mentale. L’apporto del principio di tolleranza nell’apprendimento di tale lezione è evidente: la tolleranza e ciò che ci consente di riconoscere l’esistenza ed anche la necessità degli estremi e di operarne una mediazione.
La visione settaria idolatra il bene o il male e rifugge l’opposto. La visione tollerante riconosce l’ineluttabilità, nella dimensione terrena e fors’anche in quella spirituale, delle polarità positiva e negativa.
Ad esempio: violenza – non violenza- pace, laddove:
-La violenza è una componente ineludibile dell’animo umano.
-Il suo opposto, la non violenza, è un’aspirazione spirituale.
-La pace è la sintesi, sul piano umano, dei due principi (violenza e non violenza) poiché è ottenibile, come la storia dimostra, solo attraverso l’equilibrio tra violenza e non violenza.
E’ sempre stato necessario utilizzare la violenza, o la minaccia della violenza, per realizzare l’aspirazione alla pace. “Si vis pacem, para bellum“, dicevano gli antichi Romani. La pace non è il frutto di imbelle pacifismo. La tolleranza non è indifferenza o relativismo.
L’esperienza umana non può essere mono – polare ma deve passare attraverso gli opposti e le sfumature intermedie: fuoco – aria – terra – acqua, gioia – dolore – indifferenza – estasi.
L’apprendistato massonico, con i suoi simboli, può quindi rappresentare l’esperienza dell’esistenza materiale e sensibile.
I viaggi iniziatici possono essere viaggi attraverso la materia e gli opposti e potrebbero volerci comunicare che dobbiamo essere capaci di essere feroci guerrieri, teneri figli, saggi filosofi, amanti passionali, amici leali ecc.. il tutto in un’unica o in più esistenze ed al fine di trarne una lezione spirituale.
Queste sono solo mie ipotesi e non penso che costituiscano una risposta valida e definitiva alla domanda iniziale.
Cambiano le epoche, cambiano i costumi, cambiano anche i simboli ma la vita ce ne fornisce ogni giorno di nuovi e talvolta, non spesso, ci tocca con la grazia di saper essere sensibili anche a quelli più antichi ed arcani.
Dovremmo, comunque, ammettere che i simboli evocano una realtà nascosta e che ogni simbolo -parafrasando Shakespeare- ci rammenta che “esistono più cose in cielo ed in terra di quante i nostri filosofi possano immaginare”. Sta a noi essere aperti all’esperienza e tendere alla conoscenza, senza limitarci alla venerazione dei simboli in sé: sono solo mezzi e non certo traguardi.

 

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