PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI

  1. NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo.  Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere».  Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
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DAL CIELO ALLA TERRA E DALLA TERRA AL CIELO

DAL CIELO ALLA TERRA E DALLA TERRA AL CIELO

Itinerario artistico iniziatico per l’anima degli uomini ovvero l’Amen delle stelle

Armando Rossi

Loggia di Ricerca Arte e Architettura: Antonello da Messina

Permettetemi, anzitutto, di indirizzare la vostra attenzione sulla forma della Loggia: un parallelepipedo di lunghezza da E ad O, di larghezza da N a S, di ampiezza dalla superficie della terra al suo centro e alto come il cielo.

Dalla spiegazione della tavola di tracciamento di I grado

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Dalla tavola smeraldina

Incipit

L’uomo come misura di tutte le cose, l’uomo come centro saliente di ogni pensiero e di ogni arte, ma anche l’uomo travolto dalle Moire, dalle proprie passioni.

Esiste una nozione di uomo che connetta strettamente la sua natura al vasto e molteplice mondo delle divinità?

Anthropos, nel suo etimo, racconta l’immagine umana nella peculiarità di volgere gli occhi insù. L’uomo è quell’essere che, a differenza di bestiacce e bestiole, intrattiene con le stelle un legame di privilegio, l’uomo è quell’essere che studia, comprende e apprende le stelle e discerne lo zodiaco dalle costellazioni, distingue il giorno dalla notte e sa che il cielo stellato non svanisce col sole ma li rimane e il non vederlo è solo un suo limite fisico ma non mentale.

Ciò che è si vede anche quando non è palese, chi ha occhi per vedere, veda e comprenda e sia da guida per chi non crede solo perché non riesce a vedere.

Ante factum

“Quando scoppiano i fuochi d’artificio: nessuno guarda il cielo stellato!”

Lo diceva un signore avanti con l’età a voce un po’ elevata, che stava dietro di me, per farsi sentire dal suo vicino, il quale ricordo annuì quasi per compiacenza. Mi ricordo però che io staccai lo sguardo dai brillanti colori dei fuochi artificiali che in quell’attimo (e solo per quell’attimo!) vivevano e guardai più in alto. E un’emozione più intima mi invase. Respirai profondamente…

Un cielo stellato che il nostro emisfero boreale talvolta ci regala in visione nel mese di luglio era là: monotono, perenne, instancabile, insensibile al richiamo di quei poveri ed insulsi colori spumeggianti dei fuochi artificiali ed artificiosi.

Una metafora. Una metafora di me, una metafora del mondo profano?

 

La Massoneria è quell’arte che insegna a staccare lo sguardo dall’estemporaneità della fenomenologia attuale ed istantanea, estemporaneità che forse – può produrre fallaci momenti di finta emozione che proprio come fuochi artificiali durano un attimo e non più, senza lasciare segno di sé un momento dopo.

E’ necessario imparare a staccare lo sguardo per volgerlo al cielo stellato. Quei cieli stellati che Vincent Van Gogh ha magistralmente dipinto rendendoci partecipi dei vortici d’aria che lo formano. Lui pittore complesso e sempre al limite della follia ci permette di cogliere l’invisibile, l’aria che sposta le masse e forma le tonalità dei colori.

E se la notte scende, le stelle, si sa, risplendono ugualmente e illuminano il cammino. Il cielo stellato, archetipo junghiano che in maniera litografica impresse l’anima dei primi uomini, avvia ed induce ad una filosofia concettuale secondo la quale l’identità tra cosmo e uomo è esperienza di vita e Dio è “sentito” come uno spirito che sa rivelare armonia cosmogonica nel “solenne silenzio del cielo stellato”. Tale equazione risulta essere addirittura un “fatto scontato” in Goethe.

Una legge geometrica in cui tutto è armonia

Il cielo azzurro, o blu, con tante stelle che lo impreziosiscono corre da Oriente a Occidente e da Settentrione verso Meridione, uguale da milioni di anni. Il Cielo stellato accomuna le civiltà precolombiane a quelle della Mesopotamia, accomuna i Fenici ai Sumeri, ai Cinesi, ai Tehuelche. Il Cielo stellato è comune per gli Induisti e per i Cristiani, unisce i Mussulmani ai Veda. Sempre!

E dalle Colonne lo possiamo sempre ammirare. Il Tempio è incompiuto, volutamente, poiché il lavoro massonico è infinitamente perfettibile, ma non raggiungerà mai la perfezione. La raggiunge solo là: all’infinito! Il cielo stellato è il tetto naturale del Tempio di Salomone e comunica al Libero Muratore l’infinitezza del creato e lo esorta verso una spiritualità elevata a cui occorre tendere. A cui occorre aspirare.

Anche nell’io dell’Apprendista? Mi chiedo.

L’Apprendista non sa, ma vuol sapere. L’Apprendista quella sera del mese di luglio comprese come il cielo stellato è stato, è, e sarà, un segno, un simbolo che indirizzerà la via e la sua vita. Kant nella conclusione della Critica della Ragion Pratica scrisse: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione, sempre nuove e crescenti, e quanto più spesso e a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”

Corpus

Nell’antichità il termine “Tempio” ha significato un recinto, una delimitazione[1]una porzione del cielo, o un luogo delimitato da cui osservare la volta stellata, posto tra cielo e terra, tra macro e microcosmo, tra finito e infinito, il Tempio diviene il luogo privilegiato della riflessione, della elevazione spirituale.

Ciò che del cielo attraeva l’uomo erano   principalmente le stelle, quelle luci in mezzo al buio che sorprendevano e stupivano, e che per millenni hanno costituito la mappa unica e sicura per coloro che percorrevano il mondo per terra e per mare, per chi come i marinai cercavano la rotta per la nuova terra o per il ritorno verso casa (se questo era il loro desiderio) o per chi, come i Re Magi, seguivano la stella per trovare un essere divino. Ancora oggi si guarda alle stelle, profanamente, perché ci suggeriscano la giusta rotta da seguire.

Il cielo stellato ha sempre rappresentato l’emblema dell’infinito. . La sua rappresentazione nelle opere architettoniche ne ha costituito un limite indefinito che permetteva a chi entrava di sentirsi un unicum con l’universo.

Emblematici i cieli stellati del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna o quelli nella tomba della regina Nefertariin Egitto nella valle delle Regine.

Proprio quest’ultima rappresentazione può considerarsi la più antica volta celeste della storia.

l’origine delle parlate diffusesi in una consistente parte dell’Europa, dell’India e dell’altopiano iranico, nonché di alcune regioni dell’Anatolia, dell’Asia centrale e della Cina occidentale.

Si tratta di una struttura ipogea ricoperta da più di 3500 mq di dipinti che illustrano il viaggio nell’aldilà di Nefertari. Tutto il soffitto è un intero cielo stellato di un intenso blu scuro.

.

Si tratta di un aspetto molto affascinante in quanto la stella a 5 punte è la raffigurazione del pentagramma, della stella pitagorica ed è la figura geometrica costruita sulla base della sezione aurea, proporzione e dimensione già nota agli Egizi.

Queste distese di stelle, generalmente, non hanno riferimenti astronomici ma in alcuni casi gli astri sono raffigurati in modo tale da far pensare a delle vere e proprie mappe stellari.

Le rappresentazioni più antiche di mappe stellari sono in Europa senza dubbio i frammenti rinvenuti nei Templi megalitici di Malta 3.600 a.C. ed il manufatto noto come Disco di Nebra, rinvenuto in Germania quindici anni fa ma risalente a non più tardi del 1.600 a.C.

Nel corso dell’arte classica è difficile trovare grandi esempi di cieli stellati. Qualche frammento fittile di epoca greca mostra il Dio Eosforo che porta la luce del mattino accompagnato da qualche sporadica stella (raffigurata in questo caso con sedici raggi).

Il cielo stellato interamente a coprire la volta interna lo ritroviamo significativamente a Padova, in un altro scrigno pieno di colore e bellezza. È la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto intorno al 1300 con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento.

Qui la volta a botte è interamente dipinta di blu oltremare, colore associato alla sapienza divina e ottenuto con preziosa polvere di lapislazzuli,

San Gimignano

mentre le stelle dorate ad otto punte sono leggermente in rilievo rispetto alla superficie della volta.

Quello degli Scrovegni non è un caso isolato. Nel basso Medioevo, infatti, so no molte le chiese con volte dipinte a cielo stellato (basta ricordare le crociere della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o quelle della cattedrale di Siena o del Duomo di San Gimignano).

Nello stresso periodo si possono trovare esempi anche fuori dall’Italia, come nella tardogotica cappella di San Biagio nella Cattedrale di Toledo o nella coeva chiesa di Santa Maria a Cracovia.

Il cielo stellato nelle chiese va ben oltre il mero significato della volta celeste, esso idealizza, come studio “scientifico” e speculazione filosofica, il cielo dei giusti e dei santi. Proprio l’enfasi religiosa ha determinato la diffusa credenza che il cielo sia sede di esseri superiori che, guardando verso il basso, trovavano divertimento nell’osservare la vita e le gesta dei deboli abitanti della Terra.

Prima del Cristianesimo solo gli uomini migliori ovvero gli “eroi” erano degni dell’interesse divino ed alcuni, per la loro prodezza in battaglia o per un ‘altra non comune qualità, venivano addirittura divinizzati, quali semi-dei.

È chiaro quindi come la sede celeste sia sempre stata considerata simbolo di ciò che vi è di superiore, essendo riservata normalmente ad esseri divini e, solo saltuariamente, a quei rari uomini che avessero dimostrato qualità eccezionali per nascita o, più raramente, per libera scelta.

La volta stellata rappresenta l’incomprensibile, l’infinito e, non ultima, la speranza in un futuro migliore, immateriale, una dimensione che liberi l’umanità dalla sofferenza della vita terrena, meglio se per l’eternità: un luogo in cui lo spirito possa riscaldarsi attraverso l’irraggiamento diretto della fonte di “luce” primigenia[2].

Della fine del Quattrocento è la testimonianza di un altro cielo stellato sulla volta di una cappella. Ma la notizia, stavolta, è quella della sua scomparsa, ovvero all’affresco di Piermatteo d’Amelia che ricopriva il soffitto della Sistina prima dell’intervento di Michelangelo.

Pochi anni dopo, nella seconda metà del Cinquecento un altro splendido soffitto stellato posto a copertura della Cappella Reale di Hampton Court, uno dei palazzi reali eretti da Enrico VIII in Inghilterra. Secondo lo stile dell’epoca si tratta di particolare due opere che compone. “Quatour por la fin du temps” e “Le visioni dell’Amen”.

I colori che Messiaen trasfigura nei suoni – quello sfolgorante arcobaleno sulla testa del settimo Angelo, le colonne di fuoco, il blu del mare, il verde della terra, e tutti gli altri colori dell’Apocalisse – appaiono vividi e smaglianti nei sogni dell’autore. I colori diventavano suoni e i suoni si coloravano di blu e arancio, di limpida           luce stellare.    Un suono definito da tutti limpido come un cielo stellato. E il silenzio – grande solenne che segue l’apertura del settimo sigillo – non rappresenta tanto un’eco dilatata degli ambigui e oscuri silenzi del cielo notturno, quanto il sogno di una quiete inesprimibile.

Il cielo stellato come metafora dell’attesa del giudizio per tutti

gli esseri viventi, da contemplare, da rispettare, da osservare e cercare di comprendere. Chissà. Forse possiamo anche noi oggi provare a capire che cosa significa Apocalisse, come ha fatto Olivier Messiaen e dalla visione privilegiata del cielo stellato del Tempio Massonico possiamo trarne un insegnamento per il nostro tempo e per la crescita di ognuno. Non a caso nella composizione della Visioni dell’Amen [3][4]dopo l’Amen della creazione, segue l’Amen delle stelle, per chiudere con l’Amen del Giudizio e l’Amen della Consumazione.

Ma se l’arte ha saputo nella storia interpretare ed utilizzare il cielo stellato per le proprie esigenze queste non hanno mai contribuito in forma diretta ad una ritualità, ad una liturgia. Il Cielo stellato ha costituito un “naturale e semplice” collegamento tra la terra (luogo degli uomini) e l’infinito (luogo della divinità) e da tutti ampiamente e pienamente utilizzato, come abbiamo potuto vedere.

Da questa semplice e non esaustiva carrellata di esempi (gli esempi non sono mai abbastanza) emerge però un singolare e importante dato: il cielo stellato non è il punto di arrivo ma un mezzo attraverso il quale sia possibile raggiungere la divinità. Il cielo stellato non come meta ma come filtro, come elemento mediale in un sistema di rapporti tra uomo e sua trascendenza.

Che sia esso particolarmente dettagliato o semplicemente sfumato, semplice o prezioso nei materiali esso non “contiene” mai la divinità ma la “vela”, la cela e la contorna.

L’uomo dovrà attraverso la sua conoscenza mediare tra terra e divinità attraverso il cielo come metafora di ascesa. Verso il cielo il bene, al suo opposto il male.

Terra come elemento di mediazione con gli lnferi, cielo come elemento di mediazione con il Divino.

Quale rapporto esiste allora tra l’uomo e il cielo? È il medesimo che esiste tra l’uomo e la terra?

Corpus Massonico

Se il rapporto con il cielo è verso l’alto quello con la terra è verso il basso è il caso di ricordare uno dei due incipit del presente lavoro:

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso

Il Tempio massonico è la peculiare rappresentazione di quanto scritto nella tavola smeraldina, non per mera definizione e attribuzione ma per specifico sistema.

La ritualità si svolge sopra un pavimento a scacchi e sotto la volta celeste e da questi due elementi è “contenuta”.

Il Tempio dei liberi muratori è trasposizione simbolica di un tempio ipetrale[5], cioè un tempio a cielo aperto. È noto che in antico le riunioni massoniche avvenissero en plein air. Perciò nel soffitto delle officine si apre un riquadro rettangolare (affrescato) che simula la volta celeste trapuntata di stelle.

21 x 29,7 cm, 2007, Éditions Durand

L’uomo ha da sempre levato al cielo, con primordiale stupore, il proprio sguardo interrogativo. Il Dante esoterico, summa della sapienza medioevale e fedele d’amore, fa sì che ciascuna delle tre cantiche della Commedia termini menzionando le stelle: e quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno)

/ puro e disposto a salir alle stelle (Purgatorio)  l’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso)

Alla luce di alcune definizioni che abbiamo potuto percepire nell’excursus artistico possiamo affermare che l’uomo ha il dovere morale di tendere verso l’alto e quando questo viene meno la mediazione con la terra è “governata” dal pavimento a scacchi che concede, ricorda e riallinea chi lo percorre permettendo di riprendere il giusto equilibrio, mentre la mediazione verso l’alto è “governa” dal cielo stellato ovvero un “velo” o filtro rispetto alla Divinità alla quale tendiamo elevandoci attraverso la scala di Giacobbe che percorriamo esercitando le virtù su di esse adagiate e che incontriamo nel nostro cammino.

Il Tempio Massonico non è una porzione da cui osservare l’universo ma è l’intero Cosmo, uno spazio aperto che non ha pareti, ma essendo esso stesso Cosmo è impossibile delinearne le dimensioni e ovviamente è impossibile definirne le “visioni”. Questa o quell’altra costellazione sono semplice scelte poiché la volta celeste è simbolicamente rappresentata ma non definibile.

Il cielo stellato prescinde da ciò che in esso è rappresentato.

A Gerusalemme, in una caldissima sera d’agosto poco prima dell’avvento del Messia…

Il “Gadol Cohen ” si svegliò presto quella notte e volle riguardare ancora una volta quello spettacolo nel cielo che già aveva ammirato la sera prima. Uscì dall”‘Ulam ” del Tempio, in quell’afosa serata estiva, scandita dalle folate di un vento caldo, passando accanto alle colonne “Boaz” e “Jachin”. Uscì sulla spianata del Tempio ed il suo sguardo, dopo aver superato, alla sua sinistra, lo “lam Mutzach ” si diresse verso il cielo, con un moto di devoto rispetto, ‘tle-Qedem “.

Il sole sarebbe sorto in quel punto soltanto 2 ore più tardi, ma qualche pallida luce iniziava già ad annunciare timidamente l’alba. Lì, poco più in alto della linea dell’orizzonte, si posò il suo sguardo, su quel punto del cielo chiamato dagli astronomi del suo paese “Sartan “. Quasi al centro di questo settore, gli avevano insegnato, c’era un punto divino, davvero importante per tutti loro e per il Creatore.

Era un piccolo e ristretto agglomerato grigio di stelle, dalla luce fioca e lontana, chiamato “SharAischim ” Era quasi un punto, gli aveva spiegato il suo vecchio maestro rabbi, in cui la volta celeste era più sottile e le anime degli uomini scendevano tutti i sette cieli, provenienti dal “Magazzino delle Anime”, per incarnarsi nei loro corpi, seguendo i dettami della “Shevirat Ha-Kelim “, soltanto per volere del Creatore oppure risalivano lungo la scala di Giacobbe, secondo principi e virtù.

Due piccole fioche stelline20 erano poste ai lati della ‘Porta”, una un po’ a nord e l’altra un po’ più a sud, quasi a sorvegliarne e custodirne con rispetto il sacro accesso. Con umiltà pensò che anche la sua anima avesse fatto un giorno quello stesso tragitto, ed i suoi occhi brillarono di commozione, ma ricordò anche che, spesso, alcuni corpi celesti (Pianeti) vi finivano ‘dentro’ nel corso dell’anno. E quello, per tutti loro, era sempre un grande momento per onorare la magnificenza del Creatore. Anche quella sera stava succedendo quel momento meraviglioso e davvero speciale: il rosso “Maadim ‘ era proprio dentro alla “Porta”, ma c’era anche di più. La bianca “Nogah ” era posta un poco più a sud, ma davvero molto vicina alla “Shar Aischim” ed a “Maadim” che vi stava dentro in quel momento. Quello era un presagio nel cielo che sembrava fatto apposta per segnalare un evento davvero speciale, da ricordare per tutti loro, e che era stato scritto per sempre fra le stelle

Il cielo stellato, tra tutti gli spettacoli della natura, è quello che più è capace di scuoterci profondamente, stimolando la riflessione sulla nostra natura e sul “senso” della nostra esistenza, il cielo stellato è sentito come irraggiungibile, come ‘ultimo orizzonte” oltre al quale, al pari della siepe dell’infinito di Leopardi, non possiamo avventurarci se non con il pensiero. La sensazione di irraggiungibilità e di estensione illimitata nello spazio e nel tempo, suscitata dalla visione del cielo stellato genera in noi una mescolanza di sentimenti di ammirazione, per l’imponenza ed immanenza del Cosmo, e contemporaneamente di angoscia, nel momento in cui confrontiamo la nostra limitatezza con l’infinità del cielo. Il cielo è riprodotto sulla volta del tempio che non è, appunto, un luogo delimitato ma è l’intero cosmo nel cosmo.

La volta celeste posta sopra il Tempio, a prescindere dal suo contenuto fisico o della costellazione in essa rappresentata rappresenta anche un altro principio, spesso dimenticato della Massoneria, ovvero la crescita personale di ognuno Massone e il suo miglioramento personale.

Così come ci ha ricordato il G.M. nella sua ultima allocuzione[6]riportando la definizione di “religioso” delle scuole del Vedânta e della dottrina religiosa del Giainism0 [7][8]per le quali la Religione non è altro che il rapporto personale con un essere divino o trascendente a cui ci sottomettiamo e a cui rivolgiamo le nostre preghiere, per ottenere vantaggi materiali, oppure illuminazione spirituale, o morale e il cielo è universalmente il simbolo delle potenze superiori all’uomo, benevole o temibili.

In antichità gli Auruspici Etruschi indicavano con la presenza o assenza delle Stelle il «carattere» del Cielo, del Numinoso. In presenza di Stelle il responso divino è benevolo, al contrario un Cielo tempestoso rivela la collera divina.

Il cielo del Tempio è stellato, dunque benevolo.

Il Cielo rappresenta tutto ciò che sovrasta l’uomo, l’insondabile immensità, la sfera dei ritmi universali. Tutti gli esseri sono prodotti dall’unione «coniugale» del Cielo con la Terra, del Padre Celeste con la Madre Terra. In Egitto, però, curiosamente le polarità s’invertono. La dea Nut è celeste, il dio Geb terrestre: dalla loro unione nascerà, il Sole.

Nelle religioni orientali come l’induismo, il taoismo e lo shintoismo, il cielo stellato è spesso visto come un segno di una presenza divina. In alcune tradizioni, le stelle sono associate a divinità specifiche e il loro movimento è interpretato come un segno di volontà divina. Ad esempio, nell’induismo, le stelle sono associate ai pianeti e il loro movimento è usato per la previsione astrologica. Nel taoismo, il cielo stellato rappresenta la totalità dell’universo e il suo ordine cosmico. Inoltre, nello shintoismo, le stelle sono considerate una manifestazione della presenza divina in cielo.

Nelle tradizioni esoteriche e spirituali, il cielo stellato ha un significato simbolico profondo. Ad esempio, nella Cabala ebraica, le stelle rappresentano gli spiriti degli uomini giusti che hanno raggiunto la purezza spirituale. Nell’alchimia, le stelle sono viste come rappresentazioni dei diversi elementi e forze cosmiche che influenzano il mondo materiale. Inoltre, nell’astrologia, le posizioni e gli allineamenti delle stelle al momento della nascita di un individuo sono visti come influenti sulla sua vita e il suo destino. In molte tradizioni spirituali, il cielo stellato viene anche associato alla conoscenza divina e alla via verso l’illuminazione spirituale

Nell’Apocalisse il Cielo è la dimora di Dio; al contrario, i Celti non pongono in Cielo la residenza degli Dei. Nella cosmologia dei popoli uralo-altaici vi sono nove cieli, raffigurati attraverso tacche incise sull’Albero del Mondo, la Betulla.

Nella mistica sufi, le stelle sono viste come simboli dell’infinito e dell’eternità, e la contemplazione del cielo stellato viene considerata un modo per avvicinarsi a Dio e alla verità divina.

Per gli Algonchini americani26 i cieli sono dodici; mentre gli Aztechi parlavano di tredici cieli e nove mondi inferiori27. L’espressione «Figlio del Cielo e della Terra» appartiene sia ai Misteri Orfici, sia al Taoismo. Il Figlio del Cielo e della Terra è l’Imperatore (Wang) come archetipo del Vero Uomo, dell’lniziato.

La disposizione della Loggia varia secondo i Riti ma esistono regole assolutamente obbligatorie da osservare: la Loggia, di forma rettangolare. rappresenta il cammino che conduce dall’Occidente all’Oriente, cioè “verso la Luce”: il Trono del Venerabile all’Oriente, il suo lato destro indica il Mezzogiorno, il lato sinistro il Settentrione. Il soffitto rappresenta il cielo stellato. Infatti il Tempio simbolizza il Cosmo: ecco perché pur conoscendone le “proporzioni” non esistono “dimensioni”: la sua lunghezza va dall’Occidente all’Oriente, la sua larghezza dal Settentrione al Meridione, la sua altezza dal Nadir allo Zenit.

La contemplazione del cielo stellato viene vista come un modo per aumentare la consapevolezza di sé, per connettersi con la dimensione cosmica e per raggiungere una comprensione più profonda della realtà.

Il Tempio o Loggia è un luogo aperto e questo è anche fisicamente riscontrabile nella tavola di tracciamento di I grado dove non esistono pareti o limiti fisici in nessuna direzione, limitato per essere utilizzato in basso dal pavimento a scacchi e in alto dal cielo stellato.

Il cielo stellato rappresenta la divinità, la saggezza e l’ordine cosmico e simboleggia la presenza divina nell’universo. Il cielo stellato della Sala del Tempio costituisce sostanzialmente ad un invito a raggiungere una comprensione più profonda della realtà e a cercare la verità. Esso rappresenta la necessità di mantenere un ordine e una struttura nella propria vita, come nel cosmo: le stelle rappresentano gli ideali e i valori che i massoni cercano di perseguire nel loro cammino spirituale e nella vita quotidiana.

Quando una Loggia è impegnata nei lavori rituali questi vengono svolti sotto un cielo stellato e testimonianza del rapporto trascendente che esso ha con l’uomo. Questo rapporto è visto come un legame che supera la dimensione materiale e che connette l’iniziato con una realtà più grande e divina.

Nel platonismo, il cielo stellato rappresenta la dimensione delle idee eterne e l’uomo è invitato a elevarsi verso di esso per raggiungere una comprensione più profonda della realtà così come l’iniziato avendo accesso agli “strumenti” può andare oltre il semplice sguardo profano.

Nel neoplatonismo, il cielo stellato è visto come una manifestazione della divinità e la contemplazione delle stelle è considerata un modo per avvicinarsi a Dio, ragione per cui i nostri lavori si definiscono “rituali” essendo la ritualità l’unica strada che conduce alla Divinità.

Pur avendo visto le molte rappresentazioni nelle diverse arti del cielo stellato possiamo concludere che esso è sempre e assolutamente un riferimento esoterico e spirituale se posto come coronamento, sfondo o completamento di gestualità rituali o luoghi significativamente “rituali”. Il cielo stellato è sempre associato all’anima umana e alla sua dimensione spirituale, e la contemplazione del cielo stellato è sempre vista come un modo per raggiungere una comprensione più profonda di sé e della realtà, per il Massone una perfetta via da percorrere, come un ideale “Cammino di Santiago” lungo la Via Lattea.

La volta stellata è anche il simbolo dell’ideale di fratellanza, ciascun fratello è avvolto dalla stessa volta celeste, uniti l’uno all’altro dalle stesse luci e dallo stesso mistero, dallo stesso segreto; il fratello di Loggia è uguale, per ideale di fratellanza, al fratello di un altro differente luogo sulla terra, uguale al fratello di qualsiasi altra lingua troppo lontano fisicamente per essere incontrato nella vita profana. Il cielo della volta stellata del tempio, benché notturno, lo testimonia la presenza delle stelle, non è nero ma turchese colore di un momento particolare del giorno, quello dell’idea che, una volta infranto il velo della Notte, precede l’Alba e il Sorgere del sole della fratellanza.

Non ha valore rituale, quindi, questa o quella costellazione, il cielo stellato della Loggia, come in arte, non determina il valore esoterico del Tempio. Non importa quale sia la sua rappresentazione e cosa contenga – che rimane una libera scelta – ma l’importante è che ci sia poiché è un “simbolo”!

L’Iniziato che percorre la Via Iniziatica è in grado di ascendere al Cielo. Non si tratta di ottenere la Salvezza con la fede, quanto di ascendere al Cielo, diventando Divino.


[1] Dal termine indoeuropeo Tem. Il sistema morfologico dell’indoeuropeo (così come il sistema fonologico e in genere tutta la grammatica di questa lingua) è una ricostruzione frutto del confronto tra le lingue indoeuropee di attestazione più antica e, in mancanza di queste, tra le lingue moderne, ipotizzandone una origine comune. L’indoeuropeo è infatti l’ipotetica protolingua preistorica ricostruita che si ritiene comunemente essere

[2] Cfr. Michele Galassi – La volta celeste, il paradigma ermetico e la “coincidenza de lio osti” – Ma io 2015

[3] Parola ebraica (‘âmën), passata anche in altre lingue semitiche (siriaco, etiopico, ecc.), nelle versioni greche e latine del Vecchio Testamento e nei varî testi del Nuovo. Deriva dalla radice semitica ‘mn col senso “sostenere, esser saldo”, quindi “esser sicuro, certo, veritiero”

[4] Cfr Partitura per due pianoforti 108 Pagine;

[5] Si chiama così l’edificio, in particolare il tempio, privo di copertura nella parte centrale. Nessun tempio conosciuto era esattamente del’ tipo descritto da Vitruvio (III, 2) come ipetrale; vi si accostavano l’Olympieïon di Atene e il tempio di Apollo a Selinunte. cfr. A. Choisy,

Vitruve, l, Parigi 1909, p. 165

[6] Cfr. Religione e Sacro – Allocuzione nella Gran Loggia del 5 novembre 2022 Fabio Venzi

[7] Cfr. S.N. Dasgupta, Il Misticismo Indiano, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, pag. 31

[8] Gli Algonchini rappresentano l’insieme di tribù di na-

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ALCUNE RIFLESSIONI SULLA FAVOLA

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA FAVOLA

di

Roberta Galli

La formazione, o forse in alcuni casi la deformazione scolastica, ha sempre ridotto la lettura delle favole a puri esercizi di traduzione di testi ritenuti facili per grecisti e latinisti alle prime armi.

Si impone già a questo punto una prima osservazione; se è vero che gli apologhi che vanno sotto il nome di Esopo, sono una lettura semplice, altrettanto non può essere detto delle favole di Fedro ed ancora meno di Aviano, grande ammiratore di Virgilio dalla cui opera “prese in prestito”, secondo il costume degli antichi che non aveva diritti di autore e non conoscevano il plagio come reato, non soltanto espressioni ma anche interi emistichi

La favola, del resto, è sempre stata considerata il mezzo di insegnamento, per eccellenza sia per la forma sia per il contenuto: i discipuli romani faticavano traducendo dal greco al latino, versificando la prosa o parafrasando la poesia. Ma i maestri conoscevano anche le virtù educative della sostanza se Quintiliano raccomanda alle nutrici di raccontare ai piccoli le aniles fabellae, per poi passare, quando più grandicelli, alle fabulae esopiche.

Tuttavia stimo che per capire veramente la favola, la sua tradizione, l’ immensa produzione e la sua continuità, potremmo quasi dire, immortalità, bisogna rifarsi al significato della parola e dei suoi sinonimi ed alla loro etimologia. Nella tradizione occidentale RoyoÇ, uveoÇ, efabula hanno, in origine, soltanto il significato di “parola”; questo evidenzia l’ antichità del genere che certamente preesistette la scrittura. E se non abbiamo conoscenza di favole greche appartenenti ad un’epoca anteriore al VI secolo ed attribuite ad un leggendario scrittore di nome Esopo, non è difficile immaginare che brevi racconti di questo tipo circolassero oralmente — ricordiamo che anche i poemi omerici furono “scritti” secoli dopo la loro creazione. La letteratura orientale, assiro-babilonese ed indiana avevano conosciuto e coltivato la favola da lunghissimo tempo.

La continuità della produzione favolistica ha pochi altri paralleli nella storia letteraria; infatti, oltre a favole occasionali inserite in altre opere, generalmente per spiegare o illustrare, non si contano le raccolte vere e proprie greche (Esopo e Babrio), romane (Fedro ed Aviano), medioevali, in versi e prosa, ad imitazione di quelle antiche (l’Esopo di Ademar, di Wissembourg, le compilazioni che vanno sotto il nome Romulus). I contatti che nel medioevo si svilupparono con il mondo arabo ed orientale trasformarono la favola accentuandone il contenuto didattico applicato soprattutto alla predicazione ed alla delucidazione delle Sacre Scritture: nacque la letteratura degli exempla come nel Directorium humanae vitae di Giovanni da Capua, gli Exempla di Jacques de Vitry, gli Specula di Vincent de Beauvais e laDisciplina Clericalis di Petrus Alphonsus. Si formarono anche le epopee animalesche, sempre vere e proprie allegorie, che giungeranno al celeberrimo Roman de Renart del sec. XVI.

Il periodo umanistico — rinascimentale vide una ricca e varia fioritura di favole: si riportò alla luce l’Esopo greco, si riscoprirono manoscritti di Fedro, si tradussero dal greco intere collezioni o antologie (Lorenzo Valla, Ermolao Barbaro), favole furono scritte da personaggi illustri come Francesco Filelfo, Leon Battista Alberti, Lorenzo Bevilacqua (Abstemius), Gregorio Correr, Bartolomeo della Scala, Marsilio Ficino, Giovanni Pontano, Gabriele Faerno, Leonardo da Vinci, il Fiorenzuola, il Doni… e si potrebbe continuare perché non vi fu scrittore nei secoli XV e XVI che non parlasse di favolistica o non la usasse o non producesse opere nuove.

Una delle particolarità del periodo umanistico — rinascimentale è l’ arricchimento dei protagonisti delle favole e, con la riscoperta di Platone e dei neo platonici, il passaggio ad un vasto uso del mito nella filosofia. In origine gli attori delle favole erano quasi esclusivamente animali, dotati di tutte le caratteristiche umane, positive e negative, individuali e sociali; piante, oggetti ed astrazioni erano rari nella favola vera e propria. La favola parlava soprattutto agli umili ai quali, dice Fedro, non era permesso neppure mormorare, si rivolgeva ai semplici per mostrare loro “la vita ed i costumi degli uomini” , rendere accessibile la parola di Dio. Nei miti antichi apparivano gli dei che sono allegorie di concetti astratti o rappresentazioni di una serie di virtù, vizi, attività ma anche tentativi di dare una interpretazione a ciò che non era possibile spiegare scientificamente. Il contenuto ed il linguaggio diventano più sofisticati, più dotti e su ogni fenomeno si crea un mito. Il Massone pensa subito alla allegoria legata alle stagioni, a Iside ed Osiride, Demetra e Persefone.

La favola che generalizzava, che semplificava concetti complessi, che in altre parole era essoterica, diventava, o meglio, ridiventava esoterica, si trasformava in linguaggio simbolico, manifestazione di un processo mentale che dal concreto andava verso l’astratto, dalla scienza alla filosofia. Sempre più essa rispondeva ad una delle sue più antiche definizioni “racconto inventato che rappresenta una venta Marsilio Ficino finiva la traduzione di Platone nel 1468, di Plotino nel 1492 e soprattutto il Corpus Hermeticum nel 1463. La riscoperta e la rilettura dei miti platonici, la filosofia ermetica portano I ‘uomo a guardare aldilà del mondo, a procedere oltre il fisico, il sensibile ed il tangibile sono la veste della Verità. Tutto nel mondo che ci circonda è simbolo che rimanda ad altro, tutto è manifestazione dell’invisibile.

Per il Massone l’insegnamento di Ficino è prezioso, con l’iniziazione “si schiude la favola bella” del cammino verso la luce. Ma come si può dare un insegnamento a chi non sa “né leggere né scrivere”, a chi è, etimologicamente, infante ? attraverso i segni, i simboli, le favole.

Tutto all’ interno del Tempio, nella ritualità, nelle insegne, nei paramenti, nei miti dei gradi è linguaggio allegorico che rende viva la Tradizione. Pensiamo alla leggenda di Hiram che nel R.S.A.A. si svolge attraverso vari gradi e porta con sé i principali contenuti dell’etica massonica, grande etica della vita.

Tocchiamo un altro, degli infiniti aspetti della favola: la sua morale, esplicita o implicita rivelatrice dell ‘etica umana. Nel corso dei secoli nella letteratura mitica sono stati toccati tutti gli aspetti del carattere dell’uomo, i rapporti con se stesso e con gli altri, la vita sociale, le idee politiche, le tesi filosofiche, le grandi problematiche dell’ esistenza. Eppure Fedro constatava con amarezza che la favola non apparteneva ai grandi generi letterari, era un po’ disprezzata perché considerata un semplice divertimento, o una letteratura per gli incolti . Io direi che tale la consideravano i ciechi, coloro che non volevano VEDERE, i pectora caeca di lucreziana memoria.. Così chi varca la porta del Tempio ma continua ad usare soltanto gli occhi fisici e non quelli della mente e dello spirito, considera tutto, per conseguenza logica, mera cerimonia, storia noiosa e superflua, apparati desueti e ridicoli e massone non è anche se ne riveste le insegne. ” Senza la Vista non più immaginazione, non più ideale, non più vita: l’uomo stesso senza la Vista sarebbe come un morto nella vita stessa.  •

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IL RUOLO DELLA SCIENZA E DELLA CULTURA NEL MONDO DI DOMANI

IL RUOLO DELLA SCIENZA E DELLA CULTURA NEL MONDO DI DOMANI

di

Baldo Conti

Introduzione

Il presente contributo, sul futuro ruolo della scienza e della cultura, non sarà certo dei più facili, almeno se si vuole “rimanere” con i piedi in terra, senza sconfinare nella retorica e nel “già detto”, ma cercherà comunque – nei limiti del possibile – di essere un concreto ed originale aiuto per la soluzione dei nostri travagli esistenziali, non certo “gratuiti” e fittizi, come un esclusivo fatto culturale, ma effettivi. Contemporaneamente il nostro impegno sarà anche quello di non far stancare e distrarre i lettori più del necessario, considerata anche la presunta astrusità dell ‘argomento non da tutti facilmente “digeribile”

Come sempre, in qualsiasi contesto ci troviamo, occorre definire fin dall ‘ inizio e mettersi d’accordo sul significato che si intende dare alle nostre parole. In questo caso è d’ obbligo chiarire cosa si intende per “scienza” e cosa per “cultura”. Spesso riteniamo di conoscere sufficientemente bene il significato delle parole che usiamo, ma in frequenti occasioni siamo costretti a registrare la nostra “ignoranza”, in altri contesti riteniamo che il significato che noi diamo ad un termine sia lo stesso dei nostri interlocutori, ma non sempre è così e molte delle incomprensioni e delle discussioni derivano anche da una differente interpretazione dei significati di parole e concetti. Per “scienza” (dal latino “sapere”) dobbiamo intendere il risultato di operazioni del pensiero come oggetto di codificazione su piani teorici ed applicativi in ambito pratico; conoscenza esatta e ragionata acquisita grazie allo studio ed all ‘esperienza; insieme di discipline essenzialmente fondate su calcoli ed osservazioni; complesso organico e sistematico di conoscenze di cui si dispone intorno ad un determinato ordine di fenomeni. In sintesi, possiamo definire la scienza quell ‘insieme di cognizioni che abbiamo la possibilità di acquisire in base allo studio, all ‘osservazione ed all’esperienza diretta e risultanti da precisi calcoli e deduzioni su fenomeni di varia natura posti anche su molteplici livelli.

Per “cultura” (sempre dal latino, “culto”, “cultura”) dobbiamo intendere invece il complesso armonico delle cognizioni di una persona, formato dalla propria sensibilità, dalla propria esperienza, da tradizioni, procedimenti tecnici e tipi di comportamento; tutto ciò che concorre alla formazione individuale sul piano intellettuale e morale ed all’acquisizione della consapevolezza del ruolo assunto nella società; “patrimonio” di conoscenze. In sintesi, la cultura è il nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandatoci, è il substrato indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è l’origine ed il punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche l’unica nostra “vera” proprietà che nessuno ci potrà mai usurpare, e tutto questo sia a livello personale sia come popolo sia come etnia.

Stabilito il significato da dare a “scienza” e “cultura” – e su questo almeno, c’è da ritenere, dovremmo concordare tutti, perché le definizioni sono un fatto di lingua e non sono un’opinione ed in ogni caso è questo il significato attribuito in questo nostro contesto a questi due termini – addentriamoci un po’ più profondamente nell ‘esame del problema posto, non perdendo mai di vista il fatto che siamo massoni, ma anche “italiani”, con tutti i nostri pregi ed i nostri, e non sono pochi, difetti. Di conseguenza nel corso del nostro esame dovremmo dimostrare, più che altro a noi stessi, anche di essere uomini liberi e di buoni costumi, aperti alle novità e proiettati nel futuro, non troppo ancorati e schiavi del passato e delle tradizioni che spesso sono un substrato insostituibile ma anche un peso dal quale è difficile liberarsi, non afflitti da pregiudizi e da preconcetti, lontani da integralismi e da dottrine dogmatiche di qualsiasi tipo, ma sempre animati invece da quell ‘indistruttibile senso di civiltà e di miglioramento individuale e collettivo che dovrebbe distinguerci, disposti sempre fraternamente verso il prossimo che, ricordiamolo, non è composto solo dall ‘uomo ma da tutto ciò che ci circonda e che comprende animali, piante e tutta la natura, “inanimata” compresa.

Come in ogni ricerca seria che si rispetti, prenderemo prima in considerazione il ruolo della scienza e poi quello della cultura, secondo l’ordine della loro apparsa nel titolo, accennando per forza anche un po’ al nostro passato ed al nostro presente, e successivamente trarremole nostre conclusioni se riusciremo ad individuarne qualcuna, con l’augurio di poter stilare una bozza di comportamento da utilizzare in un eventuale futuro anche se, di questo prossimo terzo millennio, i più fortunati di noi riusciranno ad intravederne solo l’inizio. Ma come già affermato in altre occasioni ciò che conta è stabilire la nostra “buona rotta” e proseguire nella direzione che riteniamo giusta senza preoccuparci troppo di quanta strada riusciremo a poter percorrere.

La scienza

Abbiamo accennato in precedenza che possiamo definire la scienza come quell ‘insieme di cognizioni che abbiamo la possibilità di acquisire in base allo studio, all’osservazione e all’esperienza diretta e risultanti da precisi calcoli e deduzioni su fenomeni di varia natura posti anche su molteplici livelli. E vediamo il perché. Fin dagli albori della storia umana che conosciamo, ma sicuramente anche molto prima dell’epoca “storica”, I ‘uomo si è sempre confrontato con la ricerca e la scienza e si presume, spesso, anche senza rendersene conto. La “scoperta” della ruota e del fuoco, la fusione dei metalli, l’utilizzazione della forza di gravità, la selezione delle razze animali per allevamento – ma potremmo fare un elenco molto lungo – sono stati un approccio empirico al mondo scientifico del quale l’uomo primitivo ne ignorava presumibilmente anche I ‘esistenza come già detto.

Le varie “discipline” furono ancora indagate ed approfondite, ma potremo dire sempre in maniera per noi oggi “superficiale” ed approssimativa e non certo sistematica, fino ad arrivare a Galileo Galilei (1564-1642) che – con i suoi studi di geometria, astronomia e fisica – può senz’altro essere considerato il primo ed effettiVo scienziato “moderno”. Con lui ebbe inizio infatti l’attuale metodo sperimentale che ancor oggi è di base a qualsiasi tipo di ricerca scientifica e che sicuramente lo rimarrà per molto, molto tempo ancora. Partendo da Galileo e dalla sua teoria del “sistema eliocentrico” si è avuta una vera e propria esplosione nella ricerca e nella sperimentazione in tutti i campi e, con l’aiuto della tecnica a disposizione, sono state raggiunte mete impensabili, specialmente in questi ultimi anni, nella chimica, nella medicina, nella fisica, nelle conquiste spaziali e nelle discipline scientifiche in generale.

La visione galileiana della natura ci ha aperto le porte verso un mondo nuovo, immenso nei confini e nelle esperienze, senza limiti nel tempo e nello spazio e quindi senza limite in tutte le direzioni. L’uomo in breve tempo si è riscattato dalla fatica, in parte dalla “paura” ed ha raggiunto una posizione di supremazia nei confronti di tutto il resto del creato. Anche se il sogno di poter “dominare” la natura rimane fortunatamente ancora un sogno, l’uomo si trova comunque davanti un futuro fitto di incognite, di interrogativi e di nuovi tipi di paure. Il timore di non poter disporre pienamente dei “giocattoli” che si è costruito, che qualcosa possa sfuggirgli di mano, che non riesca a conoscere fino in fondo ciò a cosa potrà andare incontro con le sue “scoperte”, lo rendono parzialmente dubbioso, interdetto ed impaurito.

Per questa ragione ampi dibattiti si sono aperti sull ‘opportunità di proseguire alcuni tipi di ricerca ed in questa controversia, a torto o a ragione, si sono inserite forze politiche, industriali e religiose. Ma forse qui, qualcosa non è stata veramente afferrata nel senso giusto: il principio di scienza e ricerca cosiddetta “pura” in contrapposizione all ‘utilizzazione pratica dei loro risultati. Vediamo perché. Innanzi tutto c’è una distinzione doverosa da fare ed è quella di dividere la ricerca “pura” appunto da quella “applicata”. Per pura si intende la ricerca “fine a se stessa”, per esempio: il matematico che risolve un problema astratto di formule e che si era posto il problema “gratuitamente” senza alcuna “necessità” (anche se in seguito la soluzione potrà avere un ‘applicazione pratica), lo studio di Galileo sulle oscillazioni di un pendolo, perché incrociando una gallina bianca ed un gallo nero abbiamo dei pulcini bianchi, altri neri, ed altri ancora bianchi e neri (o grigi) in numero costante e sufficientemente prevedibile. Per applicata si intende invece quella ricerca che viene appositamente finanziata con uno scopo preciso ed al fine di ottenere dei risultati che diano un utilizzo immediato e remunerativo come la produzione di un antiparassitario utile ad un certo tipo di pianta, la possibilità di mettere in commercio un antibiotico specifico per un certo tipo di malattia, la costruzione di un razzo e di un satellite per I ‘utilizzazione nelle telecomunicazioni. Ed in genere, come già accennato, questo tipo di ricerca è sempre sostenuto finanziariamente perché dia risultati immediati, attesi ed utili, altrimenti l’appoggio ed il finanziamento decadono.

Quasi sempre – specialmente per coloro che non sono “addetti ai lavori” – c’è una grande confusione di idee in proposito. In genere non si riesce mai a distinguere le differenze esistenti tra i due “sistemi” che pure appaiono macroscopiche, ma si ritiene invece, erroneamente, che siano la stessa cosa, che la scienza e la ricerca scientifica siano di un unico tipo. Ma non è così.

La ricerca pura dovrebbe essere “intoccabile” in quanto porta sicuramente avanti l’umanità nel suo  processo evolutivo, tende esclusivamente ad appurare le ragioni di alcuni fenomeni altrimenti inspiegabili, soddisfa fino “a prova contraria” con il supporto di teorie ed ipotesi e, diciamolo pure, anche con la filosofia, tutte le curiosità ed i problemi che l’uomo si pone sia in ambito materiale sia spirituale.

La scienza o ricerca applicata è ben altra cosa. E’ la utilizzazione parziale di alcuni risultati della ricerca pura, è finanziata e finalizzata esclusivamente per scopi precisi quasi sempre commerciali, spesso intacca certi tipi di “morale” in quanto produce qualcosa che “disturba” (specialmente da un punto di vista economico) alcune classi o “caste” di cittadini, cerca esclusivamente un utile non essendo altro che un tipo di “investimento” a carattere finanziario.

E’ evidente che, esclusi per ragioni ovvie, coloro che sono interessati direttamente in imprese di ricerca finalizzata in senso applicativo, l’unica “scienza” che noi, come massoni, dobbiamo prendere in seria considerazione è solo quella pura che è a noi amne e risponde più ai nostri ideali ed alla nostra ricerca interiore. L’altra, l’applicativa, potrà coinvolgerci solo marginalmente ed in ambito profano (è più un qualcosa che riguarda professionalmente i tecnici, i medici, l’industria) e solo nel caso in cui provochi effettivamente dei traumi sociali e non ci costringa a fare un calcolo di spese e ricavi.

Ma ricordiamola sempre questa distinzione. La scienza “pura” – come dice appunto il termine – è pura, è composta di idee, di “buone” intenzioni, di progresso conoscitivo, di filosofia, di intuito, è un processo creativo e di conseguenza anche artistico, quindi non “criticabile” come principio e come “servizio” che rende a tutta l’umanità.

La cultura

Come indicato nell ‘Introduzione la cultura è il nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandato che sia, è il substrato indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è I ‘origine ed il punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche I ‘unica proprietà – come già detto – che nessuno ci potrà mai portare via, e tutto questo sia a livello personale sia come popolo e come etnia. Ed anche qui vediamo perché. Innanzi tutto dobbiamo accennare al fatto che secondo alcuni studiosi è possibile distinguere la “cultura” umana (e quindi animale) sotto molteplici modalità, ma almeno tre sono gli aspetti principali: (l) cultura di origine “genetica”, cioè ereditata insieme al nostro corredo cromosomico ed a tante altre cose utili, dove non è concesso ad alcuno di poter intervenire (salvo forse oggi a seguito di operazioni di ingegneria genetica o di mutazioni imprevedibili); (2) cultura tramandataci dal nostro “gruppo” e dalla nostra famiglia; e (3) cultura appresa per esperienza diretta.

  • La cultura trasmessaci geneticamente potremmo considerarla anche come qualcosa a livello di istinto ed è tutto ciò che noi utilizziamo appena nati e – come già accennato è comune anche a tutti gli animali. Rientrano in questo ambito, per esempio, la ricerca da parte del piccolo del seno materno, il pianto – sempre del piccolo – come “avviso” di qualcosa che non funziona, il carattere che ci ritroviamo, la predisposizione al sorriso o al broncio, e così via, che sono tutti atteggiamenti e comportamenti selezionati nel  tempo, nei millenni, e “scelti” dalla natura per essere tramandati nel tempo proprio perché vantaggiosi alla nostra specie (come si usa dire in ambito etologico).
  • La cultura tramandaci dal “gruppo” e dalla famiglia in genere, è senza dubbio più efficace secondo alcuni, meno secondo altri (la discussione su questa controversia è senza fine ed è già stata affrontata in Tavole ed articoli) ed è da considerare sicuramente come “cultura di seconda mano”. La ragione è semplice. Come è stato appurato in ambito scientifico il corredo cromosomico di un individuo è un qualcosa di unico ed irripetibile e personale come lo sono, per esempio, le impronte digitali. Ed è inoltre da considerare proprio di seconda mano perché ci è stata “tramandata”, in un certo senso ci è stata proprio “imposta” dagli altri: dalla nostra etnia (intesa come razza, area geografica), dal nostro “gruppo” (nazione, discendenza regionale), dalla nostra famiglia (amici e conoscenti stretti compresi), sotto forma.di usi, costumi, abitudini, tabù, sensi di peccato e di paura, e così via.
  • La cultura appresa per esperienza diretta che è quella che dovrebbe essere effettivamente poi la nostra, quella personale, quella che in qualche maniera noi abbiamo scelto ed adottato perché rispondente alle nostre personali necessità. E’ la cultura che abbiamo selezionato nel corso della nostra vita e che ci è costata molta fatica, con grandi o piccole vittorie e grandi o piccole delusioni. E sono proprio le esperienze le più tragiche, le più dolorose e catastrofiche che risulteranno sempre le più utili, indelebili e rimarranno impresse molto bene nel nostro patrimonio culturale, nella nostra memoria, e saranno quindi sempre presenti nell ‘approccio ad altre esperienze successive.

Tutti e tre questi tipi di cultura formeranno, è ovvio, il nostro cosiddetto “bagaglio” culturale parte ereditato ed in parte costruito – che ci portiamo dietro da sempre, modificabile e modificato tutti giorni, anche se forse non siamo in grado di rendercene conto in modo così evidente. Solo in rare occasi01 ed a certi tipi di “scadenze” (in caso di malattie, di traumi improvvisi, di “sconvolgimenti” di varia origin€ noi realizziamo che la nostra cultura e noi stessi ci siamo modificati (evoluti) rispetto al passato.

Infine, per la cultura, anche se più difficile forse da individuare, possiamo distinguere – come per I scienza – due tipi di sistemi: quello della cultura “pura” e quello applicativo. Più difficile l’ individuazione del suo duplice aspetto proprio perché più labile ed indeciso il confine di separazione anche se, I commercializzazione della cultura assurta a fini industriali dovrebbe essere qualcosa di più evidente tangibile e quindi più facilmente individuabile.

Abbiamo già in precedenza acquisito il principio di cultura nel suo senso “puro” e possiamo dire ch la sua parte applicativa è già stata sufficientemente sviscerata quando abbiamo affrontato in passato i problema della “informazione”. L’ informazione infatti possiamo identificarla con la cultura “applicata” il quanto non risulta essere altro che cultura “manipolata” a fini socio-politici e quindi commerciali e indu striali, ed inversamente, la cultura applicata non è altro che informazione mirata a scopi “profani” ber precisi. E non è quindi il caso di soffermarcisi oltre, anche perché è augurabile che a suo tempo sia stato  ben compreso il suo meccanismo.

L’editoria, i film, la TV e tutti le fonti informative sono il supporto necessario a questa cultura. informazione applicativa che non è detto debba per forza essere un qualcosa di negativo, di anti-cultura, d] dannoso: sarebbe un pregiudizio pericoloso. Possiamo però fare un identico parallelo come abbiamo già fatto per la scienza.

Conclusione

Dopo tutto quanto esposto, cerchiamo di trarre delle conclusioni adeguate ed utili sia come massoni all ‘interno dei nostri Templi, sia come uomini comuni proiettati nella nostra società civile e nel futuro e se non altro per l’impegno costante nello studio, nella ricerca interiore e nell ‘introspezione; ancor più poi, certamente, da quella di cittadino qualsiasi nella nostra società più o meno laica e civile. Innanzi tutto, non sembra proprio che il concetto di scienza e di cultura dovrebbe cambiare nel mondo di domani e forse anche nei millenni successivi. Certo, potranno cambiare i dettagli e le tecniche di acquisizione della cultura e del sapere scientifico, ma i principi essenziali e I ‘esigenza di queste due “discipline” saranno necessariamente immutate. Non vedo come potremmo pensare una cultura ed una scienza differenti da come noi la intendiamo oggi, diversamente la cultura non sarebbe più cultura e la scienza non più scienza, ma sarebbero due cose con significati differenti dagli attuali e quindi presumibilmente anche con definizioni e lemmi differenti.

Quindi, è presumibile, che la funzione della scienza e della cultura continuerà ad essere identica a quella avuta nei millenni precedenti, precedenti anche alla nascita di Cristo, sicuramente. Queste due “intuizioni” umane, c’è da ritenere, rimarranno in vita fino a quando l’uomo rimarrà quello che è, e visto che i suoi cambiamenti “strutturali” e “psicologici” si verificano molto lentamente e nel corso di migliaia se non milioni di anni, la vita dell ‘uomo dovrebbe proseguire anche nel prossimo millennio “tranquillamente frenetica” ed “angosciata” come si è sviluppata fino ad oggi.

Come abbiamo avuto la possibilità di intuire da quanto affermato in precedenza, due sono i concetti che dobbiamo tenere ben distinti e nettamente separati e non quelli di scienza e di cultura, ma di scienzacultura “pura” e scienza-cultura “applicata”. I due significati “puri” possono senz’altro essere condivisibili sia dalla nostra Istituzione sia dai Fratelli massoni perché ci portano a considerare ed assumere la storia dell ‘uomo fino ad oggi e sono le premesse per un domani che tutti noi ci auguriamo certamente migliore.  Meno condivisibili e sicuramente meno interessanti da tutti i punti di vista – in antitesi – la scienzacultura “applicata”, almeno come base di esame e di studio da sviluppare all ‘interno dei nostri Templi. Le vicende umane di vita giornaliera in ambito “profano”, sono molteplici, complesse ed imprevedibili, spesso anche spiritualmente poco interessanti; condotte, finanziate, vendute ed utilizzate nelle maniere più disparate nelle varie società del sistema umano e come già osservato in precedenza, da prendere in veloce considerazione solo in caso di gravi “attacchi” alla integrità della natura e dell ‘esistenza della vita stessa, oppure solo nel caso nel quale il nostro interesse in ambito profano, ma solo profano, fosse indirizzato verso il sistema applicativo. Ed in questi casi le soluzioni dovrebbero essere tutte ovvie e facili da prendere. L’umanità affronterà questo nostro nuovo terzo millennio e c’è da credere in maniera non molto differente dai precedenti. Da un punto di vista “economico”, avrà debellato tante malattie ma altre sono già pronte in agguato per sostituirle ed entrare in azione, avrà allungato sì la vita dell ‘ individuo ma a “spese” – come sembra – dei più giovani, si sarà liberato quasi completamente dalla fatica ma dovrà sudare ugualmente nelle palestre, avrà una vita più comoda ma sarà prevedibilmente “disturbata” dalla noia e forse come ci dicono alcune discutibili ma pur preoccupanti statistiche – dall ‘aumento dei suicidi, si sarà inoltrato ancor più nello spazio su satelliti e pianeti ma forse senza aver compreso ancora la sua posizione effettiva nell ‘universo e senza aver trovato risposta ai tanti “perché”.

Infine, dal punto di vista definibile “puro” l’uomo, con l’aiuto della scienza, della cultura e di tutte le altre discipline che si è “inventato” – grazie a quelle sue grandi ed uniche doti nel mondo “animale”, che sono la fantasia e la capacità di astrazione – ci auguriamo che possa raggiungere quella “felicità” alla quale ha sempre aspirato e che non è altro poi che il raggiungimento del suo equilibrio interiore, nonostante gli “applicativi” sostengano esattamente il contrario. Il raggiungimento di questo equilibrio è sicuramente un processo che possiamo ritenere individuale, probabilmente già raggiunto da tanti grandi uomini in passato, e comunque raggiungibile solo con la effettiva consapevolezza della propria entità e posizione nel mondo e nell ‘universo che ci circonda.

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LA MORTE

LA MORTE

(Incubo o inizio di nuova vita?)

di

Silvio Nascimben

Considerate le premesse fatte nella prima parte, relative ai pericoli derivanti da sedute improvvisate, prive cioè delle più elementari norme che regolano queste sperimentazioni, si rende indispensabile ribadire quanto necessario sia, per avviare una seduta spiritica, predisporsi psichicamente, prima di ogni altra cosa, al raggiungimento di uno stato ideale di serenità interiore. L’ operazione, in verità, potrebbe essere facilitata dall’ ascolto di brani di musica classica, fumigazioni, preghiere, e, come in tutte le pratiche che coinvolgono lo spirito…. dal digiuno.

L’osservanza di queste regole, va precisato, non elimina i pericoli che soventemente si corrono durante una seduta spiritica, e che vanno dalla “infestazione” comunemente detta, fino alla “possessione ‘

Il procedimento di infestazione, ovverosia la malattia del piano astrale, in verità, è molto simile alla malattia del piano fisico, tant’è vero che il processo infettivo è analogo.

L’uomo vive nel suo “habitat” naturale soltanto perché protetto da difese immunologiche, sia sul piano fisico che su quello astrale. In difetto, ovvero in mancanza di queste difese, egli sarebbe destinato a soccombere miseramente perché preda di esseri invisibili appartenenti al piano subumano (i microbi), e a quello sovrumano (le larve). Alla stessa maniera di come esistono sul piano fisico particolari vie più facilmente percorribili dai “microbi”, particolari porte astrali consentono l’accesso alle “larve “, tant’è vero che i “microbi” penetrano nel corpo umano, sia attraverso le vie accidentali (le ferite) che quelle naturali, cioè le vie respiratorie, le urinarie, l’ apparato digerente, ecc. ecc. Per le “larve “, infatti, esistono più vie di penetrazione nel corpo umano. Vi sono, oltre alle vie secondarie che si formano a causa di “lacerazioni del tessuto astrale “, le principali, che sono collocate nei punti cardine di comunicazione tra il mondo esterno e quello interno. Questi particolari “omphalos”, vengono spesso chiamati “centri di forza astrale”: in verità, sono dei diaframmi, che sarebbe meglio definire vere e proprie “porte di accesso” Ciascuno di questi “vortici energetici astrali”, ognuno dei quali con una propria fisionomia ben precisa, è indissolubilmente legato ad un settore specifico del corpo fisico.

La visione astrale dell’uomo, agli occhi del sensitivo, appare circondata da una aureola lucente (aura astrale) di colore vario, con i vortici energetici (i centri di forza astrale), alcuni più grandi, i primari, ad altri più piccoli, i secondari.

In una trasmissione televisiva di qualche tempo addietro, chiamata “Misteri”, venne presentata la “camera Kirlian”, una particolare apparecchiatura fotografica in grado di fissare sulla pellicola non soltanto l’ immagine del soggetto, ma anche la colorazione e l’intensità della sua “aura vitale”

Ritengo necessario, a questo punto, predisporre uno schema riepilogativo e più descrittivo, dei “centri di forza astrale”, come indicato qui di seguito:

e il cerebrale: è situato alla sommità della testa, sede della coscienza astrale. Colore bianco e pineale: è tra le sopracciglia e consentirebbe la visione astrale. Colore celeste

e tiroideo: è al centro della gola e farebbe avvertire vibrazioni sonore. Colore turchino o cardiaco: è sul cuore e ritmerebbe all’unisono col Cosmo. Colore oro e splenico: è all’altezza della milza e sarebbe collegato alla vitalità astrale. Di vari colori o solare: è nella zona del plesso solare per indicare la sensibilità astrale. Colore verde  vertebrale: alla base della spina dorsale, segnalerebbe la percezione intellettiva. Colore rosso o sessuale: è nella zona sessuale e segnalerebbe l’intensità della forza astrale. Colore vermiglio

Ogni “larva” predilige una particolare via d’ ingresso, rispetto alle altre, producendo un ben preciso tipo di infestazione caratterizzata da una sintomatologia ben individuabile, così come accade per le malattie. Ed è proprio in considerazione delle conseguenze provocate dalle stesse, che è possibile dividere le larve in quattro ben precisi gruppi, strettamente legati ai quattro elementi della Creazione: terra, fuoco, acqua, aria.

Le larve dellaterra (saturnali – verde scuro) colpiscono la zona della milza, provocando alterazioni del sangue.

Le larve delfuoco (solari – colore rosso) alterano il ritmo cardiaco ed esercitano un’ azione negativa sul sistema neurovegetativo.

Le larve dell’acqua possono, invece, provocare disturbi degenerativi del processo metabolico e del sistema sessuale.

Le larve dell’aria (mercuriali – viola) colpiscono il sistema cerebrale.

Ogni centro di forza astrale è collegato a settori vari del corpo e, a seconda del centro colpito, può verificarsi una specifica sintomatologia che andrebbe riepilogata come segue:

 cerebrale Sensazione di vuoto mentale, senso di smarrimento, emicrania improvvisa, fitte acute al cervello, pressione alle tempie.
 pineale Calo progressivo della vista, dolore acuto ai bulbi oculari, visioni di neve scintillante ed immagini terrificanti.
 tiroideo Ansia, senso di soffocamento, isteria ed alterazioni del metabolismo. Sensazione di sussurri lontani e presenze impercettibili ostili.
 cardiaco Ritmo cardiaco alterato, ed alterazione del sistema circolatorio. Tipica sensazione di inspiegabile angoscia e fobie.
 splenico Stato depressivo accompagnato da profonda tristezza, stato di abulia alternato ad ipocondria. Inspiegabile debolezza diffusa.
 solare Sensazione di toccamenti sul corpo ed improvviso formicolio accompagnato da vampate di caldo, alternate, talvolta, a brividi di freddo. Dolori allo stomaco, accompagnati da nausea ed inappetenza. Alterazione della sensibilità tattile ed inequivocabile sensazione di strane presenze nell ‘ ambiente.
 vertebrale Modificazione del carattere con improvvisi cambiamenti d’umore.
Inappetenza e progressivo costante dimagrimento.
Disturbi mentali lievi che possono degenerare progressivamente, fino alla follia.
• sessuale         Inspiegabile propensione per turpi pratiche sessuali.

Continue sensazioni di toccamento ai genitali, in particolare, se distesi.

Anomalie delle funzione sessuali.

Spesso è stato rilevato che i fenomeni di infestazione locale, col passare del tempo, si sono propagati attraverso le vie di comunicazione dell’intero organismo e coinvolgendo, di conseguenza, anche gli altri “centri “, hanno avviato fatalmente il processo di infestazione totale.

Vediamo adesso, quali sono le cause che avviano questo terrificante e, purtroppo, sempre ignorato, processo distruttivo dello spirito e del fisico. Per necessità di sintesi, potremmo riassumerle così:

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  • sedute spiritiche praticate con molta superficialità e tanta incompetenza. Anche pratiche di magia, avviate per gioco, possono essere responsabili di guai irreparabili. Tanti, ahimè, non sanno che partecipando, anche una sola volta, a sedute medianiche improvvisate e non protette, si espongono alle forze del “vampirismo astrale ” che si compone di larve, silfidi, spiriti elementari, burunti, dannati, ecc. ecc.
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  1. il fenomeno molto diffuso, di ricorrere a sciamani e fattucchiere per ottenere incantesimi, pozioni e fatture a danno di malcapitati, è oltremodo pericoloso. Per la magica legge dell’equilibrio cosmico, il male, come il bene che viene fatto, torna immancabilmente al mittente con una intensità doppia rispetto a quella di partenza. Operazioni magiche, effettuate da mercanti dell’ occulto, e i sentimenti malvagi come I ‘ invidia e I ‘odio, potrebbero provocare l’ apertura di un varco nel sistema immunitario astrale. Ciò può essere terribilmente pericoloso perché favorirebbe il malefico ingresso larvale, nell ‘ organismo umano.
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  1. Il processo di infestazione può avviarsi spontaneamente, senza alcuna causa scatenante, ma per predisposizione innata del soggetto.
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  • Come per le malattie infettive, l’infestazione larvale si diffonde anche per contagio.
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  • La frequentazione di luoghi infestati, non è escluso, potrebbe essere la causa determinante di contaminazione. Non a caso Stanislay de Quaita, nel “Serpente della Genesi”, edito a Parigi nel 1891, metteva in guardia quanti si trovassero nei pressi di rovine maledette, di castelli infestati da spiriti maligni, al pari di cimiteri abbandonati o di balze e scogliere frananti. “State lontani egli diceva – dai suoli maledetti, dove l’erba non cresce giammai, come se qualche alito avvelenato avesse reso sterile la terra, e dagli acquitrini putridi. Potrebbero essere sfiatatoi dell’inferno “

I luoghi infestati da presenze negative, e da spiriti inquieti, determinano quasi sempre un sottile senso di oppressione e di insofferenza, che si accompagna, non di rado, ad un’ apparente ed inspiegabile paura. E intanto si ripropone, più inquietante che mai, l’interrogativo: “la morte… che cos ‘è?”

Una considerazione improvvisa prende corpo nella mia mente. Se l’uomo, ahimè, non riesce a spiegarsi il vero significato della vita, come può giammai comprendere il perché della morte?

Malgrado la filosofia ci induca a non ritenere necessario occuparsi di quanto avviene nelle “sfere oscure ” – che stanno dopo la morte – se non si è capito cosa avviene prima di arrivare a quella soglia, non possiamo non convenire che I ‘uomo è fatalmente condannato ad allontanare da sé I ‘ intuizione che potrebbe spiegargli il “divino perché dell ‘esistenza umana “

Nella storia dell’umanità, non vi è stato secolo in cui siano state fatte tantissime scoperte ed invenzioni, come in questo. Chi avrebbe creduto mai alla possibilità di viaggiare nello spazio, e non con la fantasia come aveva, fino a quel momento, fatto; calpestare il suolo lunare e servirsi dei computer; costruire centrali atomiche e satelliti artificiali per migliorare il tenore di vita e, non ultimo, servirsi dell ‘ ingegneria genetica per modificare i sentieri della natura.

I sogni fantasiosi della mente, giorno dopo giomo, in questo secolo, diventano realtà. Malgrado ciò, chissà perché, I’ uomo modemo continua a credere soltanto in ciò che vede, e pensa solo in funzione di verità ben definite.

Forse, è per questo che, l’uomo del XX secolo, ebbro del successo tecnologico raggiunto, avverte in sé l’ inebriante sensazione d’ immortalità, al punto tale da inventarsi nuovi “dei” e nuovi “totem”, in sostituzione del Dio dei suoi padri, ormai desueto e troppo spirituale. Coinvolto dalla frenetica corsa verso traguardi sempre più ambiziosi, l’uomo, purtroppo, sente sempre meno l’obbligo di rispettare la natura e di tutelare la vita sulla Terra, intesa come organismo vivente. Egli non si preoccupa lontanamente che fiumi, foreste e mari, stanno morendo perché ridotti a immondezzai. Poco gli importa che, sopra I ‘Antartide, un buco grande quanto un continente si è aperto nell’ atmosfera che protegge il nostro pianeta, mettendo veramente in pericolo la sopravvivenza futura dell ‘umanità…

Con cautela, e con caparbia determinazione, procede incessante però, il lavoro di chi crede nella immortalità dello spirito; l’esercito di chi crede che con la “morte ” non ha fine la “vita “, diventa sempre più numeroso, e la sopravvivenza dell’anima, malgrado le tecnologie avanzate, è ormai oggetto di sperimentazioni, anche scientifiche.

Se un giorno, non molto lontano, venisse annunciato in maniera chiara ed inequivocabile, che la “reincarnazione”, fino a quel momento considerata utopistica, è effettivamente una verità accertata, pensate un po’ , dovremmo prepararci ad un ben triste destino…

Un ‘ amara e sconfortante considerazione dovremmo, però, fare: lo scempio compiuto dall ‘uomo su questa povera Terra, e l’irrimediabile disastro ecologico di cui egli sembra non rendersi conto, malgrado sia sotto i suoi occhi, sarà il degno habitat dell’uomo di domani.

Un sottile ed inquietante tremore mi prende. Ma se la teoria della reincarnazione rispondesse al vero… potremmo essere proprio noi…i nostri posteri

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BREVE NOTA SU RELIGIONI E CASTE

BREVE NOTA SU RELIGIONI E CASTE

di

Baldo Conti

Nel corso delle nostre Tornate, durante la presentazione di Tavole che riguardano in qualche maniera la religione e nei successivi interventi, viene marginalmente e raramente accennato al fatto di dover tenere sempre separati, in ambito religioso appunto, i concetti, se così si possono definire di “religiosità” da un lato e quello di “casta sacerdotale” o “clero” o “chiesa” dall’ altro, che appaiono in modo macroscopico differenti e direi anche molto divergenti. Poiché questo “problema” viene in genere appena sfiorato vorrei approfondirlo qui velocemente nei limiti di spazio concessi e desidererei anche che il tutto fosse chiaro a coloro che sono interessati a questa problematica. Tra l’altro, questi concetti sono già stati espressi più volte anche nelle nostre pubblicazioni massoniche, ma ritengo non mai abbastanza.

Innanzi tutto è da precisare che la religiosità è un fatto intimo, personale, difficilmente comunicabile agli altri: è un po’ come la nostra ricerca esoterica in ambito massonico che, essendo appunto un qualcosa che riguarda i nostri sentimenti ed i nostri reconditi pensieri, provoca anche quel sospetto di segretezza non mai capito in ambito profano. Tra l’altro dobbiamo ricordare che il rapporto Uomo-Dio è sempre un qualcosa di diretto; la mia fede per esempio nel Grande Architetto dell’ Universo, riguarda il mondo complesso della mia sfera interiore; la mia credenza in Cristo – o in qualsiasi altra figura carismatica o filosofia religiosa – coinvolge il mio sistema di valutazione di ciò che mi circonda e di quant’altro io abbia la possibilità di entrare in rapporto con essa; è quindi un qualcosa che riguarda me solo, nel mio intimo, e basta.

Qualsiasi tipo di approccio alla religione rimane quindi una cosa di nostra intima, personale ed “esclusiva” proprietà e competenza, è quel sentimento astratto ed unico che può arricchirci spiritualmente, difficilmente acquisibile per apprendimento ed ancor più difficile da trasmettere agli altri, è quella complessa costruzione architettonica della filosofia della nostra vita che la nostra personale sensibilità, la nostra cultura ed il nostro intelletto, tutti insieme, hanno contribuito ad edificare nel nostro io. Possiamo anche ritenere che questa “qualità” unica, sia una delle nostre poche “proprietà” effettive che difficilmente qualcuno potrà mai portarci via. Ripeto ancora, in ambito religioso, il rapporto Uomo-Dio è, e deve rimanere “diretto”: non può essere altrimenti, diversamente non sarebbe più un rapporto tra l’ Uomo ed il suo Dio.

Ai fini del concetto di religiosità quindi, l’intermediazione della casta sacerdotale o del clero nel rapporto Uomo-Dio assume un aspetto incomprensibile; non è, infatti, possibile individuarne una funzione trascendentale pur sviscerando il problema da un qualsiasi punto di vista. L’interferenza della struttura ecclesiastica in ambito religioso è giustificabile solo se noi riusciamo a comprenderne la sua funzione politica nella società. Conosciamo tutti, infatti, la grande influenza che il Cattolicesimo ha per esempio nella società civile italiana, l’Islam nei paesi affetti da simile integralismo, lo Scintoismo in Giappone e così via; vere e proprie istituzioni e strutture “profane” che condizionano pesantemente la vita delle società nelle quali operano, spesso con violenza, soprusi, assenza di un minimo accettabile di tolleranza. Tra l’altro per ciò che ci compete, in Italia, la casta del clero vaticano possiede banche, società immobiliari, università e quant’ altro può far riferimento ad una potenza esclusivamente economico-politica e non è certo un qualcosa che possa assomigliare a quanto il vero Cristianesimo ha sempre auspicato e predicato fin dai suoi inizi, almeno se vogliamo fare riferimento alla “tradizione”.

E’ evidente, anche per il più sprovveduto, che in questo caso non è più una questione di “religiosità” o di religione, ma piuttosto uno squisito fatto di politica attiva; struttura ecclesiastica che si allea con i poteri più o meno “legittimi” dello Stato per condizionare la vita altrui e mai per un progetto veramente civile in ambito sociale, ma piuttosto un complesso di strutture alleate che niente hanno in comune con la democrazia, la libertà e la civiltà, caso mai con la dittatura nelle forme più svariate e folkloristiche conosciute e realizzabili. Il complesso è quindi prettamente socio-politico, la casta sacerdotale risulta solo una forza politica, che a differenza di qualsiasi altro tipo di movimento o “partito”, che può imporre una qualsiasi serie di leggi anche per affermare il proprio potere (ma >010 se ottiene democraticamente una maggioranza elettorale), usa scorrettamente sui più deboli la propria influenza ed il timore del castigo di Dio per affermarsi a loro spese.

Netta è quindi la distinzione che abbiamo il dovere di fare tra i due concetti di religione e di casta sacerdotale e loro derivati: questo discernimento è proprio un dovere che dobbiamo compiere nell ‘interesse della nostra società e dei nostri figli. Identica situazione, se ci è concesso un esempio parallelo, si verifica quando andiamo a votare in un qualsiasi tipo di elezione pubblica. Qualcuno ritiene erroneamente di dare il proprio voto ad un ideale, sia esso cristiano, marxista, liberale, di destra o di sinistra, ma la nostra adesione espressa con il voto non potrà mai essere ad un ideale ma è invece solo ed esclusivamente ad una “casta” sociale, ad una “corporazione”, ad un gruppo più o meno folto di cittadini che difende i propri esclusivi interessi e che sarà sempre in conflitto con le altre per il mantenimento dei propri privilegi. La nostra adesione di uomini liberi quindi ad un qualsiasi tipo di chiesa, qualunque esso sia, non sarà altro che un appoggio economico-politico dato ad una casta sociale, come fosse quella degli autoferrotramvieri o dei metalmeccanici, non potrà certo essere l’intima adesione del nostro animo ad un tipo di religione e non avrà mai alcuna relazione con un rapporto instaurabile tra l’ Uomo ed il proprio Dio, qualunque esso sia.

Per noi massoni poi la distinzione dovrebbe essere chiara, lampante ed ovvia, ma non sempre è così, perché qualsiasi immagine è pur sempre ambigua, ha una sua “maschera”, che spesso è velata da una falsa apparenza, voluta o no che sia. E’ molto facile cadere nella trappola che da sempre gruppi di privilegiati o aspiranti tali usano tendere in modo subdolo a coloro che distrattamente o ingenuamente ascoltano imbonitori scorretti ed in mala fede. La storia, almeno in questo caso, volendo, potrebbe anche insegnare in tal senso, e come ho già accennato in precedenza, l’assunzione della nostra indipendenza e libertà individuale e spirituale non è più una opzione ma è oggi un dovere, e più che per noi stessi, per i nostri figli e per il futuro dell’uomo nel suo insieme.

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IL MASSONE GENNARO ARCUCCI MARTIRE CAPRESE DELLA REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

IL MASSONE GENNARO ARCUCCI

MARTIRE CAPRESE DELLA

REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

di

Domenico d’Alessandro

Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli: Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni, conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.

Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa, come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I ‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato “Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel 1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”. Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S. Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni, malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri, pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27 Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale. In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio, simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la divina benedizione sulla  Repubblica; che all ‘orazione “pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I ‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS. Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli “lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo, per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII, pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di sangue”. Il 14 marzo del 1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici: “Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S. Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu venduto.

Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900, centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere, nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran caffè.

L’attualità dei valori del 1799

Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose, la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799, tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come “Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all ‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.

A Napoli si curò di tracciare i caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del regno accorrevano a Napoli a studiare:

* come medici, tra questi l’Arcucci ed il più famoso Domenico Cirillo;

* come allievi della scuola militare della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e anche questo potrebbe oggi avere un significato;

*come giuristi, sotto la guida del grande Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in latino.

E ciò mentre la città di Napoli viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa 500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘

La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno, in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare

E’ stato detto che le rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I ‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:

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  • Gaetano Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America.
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  • le leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri dell ‘ordinamento giuridico italiano;
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  •  lo stesso spirito del 1799 aleggia nei deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.

Questi passaggi non sono la democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali “naturalmente” vi si arriva.

I legislatori del 1799 si posero l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e, principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!

Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione, anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato, sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata a Napoli “regina santa”, per  offrirlo ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia, ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza “conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal “neolitico” allo “psicozoico” è possibile il “saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida, quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle dei fatti e dell ‘economia.•

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CURIOSITÀ MISTERIOSE

CURIOSITÀ MISTERIOSE

FERRO – In astrologia questo metallo è considerato, insieme al plutonio favorevole ai nati sotto il segno dello Scorpione. Anche per i nati sotto il segno dell ‘Ariete, il ferro è considerato il metallo favorevole.

UNICORNO UMANO – Nel 1598 Enrico IV vinse una forte somma ad un gentiluomo francese con il quale aveva scommesso sull ‘ esistenza o meno di un “unicorno” con le sembianze di un uomo. Per vincere questa scommessa, il sovrano non esitò a far conficcare un corno ricurvo nella fronte di un uomo, il quale morì fra i più atroci tormenti pochi giorni dopo essere stato mostrato al gentiluomo.

GESÙ CRISTO – Secondo il professore Roger Rusk, dell ‘Università del Tennessee, Gesù Cristo venne crocifisso il 6 aprile dell’anno 30 d.c., di giovedì e non di venerdì come sino ad ora si pensava. Al contrario della tradizione ecclesiastica, secondo cui si ritiene che Gesù Cristo sia rimasto nel sepolcro per sole 36 ore, il prof. Rusk è convinto che il Nazareno sia rimasto invece tre giorni interi, come aveva predetto. Lo studioso americano ha ricalcolato le date relative alla passione di Cristo, servendosi di un cervello elettronico e delle tavole delle fasi lunari dal 1001 a.C. al 1651 d.c., recentemente compilate dal cervello elettronico dell ‘Institute of Advanced Studies di Princeton.

Proprio i movimenti della luna di quel tempo, così come sono stati stabiliti dal calcolatore di Princeton, hanno convinto lo studioso che la crocifissione avvenne il giovedì. Rusk afferma infatti di essersi attenuto alle sequenze precise delle lune nuove, rigorosamente seguite per il calcolo delle date nella Giudea di quel tempo. In considerazione del fatto che Cristo morì sulla croce nel pomeriggio precedente il tramonto con cui aveva inizio la celebrazione dell ‘ esodo dall’Egitto, cioè la “pasqua ebraica “, qualsiasi tentativo di attribuire una datazione a tale evento, deve tener conto di questa indicazione, che dipende a sua volta dalla fase lunare.

Dopo aver effettuato i calcoli relativi, non v’è dubbio che il 30 d.c. è l’unico anno plausibile in cui le coordinate relative indicano il giovedì, come giorno della crocifissione.

MONISMO – Qualsiasi dottrina che metta alla base delle realtà un principio unico, che può essere immateriale (monismo idealistico) o materiale (monismo materialistico). Oggi, parlando di monismo, s ‘ intende soprattutto quello postulato dalla scienza ufficiale, che considera la realtà fondata sulla materia o energia e sulle leggi fisiche.

METAPSICORRAGIA METACINETICA – P. Thomas Bret, nel 1948, ha indicato con questa definizione il fenomeno di lacrime o sangue fluenti da immagini di Madonne o di Cristi crocifissi.

RISONANZA – Teoria ipotizzata dall ‘italiano C. Calligaris e dall ‘inglese N. Marchall per spiegare i fenomeni di telepatia. Secondo i due studiosi, emissioni di onde di una data lunghezza, da parte di un cervello umano, potrebbero risuonare in un altro cervello amne così come una nota musicale emessa da un violino fa risuonare la corda corrispondente in altro violino.

IL PAPPAGALLO POLL – Il Dott. J. A. Watson, uno studioso ricercatore di animali intelligenti, tra i tanti casi analizzati cita quello di Poll. Il pappagallo è, tra gli animali, il solo che siamo abituati a sentir parlare. Esso si limita, tuttavia, a ripetere abitualmente le parole che ha sentito, e che sono generalmente sempre le stesse.

Egli racconta che Poll riproduceva una risata assolutamente inimitabile e talmente coinvolgente che era impossibile non esserne coinvolti, soprattutto quando il pappagallo, tra i suoi scoppi di risa, gridava: “Non fatemi ridere così, mi fate morire…”. E subito dopo riprendeva a ridere sonoramente.

Allorquando qualcuno tossiva, a volte diceva: ” Che brutto raffreddore”. Un giorno, dei ragazzi tentarono di ripetere in maniera approssimativa quel che Poll aveva detto. Ad un certo punto, il pappagallo alzò la testa e disse in maniera chiara ed inequivocabile: “Non ho detto questo”. Quando, a volte cantando, emetteva una nota sbagliata, esclamava: “Oh, là,

là”, ridendo di se stesso.

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IL MASSONE GENNARO ARCUCCI MARTIRE DELLA REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

IL MASSONE GENNARO ARCUCCI

MA

REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

di

Domenico d’Alessandro

Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli: Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni, conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.

Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa, come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I ‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato “Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel 1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”. Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S. Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni, malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri, pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27 Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale. In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio, simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la divina benedizione sulla  Repubblica; che all ‘orazione “pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I ‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS. Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli “lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo, per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII, pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di sangue”. Il 14 marzo del 1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici: “Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S. Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu venduto.

Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900, centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere, nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran caffè.

L’attualità dei valori del 1799

Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose, la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799, tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come “Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all ‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.

A Napoli si curò di tracciare i caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del regno accorrevano a Napoli a studiare:

* come medici, tra questi l’Arcucci ed il più famoso Domenico Cirillo;

* come allievi della scuola militare della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e anche questo potrebbe oggi avere un significato;

*come giuristi, sotto la guida del grande Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in latino.

E ciò mentre la città di Napoli viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa 500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘

La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno, in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare

E’ stato detto che le rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I ‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:

*
  • Gaetano Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America.
*
  • le leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri dell ‘ordinamento giuridico italiano;
*
  •  lo stesso spirito del 1799 aleggia nei deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.

Questi passaggi non sono la democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali “naturalmente” vi si arriva.

I legislatori del 1799 si posero l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e, principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!

Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione, anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato, sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata a Napoli “regina santa”, per  offrirlo ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia, ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza “conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal “neolitico” allo “psicozoico” è possibile il “saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida, quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle dei fatti e dell ‘economia.•

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DAL CIELO ALLA TERRA E DALLA TERRA AL CIELO

DAL CIELO ALLA TERRA E DALLA TERRA AL CIELO

Itinerario artistico iniziatico per l’anima degli uomini ovvero l’Amen delle stelle

Armando Rossi

Loggia di Ricerca Arte e Architettura: Antonello da Messina

Permettetemi, anzitutto, di indirizzare la vostra attenzione sulla forma della Loggia: un parallelepipedo di lunghezza da E ad O, di larghezza da N a S, di ampiezza dalla superficie della terra al suo centro e alto come il cielo.

Dalla spiegazione della tavola di tracciamento di I° grado

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Dalla tavola smeraldina

Incipit

L’uomo come misura di tutte le cose, l’uomo come centro saliente di ogni pensiero e di ogni arte, ma anche l’uomo travolto dalle Moire, dalle proprie passioni.

Esiste una nozione di uomo che connetta strettamente la sua natura al vasto e molteplice mondo delle divinità?

Anthropos, nel suo etimo, racconta l’immagine umana nella peculiarità di volgere gli occhi insù. L’uomo è quell’essere che, a differenza di bestiacce e bestiole, intrattiene con le stelle un legame di privilegio, l’uomo è quell’essere che studia, comprende e apprende le stelle e discerne lo zodiaco dalle costellazioni, distingue il giorno dalla notte e sa che il cielo stellato non svanisce col sole ma li rimane e il non vederlo è solo un suo limite fisico ma non mentale.

Ciò che è si vede anche quando non è palese, chi ha occhi per vedere, veda e comprenda e sia da guida per chi non crede solo perché non riesce a vedere.

Ante factum

“Quando scoppiano i fuochi d’artificio: nessuno guarda il cielo stellato!”

Lo diceva un signore avanti con l’età a voce un po’ elevata, che stava dietro di me, per farsi sentire dal suo vicino, il quale ricordo annuì quasi per compiacenza. Mi ricordo però che io staccai lo sguardo dai brillanti colori dei fuochi artificiali che in quell’attimo (e solo per quell’attimo!) vivevano e guardai più in alto. E un’emozione più intima mi invase. Respirai profondamente…

Un cielo stellato che il nostro emisfero boreale talvolta ci regala in visione nel mese di luglio era là: monotono, perenne, instancabile, insensibile al richiamo di quei poveri ed insulsi colori spumeggianti dei fuochi artificiali ed artificiosi.

Una metafora. Una metafora di me, una metafora del mondo profano?

 

La Massoneria è quell’arte che insegna a staccare lo sguardo dall’estemporaneità della fenomenologia attuale ed istantanea, estemporaneità che forse – può produrre fallaci momenti di finta emozione che proprio come fuochi artificiali durano un attimo e non più, senza lasciare segno di sé un momento dopo.

E’ necessario imparare a staccare lo sguardo per volgerlo al cielo stellato. Quei cieli stellati che Vincent Van Gogh ha magistralmente dipinto rendendoci partecipi dei vortici d’aria che lo formano. Lui pittore complesso e sempre al limite della follia ci permette di cogliere l’invisibile, l’aria che sposta le masse e forma le tonalità dei colori.

E se la notte scende, le stelle, si sa, risplendono ugualmente e illuminano il cammino. Il cielo stellato, archetipo junghiano che in maniera litografica impresse l’anima dei primi uomini, avvia ed induce ad una filosofia concettuale secondo la quale l’identità tra cosmo e uomo è esperienza di vita e Dio è “sentito” come uno spirito che sa rivelare armonia cosmogonica nel “solenne silenzio del cielo stellato”. Tale equazione risulta essere addirittura un “fatto scontato” in Goethe.

Una legge geometrica in cui tutto è armonia

Il cielo azzurro, o blu, con tante stelle che lo impreziosiscono corre da Oriente a Occidente e da Settentrione verso Meridione, uguale da milioni di anni. Il Cielo stellato accomuna le civiltà precolombiane a quelle della Mesopotamia, accomuna i Fenici ai Sumeri, ai Cinesi, ai Tehuelche. Il Cielo stellato è comune per gli Induisti e per i Cristiani, unisce i Mussulmani ai Veda. Sempre!

E dalle Colonne lo possiamo sempre ammirare. Il Tempio è incompiuto, volutamente, poiché il lavoro massonico è infinitamente perfettibile, ma non raggiungerà mai la perfezione. La raggiunge solo là: all’infinito! Il cielo stellato è il tetto naturale del Tempio di Salomone e comunica al Libero Muratore l’infinitezza del creato e lo esorta verso una spiritualità elevata a cui occorre tendere. A cui occorre aspirare.

Anche nell’io dell’Apprendista? Mi chiedo.

L’Apprendista non sa, ma vuol sapere. L’Apprendista quella sera del mese di luglio comprese come il cielo stellato è stato, è, e sarà, un segno, un simbolo che indirizzerà la via e la sua vita. Kant nella conclusione della Critica della Ragion Pratica scrisse: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione, sempre nuove e crescenti, e quanto più spesso e a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”

Corpus

Nell’antichità il termine “Tempio” ha significato un recinto, una delimitazione[1]una porzione del cielo, o un luogo delimitato da cui osservare la volta stellata, posto tra cielo e terra, tra macro e microcosmo, tra finito e infinito, il Tempio diviene il luogo privilegiato della riflessione, della elevazione spirituale.

Ciò che del cielo attraeva l’uomo erano   principalmente le stelle, quelle luci in mezzo al buio che sorprendevano e stupivano, e che per millenni hanno costituito la mappa unica e sicura per coloro che percorrevano il mondo per terra e per mare, per chi come i marinai cercavano la rotta per la nuova terra o per il ritorno verso casa (se questo era il loro desiderio) o per chi, come i Re Magi, seguivano la stella per trovare un essere divino. Ancora oggi si guarda alle stelle, profanamente, perché ci suggeriscano la giusta rotta da seguire.

Il cielo stellato ha sempre rappresentato l’emblema dell’infinito. . La sua rappresentazione nelle opere architettoniche ne ha costituito un limite indefinito che permetteva a chi entrava di sentirsi un unicum con l’universo.

Emblematici i cieli stellati del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna o quelli nella tomba della regina Nefertariin Egitto nella valle delle Regine.

Proprio quest’ultima rappresentazione può considerarsi la più antica volta celeste della storia.

l’origine delle parlate diffusesi in una consistente parte dell’Europa, dell’India e dell’altopiano iranico, nonché di alcune regioni dell’Anatolia, dell’Asia centrale e della Cina occidentale.

Si tratta di una struttura ipogea ricoperta da più di 3500 mq di dipinti che illustrano il viaggio nell’aldilà di Nefertari. Tutto il soffitto è un intero cielo stellato di un intenso blu scuro.

.

Si tratta di un aspetto molto affascinante in quanto la stella a 5 punte è la raffigurazione del pentagramma, della stella pitagorica ed è la figura geometrica costruita sulla base della sezione aurea, proporzione e dimensione già nota agli Egizi.

Queste distese di stelle, generalmente, non hanno riferimenti astronomici ma in alcuni casi gli astri sono raffigurati in modo tale da far pensare a delle vere e proprie mappe stellari.

Le rappresentazioni più antiche di mappe stellari sono in Europa senza dubbio i frammenti rinvenuti nei Templi megalitici di Malta 3.600 a.C. ed il manufatto noto come Disco di Nebra, rinvenuto in Germania quindici anni fa ma risalente a non più tardi del 1.600 a.C.

Nel corso dell’arte classica è difficile trovare grandi esempi di cieli stellati. Qualche frammento fittile di epoca greca mostra il Dio Eosforo che porta la luce del mattino accompagnato da qualche sporadica stella (raffigurata in questo caso con sedici raggi).

Il cielo stellato interamente a coprire la volta interna lo ritroviamo significativamente a Padova, in un altro scrigno pieno di colore e bellezza. È la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto intorno al 1300 con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento.

Qui la volta a botte è interamente dipinta di blu oltremare, colore associato alla sapienza divina e ottenuto con preziosa polvere di lapislazzuli,

San Gimignano

mentre le stelle dorate ad otto punte sono leggermente in rilievo rispetto alla superficie della volta.

Quello degli Scrovegni non è un caso isolato. Nel basso Medioevo, infatti, so no molte le chiese con volte dipinte a cielo stellato (basta ricordare le crociere della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o quelle della cattedrale di Siena o del Duomo di San Gimignano).

Nello stresso periodo si possono trovare esempi anche fuori dall’Italia, come nella tardogotica cappella di San Biagio nella Cattedrale di Toledo o nella coeva chiesa di Santa Maria a Cracovia.

Il cielo stellato nelle chiese va ben oltre il mero significato della volta celeste, esso idealizza, come studio “scientifico” e speculazione filosofica, il cielo dei giusti e dei santi. Proprio l’enfasi religiosa ha determinato la diffusa credenza che il cielo sia sede di esseri superiori che, guardando verso il basso, trovavano divertimento nell’osservare la vita e le gesta dei deboli abitanti della Terra.

Prima del Cristianesimo solo gli uomini migliori ovvero gli “eroi” erano degni dell’interesse divino ed alcuni, per la loro prodezza in battaglia o per un ‘altra non comune qualità, venivano addirittura divinizzati, quali semi-dei.

È chiaro quindi come la sede celeste sia sempre stata considerata simbolo di ciò che vi è di superiore, essendo riservata normalmente ad esseri divini e, solo saltuariamente, a quei rari uomini che avessero dimostrato qualità eccezionali per nascita o, più raramente, per libera scelta.

La volta stellata rappresenta l’incomprensibile, l’infinito e, non ultima, la speranza in un futuro migliore, immateriale, una dimensione che liberi l’umanità dalla sofferenza della vita terrena, meglio se per l’eternità: un luogo in cui lo spirito possa riscaldarsi attraverso l’irraggiamento diretto della fonte di “luce” primigenia[2].

Della fine del Quattrocento è la testimonianza di un altro cielo stellato sulla volta di una cappella. Ma la notizia, stavolta, è quella della sua scomparsa, ovvero all’affresco di Piermatteo d’Amelia che ricopriva il soffitto della Sistina prima dell’intervento di Michelangelo.

Pochi anni dopo, nella seconda metà del Cinquecento un altro splendido soffitto stellato posto a copertura della Cappella Reale di Hampton Court, uno dei palazzi reali eretti da Enrico VIII in Inghilterra. Secondo lo stile dell’epoca si tratta di particolare due opere che compone. “Quatour por la fin du temps” e “Le visioni dell’Amen”.

I colori che Messiaen trasfigura nei suoni – quello sfolgorante arcobaleno sulla testa del settimo Angelo, le colonne di fuoco, il blu del mare, il verde della terra, e tutti gli altri colori dell’Apocalisse – appaiono vividi e smaglianti nei sogni dell’autore. I colori diventavano suoni e i suoni si coloravano di blu e arancio, di limpida           luce stellare.    Un suono definito da tutti limpido come un cielo stellato. E il silenzio – grande solenne che segue l’apertura del settimo sigillo – non rappresenta tanto un’eco dilatata degli ambigui e oscuri silenzi del cielo notturno, quanto il sogno di una quiete inesprimibile.

Il cielo stellato come metafora dell’attesa del giudizio per tutti

gli esseri viventi, da contemplare, da rispettare, da osservare e cercare di comprendere. Chissà. Forse possiamo anche noi oggi provare a capire che cosa significa Apocalisse, come ha fatto Olivier Messiaen e dalla visione privilegiata del cielo stellato del Tempio Massonico possiamo trarne un insegnamento per il nostro tempo e per la crescita di ognuno. Non a caso nella composizione della Visioni dell’Amen [3][4]dopo l’Amen della creazione, segue l’Amen delle stelle, per chiudere con l’Amen del Giudizio e l’Amen della Consumazione.

Ma se l’arte ha saputo nella storia interpretare ed utilizzare il cielo stellato per le proprie esigenze queste non hanno mai contribuito in forma diretta ad una ritualità, ad una liturgia. Il Cielo stellato ha costituito un “naturale e semplice” collegamento tra la terra (luogo degli uomini) e l’infinito (luogo della divinità) e da tutti ampiamente e pienamente utilizzato, come abbiamo potuto vedere.

Da questa semplice e non esaustiva carrellata di esempi (gli esempi non sono mai abbastanza) emerge però un singolare e importante dato: il cielo stellato non è il punto di arrivo ma un mezzo attraverso il quale sia possibile raggiungere la divinità. Il cielo stellato non come meta ma come filtro, come elemento mediale in un sistema di rapporti tra uomo e sua trascendenza.

Che sia esso particolarmente dettagliato o semplicemente sfumato, semplice o prezioso nei materiali esso non “contiene” mai la divinità ma la “vela”, la cela e la contorna.

L’uomo dovrà attraverso la sua conoscenza mediare tra terra e divinità attraverso il cielo come metafora di ascesa. Verso il cielo il bene, al suo opposto il male.

Terra come elemento di mediazione con gli lnferi, cielo come elemento di mediazione con il Divino.

Quale rapporto esiste allora tra l’uomo e il cielo? È il medesimo che esiste tra l’uomo e la terra?

Corpus Massonico

Se il rapporto con il cielo è verso l’alto quello con la terra è verso il basso è il caso di ricordare uno dei due incipit del presente lavoro:

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso

Il Tempio massonico è la peculiare rappresentazione di quanto scritto nella tavola smeraldina, non per mera definizione e attribuzione ma per specifico sistema.

La ritualità si svolge sopra un pavimento a scacchi e sotto la volta celeste e da questi due elementi è “contenuta”.

Il Tempio dei liberi muratori è trasposizione simbolica di un tempio ipetrale[5], cioè un tempio a cielo aperto. È noto che in antico le riunioni massoniche avvenissero en plein air. Perciò nel soffitto delle officine si apre un riquadro rettangolare (affrescato) che simula la volta celeste trapuntata di stelle.

21 x 29,7 cm, 2007, Éditions Durand

L’uomo ha da sempre levato al cielo, con primordiale stupore, il proprio sguardo interrogativo. Il Dante esoterico, summa della sapienza medioevale e fedele d’amore, fa sì che ciascuna delle tre cantiche della Commedia termini menzionando le stelle: e quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno)

/ puro e disposto a salir alle stelle (Purgatorio)  l’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso)

Alla luce di alcune definizioni che abbiamo potuto percepire nell’excursus artistico possiamo affermare che l’uomo ha il dovere morale di tendere verso l’alto e quando questo viene meno la mediazione con la terra è “governata” dal pavimento a scacchi che concede, ricorda e riallinea chi lo percorre permettendo di riprendere il giusto equilibrio, mentre la mediazione verso l’alto è “governa” dal cielo stellato ovvero un “velo” o filtro rispetto alla Divinità alla quale tendiamo elevandoci attraverso la scala di Giacobbe che percorriamo esercitando le virtù su di esse adagiate e che incontriamo nel nostro cammino.

Il Tempio Massonico non è una porzione da cui osservare l’universo ma è l’intero Cosmo, uno spazio aperto che non ha pareti, ma essendo esso stesso Cosmo è impossibile delinearne le dimensioni e ovviamente è impossibile definirne le “visioni”. Questa o quell’altra costellazione sono semplice scelte poiché la volta celeste è simbolicamente rappresentata ma non definibile.

Il cielo stellato prescinde da ciò che in esso è rappresentato.

A Gerusalemme, in una caldissima sera d’agosto poco prima dell’avvento del Messia…

Il “Gadol Cohen ” si svegliò presto quella notte e volle riguardare ancora una volta quello spettacolo nel cielo che già aveva ammirato la sera prima. Uscì dall”‘Ulam ” del Tempio, in quell’afosa serata estiva, scandita dalle folate di un vento caldo, passando accanto alle colonne “Boaz” e “Jachin”. Uscì sulla spianata del Tempio ed il suo sguardo, dopo aver superato, alla sua sinistra, lo “lam Mutzach ” si diresse verso il cielo, con un moto di devoto rispetto, ‘tle-Qedem “.

Il sole sarebbe sorto in quel punto soltanto 2 ore più tardi, ma qualche pallida luce iniziava già ad annunciare timidamente l’alba. Lì, poco più in alto della linea dell’orizzonte, si posò il suo sguardo, su quel punto del cielo chiamato dagli astronomi del suo paese “Sartan “. Quasi al centro di questo settore, gli avevano insegnato, c’era un punto divino, davvero importante per tutti loro e per il Creatore.

Era un piccolo e ristretto agglomerato grigio di stelle, dalla luce fioca e lontana, chiamato “SharAischim ” Era quasi un punto, gli aveva spiegato il suo vecchio maestro rabbi, in cui la volta celeste era più sottile e le anime degli uomini scendevano tutti i sette cieli, provenienti dal “Magazzino delle Anime”, per incarnarsi nei loro corpi, seguendo i dettami della “Shevirat Ha-Kelim “, soltanto per volere del Creatore oppure risalivano lungo la scala di Giacobbe, secondo principi e virtù.

Due piccole fioche stelline20 erano poste ai lati della ‘Porta”, una un po’ a nord e l’altra un po’ più a sud, quasi a sorvegliarne e custodirne con rispetto il sacro accesso. Con umiltà pensò che anche la sua anima avesse fatto un giorno quello stesso tragitto, ed i suoi occhi brillarono di commozione, ma ricordò anche che, spesso, alcuni corpi celesti (Pianeti) vi finivano ‘dentro’ nel corso dell’anno. E quello, per tutti loro, era sempre un grande momento per onorare la magnificenza del Creatore. Anche quella sera stava succedendo quel momento meraviglioso e davvero speciale: il rosso “Maadim ‘ era proprio dentro alla “Porta”, ma c’era anche di più. La bianca “Nogah ” era posta un poco più a sud, ma davvero molto vicina alla “Shar Aischim” ed a “Maadim” che vi stava dentro in quel momento. Quello era un presagio nel cielo che sembrava fatto apposta per segnalare un evento davvero speciale, da ricordare per tutti loro, e che era stato scritto per sempre fra le stelle

Il cielo stellato, tra tutti gli spettacoli della natura, è quello che più è capace di scuoterci profondamente, stimolando la riflessione sulla nostra natura e sul “senso” della nostra esistenza, il cielo stellato è sentito come irraggiungibile, come ‘ultimo orizzonte” oltre al quale, al pari della siepe dell’infinito di Leopardi, non possiamo avventurarci se non con il pensiero. La sensazione di irraggiungibilità e di estensione illimitata nello spazio e nel tempo, suscitata dalla visione del cielo stellato genera in noi una mescolanza di sentimenti di ammirazione, per l’imponenza ed immanenza del Cosmo, e contemporaneamente di angoscia, nel momento in cui confrontiamo la nostra limitatezza con l’infinità del cielo. Il cielo è riprodotto sulla volta del tempio che non è, appunto, un luogo delimitato ma è l’intero cosmo nel cosmo.

La volta celeste posta sopra il Tempio, a prescindere dal suo contenuto fisico o della costellazione in essa rappresentata rappresenta anche un altro principio, spesso dimenticato della Massoneria, ovvero la crescita personale di ognuno Massone e il suo miglioramento personale.

Così come ci ha ricordato il G.M. nella sua ultima allocuzione[6]riportando la definizione di “religioso” delle scuole del Vedânta e della dottrina religiosa del Giainism0 [7][8]per le quali la Religione non è altro che il rapporto personale con un essere divino o trascendente a cui ci sottomettiamo e a cui rivolgiamo le nostre preghiere, per ottenere vantaggi materiali, oppure illuminazione spirituale, o morale e il cielo è universalmente il simbolo delle potenze superiori all’uomo, benevole o temibili.

In antichità gli Auruspici Etruschi indicavano con la presenza o assenza delle Stelle il «carattere» del Cielo, del Numinoso. In presenza di Stelle il responso divino è benevolo, al contrario un Cielo tempestoso rivela la collera divina.

Il cielo del Tempio è stellato, dunque benevolo.

Il Cielo rappresenta tutto ciò che sovrasta l’uomo, l’insondabile immensità, la sfera dei ritmi universali. Tutti gli esseri sono prodotti dall’unione «coniugale» del Cielo con la Terra, del Padre Celeste con la Madre Terra. In Egitto, però, curiosamente le polarità s’invertono. La dea Nut è celeste, il dio Geb terrestre: dalla loro unione nascerà, il Sole.

Nelle religioni orientali come l’induismo, il taoismo e lo shintoismo, il cielo stellato è spesso visto come un segno di una presenza divina. In alcune tradizioni, le stelle sono associate a divinità specifiche e il loro movimento è interpretato come un segno di volontà divina. Ad esempio, nell’induismo, le stelle sono associate ai pianeti e il loro movimento è usato per la previsione astrologica. Nel taoismo, il cielo stellato rappresenta la totalità dell’universo e il suo ordine cosmico. Inoltre, nello shintoismo, le stelle sono considerate una manifestazione della presenza divina in cielo.

Nelle tradizioni esoteriche e spirituali, il cielo stellato ha un significato simbolico profondo. Ad esempio, nella Cabala ebraica, le stelle rappresentano gli spiriti degli uomini giusti che hanno raggiunto la purezza spirituale. Nell’alchimia, le stelle sono viste come rappresentazioni dei diversi elementi e forze cosmiche che influenzano il mondo materiale. Inoltre, nell’astrologia, le posizioni e gli allineamenti delle stelle al momento della nascita di un individuo sono visti come influenti sulla sua vita e il suo destino. In molte tradizioni spirituali, il cielo stellato viene anche associato alla conoscenza divina e alla via verso l’illuminazione spirituale

Nell’Apocalisse il Cielo è la dimora di Dio; al contrario, i Celti non pongono in Cielo la residenza degli Dei. Nella cosmologia dei popoli uralo-altaici vi sono nove cieli, raffigurati attraverso tacche incise sull’Albero del Mondo, la Betulla.

Nella mistica sufi, le stelle sono viste come simboli dell’infinito e dell’eternità, e la contemplazione del cielo stellato viene considerata un modo per avvicinarsi a Dio e alla verità divina.

Per gli Algonchini americani26 i cieli sono dodici; mentre gli Aztechi parlavano di tredici cieli e nove mondi inferiori27. L’espressione «Figlio del Cielo e della Terra» appartiene sia ai Misteri Orfici, sia al Taoismo. Il Figlio del Cielo e della Terra è l’Imperatore (Wang) come archetipo del Vero Uomo, dell’lniziato.

La disposizione della Loggia varia secondo i Riti ma esistono regole assolutamente obbligatorie da osservare: la Loggia, di forma rettangolare. rappresenta il cammino che conduce dall’Occidente all’Oriente, cioè “verso la Luce”: il Trono del Venerabile all’Oriente, il suo lato destro indica il Mezzogiorno, il lato sinistro il Settentrione. Il soffitto rappresenta il cielo stellato. Infatti il Tempio simbolizza il Cosmo: ecco perché pur conoscendone le “proporzioni” non esistono “dimensioni”: la sua lunghezza va dall’Occidente all’Oriente, la sua larghezza dal Settentrione al Meridione, la sua altezza dal Nadir allo Zenit.

La contemplazione del cielo stellato viene vista come un modo per aumentare la consapevolezza di sé, per connettersi con la dimensione cosmica e per raggiungere una comprensione più profonda della realtà.

Il Tempio o Loggia è un luogo aperto e questo è anche fisicamente riscontrabile nella tavola di tracciamento di I grado dove non esistono pareti o limiti fisici in nessuna direzione, limitato per essere utilizzato in basso dal pavimento a scacchi e in alto dal cielo stellato.

Il cielo stellato rappresenta la divinità, la saggezza e l’ordine cosmico e simboleggia la presenza divina nell’universo. Il cielo stellato della Sala del Tempio costituisce sostanzialmente ad un invito a raggiungere una comprensione più profonda della realtà e a cercare la verità. Esso rappresenta la necessità di mantenere un ordine e una struttura nella propria vita, come nel cosmo: le stelle rappresentano gli ideali e i valori che i massoni cercano di perseguire nel loro cammino spirituale e nella vita quotidiana.

Quando una Loggia è impegnata nei lavori rituali questi vengono svolti sotto un cielo stellato e testimonianza del rapporto trascendente che esso ha con l’uomo. Questo rapporto è visto come un legame che supera la dimensione materiale e che connette l’iniziato con una realtà più grande e divina.

Nel platonismo, il cielo stellato rappresenta la dimensione delle idee eterne e l’uomo è invitato a elevarsi verso di esso per raggiungere una comprensione più profonda della realtà così come l’iniziato avendo accesso agli “strumenti” può andare oltre il semplice sguardo profano.

Nel neoplatonismo, il cielo stellato è visto come una manifestazione della divinità e la contemplazione delle stelle è considerata un modo per avvicinarsi a Dio, ragione per cui i nostri lavori si definiscono “rituali” essendo la ritualità l’unica strada che conduce alla Divinità.

Pur avendo visto le molte rappresentazioni nelle diverse arti del cielo stellato possiamo concludere che esso è sempre e assolutamente un riferimento esoterico e spirituale se posto come coronamento, sfondo o completamento di gestualità rituali o luoghi significativamente “rituali”. Il cielo stellato è sempre associato all’anima umana e alla sua dimensione spirituale, e la contemplazione del cielo stellato è sempre vista come un modo per raggiungere una comprensione più profonda di sé e della realtà, per il Massone una perfetta via da percorrere, come un ideale “Cammino di Santiago” lungo la Via Lattea.

La volta stellata è anche il simbolo dell’ideale di fratellanza, ciascun fratello è avvolto dalla stessa volta celeste, uniti l’uno all’altro dalle stesse luci e dallo stesso mistero, dallo stesso segreto; il fratello di Loggia è uguale, per ideale di fratellanza, al fratello di un altro differente luogo sulla terra, uguale al fratello di qualsiasi altra lingua troppo lontano fisicamente per essere incontrato nella vita profana. Il cielo della volta stellata del tempio, benché notturno, lo testimonia la presenza delle stelle, non è nero ma turchese colore di un momento particolare del giorno, quello dell’idea che, una volta infranto il velo della Notte, precede l’Alba e il Sorgere del sole della fratellanza.

Non ha valore rituale, quindi, questa o quella costellazione, il cielo stellato della Loggia, come in arte, non determina il valore esoterico del Tempio. Non importa quale sia la sua rappresentazione e cosa contenga – che rimane una libera scelta – ma l’importante è che ci sia poiché è un “simbolo”!

L’Iniziato che percorre la Via Iniziatica è in grado di ascendere al Cielo. Non si tratta di ottenere la Salvezza con la fede, quanto di ascendere al Cielo, diventando Divino.


[1] Dal termine indoeuropeo Tem. Il sistema morfologico dell’indoeuropeo (così come il sistema fonologico e in genere tutta la grammatica di questa lingua) è una ricostruzione frutto del confronto tra le lingue indoeuropee di attestazione più antica e, in mancanza di queste, tra le lingue moderne, ipotizzandone una origine comune. L’indoeuropeo è infatti l’ipotetica protolingua preistorica ricostruita che si ritiene comunemente essere

[2] Cfr. Michele Galassi – La volta celeste, il paradigma ermetico e la “coincidenza de lio osti” – Ma io 2015

[3] Parola ebraica (‘âmën), passata anche in altre lingue semitiche (siriaco, etiopico, ecc.), nelle versioni greche e latine del Vecchio Testamento e nei varî testi del Nuovo. Deriva dalla radice semitica ‘mn col senso “sostenere, esser saldo”, quindi “esser sicuro, certo, veritiero”

[4] Cfr Partitura per due pianoforti 108 Pagine;

[5] Si chiama così l’edificio, in particolare il tempio, privo di copertura nella parte centrale. Nessun tempio conosciuto era esattamente del’ tipo descritto da Vitruvio (III, 2) come ipetrale; vi si accostavano l’Olympieïon di Atene e il tempio di Apollo a Selinunte. cfr. A. Choisy,

Vitruve, l, Parigi 1909, p. 165

[6] Cfr. Religione e Sacro – Allocuzione nella Gran Loggia del 5 novembre 2022 Fabio Venzi

[7] Cfr. S.N. Dasgupta, Il Misticismo Indiano, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, pag. 31

[8] Gli Algonchini rappresentano l’insieme di tribù di na-

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LA GRANDE RELIGIOSITA’ DELL’EROE DEI DUE MONDI: IL SUO CREDO IN DIO, NEL VERO E NEL GIUSTO

                           LA GRANDE RELIGIOSITA’ DELL’EROE DEI DUE MONDI:                        IL  SUO CREDO IN DIO, NEL VERO E NEL GIUSTO

di

Aldo Chiarle

GIUSEPPE GARIBALDI, INTOLLERANTE

Dl OGNI IMPOSTURA DEI PRETI “PESTE DELL ‘ITALIA

Ancora oggi pochi hanno la visione chiara della religiosità alta e sublime di Giuseppe Garibaldi; la pubblicistica di dozzina lo fa passare per antireligioso e negatore di Dio.

Nulla di più inesatto, perché della religiosità e di Dio Giuseppe Garibaldi ha sempre fatto norma di vita. Annota l’eroe: “Chi è Dio? E’ il regolatore del mondo. E’ quella intelligenza infinita la cui esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia che regge i corpi celesti disseminati, chiunque deve confessare”

“Come tutti gli esseri, io sono dotato di una quantità di intelligenza e se l’intelligenza universale che anima tutto è Dio, io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Divinità, sarei una parte e questa idea mi nobilita, mi soddisfa fa qualcosa del mio nulla e contribuisce a sollevarmi dalle miserie di questa vita.

“Io accenno, ma non insegno, poiché mi sento troppo infinitamente nulla al cospetto dell’onnipotente per poterne ragionare. Semplice bella e sublime è la religione del vero; essa è la Religione del Cristo, poiché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’Eterna Verità. “Non fare agli altri ciò che non vorreste per voi” e “Chi non ha sbagliato, getti la prima pietra sul delinquente”. “Di fratellanza il primo concetto e simbolo di perdono il secondo. Simboli, precetti, dottrine che, radicati negli uomini, costituirebbero quel grado di perfezione e prosperità a cui è suscettibile giungere”

Ma se era grande la religiosità di Garibaldi, grande era la sua reazione contro le imposture religiose.

Il suo anticlericalismo non era di maniera, non era vuota retorica ma era l’esplosione di un animo generoso, conscio della assoluta inconciliabilità del prete con un domani migliore, ln cui il trionfo della libertà e della giustizia spianasse il cammino all ‘illuminato progresso.

“E’ dovere di ogni italiano di combattere il prete, peste dell’Italia”, egli scriveva il 25 agosto del 1868 e il I gennaio 1889 scrive da Caprera ad un convegno di liberi pensatori, augurandosi presto fosse cancellata “la cancrena sacerdotale che appesta il paese”.

Agli organizzatori di un solenne comitato per estendere a Roma e al Lazio la “Pressione delle corporazioni religiose, così il generale nel 1870: “abolire le corporazioni religiose è salvare l’ Italia dalla rogna più pericolosa da cui possa essere colpita una nazione .. .il sacerdozio è puntello di ogni tirannia mascherata… non istiamoci garruli ed indolenti a contemplare cretinamente ciò che si trama a Roma per colpirci col doppio gioco della menzogna e del furto”

E successivamente aderendo al Congresso razionalista di Bruxelles proponeva i seguenti punti:

  1. I liberi pensatori sono apostoli del vero, cioè della ragione, della scienza, e però sono anche i migliori istitutori dei popoli e le scuole debbono essere laiche.
  2. I preti, a qualsiasi religione rivelata appartengono (buddismo, maomettismo, cattolicismo, ecc.), sono falsi apostoli. Essi, gli autori delle torture, dei roghi, dei sacrifici umani, sono i naturali nemici delle nazioni, che hanno mantenuto e che mantengono sempre in sanguinose discordie.

E pochi mesi prima della sua morte, quasi presago della fine, Garibaldi scrisse due lettere, una ai messinesi e l’altra ai palermitani e le volle scrivere di suo pugno.

Ai messinesi: “…ricordando il più grande eroismo di popolo che registri la storia del mondo, il Vespro, vi rammenterò soltanto che gli assassini dei nostri padri di quell’epoca furono mandati e benedetti da un papa e che i successori di quell’infallibile scellerato hanno venduto l’Italia settanta volte allo straniero e che oggi stesso stanno trattando di venderla e non vi riescono per mancanza di mediatori e di barattieri”. Ai palermitani “A te, Palermo, città delle grandi iniziative!

Maestra nell’arte di scacciare i tiranni, a te appartiene di diritto la sublime iniziativa di scacciare dall’Italia il puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti, il patriarca della menzogna, che villeggiando sulla destra del Tevere, sguinzaglia di là i suoi neri scagnozzi….”.

Ma I ‘idiosincrasia per la “nera tonaca” copre un sottofondo ma serio, è la sensibilità di un grande uomo per i problemi dello stato di diritto, per una società laica responsabile e democratica, “L’Italia – scrive Garibaldi – è il paese dove il governo e i preti, mantengono diciassette milioni di analfabeti”

E il suo giudizio sulle Leggi delle Guarentigie, dopo Porta Pia, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa è deciso e drastico: “L’Italia amoreggia oggi con l’idea sacerdotale e la lecca, l’accarezza, supplicandola genuflessa, acciocché le mantenga i suoi figli nella ignoranza e nell ‘abbruttimento, chiamando l’atto suicida delle garanzie”.

Per Garibaldi il papato rimane “sempre il mortale nemico della libertà italiana e lo ha sempre contro in tutte le sue battaglie: gli austriaci da parte loro e i preti non mancano mai di fare le indagini possibili per scoprirmi… i preti poi dal pergamo e dal confessionale suscitano le cittadine ignoranti a far la spia per la maggiore gloria di Dio”

Nel suo testamento, vergato di pugno, scrive: “Ai miei figli, ed a quanti dividono le mie opinioni, io lego I ‘amore mio per la Libertà, per il Vero, il mio odio per la menzogna e la tirannide”

“Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete profittando dello stato in cui si trova il moribondo e della confusione che sovente vi succede, s ‘inoltra e mettendo in opera ogni turpe stratagemma e coll’impostura di cui è maestro che il defunto compiti, pentendosi delle sue credenze passate ai doveri di cattolico, in considerazione, io dichiaro che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole, scellerato di un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell ‘Italia in particolare. E che solo in istato di pazzia o di ben grassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada”

Terminiamo questa carrellata sul pensiero di Garibaldi uno scritto che ci auspichiamo venga meditato perché di palpitante attualità: “Quando io penso al potere dei preti, conservato ad onta d’ogni scelleraggine appenda credibile e di cui dovrebbe essere incapace l’umana natura anche di idearle, dico che in questo secolo che si chiama civile mi viene sovente il dubbio che cotesti cretini a cui appartengo per forme, altro non sino che una delle tante famiglie di scimmie da me vedute nel nuovo mondo”

“Un prete è un impostore. Chi può provare il contrario? E vi vuol poi tanta matematica per capirlo? Eppure la potenza di quell ‘essere malefico continua. Le plebi ne sono affascinate ed il despotismo si serve di cotesto fascino per malmenare i popoli. E si grida da una parte e si fa i sordi dall’altra, ed intanto va avanti questo bordello chiamato costituzione di popolo libero”.•

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