PINOCCHIO: IL MITO DEL BURATTINO SECONDO FOLCO QUILICI
NSA) – ROMA, 15 OTT – «C’è ancora molto, molto da scoprire su d i lui», con questa frase si chiude il bel Viaggio nel mondo di Pinocchio di Folco Quilici (durata circa 50 minuti) che Raitre proporrà domenica alle 23.10. Realizzato da un’idea di Paolo Fabbri e prodotto da Raitre con Arte Geie, Ex Nihilo, F.Q.P.E. e Avro Tv, il film documentario attraversa il mito di Pinocchio in ogni sua forma. Si va dalla vita di Lorenzini di cui si sfatano alcune leggende («Non era Massone come qualcuno ha detto, nè donnaiolo e giocatore», ci tiene a dire Quilici) alle mille versioni di Pinocchio che sono state date in tutto il mondo. Si visita poi la fondazione di Carlo Collodi che raccoglie centinaia di edizioni del libro, si vedono sequenze del primo film a lui dedicato nel 1911 fino al Pinocchio di Comencini e a quello di Disney. Ma ci sono anche due rari cartoni animati: uno russo, ‘Buratinò e l’inedito Pinocchio di Enzo D’Alo ancora in produzione per la Rai. E anche, infine, un omaggio alla singolare lettura del mito Pinocchio che ne ha dato Carmelo Bene. E il Pinocchio di Benigni? Risponde candidamente Folco Quilici a margine della proiezione stampa a Viale Mazzini: «Non l’ho ancora visto. Il fatto è che devo mettere insieme tutti i miei nipotini per andarlo a vedere». Per il resto dal documentarista anche una sua lettura del mito Pinocchio: «Pochi sanno che Collodi non ha avuto padre e forse il suo Pinocchio alla ricerca del babbo non è che una sua proiezione e anche un qualcosa che in un modo o nell’altro riguarda ognuno di noi». Sulla messa in onda in seconda serata del film documentario interviene il direttore di Raitre Paolo Ruffini: «non è vero che è un orario penalizzante – dice il direttore -. In fondo non è un programma per i ragazzi, ma chissà si potrebbe anche pensare a una replica in un altro orario più agevole».
Itinerario artistico iniziatico per l’anima
degli uomini ovvero l’Amen delle stelle
Armando Rossi
Loggia di Ricerca Arte e Architettura:
Antonello da Messina
Permettetemi, anzitutto, di indirizzare la vostra attenzione sulla forma della Loggia: un
parallelepipedo di lunghezza da E ad O, di larghezza da N a S, di
ampiezza dalla superficie della terra al suo centro e alto come il cielo.
Dalla spiegazione della tavola di tracciamento
di I grado
Ciò che è
in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso
per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da
una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa
unica mediante adattamento. Dalla tavola smeraldina
Incipit
L’uomo come misura di tutte le cose, l’uomo come centro
saliente di ogni pensiero e di ogni arte,
ma anche l’uomo travolto dalle Moire, dalle proprie passioni.
Esiste una
nozione di uomo che connetta strettamente la sua natura al vasto e molteplice
mondo delle divinità?
Anthropos, nel
suo etimo, racconta l’immagine umana nella peculiarità di volgere gli occhi
insù. L’uomo è quell’essere che, a differenza di bestiacce e bestiole,
intrattiene con le stelle un legame di privilegio, l’uomo è quell’essere che
studia, comprende e apprende le stelle e discerne lo zodiaco dalle
costellazioni, distingue il giorno dalla notte e sa che il cielo stellato non
svanisce col sole ma li rimane e il non vederlo è solo un suo limite fisico ma
non mentale.
Ciò che è si vede anche quando non è palese, chi ha occhi
per vedere, veda e comprenda e sia da guida per chi non crede solo perché non
riesce a vedere.
Ante
factum
“Quando
scoppiano i fuochi d’artificio: nessuno guarda il cielo stellato!”
Lo diceva un signore avanti con l’età a voce un po’
elevata, che stava dietro di me, per farsi sentire dal suo vicino, il quale
ricordo annuì quasi per compiacenza. Mi ricordo però che io staccai lo sguardo
dai brillanti colori dei fuochi artificiali che in quell’attimo (e solo per
quell’attimo!) vivevano e guardai
più in alto. E un’emozione più intima mi invase. Respirai
profondamente…
Un cielo stellato che il nostro emisfero boreale talvolta
ci regala in visione nel mese di luglio era là: monotono, perenne,
instancabile, insensibile al richiamo di quei poveri ed insulsi colori
spumeggianti dei fuochi artificiali ed artificiosi.
Una metafora. Una metafora di me, una
metafora del mondo profano?
La Massoneria è quell’arte che insegna a staccare lo sguardo dall’estemporaneità
della fenomenologia attuale ed istantanea, estemporaneità che forse –
può produrre fallaci momenti di finta emozione che proprio come fuochi
artificiali durano un attimo e non più, senza lasciare segno di sé un momento
dopo.
E’ necessario imparare a staccare lo sguardo per volgerlo
al cielo stellato. Quei cieli stellati che Vincent Van Gogh ha magistralmente
dipinto rendendoci partecipi dei vortici d’aria che lo formano. Lui pittore
complesso e sempre al limite della follia ci permette di cogliere l’invisibile,
l’aria che sposta le masse e forma
le tonalità dei colori.
E se la notte scende, le stelle, si sa, risplendono
ugualmente e illuminano il cammino. Il cielo stellato, archetipo junghiano che
in maniera litografica impresse
l’anima dei primi uomini, avvia ed induce ad una filosofia concettuale
secondo la quale l’identità tra cosmo e uomo è esperienza di vita e Dio è
“sentito” come uno spirito che sa rivelare armonia cosmogonica nel
“solenne silenzio del cielo stellato”. Tale equazione risulta essere
addirittura un “fatto scontato” in Goethe.
Una legge geometrica in cui tutto è armonia
Il cielo azzurro, o blu, con tante stelle che lo
impreziosiscono corre da Oriente a Occidente e da Settentrione verso Meridione,
uguale da milioni di anni. Il Cielo stellato accomuna le civiltà precolombiane
a quelle della Mesopotamia, accomuna i Fenici ai Sumeri, ai Cinesi, ai
Tehuelche. Il Cielo stellato è comune per gli Induisti e per i Cristiani,
unisce i Mussulmani ai Veda. Sempre!
E dalle Colonne lo possiamo sempre ammirare. Il Tempio è
incompiuto, volutamente, poiché il lavoro massonico è infinitamente
perfettibile, ma non raggiungerà mai la perfezione. La raggiunge solo là:
all’infinito! Il cielo stellato è il tetto naturale del Tempio di Salomone e
comunica al Libero Muratore l’infinitezza del creato e lo esorta verso una
spiritualità elevata a cui occorre tendere. A cui occorre aspirare.
Anche
nell’io dell’Apprendista? Mi chiedo.
L’Apprendista non sa, ma vuol sapere. L’Apprendista
quella sera del mese di luglio comprese come il cielo stellato è stato, è, e
sarà, un segno, un simbolo che indirizzerà la via e la sua vita. Kant nella
conclusione della Critica della Ragion Pratica scrisse: “Due cose
riempiono l’animo di ammirazione e venerazione, sempre nuove e crescenti, e
quanto più spesso e a lungo la riflessione si occupa di esse: il
cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”
Corpus
Nell’antichità il termine “Tempio” ha
significato un recinto, una delimitazione[1]una porzione del cielo, o un luogo delimitato da cui osservare la volta
stellata, posto tra cielo e terra, tra macro e microcosmo, tra finito e
infinito, il Tempio diviene il luogo privilegiato della riflessione, della
elevazione spirituale.
Ciò che del cielo attraeva l’uomo erano principalmente le stelle, quelle
luci in mezzo al buio che sorprendevano
e stupivano, e che per millenni hanno costituito la mappa unica e sicura
per coloro che percorrevano il mondo per terra e per mare, per chi come i marinai cercavano la rotta per la nuova
terra o per il ritorno verso casa (se questo era il loro desiderio) o per chi,
come i Re Magi, seguivano la stella per trovare un essere divino. Ancora oggi
si guarda alle stelle, profanamente,
perché ci suggeriscano la giusta rotta da seguire.
Il cielo stellato ha sempre rappresentato l’emblema
dell’infinito. . La sua rappresentazione nelle opere architettoniche ne
ha costituito un limite indefinito che permetteva a chi entrava di sentirsi un unicum
con l’universo.
Emblematici i cieli stellati del Mausoleo di Galla
Placidia a Ravenna o quelli nella tomba della regina Nefertariin
Egitto nella valle delle Regine.
Proprio quest’ultima rappresentazione può considerarsi la
più antica volta celeste della storia.
l’origine delle parlate diffusesi in una consistente
parte dell’Europa, dell’India e
dell’altopiano iranico, nonché di alcune regioni dell’Anatolia,
dell’Asia centrale e della Cina occidentale.
Si tratta di una struttura ipogea ricoperta da più di
3500 mq di dipinti che illustrano il viaggio nell’aldilà di Nefertari. Tutto il
soffitto è un intero cielo stellato di un intenso blu scuro.
.
Si tratta di un aspetto molto affascinante in quanto la
stella a 5 punte è la raffigurazione del pentagramma, della stella pitagorica
ed è la figura geometrica costruita sulla base della sezione aurea, proporzione
e dimensione già nota agli Egizi.
Queste distese di stelle, generalmente, non hanno
riferimenti astronomici ma in alcuni casi gli astri sono raffigurati in modo
tale da far pensare a delle vere e proprie mappe stellari.
Le rappresentazioni più antiche di mappe stellari sono in
Europa senza dubbio i frammenti rinvenuti nei Templi megalitici di Malta 3.600 a.C. ed il manufatto noto come Disco di Nebra, rinvenuto in Germania
quindici anni fa ma risalente a non più tardi del 1.600 a.C.
Nel corso dell’arte classica è difficile trovare grandi
esempi di cieli stellati. Qualche frammento fittile di epoca greca mostra il
Dio Eosforo che porta la luce del mattino accompagnato da qualche sporadica
stella (raffigurata in questo caso con sedici raggi).
Il cielo stellato interamente a coprire la volta interna
lo ritroviamo significativamente a Padova, in un altro scrigno pieno di colore
e bellezza. È la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto intorno al 1300
con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
Qui la volta a botte è interamente dipinta di blu
oltremare, colore associato alla sapienza divina e ottenuto con preziosa
polvere di lapislazzuli,
San Gimignano
mentre le stelle dorate ad otto punte sono leggermente in
rilievo rispetto alla superficie della volta.
Quello degli Scrovegni non è un caso isolato. Nel basso
Medioevo, infatti, so no molte le chiese con volte dipinte a cielo stellato
(basta ricordare le crociere della Basilica superiore di San Francesco ad
Assisi, o quelle della cattedrale di Siena o del Duomo di San Gimignano).
Nello stresso periodo si possono trovare esempi anche
fuori dall’Italia, come nella tardogotica cappella di San Biagio nella
Cattedrale di Toledo o nella coeva chiesa di Santa Maria a Cracovia.
Il cielo stellato nelle chiese va ben oltre il mero
significato della volta celeste, esso idealizza, come studio
“scientifico” e speculazione filosofica, il cielo dei giusti e dei
santi. Proprio l’enfasi religiosa ha determinato la diffusa credenza che il
cielo sia sede di esseri superiori che, guardando verso il basso, trovavano
divertimento nell’osservare la vita e le gesta dei deboli abitanti della Terra.
Prima del Cristianesimo solo gli uomini migliori ovvero
gli “eroi” erano degni dell’interesse divino ed alcuni, per la loro
prodezza in battaglia o per un ‘altra non comune qualità, venivano addirittura
divinizzati, quali semi-dei.
È chiaro quindi come la sede celeste sia sempre stata
considerata simbolo di ciò che vi è di superiore, essendo riservata normalmente
ad esseri divini e, solo saltuariamente, a quei rari uomini che avessero
dimostrato qualità eccezionali per nascita o, più raramente, per libera scelta.
La volta stellata rappresenta l’incomprensibile,
l’infinito e, non ultima, la speranza in un futuro migliore, immateriale, una
dimensione che liberi l’umanità dalla sofferenza della vita terrena, meglio se
per l’eternità: un luogo in cui lo spirito possa riscaldarsi attraverso
l’irraggiamento diretto della fonte di “luce” primigenia[2].
Della fine del Quattrocento è la testimonianza di un
altro cielo stellato sulla volta di una cappella. Ma la notizia, stavolta, è
quella della sua scomparsa, ovvero all’affresco di Piermatteo d’Amelia che
ricopriva il soffitto della Sistina prima dell’intervento di Michelangelo.
Pochi anni dopo, nella seconda metà del Cinquecento un
altro splendido soffitto stellato posto a copertura della Cappella Reale di
Hampton Court, uno dei palazzi reali eretti da Enrico VIII in Inghilterra.
Secondo lo stile dell’epoca si tratta di particolare due opere che compone.
“Quatour por la fin du temps” e “Le visioni dell’Amen”.
I colori che Messiaen trasfigura nei suoni – quello
sfolgorante arcobaleno sulla testa del settimo Angelo, le colonne di fuoco, il
blu del mare, il verde della terra, e tutti gli altri colori dell’Apocalisse –
appaiono vividi e smaglianti nei sogni dell’autore. I colori diventavano suoni
e i suoni si coloravano di blu e arancio, di limpida luce stellare. Un
suono definito da tutti limpido come un cielo stellato. E il silenzio – grande
solenne che segue l’apertura del settimo sigillo – non rappresenta tanto un’eco
dilatata degli ambigui e oscuri silenzi del cielo notturno, quanto il sogno di
una quiete inesprimibile.
Il cielo stellato come metafora dell’attesa del giudizio
per tutti
gli esseri viventi, da contemplare, da rispettare, da
osservare e cercare di comprendere. Chissà. Forse possiamo anche noi oggi
provare a capire che cosa significa Apocalisse, come ha fatto Olivier Messiaen
e dalla visione privilegiata del cielo stellato del Tempio Massonico possiamo
trarne un insegnamento per il nostro tempo e per la crescita di ognuno. Non a
caso nella composizione della Visioni dell’Amen [3][4]dopo l’Amen della creazione, segue l’Amen delle stelle, per chiudere con
l’Amen del Giudizio e l’Amen della Consumazione.
Ma se l’arte ha saputo nella storia interpretare ed
utilizzare il cielo stellato per le proprie esigenze queste non hanno mai contribuito
in forma diretta ad una ritualità, ad una liturgia. Il Cielo stellato ha
costituito un “naturale e semplice” collegamento tra la terra (luogo
degli uomini) e l’infinito (luogo della divinità) e da tutti ampiamente e
pienamente utilizzato, come abbiamo potuto vedere.
Da questa semplice e non esaustiva carrellata di esempi
(gli esempi non sono mai abbastanza) emerge però un singolare e importante
dato: il cielo stellato non è il punto di arrivo ma un mezzo attraverso il
quale sia possibile raggiungere la divinità. Il cielo stellato non come meta ma
come filtro, come elemento mediale in un sistema di rapporti tra uomo e sua
trascendenza.
Che sia esso particolarmente dettagliato o semplicemente
sfumato, semplice o prezioso nei materiali esso non “contiene” mai la
divinità ma la “vela”, la cela e la contorna.
L’uomo dovrà attraverso la sua conoscenza mediare tra
terra e divinità attraverso il cielo come metafora di ascesa. Verso il cielo il
bene, al suo opposto il male.
Terra come
elemento di mediazione con gli lnferi, cielo come elemento di mediazione con il
Divino.
Quale rapporto
esiste allora tra l’uomo e il cielo? È il medesimo che esiste tra l’uomo e la
terra?
Corpus Massonico
Se il rapporto con il cielo è verso l’alto quello con la
terra è verso il basso è il caso di ricordare uno dei due incipit del presente
lavoro:
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è
in alto è come ciò che è in basso
Il Tempio massonico
è la peculiare rappresentazione di quanto scritto nella tavola smeraldina, non
per mera definizione e attribuzione ma per specifico sistema.
La ritualità si
svolge sopra un pavimento a scacchi e sotto la volta celeste e da questi due
elementi è “contenuta”.
Il Tempio dei
liberi muratori è trasposizione simbolica di un tempio ipetrale[5],
cioè un tempio a cielo aperto. È noto che in antico le riunioni massoniche
avvenissero en plein air. Perciò nel soffitto delle officine si apre un
riquadro rettangolare (affrescato) che simula la volta celeste trapuntata di
stelle.
21 x 29,7 cm, 2007, Éditions Durand
L’uomo ha da sempre
levato al cielo, con primordiale stupore, il proprio sguardo interrogativo. Il
Dante esoterico, summa della sapienza medioevale e fedele d’amore, fa sì che
ciascuna delle tre cantiche della Commedia termini menzionando le stelle: e
quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno)
/ puro e disposto a
salir alle stelle (Purgatorio) l’amor
che move il sole e l’altre stelle (Paradiso)
Alla luce di alcune
definizioni che abbiamo potuto percepire nell’excursus artistico possiamo
affermare che l’uomo ha il dovere morale di tendere verso l’alto e quando
questo viene meno la mediazione con la terra è “governata” dal
pavimento a scacchi che concede, ricorda e riallinea chi lo percorre
permettendo di riprendere il giusto equilibrio, mentre la mediazione verso
l’alto è “governa” dal cielo stellato ovvero un “velo” o
filtro rispetto alla Divinità alla quale tendiamo elevandoci attraverso la
scala di Giacobbe che percorriamo esercitando le virtù su di esse adagiate e
che incontriamo nel nostro cammino.
Il Tempio Massonico non è una porzione da cui osservare
l’universo ma è l’intero Cosmo, uno spazio aperto che non ha pareti, ma essendo
esso stesso Cosmo è impossibile delinearne le dimensioni e ovviamente è
impossibile definirne le “visioni”. Questa o quell’altra
costellazione sono semplice scelte poiché la volta celeste è simbolicamente
rappresentata ma non definibile.
Il cielo stellato prescinde da ciò che in esso è
rappresentato.
A Gerusalemme, in una caldissima sera d’agosto poco prima
dell’avvento del Messia…
“Il
“Gadol Cohen ” si svegliò presto quella notte e volle riguardare
ancora una volta quello spettacolo nel cielo che già aveva ammirato la sera
prima. Uscì dall”‘Ulam ” del Tempio, in quell’afosa serata estiva,
scandita dalle folate di un vento caldo, passando accanto alle colonne
“Boaz” e “Jachin”. Uscì sulla spianata del Tempio ed il suo
sguardo, dopo aver superato, alla sua sinistra, lo “lam Mutzach ” si diresse verso il cielo, con
un moto di devoto rispetto, ‘tle-Qedem “.
Il sole sarebbe
sorto in quel punto soltanto 2 ore più tardi, ma qualche pallida luce iniziava
già ad annunciare timidamente l’alba. Lì, poco più in alto della linea
dell’orizzonte, si posò il suo sguardo, su quel punto del cielo chiamato dagli
astronomi del suo paese “Sartan “. Quasi al centro di questo settore,
gli avevano insegnato, c’era un punto divino, davvero importante per tutti loro
e per il Creatore.
Era un piccolo e ristretto agglomerato
grigio di stelle, dalla luce fioca e lontana, chiamato “SharAischim ”
Era quasi un punto, gli aveva spiegato il suo vecchio maestro rabbi, in cui la
volta celeste era più sottile e le anime degli uomini scendevano tutti i sette
cieli, provenienti dal “Magazzino delle Anime”, per incarnarsi nei
loro corpi, seguendo i dettami della “Shevirat Ha-Kelim “, soltanto
per volere del Creatore oppure risalivano lungo la scala di Giacobbe, secondo
principi e virtù.
Due piccole fioche
stelline20 erano poste ai lati della ‘Porta”, una un po’ a nord
e l’altra un po’ più a sud, quasi a sorvegliarne e custodirne con rispetto il
sacro accesso. Con umiltà pensò che anche la sua anima avesse fatto un giorno
quello stesso tragitto, ed i suoi occhi brillarono di commozione, ma ricordò
anche che, spesso, alcuni corpi celesti (Pianeti) vi finivano ‘dentro’ nel
corso dell’anno. E quello, per tutti loro, era sempre un grande momento per
onorare la magnificenza del Creatore. Anche quella sera stava succedendo quel
momento meraviglioso e davvero speciale: il rosso “Maadim ‘ era proprio dentro
alla “Porta”, ma c’era anche di più. La bianca “Nogah ” era
posta un poco più a sud, ma davvero molto vicina alla “Shar Aischim”
ed a “Maadim” che vi stava dentro in quel momento. Quello era un
presagio nel cielo che sembrava fatto apposta per segnalare un evento davvero
speciale, da ricordare per tutti loro, e che era stato scritto per sempre fra
le stelle “
Il cielo stellato, tra tutti gli spettacoli della natura,
è quello che più è capace di scuoterci profondamente, stimolando la riflessione
sulla nostra natura e sul “senso” della nostra esistenza, il cielo
stellato è sentito come irraggiungibile, come ‘ultimo orizzonte” oltre al
quale, al pari della siepe dell’infinito di Leopardi, non possiamo avventurarci
se non con il pensiero. La sensazione di irraggiungibilità e di estensione
illimitata nello spazio e nel tempo, suscitata dalla visione del cielo stellato
genera in noi una mescolanza di sentimenti di ammirazione, per l’imponenza ed
immanenza del Cosmo, e contemporaneamente di angoscia, nel momento in cui
confrontiamo la nostra limitatezza con l’infinità del cielo. Il cielo è
riprodotto sulla volta del tempio che non è, appunto, un luogo delimitato ma è
l’intero cosmo nel cosmo.
La volta celeste posta sopra il Tempio, a prescindere dal
suo contenuto fisico o della costellazione in essa rappresentata rappresenta
anche un altro principio, spesso dimenticato della Massoneria, ovvero la
crescita personale di ognuno Massone e il suo miglioramento personale.
Così come ci ha ricordato il G.M. nella sua ultima
allocuzione[6]riportando la definizione di “religioso” delle scuole del
Vedânta e della dottrina religiosa del Giainism0 [7][8]per le quali la Religione non è altro che il rapporto personale con un
essere divino o trascendente a cui ci sottomettiamo e a cui rivolgiamo le
nostre preghiere, per ottenere vantaggi materiali, oppure illuminazione
spirituale, o morale e il cielo è universalmente il simbolo delle potenze
superiori all’uomo, benevole o temibili.
In antichità gli Auruspici Etruschi indicavano con la
presenza o assenza delle Stelle il «carattere» del Cielo, del Numinoso. In
presenza di Stelle il responso divino è benevolo, al contrario un Cielo
tempestoso rivela la collera divina.
Il cielo del Tempio
è stellato, dunque benevolo.
Il Cielo rappresenta tutto ciò che sovrasta l’uomo,
l’insondabile immensità, la sfera dei ritmi universali. Tutti gli esseri sono
prodotti dall’unione «coniugale» del Cielo con la Terra, del Padre Celeste con
la Madre Terra. In Egitto, però, curiosamente le polarità s’invertono. La dea
Nut è celeste, il dio Geb terrestre: dalla loro unione nascerà, il Sole.
Nelle religioni orientali come l’induismo, il taoismo e
lo shintoismo, il cielo stellato è spesso visto come un segno di una presenza
divina. In alcune tradizioni, le stelle sono associate a divinità specifiche e
il loro movimento è interpretato come un segno di volontà divina. Ad esempio,
nell’induismo, le stelle sono associate ai pianeti e il loro movimento è usato
per la previsione astrologica. Nel taoismo, il cielo stellato rappresenta la
totalità dell’universo e il suo ordine cosmico. Inoltre, nello shintoismo, le
stelle sono considerate una manifestazione della presenza divina in cielo.
Nelle tradizioni esoteriche e spirituali, il cielo
stellato ha un significato simbolico profondo. Ad esempio, nella Cabala
ebraica, le stelle rappresentano gli spiriti degli uomini giusti che hanno
raggiunto la purezza spirituale. Nell’alchimia, le stelle sono viste come
rappresentazioni dei diversi elementi e forze cosmiche che influenzano il mondo
materiale. Inoltre, nell’astrologia, le posizioni e gli allineamenti delle
stelle al momento della nascita di un individuo sono visti come influenti sulla
sua vita e il suo destino. In molte tradizioni spirituali, il cielo stellato
viene anche associato alla conoscenza divina e alla via verso l’illuminazione
spirituale
Nell’Apocalisse il Cielo è la dimora di Dio; al
contrario, i Celti non pongono in Cielo la residenza degli Dei. Nella
cosmologia dei popoli uralo-altaici vi sono nove cieli, raffigurati attraverso
tacche incise sull’Albero del Mondo, la Betulla.
Nella mistica sufi, le stelle sono viste come simboli
dell’infinito e dell’eternità, e la contemplazione del cielo stellato viene
considerata un modo per avvicinarsi a Dio e alla verità divina.
Per gli Algonchini americani26 i cieli sono dodici;
mentre gli Aztechi parlavano di tredici cieli e nove mondi inferiori27.
L’espressione «Figlio del Cielo e della Terra» appartiene sia ai Misteri
Orfici, sia al Taoismo. Il Figlio del Cielo e della Terra è l’Imperatore (Wang)
come archetipo del Vero Uomo, dell’lniziato.
La disposizione della Loggia varia secondo i Riti ma
esistono regole assolutamente obbligatorie da osservare: la Loggia, di forma
rettangolare. rappresenta il cammino che conduce dall’Occidente all’Oriente,
cioè “verso la Luce”: il Trono del Venerabile all’Oriente, il suo
lato destro indica il Mezzogiorno, il lato sinistro il Settentrione. Il
soffitto rappresenta il cielo stellato. Infatti il Tempio simbolizza il Cosmo:
ecco perché pur conoscendone le “proporzioni” non esistono
“dimensioni”: la sua lunghezza va dall’Occidente all’Oriente, la sua
larghezza dal Settentrione al Meridione, la sua altezza dal Nadir allo Zenit.
La contemplazione del cielo stellato viene vista come un
modo per aumentare la consapevolezza di sé, per connettersi con la dimensione
cosmica e per raggiungere una comprensione più profonda della realtà.
Il Tempio o Loggia è un luogo aperto e questo è anche
fisicamente riscontrabile nella tavola di tracciamento di I grado dove non
esistono pareti o limiti fisici in nessuna direzione, limitato per essere
utilizzato in basso dal pavimento a scacchi e in alto dal cielo stellato.
Il cielo stellato rappresenta la divinità, la saggezza e
l’ordine cosmico e simboleggia la presenza divina nell’universo. Il cielo
stellato della Sala del Tempio costituisce sostanzialmente ad un invito a
raggiungere una comprensione più profonda della realtà e a cercare la verità.
Esso rappresenta la necessità di mantenere un ordine e una struttura nella
propria vita, come nel cosmo: le stelle rappresentano gli ideali e i valori che
i massoni cercano di perseguire nel loro cammino spirituale e nella vita quotidiana.
Quando una
Loggia è impegnata nei lavori rituali questi vengono svolti sotto un cielo
stellato e testimonianza del rapporto trascendente che esso ha con l’uomo.
Questo rapporto è visto come un legame che supera la dimensione materiale e che
connette l’iniziato con una realtà più grande e divina.
Nel platonismo, il cielo stellato rappresenta la
dimensione delle idee eterne e l’uomo è invitato a elevarsi verso di esso per
raggiungere una comprensione più profonda della realtà così come l’iniziato
avendo accesso agli “strumenti” può andare oltre il semplice sguardo
profano.
Nel neoplatonismo, il cielo stellato è visto come una
manifestazione della divinità e la contemplazione delle stelle è considerata un
modo per avvicinarsi a Dio, ragione per cui i nostri lavori si definiscono
“rituali” essendo la ritualità l’unica strada che conduce alla
Divinità.
Pur avendo visto le molte rappresentazioni nelle diverse
arti del cielo stellato possiamo concludere che esso è sempre e assolutamente
un riferimento esoterico e spirituale se posto come coronamento, sfondo o
completamento di gestualità rituali o luoghi significativamente
“rituali”. Il cielo stellato è sempre associato all’anima umana e
alla sua dimensione spirituale, e la contemplazione del cielo stellato è sempre
vista come un modo per raggiungere una comprensione più profonda di sé e della
realtà, per il Massone una perfetta via da percorrere, come un ideale
“Cammino di Santiago” lungo la Via Lattea.
La volta stellata è anche il simbolo dell’ideale di
fratellanza, ciascun fratello è avvolto dalla stessa volta celeste, uniti l’uno
all’altro dalle stesse luci e dallo stesso mistero, dallo stesso segreto; il
fratello di Loggia è uguale, per ideale di fratellanza, al fratello di un altro
differente luogo sulla terra, uguale al fratello di qualsiasi altra lingua
troppo lontano fisicamente per essere incontrato nella vita profana. Il cielo
della volta stellata del tempio, benché notturno, lo testimonia la presenza
delle stelle, non è nero ma turchese colore di un momento particolare del
giorno, quello dell’idea che, una volta infranto il velo della Notte, precede
l’Alba e il Sorgere del sole della fratellanza.
Non ha valore rituale, quindi, questa o quella
costellazione, il cielo stellato della Loggia, come in arte, non determina il
valore esoterico del Tempio. Non importa quale sia la sua rappresentazione e
cosa contenga – che rimane una libera scelta – ma l’importante è che ci sia
poiché è un “simbolo”!
L’Iniziato che percorre la
Via Iniziatica è in grado di ascendere al Cielo. Non si tratta di ottenere la
Salvezza con la fede, quanto di ascendere al Cielo, diventando Divino.
[1] Dal termine
indoeuropeo Tem. Il sistema morfologico dell’indoeuropeo (così come
il sistema
fonologico e in genere tutta la grammatica di questa
lingua)
è una ricostruzione frutto del confronto tra le lingue indoeuropee di attestazione
più antica
e, in mancanza
di queste,
tra le
lingue moderne, ipotizzandone una origine comune. L’indoeuropeo è infatti
l’ipotetica protolingua preistorica ricostruita che si ritiene comunemente
essere
[2] Cfr. Michele
Galassi – La volta celeste, il paradigma ermetico
e la “coincidenza de lio osti” – Ma io 2015
[3] Parola ebraica
(‘âmën), passata anche in altre lingue semitiche (siriaco, etiopico, ecc.),
nelle versioni greche e latine del Vecchio Testamento e nei varî testi del
Nuovo. Deriva dalla radice semitica ‘mn col senso “sostenere, esser
saldo”, quindi “esser sicuro, certo, veritiero”
[5] Si chiama
così l’edificio, in particolare il tempio, privo di copertura nella parte
centrale. Nessun tempio conosciuto era esattamente del’ tipo descritto da
Vitruvio (III, 2) come ipetrale; vi si accostavano l’Olympieïon di Atene
e il tempio
di Apollo
a Selinunte.
cfr. A.
Choisy,
Vitruve, l, Parigi 1909, p. 165
[6] Cfr. Religione e
Sacro – Allocuzione nella Gran Loggia del 5 novembre 2022 Fabio Venzi
La formazione, o forse in alcuni casi la deformazione
scolastica, ha sempre ridotto la lettura delle favole a puri esercizi di
traduzione di testi ritenuti facili per grecisti e latinisti alle prime armi.
Si impone già a questo punto una prima osservazione; se è
vero che gli apologhi che vanno sotto il nome di Esopo, sono una lettura
semplice, altrettanto non può essere detto delle favole di Fedro ed ancora meno
di Aviano, grande ammiratore di Virgilio dalla cui opera “prese in
prestito”, secondo il costume degli antichi che non aveva diritti di
autore e non conoscevano il plagio come reato, non soltanto espressioni ma
anche interi emistichi
La favola, del resto, è sempre stata considerata il mezzo
di insegnamento, per eccellenza sia per la forma sia per il contenuto: i
discipuli romani faticavano traducendo dal greco al latino, versificando la
prosa o parafrasando la poesia. Ma i maestri conoscevano anche le virtù
educative della sostanza se Quintiliano raccomanda alle nutrici di raccontare
ai piccoli le aniles fabellae, per
poi passare, quando più grandicelli, alle fabulae
esopiche.
Tuttavia stimo che per capire veramente la favola, la sua
tradizione, l’ immensa produzione e la sua continuità, potremmo quasi dire,
immortalità, bisogna rifarsi al significato della parola e dei suoi sinonimi ed
alla loro etimologia. Nella tradizione occidentale RoyoÇ, uveoÇ, efabula hanno, in origine,
soltanto il significato di “parola”; questo evidenzia l’ antichità
del genere che certamente preesistette la scrittura. E se non abbiamo
conoscenza di favole greche appartenenti ad un’epoca anteriore al VI secolo ed
attribuite ad un leggendario scrittore di nome Esopo, non è difficile
immaginare che brevi racconti di questo tipo circolassero oralmente —
ricordiamo che anche i poemi omerici furono “scritti” secoli dopo la
loro creazione. La letteratura orientale, assiro-babilonese ed indiana avevano
conosciuto e coltivato la favola da lunghissimo tempo.
La continuità della produzione favolistica ha pochi altri
paralleli nella storia letteraria; infatti, oltre a favole occasionali inserite
in altre opere, generalmente per spiegare o illustrare, non si contano le
raccolte vere e proprie greche (Esopo e Babrio), romane (Fedro ed Aviano),
medioevali, in versi e prosa, ad imitazione di quelle antiche (l’Esopo di
Ademar, di Wissembourg, le compilazioni che vanno sotto il nome Romulus). I
contatti che nel medioevo si svilupparono con il mondo arabo ed orientale
trasformarono la favola accentuandone il contenuto didattico applicato
soprattutto alla predicazione ed alla delucidazione delle Sacre Scritture:
nacque la letteratura degli exempla come nel Directorium humanae vitae di
Giovanni da Capua, gli Exempla di Jacques de Vitry, gli Specula di Vincent de
Beauvais e laDisciplina Clericalis di Petrus Alphonsus. Si formarono anche le
epopee animalesche, sempre vere e proprie allegorie, che giungeranno al
celeberrimo Roman de Renart del sec. XVI.
Il periodo umanistico — rinascimentale vide una ricca e
varia fioritura di favole: si riportò alla luce l’Esopo greco, si riscoprirono
manoscritti di Fedro, si tradussero dal greco intere collezioni o antologie
(Lorenzo Valla, Ermolao Barbaro), favole furono scritte da personaggi illustri
come Francesco Filelfo, Leon Battista Alberti, Lorenzo Bevilacqua (Abstemius),
Gregorio Correr, Bartolomeo della Scala, Marsilio Ficino, Giovanni Pontano,
Gabriele Faerno, Leonardo da Vinci, il Fiorenzuola, il Doni… e si potrebbe
continuare perché non vi fu scrittore nei secoli XV e XVI che non parlasse di
favolistica o non la usasse o non producesse opere nuove.
Una delle particolarità del periodo umanistico —
rinascimentale è l’ arricchimento dei protagonisti delle favole e, con la
riscoperta di Platone e dei neo platonici, il passaggio ad un vasto uso del
mito nella filosofia. In origine gli attori delle favole erano quasi
esclusivamente animali, dotati di tutte le caratteristiche umane, positive e negative,
individuali e sociali; piante, oggetti ed astrazioni erano rari nella favola
vera e propria. La favola parlava soprattutto agli umili ai quali, dice Fedro,
non era permesso neppure mormorare, si rivolgeva ai semplici per mostrare loro
“la vita ed i costumi degli uomini” , rendere accessibile la parola di
Dio. Nei miti antichi apparivano gli dei che sono allegorie di concetti
astratti o rappresentazioni di una serie di virtù, vizi, attività ma anche
tentativi di dare una interpretazione a ciò che non era possibile spiegare
scientificamente. Il contenuto ed il linguaggio diventano più sofisticati, più
dotti e su ogni fenomeno si crea un mito. Il Massone pensa subito alla
allegoria legata alle stagioni, a Iside ed Osiride, Demetra e Persefone.
La favola che generalizzava, che semplificava concetti
complessi, che in altre parole era essoterica, diventava, o meglio, ridiventava
esoterica, si trasformava in linguaggio simbolico, manifestazione di un
processo mentale che dal concreto andava verso l’astratto, dalla scienza alla
filosofia. Sempre più essa rispondeva ad una delle sue più antiche definizioni
“racconto inventato che rappresenta una venta Marsilio Ficino finiva la
traduzione di Platone nel 1468, di Plotino nel 1492 e soprattutto il Corpus
Hermeticum nel 1463. La riscoperta e la rilettura dei miti platonici, la filosofia
ermetica portano I ‘uomo a guardare aldilà del mondo, a procedere oltre il
fisico, il sensibile ed il tangibile sono la veste della Verità. Tutto nel
mondo che ci circonda è simbolo che rimanda ad altro, tutto è manifestazione
dell’invisibile.
Per il Massone l’insegnamento di Ficino è prezioso, con
l’iniziazione “si schiude la favola bella” del cammino verso la luce.
Ma come si può dare un insegnamento a chi non sa “né leggere né
scrivere”, a chi è, etimologicamente, infante ? attraverso i segni, i simboli,
le favole.
Tutto all’ interno del Tempio, nella ritualità, nelle
insegne, nei paramenti, nei miti dei gradi è linguaggio allegorico che rende
viva la Tradizione. Pensiamo alla leggenda di Hiram che nel R.S.A.A. si svolge
attraverso vari gradi e porta con sé i principali contenuti dell’etica
massonica, grande etica della vita.
Tocchiamo un altro, degli infiniti aspetti della favola:
la sua morale, esplicita o implicita rivelatrice dell ‘etica umana. Nel corso
dei secoli nella letteratura mitica sono stati toccati tutti gli aspetti del
carattere dell’uomo, i rapporti con se stesso e con gli altri, la vita sociale,
le idee politiche, le tesi filosofiche, le grandi problematiche dell’
esistenza. Eppure Fedro constatava con amarezza che la favola non apparteneva
ai grandi generi letterari, era un po’ disprezzata perché considerata un
semplice divertimento, o una letteratura per gli incolti . Io direi che tale la
consideravano i ciechi, coloro che non volevano VEDERE, i pectora caeca di
lucreziana memoria.. Così chi varca la porta del Tempio ma continua ad usare
soltanto gli occhi fisici e non quelli della mente e dello spirito, considera
tutto, per conseguenza logica, mera cerimonia, storia noiosa e superflua,
apparati desueti e ridicoli e massone non è anche se ne riveste le insegne.
” Senza la Vista non più immaginazione, non più ideale, non più vita:
l’uomo stesso senza la Vista sarebbe come un morto nella vita stessa. •
IL RUOLO DELLA SCIENZA E DELLA
CULTURA NEL MONDO DI DOMANI
di
Baldo Conti
Introduzione
Il presente contributo, sul futuro ruolo della
scienza e della cultura, non sarà certo dei più facili, almeno se si vuole
“rimanere” con i piedi in terra, senza sconfinare nella retorica e
nel “già detto”, ma cercherà comunque – nei limiti del possibile – di
essere un concreto ed originale aiuto per la soluzione dei nostri travagli
esistenziali, non certo “gratuiti” e fittizi, come un esclusivo fatto
culturale, ma effettivi. Contemporaneamente il nostro impegno sarà anche quello
di non far stancare e distrarre i lettori più del necessario, considerata anche
la presunta astrusità dell ‘argomento non da tutti facilmente
“digeribile”
Come sempre, in qualsiasi contesto ci troviamo,
occorre definire fin dall ‘ inizio e mettersi d’accordo sul significato che si
intende dare alle nostre parole. In questo caso è d’ obbligo chiarire cosa si
intende per “scienza” e cosa per “cultura”. Spesso
riteniamo di conoscere sufficientemente bene il significato delle parole che
usiamo, ma in frequenti occasioni siamo costretti a registrare la nostra
“ignoranza”, in altri contesti riteniamo che il significato che noi
diamo ad un termine sia lo stesso dei nostri interlocutori, ma non sempre è
così e molte delle incomprensioni e delle discussioni derivano anche da una differente
interpretazione dei significati di parole e concetti. Per “scienza”
(dal latino “sapere”) dobbiamo intendere il risultato di operazioni
del pensiero come oggetto di codificazione su piani teorici ed applicativi in
ambito pratico; conoscenza esatta e ragionata acquisita grazie allo studio ed
all ‘esperienza; insieme di discipline essenzialmente fondate su calcoli ed
osservazioni; complesso organico e sistematico di conoscenze di cui si dispone
intorno ad un determinato ordine di fenomeni. In sintesi, possiamo definire la
scienza quell ‘insieme di cognizioni che abbiamo la possibilità di acquisire in
base allo studio, all ‘osservazione ed all’esperienza diretta e risultanti da
precisi calcoli e deduzioni su fenomeni di varia natura posti anche su
molteplici livelli.
Per “cultura” (sempre dal latino,
“culto”, “cultura”) dobbiamo intendere invece il complesso
armonico delle cognizioni di una persona, formato dalla propria sensibilità,
dalla propria esperienza, da tradizioni, procedimenti tecnici e tipi di
comportamento; tutto ciò che concorre alla formazione individuale sul piano
intellettuale e morale ed all’acquisizione della consapevolezza del ruolo
assunto nella società; “patrimonio” di conoscenze. In sintesi, la
cultura è il nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandatoci, è il substrato
indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è l’origine ed il
punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro
patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche l’unica nostra
“vera” proprietà che nessuno ci potrà mai usurpare, e tutto questo
sia a livello personale sia come popolo sia
come etnia.
Stabilito il significato da dare a
“scienza” e “cultura” – e su questo almeno, c’è da
ritenere, dovremmo concordare tutti, perché le definizioni sono un fatto di
lingua e non sono un’opinione ed in ogni caso è questo il significato
attribuito in questo nostro contesto a questi due termini – addentriamoci un
po’ più profondamente nell ‘esame del problema posto, non perdendo mai di vista
il fatto che siamo massoni, ma anche “italiani”, con tutti i nostri
pregi ed i nostri, e non sono pochi, difetti. Di conseguenza nel corso del
nostro esame dovremmo dimostrare, più che altro a noi stessi, anche di essere
uomini liberi e di buoni costumi, aperti alle novità e proiettati nel futuro,
non troppo ancorati e schiavi del passato e delle tradizioni che spesso sono un
substrato insostituibile ma anche un peso dal quale è difficile liberarsi, non
afflitti da pregiudizi e da preconcetti, lontani da integralismi e da dottrine
dogmatiche di qualsiasi tipo, ma sempre animati invece da quell
‘indistruttibile senso di civiltà e di miglioramento individuale e collettivo
che dovrebbe distinguerci, disposti sempre fraternamente verso il prossimo che,
ricordiamolo, non è composto solo dall ‘uomo ma da tutto ciò che ci circonda e
che comprende animali, piante e tutta la natura, “inanimata”
compresa.
Come in ogni ricerca seria che si rispetti,
prenderemo prima in considerazione il ruolo della scienza e poi quello della
cultura, secondo l’ordine della loro apparsa nel titolo, accennando per forza
anche un po’ al nostro passato ed al nostro presente, e successivamente
trarremole nostre conclusioni se riusciremo ad individuarne qualcuna, con
l’augurio di poter stilare una bozza di comportamento da utilizzare in un
eventuale futuro anche se, di questo prossimo terzo millennio, i più fortunati
di noi riusciranno ad intravederne solo l’inizio. Ma come già affermato in
altre occasioni ciò che conta è stabilire la nostra “buona rotta” e
proseguire nella direzione che riteniamo giusta senza preoccuparci troppo di
quanta strada riusciremo a poter percorrere.
La
scienza
Abbiamo accennato in precedenza che possiamo
definire la scienza come quell ‘insieme di cognizioni che abbiamo la
possibilità di acquisire in base allo studio, all’osservazione e all’esperienza
diretta e risultanti da precisi calcoli e deduzioni su fenomeni di varia natura
posti anche su molteplici livelli. E vediamo il perché. Fin dagli albori della
storia umana che conosciamo, ma sicuramente anche molto prima dell’epoca
“storica”, I ‘uomo si è sempre confrontato con la ricerca e la
scienza e si presume, spesso, anche senza rendersene conto. La
“scoperta” della ruota e del fuoco, la fusione dei metalli, l’utilizzazione
della forza di gravità, la selezione delle razze animali per allevamento – ma
potremmo fare un elenco molto lungo – sono stati un approccio empirico al mondo
scientifico del quale l’uomo primitivo ne ignorava presumibilmente anche I
‘esistenza come già detto.
Le varie “discipline” furono ancora
indagate ed approfondite, ma potremo dire sempre in maniera per noi oggi
“superficiale” ed approssimativa e non certo sistematica, fino ad
arrivare a Galileo Galilei (1564-1642) che – con i suoi studi di geometria,
astronomia e fisica – può senz’altro essere considerato il primo ed effettiVo
scienziato “moderno”. Con lui ebbe inizio infatti l’attuale metodo
sperimentale che ancor oggi è di base a qualsiasi tipo di ricerca scientifica e
che sicuramente lo rimarrà per molto, molto tempo ancora. Partendo da Galileo e
dalla sua teoria del “sistema eliocentrico” si è avuta una vera e
propria esplosione nella ricerca e nella sperimentazione in tutti i campi e,
con l’aiuto della tecnica a disposizione, sono state raggiunte mete
impensabili, specialmente in questi ultimi anni, nella chimica, nella medicina,
nella fisica, nelle conquiste spaziali e nelle discipline scientifiche in
generale.
La visione galileiana della natura ci ha aperto le
porte verso un mondo nuovo, immenso nei confini e nelle esperienze, senza
limiti nel tempo e nello spazio e quindi senza limite in tutte le direzioni.
L’uomo in breve tempo si è riscattato dalla fatica, in parte dalla
“paura” ed ha raggiunto una posizione di supremazia nei confronti di
tutto il resto del creato. Anche se il sogno di poter “dominare” la
natura rimane fortunatamente ancora un sogno, l’uomo si trova comunque davanti un
futuro fitto di incognite, di interrogativi e di nuovi tipi di paure. Il timore
di non poter disporre pienamente dei “giocattoli” che si è costruito,
che qualcosa possa sfuggirgli di mano, che non riesca a conoscere fino in fondo
ciò a cosa potrà andare incontro con le sue “scoperte”, lo rendono
parzialmente dubbioso, interdetto ed impaurito.
Per questa ragione ampi dibattiti si sono aperti sull
‘opportunità di proseguire alcuni tipi di ricerca ed in questa controversia, a
torto o a ragione, si sono inserite forze politiche, industriali e religiose.
Ma forse qui, qualcosa non è stata veramente afferrata nel senso giusto: il
principio di scienza e ricerca cosiddetta “pura” in contrapposizione
all ‘utilizzazione pratica dei loro risultati. Vediamo perché. Innanzi tutto
c’è una distinzione doverosa da fare ed è quella di dividere la ricerca
“pura” appunto da quella “applicata”. Per pura si intende
la ricerca “fine a se stessa”, per esempio: il matematico che risolve
un problema astratto di formule e che si era posto il problema
“gratuitamente” senza alcuna “necessità” (anche se in
seguito la soluzione potrà avere un ‘applicazione pratica), lo studio di
Galileo sulle oscillazioni di un pendolo, perché incrociando una gallina bianca
ed un gallo nero abbiamo dei pulcini bianchi, altri neri, ed altri ancora
bianchi e neri (o grigi) in numero costante e sufficientemente prevedibile. Per
applicata si intende invece quella ricerca che viene appositamente finanziata
con uno scopo preciso ed al fine di ottenere dei risultati che diano un
utilizzo immediato e remunerativo come la produzione di un antiparassitario
utile ad un certo tipo di pianta, la possibilità di mettere in commercio un
antibiotico specifico per un certo tipo di malattia, la costruzione di un razzo
e di un satellite per I ‘utilizzazione nelle telecomunicazioni. Ed in genere,
come già accennato, questo tipo di ricerca è sempre sostenuto finanziariamente
perché dia risultati immediati, attesi ed utili, altrimenti l’appoggio ed il
finanziamento decadono.
Quasi sempre – specialmente per coloro che non sono
“addetti ai lavori” – c’è una grande confusione di idee in proposito.
In genere non si riesce mai a distinguere le differenze esistenti tra i due
“sistemi” che pure appaiono macroscopiche, ma si ritiene invece,
erroneamente, che siano la stessa cosa, che la scienza e la ricerca scientifica
siano di un unico tipo. Ma non è così.
La ricerca pura dovrebbe essere “intoccabile” in
quanto porta sicuramente avanti l’umanità nel suo processo evolutivo, tende esclusivamente ad
appurare le ragioni di alcuni fenomeni altrimenti inspiegabili, soddisfa fino
“a prova contraria” con il supporto di teorie ed ipotesi e, diciamolo
pure, anche con la filosofia, tutte le curiosità ed i problemi che l’uomo si
pone sia in ambito materiale sia spirituale.
La scienza o ricerca applicata è ben altra cosa. E’
la utilizzazione parziale di alcuni risultati della ricerca pura, è finanziata
e finalizzata esclusivamente per scopi precisi quasi sempre commerciali, spesso
intacca certi tipi di “morale” in quanto produce qualcosa che
“disturba” (specialmente da un punto di vista economico) alcune
classi o “caste” di cittadini, cerca esclusivamente un utile non
essendo altro che un tipo di “investimento” a carattere finanziario.
E’ evidente che, esclusi per ragioni ovvie, coloro
che sono interessati direttamente in imprese di ricerca finalizzata in senso
applicativo, l’unica “scienza” che noi, come massoni, dobbiamo
prendere in seria considerazione è solo quella pura che è a noi amne e risponde
più ai nostri ideali ed alla nostra ricerca interiore. L’altra, l’applicativa,
potrà coinvolgerci solo marginalmente ed in ambito profano (è più un qualcosa
che riguarda professionalmente i tecnici, i medici, l’industria) e solo nel
caso in cui provochi effettivamente dei traumi sociali e non ci costringa a
fare un calcolo di spese e ricavi.
Ma ricordiamola sempre questa distinzione. La
scienza “pura” – come dice appunto il termine – è pura, è composta di
idee, di “buone” intenzioni, di progresso conoscitivo, di filosofia,
di intuito, è un processo creativo e di conseguenza anche artistico, quindi non
“criticabile” come principio e come “servizio” che rende a
tutta l’umanità.
La cultura
Come indicato nell ‘Introduzione la cultura è il
nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandato che sia, è il substrato
indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è I ‘origine ed il
punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro
patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche I ‘unica
proprietà – come già detto – che nessuno ci potrà mai portare via, e tutto
questo sia a livello personale sia come popolo e come etnia. Ed anche qui
vediamo perché. Innanzi tutto dobbiamo accennare al fatto che secondo alcuni
studiosi è possibile distinguere la “cultura” umana (e quindi
animale) sotto molteplici modalità, ma almeno tre sono gli aspetti principali:
(l) cultura di origine “genetica”, cioè ereditata insieme al nostro
corredo cromosomico ed a tante altre cose utili, dove non è concesso ad alcuno
di poter intervenire (salvo forse oggi a seguito di operazioni di ingegneria
genetica o di mutazioni imprevedibili); (2) cultura tramandataci dal nostro
“gruppo” e dalla nostra famiglia; e (3) cultura appresa per esperienza
diretta.
La cultura trasmessaci geneticamente potremmo
considerarla anche come qualcosa a livello di istinto ed è tutto ciò che noi
utilizziamo appena nati e – come già accennato è comune anche a tutti gli
animali. Rientrano in questo ambito, per esempio, la ricerca da parte del
piccolo del seno materno, il pianto – sempre del piccolo – come
“avviso” di qualcosa che non funziona, il carattere che ci
ritroviamo, la predisposizione al sorriso o al broncio, e così via, che sono
tutti atteggiamenti e comportamenti selezionati nel tempo, nei millenni, e “scelti”
dalla natura per essere tramandati nel tempo proprio perché vantaggiosi alla
nostra specie (come si usa dire in ambito etologico).
La cultura tramandaci dal “gruppo” e dalla
famiglia in genere, è senza dubbio più efficace secondo alcuni, meno secondo
altri (la discussione su questa controversia è senza fine ed è già stata
affrontata in Tavole ed articoli) ed è da considerare sicuramente come
“cultura di seconda mano”. La ragione è semplice. Come è stato
appurato in ambito scientifico il corredo cromosomico di un individuo è un
qualcosa di unico ed irripetibile e personale come lo sono, per esempio, le
impronte digitali. Ed è inoltre da considerare proprio di seconda mano perché
ci è stata “tramandata”, in un certo senso ci è stata proprio
“imposta” dagli altri: dalla nostra etnia (intesa come razza, area
geografica), dal nostro “gruppo” (nazione, discendenza regionale),
dalla nostra famiglia (amici e conoscenti stretti compresi), sotto forma.di
usi, costumi, abitudini, tabù, sensi di peccato e di paura, e così via.
La cultura appresa per esperienza diretta che è quella
che dovrebbe essere effettivamente poi la nostra, quella personale, quella che
in qualche maniera noi abbiamo scelto ed adottato perché rispondente alle
nostre personali necessità. E’ la cultura che abbiamo selezionato nel corso
della nostra vita e che ci è costata molta fatica, con grandi o piccole
vittorie e grandi o piccole delusioni. E sono proprio le esperienze le più
tragiche, le più dolorose e catastrofiche che risulteranno sempre le più utili,
indelebili e rimarranno impresse molto bene nel nostro patrimonio culturale,
nella nostra memoria, e saranno quindi sempre presenti nell ‘approccio ad altre
esperienze successive.
Tutti e tre questi tipi di cultura formeranno, è
ovvio, il nostro cosiddetto “bagaglio” culturale parte ereditato ed in parte
costruito – che ci portiamo dietro da sempre, modificabile e modificato tutti
giorni, anche se forse non siamo in grado di rendercene conto in modo così
evidente. Solo in rare occasi01 ed a certi tipi di “scadenze” (in
caso di malattie, di traumi improvvisi, di “sconvolgimenti” di varia
origin€ noi realizziamo che la nostra cultura e noi stessi ci siamo modificati
(evoluti) rispetto al passato.
Infine, per la cultura, anche se più difficile forse
da individuare, possiamo distinguere – come per I scienza – due tipi di
sistemi: quello della cultura “pura” e quello applicativo. Più
difficile l’ individuazione del suo duplice aspetto proprio perché più labile ed
indeciso il confine di separazione anche se, I commercializzazione della
cultura assurta a fini industriali dovrebbe essere qualcosa di più evidente
tangibile e quindi più facilmente individuabile.
Abbiamo già in precedenza acquisito il principio di
cultura nel suo senso “puro” e possiamo dire ch la sua parte
applicativa è già stata sufficientemente sviscerata quando abbiamo affrontato
in passato i problema della “informazione”. L’ informazione infatti
possiamo identificarla con la cultura “applicata” il quanto non
risulta essere altro che cultura “manipolata” a fini socio-politici e
quindi commerciali e indu striali, ed inversamente, la cultura applicata non è
altro che informazione mirata a scopi “profani” ber precisi. E non è
quindi il caso di soffermarcisi oltre, anche perché è augurabile che a suo
tempo sia stato ben compreso il suo
meccanismo.
L’editoria, i film, la TV e tutti le fonti informative
sono il supporto necessario a questa cultura. informazione applicativa che non
è detto debba per forza essere un qualcosa di negativo, di anti-cultura, d]
dannoso: sarebbe un pregiudizio pericoloso. Possiamo però fare un identico
parallelo come abbiamo già fatto per la scienza.
Conclusione
Dopo tutto quanto esposto, cerchiamo di trarre delle
conclusioni adeguate ed utili sia come massoni all ‘interno dei nostri Templi,
sia come uomini comuni proiettati nella nostra società civile e nel futuro e se
non altro per l’impegno costante nello studio, nella ricerca interiore e nell
‘introspezione; ancor più poi, certamente, da quella di cittadino qualsiasi
nella nostra società più o meno laica e civile. Innanzi tutto, non sembra
proprio che il concetto di scienza e di cultura dovrebbe cambiare nel mondo di
domani e forse anche nei millenni successivi. Certo, potranno cambiare i
dettagli e le tecniche di acquisizione della cultura e del sapere scientifico,
ma i principi essenziali e I ‘esigenza di queste due “discipline”
saranno necessariamente immutate. Non vedo come potremmo pensare una cultura ed
una scienza differenti da come noi la intendiamo oggi, diversamente la cultura
non sarebbe più cultura e la scienza non più scienza, ma sarebbero due cose con
significati differenti dagli attuali e quindi presumibilmente anche con
definizioni e lemmi differenti.
Quindi, è presumibile, che la funzione della scienza e
della cultura continuerà ad essere identica a quella avuta nei millenni
precedenti, precedenti anche alla nascita di Cristo, sicuramente. Queste due
“intuizioni” umane, c’è da ritenere, rimarranno in vita fino a quando
l’uomo rimarrà quello che è, e visto che i suoi cambiamenti
“strutturali” e “psicologici” si verificano molto
lentamente e nel corso di migliaia se non milioni di anni, la vita dell ‘uomo
dovrebbe proseguire anche nel prossimo millennio “tranquillamente
frenetica” ed “angosciata” come si è sviluppata fino ad oggi.
Come abbiamo avuto la possibilità di intuire da quanto
affermato in precedenza, due sono i concetti che dobbiamo tenere ben distinti e
nettamente separati e non quelli di scienza e di cultura, ma di scienzacultura
“pura” e scienza-cultura “applicata”. I due significati
“puri” possono senz’altro essere condivisibili sia dalla nostra
Istituzione sia dai Fratelli massoni perché ci portano a considerare ed
assumere la storia dell ‘uomo fino ad oggi e sono le premesse per un domani che
tutti noi ci auguriamo certamente migliore.
Meno condivisibili e sicuramente meno interessanti da tutti i punti di
vista – in antitesi – la scienzacultura “applicata”, almeno come base
di esame e di studio da sviluppare all ‘interno dei nostri Templi. Le vicende
umane di vita giornaliera in ambito “profano”, sono molteplici,
complesse ed imprevedibili, spesso anche spiritualmente poco interessanti;
condotte, finanziate, vendute ed utilizzate nelle maniere più disparate nelle
varie società del sistema umano e come già osservato in precedenza, da prendere
in veloce considerazione solo in caso di gravi “attacchi” alla
integrità della natura e dell ‘esistenza della vita stessa, oppure solo nel
caso nel quale il nostro interesse in ambito profano, ma solo profano, fosse
indirizzato verso il sistema applicativo. Ed in questi casi le soluzioni
dovrebbero essere tutte ovvie e facili da prendere. L’umanità affronterà questo
nostro nuovo terzo millennio e c’è da credere in maniera non molto differente
dai precedenti. Da un punto di vista “economico”, avrà debellato
tante malattie ma altre sono già pronte in agguato per sostituirle ed entrare
in azione, avrà allungato sì la vita dell ‘ individuo ma a “spese” –
come sembra – dei più giovani, si sarà liberato quasi completamente dalla
fatica ma dovrà sudare ugualmente nelle palestre, avrà una vita più comoda ma
sarà prevedibilmente “disturbata” dalla noia e forse come ci dicono
alcune discutibili ma pur preoccupanti statistiche – dall ‘aumento dei suicidi,
si sarà inoltrato ancor più nello spazio su satelliti e pianeti ma forse senza
aver compreso ancora la sua posizione effettiva nell ‘universo e senza aver trovato
risposta ai tanti “perché”.
Infine, dal punto
di vista definibile “puro” l’uomo, con l’aiuto della scienza, della
cultura e di tutte le altre discipline che si è “inventato” – grazie
a quelle sue grandi ed uniche doti nel mondo “animale”, che sono la
fantasia e la capacità di astrazione – ci auguriamo che possa raggiungere
quella “felicità” alla quale ha sempre aspirato e che non è altro poi
che il raggiungimento del suo equilibrio interiore, nonostante gli
“applicativi” sostengano esattamente il contrario. Il raggiungimento
di questo equilibrio è sicuramente un processo che possiamo ritenere
individuale, probabilmente già raggiunto da tanti grandi uomini in passato, e
comunque raggiungibile solo con la effettiva consapevolezza della propria
entità e posizione nel mondo e nell ‘universo che ci circonda.
Considerate le premesse fatte nella prima parte,
relative ai pericoli derivanti da sedute improvvisate, prive cioè delle più
elementari norme che regolano queste sperimentazioni, si rende indispensabile
ribadire quanto necessario sia, per avviare una seduta spiritica, predisporsi
psichicamente, prima di ogni altra cosa, al raggiungimento di uno stato ideale
di serenità interiore. L’ operazione, in verità, potrebbe essere facilitata
dall’ ascolto di brani di musica classica, fumigazioni, preghiere, e, come in
tutte le pratiche che coinvolgono lo spirito…. dal digiuno.
L’osservanza di queste regole, va precisato, non elimina i
pericoli che soventemente si corrono durante una seduta spiritica, e che vanno
dalla “infestazione” comunemente detta, fino alla “possessione ‘
Il procedimento di infestazione, ovverosia la malattia del
piano astrale, in verità, è molto simile alla malattia del piano fisico, tant’è
vero che il processo infettivo è analogo.
L’uomo vive nel
suo “habitat” naturale soltanto perché protetto da difese
immunologiche, sia sul piano fisico che su quello astrale. In difetto, ovvero
in mancanza di queste difese, egli sarebbe destinato a soccombere miseramente
perché preda di esseri invisibili appartenenti al piano subumano (i microbi), e
a quello sovrumano (le larve). Alla stessa maniera di come esistono sul piano
fisico particolari vie più facilmente percorribili dai “microbi”, particolari
porte astrali consentono l’accesso alle “larve “, tant’è vero che i
“microbi” penetrano nel corpo umano, sia attraverso le vie
accidentali (le ferite) che quelle naturali, cioè le vie respiratorie, le
urinarie, l’ apparato digerente, ecc. ecc. Per le “larve “, infatti,
esistono più vie di penetrazione nel corpo umano. Vi sono, oltre alle vie
secondarie che si formano a causa di “lacerazioni del tessuto astrale
“, le principali, che sono collocate nei punti cardine di comunicazione
tra il mondo esterno e quello interno. Questi particolari “omphalos”,
vengono spesso chiamati “centri di forza astrale”: in verità, sono
dei diaframmi, che sarebbe meglio definire vere e proprie “porte di
accesso” Ciascuno di questi “vortici
energetici astrali”, ognuno dei quali con una propria fisionomia ben
precisa, è indissolubilmente legato ad un settore specifico del corpo fisico.
La visione astrale dell’uomo, agli occhi del sensitivo,
appare circondata da una aureola lucente (aura astrale) di colore vario, con i vortici
energetici (i centri di forza astrale), alcuni più grandi, i primari, ad altri
più piccoli, i secondari.
In una trasmissione televisiva di qualche tempo
addietro, chiamata “Misteri”, venne presentata la “camera
Kirlian”, una particolare apparecchiatura fotografica in grado di fissare
sulla pellicola non soltanto l’ immagine del soggetto, ma anche la colorazione
e l’intensità della sua “aura vitale”
Ritengo necessario, a questo punto, predisporre uno schema
riepilogativo e più descrittivo, dei “centri di forza astrale”, come
indicato qui di seguito:
e il cerebrale: è situato alla
sommità della testa, sede della coscienza astrale. Colore bianco e pineale: è
tra le sopracciglia e consentirebbe la visione astrale. Colore celeste
e tiroideo: è al centro della gola e
farebbe avvertire vibrazioni sonore. Colore turchino o cardiaco: è sul cuore e
ritmerebbe all’unisono col Cosmo. Colore oro e splenico: è all’altezza della
milza e sarebbe collegato alla vitalità astrale. Di vari colori o solare: è
nella zona del plesso solare per indicare la sensibilità astrale. Colore verde vertebrale: alla base della spina dorsale,
segnalerebbe la percezione intellettiva. Colore rosso o sessuale: è nella zona
sessuale e segnalerebbe l’intensità della forza astrale. Colore vermiglio
Ogni “larva” predilige una
particolare via d’ ingresso, rispetto alle altre, producendo un ben preciso
tipo di infestazione caratterizzata da una sintomatologia ben individuabile,
così come accade per le malattie. Ed è proprio in considerazione delle
conseguenze provocate dalle stesse, che è possibile dividere le larve in
quattro ben precisi gruppi, strettamente legati ai quattro elementi della
Creazione: terra, fuoco, acqua, aria.
Le larve dellaterra (saturnali –
verde scuro) colpiscono la zona della milza, provocando alterazioni del sangue.
Le larve delfuoco (solari – colore
rosso) alterano il ritmo cardiaco ed esercitano un’ azione negativa sul sistema
neurovegetativo.
Le larve dell’acqua possono, invece,
provocare disturbi degenerativi del processo metabolico e del sistema sessuale.
Le larve dell’aria (mercuriali –
viola) colpiscono il sistema cerebrale.
Ogni centro di forza astrale è
collegato a settori vari del corpo e, a seconda del centro colpito, può
verificarsi una specifica sintomatologia che andrebbe riepilogata come segue:
cerebrale
Sensazione
di vuoto mentale, senso di smarrimento, emicrania improvvisa, fitte acute al
cervello, pressione alle tempie.
pineale
Calo
progressivo della vista, dolore acuto ai bulbi oculari, visioni di neve
scintillante ed immagini terrificanti.
tiroideo
Ansia,
senso di soffocamento, isteria ed alterazioni del metabolismo. Sensazione di
sussurri lontani e presenze impercettibili ostili.
cardiaco
Ritmo
cardiaco alterato, ed alterazione del sistema circolatorio. Tipica sensazione
di inspiegabile angoscia e fobie.
splenico
Stato
depressivo accompagnato da profonda tristezza, stato di abulia alternato ad
ipocondria. Inspiegabile debolezza diffusa.
solare
Sensazione
di toccamenti sul corpo ed improvviso formicolio accompagnato da vampate di
caldo, alternate, talvolta, a brividi di freddo. Dolori allo stomaco,
accompagnati da nausea ed inappetenza. Alterazione della sensibilità tattile
ed inequivocabile sensazione di strane presenze nell ‘ ambiente.
vertebrale Modificazione del carattere con
improvvisi cambiamenti d’umore.
Inappetenza e progressivo costante
dimagrimento.
Disturbi
mentali lievi che possono degenerare progressivamente, fino alla follia.
•
sessuale Inspiegabile
propensione per turpi pratiche sessuali.
Continue sensazioni di toccamento ai
genitali, in particolare, se distesi.
Anomalie delle funzione sessuali.
Spesso è stato rilevato che i
fenomeni di infestazione locale, col passare del tempo, si sono propagati
attraverso le vie di comunicazione dell’intero organismo e coinvolgendo, di
conseguenza, anche gli altri “centri “, hanno avviato fatalmente il
processo di infestazione totale.
Vediamo adesso, quali sono le cause
che avviano questo terrificante e, purtroppo, sempre ignorato, processo
distruttivo dello spirito e del fisico. Per necessità di sintesi, potremmo
riassumerle così:
sedute
spiritiche praticate con molta superficialità e tanta incompetenza. Anche
pratiche di magia, avviate per gioco, possono essere responsabili di guai
irreparabili. Tanti, ahimè, non sanno che partecipando, anche una sola volta, a
sedute medianiche improvvisate e non protette, si espongono alle forze del
“vampirismo astrale ” che si compone di larve, silfidi, spiriti
elementari, burunti, dannati, ecc. ecc.
il
fenomeno molto diffuso, di ricorrere a sciamani e fattucchiere per ottenere
incantesimi, pozioni e fatture a danno di malcapitati, è oltremodo pericoloso.
Per la magica legge dell’equilibrio cosmico, il male, come il bene che
viene fatto, torna immancabilmente al mittente con una intensità doppia
rispetto a quella di partenza. Operazioni magiche, effettuate da mercanti dell’
occulto, e i sentimenti malvagi come I ‘ invidia e I ‘odio, potrebbero
provocare l’ apertura di un varco nel sistema immunitario astrale. Ciò può
essere terribilmente pericoloso perché favorirebbe il malefico ingresso
larvale, nell ‘ organismo umano.
Il
processo di infestazione può avviarsi spontaneamente, senza alcuna causa
scatenante, ma per predisposizione innata del soggetto.
Come
per le malattie infettive, l’infestazione larvale si diffonde anche per
contagio.
La
frequentazione di luoghi infestati, non è escluso, potrebbe essere la causa
determinante di contaminazione. Non a caso Stanislay de Quaita, nel
“Serpente della Genesi”, edito a Parigi nel 1891, metteva in guardia
quanti si trovassero nei pressi di rovine maledette, di castelli infestati da
spiriti maligni, al pari di cimiteri abbandonati o di balze e scogliere frananti.
“State lontani egli diceva – dai suoli maledetti, dove l’erba non cresce
giammai, come se qualche alito avvelenato avesse reso sterile la terra, e dagli
acquitrini putridi. Potrebbero essere sfiatatoi dell’inferno “
I luoghi infestati da presenze
negative, e da spiriti inquieti, determinano quasi sempre un sottile senso di
oppressione e di insofferenza, che si accompagna, non di rado, ad un’ apparente
ed inspiegabile paura. E intanto si ripropone, più inquietante che mai,
l’interrogativo: “la morte… che cos ‘è?”
Una considerazione improvvisa prende
corpo nella mia mente. Se l’uomo, ahimè, non riesce a spiegarsi il vero
significato della vita, come può giammai comprendere il perché della morte?
Malgrado la filosofia ci induca a
non ritenere necessario occuparsi di quanto avviene nelle “sfere oscure
” – che stanno dopo la morte – se non si è capito cosa avviene prima di
arrivare a quella soglia, non possiamo non convenire che I ‘uomo è fatalmente
condannato ad allontanare da sé I ‘ intuizione che potrebbe spiegargli il
“divino perché dell ‘esistenza umana “
Nella storia dell’umanità, non vi è
stato secolo in cui siano state fatte tantissime scoperte ed invenzioni, come
in questo. Chi avrebbe creduto mai alla possibilità di viaggiare nello spazio,
e non con la fantasia come aveva, fino a quel momento, fatto; calpestare il
suolo lunare e servirsi dei computer; costruire centrali atomiche e satelliti
artificiali per migliorare il tenore di vita e, non ultimo, servirsi dell ‘
ingegneria genetica per modificare i sentieri della natura.
I sogni fantasiosi della mente, giorno dopo giomo, in questo
secolo, diventano realtà. Malgrado ciò, chissà perché, I’ uomo modemo continua
a credere soltanto in ciò che vede, e pensa solo in funzione di verità ben
definite.
Forse, è per questo che, l’uomo del
XX secolo, ebbro del successo tecnologico raggiunto, avverte in sé l’
inebriante sensazione d’ immortalità, al punto tale da inventarsi nuovi
“dei” e nuovi “totem”, in sostituzione del Dio dei suoi padri,
ormai desueto e troppo spirituale. Coinvolto dalla frenetica corsa verso
traguardi sempre più ambiziosi, l’uomo, purtroppo, sente sempre meno l’obbligo
di rispettare la natura e di tutelare la vita sulla Terra, intesa come
organismo vivente. Egli non si preoccupa lontanamente che fiumi, foreste e
mari, stanno morendo perché ridotti a immondezzai. Poco gli importa che, sopra
I ‘Antartide, un buco grande quanto un continente si è aperto nell’ atmosfera
che protegge il nostro pianeta, mettendo veramente in pericolo la sopravvivenza
futura dell ‘umanità…
Con cautela, e con caparbia
determinazione, procede incessante però, il lavoro di chi crede nella
immortalità dello spirito; l’esercito di chi crede che con la “morte
” non ha fine la “vita “, diventa sempre più numeroso, e la
sopravvivenza dell’anima, malgrado le tecnologie avanzate, è ormai oggetto di
sperimentazioni, anche scientifiche.
Se un giorno, non molto lontano,
venisse annunciato in maniera chiara ed inequivocabile, che la
“reincarnazione”, fino a quel momento considerata utopistica, è
effettivamente una verità accertata, pensate un po’ , dovremmo prepararci ad un
ben triste destino…
Un ‘ amara e sconfortante
considerazione dovremmo, però, fare: lo scempio compiuto dall ‘uomo su questa
povera Terra, e l’irrimediabile disastro ecologico di cui egli sembra non
rendersi conto, malgrado sia sotto i suoi occhi, sarà il degno habitat
dell’uomo di domani.
Un sottile ed inquietante tremore mi
prende. Ma se la teoria della reincarnazione rispondesse al vero… potremmo essere
proprio noi…i nostri posteri
Nel corso delle nostre Tornate, durante la presentazione di
Tavole che riguardano in qualche maniera la religione e nei successivi
interventi, viene marginalmente e raramente accennato al fatto di dover tenere
sempre separati, in ambito religioso appunto, i concetti, se così si possono
definire di “religiosità” da un lato e quello di “casta
sacerdotale” o “clero” o “chiesa” dall’ altro, che
appaiono in modo macroscopico differenti e direi anche molto divergenti. Poiché
questo “problema” viene in genere appena sfiorato vorrei
approfondirlo qui velocemente nei limiti di spazio concessi e desidererei anche
che il tutto fosse chiaro a coloro che sono interessati a questa problematica.
Tra l’altro, questi concetti sono già stati espressi più volte anche nelle nostre
pubblicazioni massoniche, ma ritengo non mai abbastanza.
Innanzi tutto è da precisare che la religiosità è un fatto
intimo, personale, difficilmente comunicabile agli altri: è un po’ come la
nostra ricerca esoterica in ambito massonico che, essendo appunto un qualcosa
che riguarda i nostri sentimenti ed i nostri reconditi pensieri, provoca anche
quel sospetto di segretezza non mai capito in ambito profano. Tra l’altro
dobbiamo ricordare che il rapporto Uomo-Dio è sempre un qualcosa di diretto; la
mia fede per esempio nel Grande Architetto dell’ Universo, riguarda il mondo
complesso della mia sfera interiore; la mia credenza in Cristo – o in qualsiasi
altra figura carismatica o filosofia religiosa – coinvolge il mio sistema di
valutazione di ciò che mi circonda e di quant’altro io abbia la possibilità di
entrare in rapporto con essa; è quindi un qualcosa che riguarda me solo, nel
mio intimo, e basta.
Qualsiasi tipo di approccio alla religione rimane quindi una
cosa di nostra intima, personale ed “esclusiva” proprietà e
competenza, è quel sentimento astratto ed unico che può arricchirci
spiritualmente, difficilmente acquisibile per apprendimento ed ancor più
difficile da trasmettere agli altri, è quella complessa costruzione
architettonica della filosofia della nostra vita che la nostra personale
sensibilità, la nostra cultura ed il nostro intelletto, tutti insieme, hanno
contribuito ad edificare nel nostro io. Possiamo anche ritenere che questa
“qualità” unica, sia una delle nostre poche “proprietà”
effettive che difficilmente qualcuno potrà mai portarci via. Ripeto ancora, in
ambito religioso, il rapporto Uomo-Dio è, e deve rimanere “diretto”:
non può essere altrimenti, diversamente non sarebbe più un rapporto tra l’ Uomo
ed il suo Dio.
Ai fini del concetto di religiosità quindi,
l’intermediazione della casta sacerdotale o del clero nel rapporto Uomo-Dio
assume un aspetto incomprensibile; non è, infatti, possibile individuarne una
funzione trascendentale pur sviscerando il problema da un qualsiasi punto di vista.
L’interferenza della struttura ecclesiastica in ambito religioso è
giustificabile solo se noi riusciamo a comprenderne la sua funzione politica
nella società. Conosciamo tutti, infatti, la grande influenza che il
Cattolicesimo ha per esempio nella società civile italiana, l’Islam nei paesi
affetti da simile integralismo, lo Scintoismo in Giappone e così via; vere e
proprie istituzioni e strutture “profane” che condizionano
pesantemente la vita delle società nelle quali operano, spesso con violenza,
soprusi, assenza di un minimo accettabile di tolleranza. Tra l’altro per ciò
che ci compete, in Italia, la casta del clero vaticano possiede banche, società
immobiliari, università e quant’ altro può far riferimento ad una potenza
esclusivamente economico-politica e non è certo un qualcosa che possa
assomigliare a quanto il vero Cristianesimo ha sempre auspicato e predicato fin
dai suoi inizi, almeno se vogliamo fare riferimento alla
“tradizione”.
E’ evidente, anche per il più sprovveduto, che in questo
caso non è più una questione di “religiosità” o di religione, ma
piuttosto uno squisito fatto di politica attiva; struttura ecclesiastica che si
allea con i poteri più o meno “legittimi” dello Stato per
condizionare la vita altrui e mai per un progetto veramente civile in ambito
sociale, ma piuttosto un complesso di strutture alleate che niente hanno in
comune con la democrazia, la libertà e la civiltà, caso mai con la dittatura
nelle forme più svariate e folkloristiche conosciute e realizzabili. Il
complesso è quindi prettamente socio-politico, la casta sacerdotale risulta
solo una forza politica, che a differenza di qualsiasi altro tipo di movimento
o “partito”, che può imporre una qualsiasi serie di leggi anche per
affermare il proprio potere (ma >010 se ottiene democraticamente una
maggioranza elettorale), usa scorrettamente sui più deboli la propria influenza
ed il timore del castigo di Dio per affermarsi a loro spese.
Netta è quindi la distinzione che abbiamo il dovere di fare
tra i due concetti di religione e di casta sacerdotale e loro derivati: questo
discernimento è proprio un dovere che dobbiamo compiere nell ‘interesse della
nostra società e dei nostri figli. Identica situazione, se ci è concesso un
esempio parallelo, si verifica quando andiamo a votare in un qualsiasi tipo di
elezione pubblica. Qualcuno ritiene erroneamente di dare il proprio voto ad un
ideale, sia esso cristiano, marxista, liberale, di destra o di sinistra, ma la
nostra adesione espressa con il voto non potrà mai essere ad un ideale ma è
invece solo ed esclusivamente ad una “casta” sociale, ad una
“corporazione”, ad un gruppo più o meno folto di cittadini che
difende i propri esclusivi interessi e che sarà sempre in conflitto con le
altre per il mantenimento dei propri privilegi. La nostra adesione di uomini
liberi quindi ad un qualsiasi tipo di chiesa, qualunque esso sia, non sarà
altro che un appoggio economico-politico dato ad una casta sociale, come fosse
quella degli autoferrotramvieri o dei metalmeccanici, non potrà certo essere l’intima
adesione del nostro animo ad un tipo di religione e non avrà mai alcuna
relazione con un rapporto instaurabile tra l’ Uomo ed il proprio Dio, qualunque
esso sia.
Per noi massoni poi la distinzione dovrebbe essere chiara,
lampante ed ovvia, ma non sempre è così, perché qualsiasi immagine è pur sempre
ambigua, ha una sua “maschera”, che spesso è velata da una falsa
apparenza, voluta o no che sia. E’ molto facile cadere nella trappola che da
sempre gruppi di privilegiati o aspiranti tali usano tendere in modo subdolo a
coloro che distrattamente o ingenuamente ascoltano imbonitori scorretti ed in
mala fede. La storia, almeno in questo caso, volendo, potrebbe anche insegnare
in tal senso, e come ho già accennato in precedenza, l’assunzione della nostra
indipendenza e libertà individuale e spirituale non è più una opzione ma è oggi
un dovere, e più che per noi stessi, per i nostri figli e per il futuro
dell’uomo nel suo insieme.
Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da
Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in
cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i
nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla
lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio
di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli:
Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal
comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità
il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni,
conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse
scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di
Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.
Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al
quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di
filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli
spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel
Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che
seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento
rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe
Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la
vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa,
come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I
‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le
classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la
nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia
arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto
con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò
la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli
Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle
madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e
dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta
botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato
“Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato
dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi
approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane
invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel
1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come
molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una
nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim
villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”.
Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari
Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in
solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è
sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S.
Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il
Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni,
malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina
Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale,
vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava
intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo
la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita
privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri,
pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un
cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27
Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità
di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza
entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV
che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del
baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale.
In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la
libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio,
simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera
nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te
Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia
religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della
diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la
divina benedizione sulla Repubblica; che all ‘orazione
“pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che
gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa
di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si
recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don
Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per
questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca
dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di
Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I
‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece
dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don
Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi
di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS.
Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione
intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli
“lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per
riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo,
per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti
da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i
quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo
tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica
il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel
carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala
che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder
soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte
le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII,
pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di
sangue”. Il 14 marzo del
1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del
mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei
Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e
con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi
lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione
riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici:
“Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del
Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le
parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella
prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S.
Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di
Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio
sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu
venduto.
Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto
Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi
mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità
oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la
repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un
traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato
un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui
avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900,
centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere,
nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran
caffè.
L’attualità
dei valori del 1799
Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente
perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o
suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di
esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la
conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di
ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la
città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è
vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è
altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose,
la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799,
tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca
della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire
in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come
“Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale
interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo
di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte
questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono
Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio
attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione
naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta
metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro
Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal
grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla
Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all
‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie
nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.
A Napoli si curò di tracciare i
caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza
della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed
apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande
entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del
regno accorrevano a Napoli a studiare:
* come medici, tra questi l’Arcucci ed il
più famoso Domenico Cirillo;
* come allievi della scuola militare
della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale
Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e
anche questo potrebbe oggi avere un significato;
*come giuristi, sotto la guida del grande
Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di
economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in
latino.
E ciò mentre la città di Napoli
viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa
500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘
La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della
società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da
Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la
descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno,
in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e
sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a
certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare
E’ stato detto che le
rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del
divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni
qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione
precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu
ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla
comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I
‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella
repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:
Gaetano
Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva
Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione
degli Stati Uniti d’America.
le
leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri
dell ‘ordinamento giuridico italiano;
lo stesso spirito del 1799 aleggia nei
deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in
Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che
assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.
Questi passaggi non sono la
democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali
“naturalmente” vi si arriva.
I legislatori del 1799 si posero
l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e,
principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si
cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari
durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante
I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni
uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!
Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido
tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del
secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il
moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di
Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale
mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica
del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori
a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i
tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché
quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali
europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne
studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini
alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione,
anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti
l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi
intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre
dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva
a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel
Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che
quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè
nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce
gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato,
sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare
Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli
uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e
non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata
a Napoli “regina santa”, per offrirlo
ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una
rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i
Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia,
ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba
tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di
governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica
che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo
il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la
primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino
del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di
credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra
naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza
“conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa
metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal
“neolitico” allo “psicozoico” è possibile il
“saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più
storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida,
quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della
morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia
del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di
condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della
storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli
spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle
dei fatti e dell ‘economia.•
FERRO – In
astrologia questo metallo è considerato, insieme al plutonio favorevole ai nati
sotto il segno dello Scorpione. Anche per i nati sotto il segno dell ‘Ariete,
il ferro è considerato il metallo favorevole.
UNICORNO UMANO –
Nel 1598 Enrico IV vinse una forte somma ad un gentiluomo francese con il quale
aveva scommesso sull ‘ esistenza o meno di un “unicorno” con le
sembianze di un uomo. Per vincere questa scommessa, il sovrano non esitò a far
conficcare un corno ricurvo nella fronte di un uomo, il quale morì fra i più
atroci tormenti pochi giorni dopo essere stato mostrato al gentiluomo.
GESÙ CRISTO –
Secondo il professore Roger Rusk, dell ‘Università del Tennessee, Gesù Cristo
venne crocifisso il 6 aprile dell’anno 30 d.c., di giovedì e non di venerdì
come sino ad ora si pensava. Al contrario della tradizione ecclesiastica,
secondo cui si ritiene che Gesù Cristo sia rimasto nel sepolcro per sole 36
ore, il prof. Rusk è convinto che il Nazareno sia rimasto invece tre giorni interi,
come aveva predetto. Lo studioso americano ha ricalcolato le date relative alla
passione di Cristo, servendosi di un cervello elettronico e delle tavole delle
fasi lunari dal 1001 a.C. al 1651 d.c., recentemente compilate dal cervello
elettronico dell ‘Institute of Advanced Studies di Princeton.
Proprio i movimenti della luna di quel tempo, così come sono
stati stabiliti dal calcolatore di Princeton, hanno convinto lo studioso che la
crocifissione avvenne il giovedì. Rusk afferma infatti di essersi attenuto alle
sequenze precise delle lune nuove, rigorosamente seguite per il calcolo delle
date nella Giudea di quel tempo. In considerazione del fatto che Cristo morì
sulla croce nel pomeriggio precedente il tramonto con cui aveva inizio la
celebrazione dell ‘ esodo dall’Egitto, cioè la “pasqua ebraica “,
qualsiasi tentativo di attribuire una datazione a tale evento, deve tener conto
di questa indicazione, che dipende a sua volta dalla fase lunare.
Dopo aver effettuato i calcoli relativi, non v’è dubbio che
il 30 d.c. è l’unico anno plausibile in cui le coordinate relative indicano il
giovedì, come giorno della crocifissione.
MONISMO –
Qualsiasi dottrina che metta alla base delle realtà un principio unico, che può
essere immateriale (monismo idealistico) o materiale (monismo materialistico).
Oggi, parlando di monismo, s ‘ intende soprattutto quello postulato dalla
scienza ufficiale, che considera la realtà fondata sulla materia o energia e
sulle leggi fisiche.
METAPSICORRAGIA
METACINETICA – P. Thomas Bret, nel 1948, ha indicato con questa definizione
il fenomeno di lacrime o sangue fluenti da immagini di Madonne o di Cristi
crocifissi.
RISONANZA – Teoria
ipotizzata dall ‘italiano C. Calligaris e dall ‘inglese N. Marchall per
spiegare i fenomeni di telepatia. Secondo i due studiosi, emissioni di onde di
una data lunghezza, da parte di un cervello umano, potrebbero risuonare in un
altro cervello amne così come una nota musicale emessa da un violino fa
risuonare la corda corrispondente in altro violino.
IL PAPPAGALLO POLL – Il Dott. J. A. Watson, uno studioso
ricercatore di animali intelligenti, tra i tanti casi analizzati cita quello di
Poll. Il pappagallo è, tra gli animali, il solo che siamo abituati a sentir
parlare. Esso si limita, tuttavia, a ripetere abitualmente le parole che ha
sentito, e che sono generalmente sempre le stesse.
Egli racconta che Poll riproduceva una risata assolutamente
inimitabile e talmente coinvolgente che era impossibile non esserne coinvolti,
soprattutto quando il pappagallo, tra i suoi scoppi di risa, gridava: “Non
fatemi ridere così, mi fate morire…”. E subito dopo riprendeva a ridere
sonoramente.
Allorquando qualcuno tossiva, a volte diceva: ” Che
brutto raffreddore”. Un giorno, dei ragazzi tentarono di ripetere in
maniera approssimativa quel che Poll aveva detto. Ad un certo punto, il
pappagallo alzò la testa e disse in maniera chiara ed inequivocabile: “Non
ho detto questo”. Quando, a volte cantando, emetteva una nota sbagliata,
esclamava: “Oh, là,
Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da
Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in
cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i
nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla
lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio
di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli:
Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal
comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità
il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni,
conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse
scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di
Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.
Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al
quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di
filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli
spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel
Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che
seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento
rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe
Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la
vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa,
come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I
‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le
classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la
nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia
arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto
con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò
la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli
Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle
madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e
dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta
botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato
“Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato
dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi
approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane
invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel
1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come
molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una
nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim
villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”.
Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari
Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in
solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è
sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S.
Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il
Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni,
malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina
Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale,
vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava
intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo
la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita
privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri,
pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un
cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27
Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità
di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza
entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV
che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del
baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale.
In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la
libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio,
simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera
nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te
Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia
religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della
diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la
divina benedizione sulla Repubblica; che all ‘orazione
“pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che
gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa
di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si
recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don
Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per
questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca
dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di
Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I
‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece
dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don
Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi
di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS.
Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione
intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli
“lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per
riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo,
per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti
da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i
quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo
tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica
il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel
carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala
che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder
soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte
le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII,
pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di
sangue”. Il 14 marzo del
1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del
mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei
Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e
con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi
lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione
riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici:
“Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del
Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le
parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella
prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S.
Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di
Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio
sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu
venduto.
Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto
Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi
mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità
oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la
repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un
traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato
un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui
avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900,
centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere,
nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran
caffè.
L’attualità
dei valori del 1799
Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente
perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o
suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di
esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la
conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di
ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la
città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è
vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è
altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose,
la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799,
tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca
della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire
in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come
“Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale
interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo
di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte
questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono
Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio
attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione
naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta
metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro
Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal
grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla
Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all
‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie
nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.
A Napoli si curò di tracciare i
caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza
della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed
apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande
entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del
regno accorrevano a Napoli a studiare:
* come medici, tra questi l’Arcucci ed il
più famoso Domenico Cirillo;
* come allievi della scuola militare
della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale
Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e
anche questo potrebbe oggi avere un significato;
*come giuristi, sotto la guida del grande
Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di
economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in
latino.
E ciò mentre la città di Napoli
viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa
500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘
La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della
società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da
Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la
descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno,
in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e
sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a
certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare
E’ stato detto che le
rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del
divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni
qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione
precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu
ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla
comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I
‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella
repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:
Gaetano
Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva
Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione
degli Stati Uniti d’America.
le
leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri
dell ‘ordinamento giuridico italiano;
lo stesso spirito del 1799 aleggia nei
deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in
Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che
assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.
Questi passaggi non sono la
democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali
“naturalmente” vi si arriva.
I legislatori del 1799 si posero
l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e,
principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si
cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari
durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante
I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni
uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!
Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido
tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del
secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il
moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di
Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale
mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica
del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori
a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i
tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché
quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali
europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne
studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini
alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione,
anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti
l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi
intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre
dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva
a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel
Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che
quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè
nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce
gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato,
sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare
Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli
uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e
non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata
a Napoli “regina santa”, per offrirlo
ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una
rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i
Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia,
ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba
tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di
governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica
che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo
il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la
primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino
del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di
credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra
naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza
“conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa
metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal
“neolitico” allo “psicozoico” è possibile il
“saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più
storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida,
quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della
morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia
del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di
condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della
storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli
spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle
dei fatti e dell ‘economia.•
Itinerario
artistico iniziatico per l’anima degli uomini ovvero l’Amen delle stelle
Armando Rossi
Loggia
di Ricerca Arte e Architettura: Antonello da Messina
Permettetemi, anzitutto, di indirizzare la vostra attenzione sulla forma della Loggia: un
parallelepipedo di lunghezza da E ad O, di larghezza da N a S, di
ampiezza dalla superficie della terra al suo centro e alto come il cielo.
Dalla spiegazione della tavola di tracciamento
di I° grado
Ciò che è
in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso
per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da
una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa
unica mediante adattamento. Dalla tavola smeraldina
Incipit
L’uomo come misura di tutte le cose, l’uomo come centro
saliente di ogni pensiero e di ogni arte,
ma anche l’uomo travolto dalle Moire, dalle proprie passioni.
Esiste una
nozione di uomo che connetta strettamente la sua natura al vasto e molteplice
mondo delle divinità?
Anthropos, nel suo etimo, racconta l’immagine umana nella peculiarità
di volgere gli occhi insù. L’uomo è quell’essere che, a differenza di bestiacce
e bestiole, intrattiene con le stelle un legame di privilegio, l’uomo è
quell’essere che studia, comprende e apprende le stelle e discerne lo zodiaco
dalle costellazioni, distingue il giorno dalla notte e sa che il cielo stellato
non svanisce col sole ma li rimane e il non vederlo è solo un suo limite fisico
ma non mentale.
Ciò che è si vede anche quando non è palese, chi ha occhi
per vedere, veda e comprenda e sia da guida per chi non crede solo perché non
riesce a vedere.
Ante factum
“Quando
scoppiano i fuochi d’artificio: nessuno guarda il cielo stellato!”
Lo diceva un signore avanti con l’età a voce un po’
elevata, che stava dietro di me, per farsi sentire dal suo vicino, il quale
ricordo annuì quasi per compiacenza. Mi ricordo però che io staccai lo sguardo
dai brillanti colori dei fuochi artificiali che in quell’attimo (e solo per
quell’attimo!) vivevano e guardai
più in alto. E un’emozione più intima mi invase. Respirai
profondamente…
Un cielo stellato che il nostro emisfero boreale talvolta
ci regala in visione nel mese di luglio era là: monotono, perenne,
instancabile, insensibile al richiamo di quei poveri ed insulsi colori
spumeggianti dei fuochi artificiali ed artificiosi.
Una metafora. Una metafora di me, una
metafora del mondo profano?
La Massoneria è quell’arte che insegna a staccare lo sguardo dall’estemporaneità
della fenomenologia attuale ed istantanea, estemporaneità che forse –
può produrre fallaci momenti di finta emozione che proprio come fuochi
artificiali durano un attimo e non più, senza lasciare segno di sé un momento
dopo.
E’ necessario imparare a staccare lo sguardo per volgerlo
al cielo stellato. Quei cieli stellati che Vincent Van Gogh ha magistralmente
dipinto rendendoci partecipi dei vortici d’aria che lo formano. Lui pittore
complesso e sempre al limite della follia ci permette di cogliere l’invisibile,
l’aria che sposta le masse e forma
le tonalità dei colori.
E se la notte scende, le stelle, si sa, risplendono
ugualmente e illuminano il cammino. Il cielo stellato, archetipo junghiano che
in maniera litografica impresse
l’anima dei primi uomini, avvia ed induce ad una filosofia concettuale
secondo la quale l’identità tra cosmo e uomo è esperienza di vita e Dio è
“sentito” come uno spirito che sa rivelare armonia cosmogonica nel
“solenne silenzio del cielo stellato”. Tale equazione risulta essere
addirittura un “fatto scontato” in Goethe.
Una legge geometrica in cui tutto è armonia
Il cielo azzurro, o blu, con tante stelle che lo
impreziosiscono corre da Oriente a Occidente e da Settentrione verso Meridione,
uguale da milioni di anni. Il Cielo stellato accomuna le civiltà precolombiane
a quelle della Mesopotamia, accomuna i Fenici ai Sumeri, ai Cinesi, ai
Tehuelche. Il Cielo stellato è comune per gli Induisti e per i Cristiani,
unisce i Mussulmani ai Veda. Sempre!
E dalle Colonne lo possiamo sempre ammirare. Il Tempio è
incompiuto, volutamente, poiché il lavoro massonico è infinitamente
perfettibile, ma non raggiungerà mai la perfezione. La raggiunge solo là:
all’infinito! Il cielo stellato è il tetto naturale del Tempio di Salomone e
comunica al Libero Muratore l’infinitezza del creato e lo esorta verso una
spiritualità elevata a cui occorre tendere. A cui occorre aspirare.
Anche
nell’io dell’Apprendista? Mi chiedo.
L’Apprendista non sa, ma vuol sapere. L’Apprendista
quella sera del mese di luglio comprese come il cielo stellato è stato, è, e
sarà, un segno, un simbolo che indirizzerà la via e la sua vita. Kant nella
conclusione della Critica della Ragion Pratica scrisse: “Due cose
riempiono l’animo di ammirazione e venerazione, sempre nuove e crescenti, e
quanto più spesso e a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale
dentro di me”
Corpus
Nell’antichità il termine “Tempio” ha
significato un recinto, una delimitazione[1]una porzione del cielo, o un luogo delimitato da cui osservare la volta
stellata, posto tra cielo e terra, tra macro e microcosmo, tra finito e
infinito, il Tempio diviene il luogo privilegiato della riflessione, della
elevazione spirituale.
Ciò che del cielo attraeva l’uomo erano principalmente le stelle, quelle
luci in mezzo al buio che sorprendevano
e stupivano, e che per millenni hanno costituito la mappa unica e sicura
per coloro che percorrevano il mondo per terra e per mare, per chi come i marinai cercavano la rotta per la nuova
terra o per il ritorno verso casa (se questo era il loro desiderio) o per chi,
come i Re Magi, seguivano la stella per trovare un essere divino. Ancora oggi
si guarda alle stelle, profanamente,
perché ci suggeriscano la giusta rotta da seguire.
Il cielo stellato ha sempre rappresentato l’emblema
dell’infinito. . La sua rappresentazione nelle opere architettoniche ne
ha costituito un limite indefinito che permetteva a chi entrava di sentirsi un unicum
con l’universo.
Emblematici i cieli stellati del Mausoleo di Galla
Placidia a Ravenna o quelli nella tomba della regina Nefertariin
Egitto nella valle delle Regine.
Proprio quest’ultima rappresentazione può considerarsi la
più antica volta celeste della storia.
l’origine delle parlate diffusesi in una consistente
parte dell’Europa, dell’India e
dell’altopiano iranico, nonché di alcune regioni dell’Anatolia,
dell’Asia centrale e della Cina occidentale.
Si tratta di una struttura ipogea ricoperta da più di
3500 mq di dipinti che illustrano il viaggio nell’aldilà di Nefertari. Tutto il
soffitto è un intero cielo stellato di un intenso blu scuro.
.
Si tratta di un aspetto molto affascinante in quanto la
stella a 5 punte è la raffigurazione del pentagramma, della stella pitagorica
ed è la figura geometrica costruita sulla base della sezione aurea, proporzione
e dimensione già nota agli Egizi.
Queste distese di stelle, generalmente, non hanno
riferimenti astronomici ma in alcuni casi gli astri sono raffigurati in modo
tale da far pensare a delle vere e proprie mappe stellari.
Le rappresentazioni più antiche di mappe stellari sono in
Europa senza dubbio i frammenti rinvenuti nei Templi megalitici di Malta 3.600
a.C. ed il manufatto noto come Disco di Nebra, rinvenuto in Germania quindici
anni fa ma risalente a non più tardi del 1.600 a.C.
Nel corso dell’arte classica è difficile trovare grandi
esempi di cieli stellati. Qualche frammento fittile di epoca greca mostra il
Dio Eosforo che porta la luce del mattino accompagnato da qualche sporadica
stella (raffigurata in questo caso con sedici raggi).
Il cielo stellato interamente a coprire la volta interna
lo ritroviamo significativamente a Padova, in un altro scrigno pieno di colore
e bellezza. È la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto intorno al 1300
con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
Qui la volta a botte è interamente dipinta di blu
oltremare, colore associato alla sapienza divina e ottenuto con preziosa
polvere di lapislazzuli,
San Gimignano
mentre le stelle dorate ad otto punte sono leggermente in
rilievo rispetto alla superficie della volta.
Quello degli Scrovegni non è un caso isolato. Nel basso
Medioevo, infatti, so no molte le chiese con volte dipinte a cielo stellato
(basta ricordare le crociere della Basilica superiore di San Francesco ad
Assisi, o quelle della cattedrale di Siena o del Duomo di San Gimignano).
Nello stresso periodo si possono trovare esempi anche
fuori dall’Italia, come nella tardogotica cappella di San Biagio nella
Cattedrale di Toledo o nella coeva chiesa di Santa Maria a Cracovia.
Il cielo stellato nelle chiese va ben oltre il mero
significato della volta celeste, esso idealizza, come studio
“scientifico” e speculazione filosofica, il cielo dei giusti e dei
santi. Proprio l’enfasi religiosa ha determinato la diffusa credenza che il
cielo sia sede di esseri superiori che, guardando verso il basso, trovavano
divertimento nell’osservare la vita e le gesta dei deboli abitanti della Terra.
Prima del Cristianesimo solo gli uomini migliori ovvero
gli “eroi” erano degni dell’interesse divino ed alcuni, per la loro
prodezza in battaglia o per un ‘altra non comune qualità, venivano addirittura
divinizzati, quali semi-dei.
È chiaro quindi come la sede celeste sia sempre stata
considerata simbolo di ciò che vi è di superiore, essendo riservata normalmente
ad esseri divini e, solo saltuariamente, a quei rari uomini che avessero
dimostrato qualità eccezionali per nascita o, più raramente, per libera scelta.
La volta stellata rappresenta l’incomprensibile,
l’infinito e, non ultima, la speranza in un futuro migliore, immateriale, una
dimensione che liberi l’umanità dalla sofferenza della vita terrena, meglio se
per l’eternità: un luogo in cui lo spirito possa riscaldarsi attraverso
l’irraggiamento diretto della fonte di “luce” primigenia[2].
Della fine del Quattrocento è la testimonianza di un
altro cielo stellato sulla volta di una cappella. Ma la notizia, stavolta, è
quella della sua scomparsa, ovvero all’affresco di Piermatteo d’Amelia che
ricopriva il soffitto della Sistina prima dell’intervento di Michelangelo.
Pochi anni dopo, nella seconda metà del Cinquecento un
altro splendido soffitto stellato posto a copertura della Cappella Reale di
Hampton Court, uno dei palazzi reali eretti da Enrico VIII in Inghilterra.
Secondo lo stile dell’epoca si tratta di particolare due opere che compone.
“Quatour por la fin du temps” e “Le visioni dell’Amen”.
I colori che Messiaen trasfigura nei suoni – quello
sfolgorante arcobaleno sulla testa del settimo Angelo, le colonne di fuoco, il
blu del mare, il verde della terra, e tutti gli altri colori dell’Apocalisse –
appaiono vividi e smaglianti nei sogni dell’autore. I colori diventavano suoni
e i suoni si coloravano di blu e arancio, di limpida luce stellare. Un
suono definito da tutti limpido come un cielo stellato. E il silenzio – grande
solenne che segue l’apertura del settimo sigillo – non rappresenta tanto un’eco
dilatata degli ambigui e oscuri silenzi del cielo notturno, quanto il sogno di
una quiete inesprimibile.
Il cielo stellato come metafora dell’attesa del giudizio
per tutti
gli esseri viventi, da contemplare, da rispettare, da
osservare e cercare di comprendere. Chissà. Forse possiamo anche noi oggi
provare a capire che cosa significa Apocalisse, come ha fatto Olivier Messiaen
e dalla visione privilegiata del cielo stellato del Tempio Massonico possiamo
trarne un insegnamento per il nostro tempo e per la crescita di ognuno. Non a
caso nella composizione della Visioni dell’Amen [3][4]dopo l’Amen della creazione, segue l’Amen delle stelle, per chiudere con
l’Amen del Giudizio e l’Amen della Consumazione.
Ma se l’arte ha saputo nella storia interpretare ed
utilizzare il cielo stellato per le proprie esigenze queste non hanno mai
contribuito in forma diretta ad una ritualità, ad una liturgia. Il Cielo
stellato ha costituito un “naturale e semplice” collegamento tra la
terra (luogo degli uomini) e l’infinito (luogo della divinità) e da tutti
ampiamente e pienamente utilizzato, come abbiamo potuto vedere.
Da questa semplice e non esaustiva carrellata di esempi
(gli esempi non sono mai abbastanza) emerge però un singolare e importante
dato: il cielo stellato non è il punto di arrivo ma un mezzo attraverso il
quale sia possibile raggiungere la divinità. Il cielo stellato non come meta ma
come filtro, come elemento mediale in un sistema di rapporti tra uomo e sua
trascendenza.
Che sia esso particolarmente dettagliato o semplicemente
sfumato, semplice o prezioso nei materiali esso non “contiene” mai la
divinità ma la “vela”, la cela e la contorna.
L’uomo dovrà attraverso la sua conoscenza mediare tra
terra e divinità attraverso il cielo come metafora di ascesa. Verso il cielo il
bene, al suo opposto il male.
Terra come elemento di mediazione con gli lnferi, cielo come elemento
di mediazione con il Divino.
Quale rapporto
esiste allora tra l’uomo e il cielo? È il medesimo che esiste tra l’uomo e la
terra?
Corpus Massonico
Se il rapporto con il cielo è verso l’alto quello con la
terra è verso il basso è il caso di ricordare uno dei due incipit del presente
lavoro:
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è
in alto è come ciò che è in basso
Il Tempio massonico
è la peculiare rappresentazione di quanto scritto nella tavola smeraldina, non
per mera definizione e attribuzione ma per specifico sistema.
La ritualità si
svolge sopra un pavimento a scacchi e sotto la volta celeste e da questi due
elementi è “contenuta”.
Il Tempio dei
liberi muratori è trasposizione simbolica di un tempio ipetrale[5],
cioè un tempio a cielo aperto. È noto che in antico le riunioni massoniche
avvenissero en plein air. Perciò nel soffitto delle officine si apre un
riquadro rettangolare (affrescato) che simula la volta celeste trapuntata di
stelle.
21 x 29,7 cm, 2007, Éditions Durand
L’uomo ha da sempre
levato al cielo, con primordiale stupore, il proprio sguardo interrogativo. Il
Dante esoterico, summa della sapienza medioevale e fedele d’amore, fa sì che
ciascuna delle tre cantiche della Commedia termini menzionando le stelle: e
quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno)
/ puro e disposto a
salir alle stelle (Purgatorio) l’amor
che move il sole e l’altre stelle (Paradiso)
Alla luce di alcune
definizioni che abbiamo potuto percepire nell’excursus artistico possiamo
affermare che l’uomo ha il dovere morale di tendere verso l’alto e quando
questo viene meno la mediazione con la terra è “governata” dal
pavimento a scacchi che concede, ricorda e riallinea chi lo percorre
permettendo di riprendere il giusto equilibrio, mentre la mediazione verso
l’alto è “governa” dal cielo stellato ovvero un “velo” o
filtro rispetto alla Divinità alla quale tendiamo elevandoci attraverso la
scala di Giacobbe che percorriamo esercitando le virtù su di esse adagiate e
che incontriamo nel nostro cammino.
Il Tempio Massonico non è una porzione da cui osservare
l’universo ma è l’intero Cosmo, uno spazio aperto che non ha pareti, ma essendo
esso stesso Cosmo è impossibile delinearne le dimensioni e ovviamente è
impossibile definirne le “visioni”. Questa o quell’altra costellazione
sono semplice scelte poiché la volta celeste è simbolicamente rappresentata ma
non definibile.
Il cielo stellato prescinde da ciò che in esso è
rappresentato.
A Gerusalemme, in una caldissima sera d’agosto poco prima
dell’avvento del Messia…
“Il
“Gadol Cohen ” si svegliò presto quella notte e volle riguardare
ancora una volta quello spettacolo nel cielo che già aveva ammirato la sera
prima. Uscì dall”‘Ulam ” del Tempio, in quell’afosa serata estiva,
scandita dalle folate di un vento caldo, passando accanto alle colonne
“Boaz” e “Jachin”. Uscì sulla spianata del Tempio ed il suo
sguardo, dopo aver superato, alla sua sinistra, lo “lam Mutzach ”
si diresse verso il cielo, con un moto di devoto rispetto,
‘tle-Qedem “.
Il sole sarebbe
sorto in quel punto soltanto 2 ore più tardi, ma qualche pallida luce iniziava
già ad annunciare timidamente l’alba. Lì, poco più in alto della linea
dell’orizzonte, si posò il suo sguardo, su quel punto del cielo chiamato dagli
astronomi del suo paese “Sartan “. Quasi al centro di questo settore,
gli avevano insegnato, c’era un punto divino, davvero importante per tutti loro
e per il Creatore.
Era un piccolo e ristretto
agglomerato grigio di stelle, dalla luce fioca e lontana, chiamato
“SharAischim ” Era quasi un punto, gli aveva spiegato il suo vecchio
maestro rabbi, in cui la volta celeste era più sottile e le anime degli uomini
scendevano tutti i sette cieli, provenienti dal “Magazzino delle
Anime”, per incarnarsi nei loro corpi, seguendo i dettami della “Shevirat
Ha-Kelim “, soltanto per volere del Creatore oppure risalivano lungo la
scala di Giacobbe, secondo principi e virtù.
Due piccole fioche
stelline20 erano poste ai lati della ‘Porta”, una un po’ a nord
e l’altra un po’ più a sud, quasi a sorvegliarne e custodirne con rispetto il
sacro accesso. Con umiltà pensò che anche la sua anima avesse fatto un giorno
quello stesso tragitto, ed i suoi occhi brillarono di commozione, ma ricordò
anche che, spesso, alcuni corpi celesti (Pianeti) vi finivano ‘dentro’ nel
corso dell’anno. E quello, per tutti loro, era sempre un grande momento per
onorare la magnificenza del Creatore. Anche quella sera stava succedendo quel
momento meraviglioso e davvero speciale: il rosso “Maadim ‘ era proprio
dentro alla “Porta”, ma c’era anche di più. La bianca “Nogah
” era posta un poco più a sud, ma davvero molto vicina alla “Shar
Aischim” ed a “Maadim” che vi stava dentro in quel momento.
Quello era un presagio nel cielo che sembrava fatto apposta per segnalare un
evento davvero speciale, da ricordare per tutti loro, e che era stato scritto
per sempre fra le stelle “
Il cielo stellato, tra tutti gli spettacoli della natura,
è quello che più è capace di scuoterci profondamente, stimolando la riflessione
sulla nostra natura e sul “senso” della nostra esistenza, il cielo
stellato è sentito come irraggiungibile, come ‘ultimo orizzonte” oltre al
quale, al pari della siepe dell’infinito di Leopardi, non possiamo avventurarci
se non con il pensiero. La sensazione di irraggiungibilità e di estensione
illimitata nello spazio e nel tempo, suscitata dalla visione del cielo stellato
genera in noi una mescolanza di sentimenti di ammirazione, per l’imponenza ed
immanenza del Cosmo, e contemporaneamente di angoscia, nel momento in cui
confrontiamo la nostra limitatezza con l’infinità del cielo. Il cielo è
riprodotto sulla volta del tempio che non è, appunto, un luogo delimitato ma è
l’intero cosmo nel cosmo.
La volta celeste posta sopra il Tempio, a prescindere dal
suo contenuto fisico o della costellazione in essa rappresentata rappresenta
anche un altro principio, spesso dimenticato della Massoneria, ovvero la
crescita personale di ognuno Massone e il suo miglioramento personale.
Così come ci ha ricordato il G.M. nella sua ultima
allocuzione[6]riportando la definizione di “religioso” delle scuole del
Vedânta e della dottrina religiosa del Giainism0 [7][8]per le quali la Religione non è altro che il rapporto personale con un
essere divino o trascendente a cui ci sottomettiamo e a cui rivolgiamo le
nostre preghiere, per ottenere vantaggi materiali, oppure illuminazione
spirituale, o morale e il cielo è universalmente il simbolo delle potenze
superiori all’uomo, benevole o temibili.
In antichità gli Auruspici Etruschi indicavano con la
presenza o assenza delle Stelle il «carattere» del Cielo, del Numinoso. In
presenza di Stelle il responso divino è benevolo, al contrario un Cielo
tempestoso rivela la collera divina.
Il cielo del Tempio
è stellato, dunque benevolo.
Il Cielo rappresenta tutto ciò che sovrasta l’uomo,
l’insondabile immensità, la sfera dei ritmi universali. Tutti gli esseri sono
prodotti dall’unione «coniugale» del Cielo con la Terra, del Padre Celeste con
la Madre Terra. In Egitto, però, curiosamente le polarità s’invertono. La dea
Nut è celeste, il dio Geb terrestre: dalla loro unione nascerà, il Sole.
Nelle religioni orientali come l’induismo, il taoismo e
lo shintoismo, il cielo stellato è spesso visto come un segno di una presenza
divina. In alcune tradizioni, le stelle sono associate a divinità specifiche e
il loro movimento è interpretato come un segno di volontà divina. Ad esempio,
nell’induismo, le stelle sono associate ai pianeti e il loro movimento è usato
per la previsione astrologica. Nel taoismo, il cielo stellato rappresenta la
totalità dell’universo e il suo ordine cosmico. Inoltre, nello shintoismo, le
stelle sono considerate una manifestazione della presenza divina in cielo.
Nelle tradizioni esoteriche e spirituali, il cielo
stellato ha un significato simbolico profondo. Ad esempio, nella Cabala ebraica,
le stelle rappresentano gli spiriti degli uomini giusti che hanno raggiunto la
purezza spirituale. Nell’alchimia, le stelle sono viste come rappresentazioni
dei diversi elementi e forze cosmiche che influenzano il mondo materiale.
Inoltre, nell’astrologia, le posizioni e gli allineamenti delle stelle al
momento della nascita di un individuo sono visti come influenti sulla sua vita
e il suo destino. In molte tradizioni spirituali, il cielo stellato viene anche
associato alla conoscenza divina e alla via verso l’illuminazione spirituale
Nell’Apocalisse il Cielo è la dimora di Dio; al
contrario, i Celti non pongono in Cielo la residenza degli Dei. Nella
cosmologia dei popoli uralo-altaici vi sono nove cieli, raffigurati attraverso
tacche incise sull’Albero del Mondo, la Betulla.
Nella mistica sufi, le stelle sono viste come simboli
dell’infinito e dell’eternità, e la contemplazione del cielo stellato viene
considerata un modo per avvicinarsi a Dio e alla verità divina.
Per gli Algonchini americani26 i cieli sono dodici;
mentre gli Aztechi parlavano di tredici cieli e nove mondi inferiori27.
L’espressione «Figlio del Cielo e della Terra» appartiene sia ai Misteri
Orfici, sia al Taoismo. Il Figlio del Cielo e della Terra è l’Imperatore (Wang)
come archetipo del Vero Uomo, dell’lniziato.
La disposizione della Loggia varia secondo i Riti ma
esistono regole assolutamente obbligatorie da osservare: la Loggia, di forma
rettangolare. rappresenta il cammino che conduce dall’Occidente all’Oriente,
cioè “verso la Luce”: il Trono del Venerabile all’Oriente, il suo
lato destro indica il Mezzogiorno, il lato sinistro il Settentrione. Il
soffitto rappresenta il cielo stellato. Infatti il Tempio simbolizza il Cosmo:
ecco perché pur conoscendone le “proporzioni” non esistono
“dimensioni”: la sua lunghezza va dall’Occidente all’Oriente, la sua
larghezza dal Settentrione al Meridione, la sua altezza dal Nadir allo Zenit.
La contemplazione del cielo stellato viene vista come un
modo per aumentare la consapevolezza di sé, per connettersi con la dimensione
cosmica e per raggiungere una comprensione più profonda della realtà.
Il Tempio o Loggia è un luogo aperto e questo è anche
fisicamente riscontrabile nella tavola di tracciamento di I grado dove non
esistono pareti o limiti fisici in nessuna direzione, limitato per essere
utilizzato in basso dal pavimento a scacchi e in alto dal cielo stellato.
Il cielo stellato rappresenta la divinità, la saggezza e
l’ordine cosmico e simboleggia la presenza divina nell’universo. Il cielo
stellato della Sala del Tempio costituisce sostanzialmente ad un invito a
raggiungere una comprensione più profonda della realtà e a cercare la verità.
Esso rappresenta la necessità di mantenere un ordine e una struttura nella
propria vita, come nel cosmo: le stelle rappresentano gli ideali e i valori che
i massoni cercano di perseguire nel loro cammino spirituale e nella vita quotidiana.
Quando una Loggia è impegnata nei lavori rituali questi vengono
svolti sotto un cielo stellato e testimonianza del rapporto trascendente che
esso ha con l’uomo. Questo rapporto è visto come un legame che supera la
dimensione materiale e che connette l’iniziato con una realtà più grande e
divina.
Nel platonismo, il cielo stellato rappresenta la
dimensione delle idee eterne e l’uomo è invitato a elevarsi verso di esso per
raggiungere una comprensione più profonda della realtà così come l’iniziato
avendo accesso agli “strumenti” può andare oltre il semplice sguardo
profano.
Nel neoplatonismo, il cielo stellato è visto come una
manifestazione della divinità e la contemplazione delle stelle è considerata un
modo per avvicinarsi a Dio, ragione per cui i nostri lavori si definiscono
“rituali” essendo la ritualità l’unica strada che conduce alla
Divinità.
Pur avendo visto le molte rappresentazioni nelle diverse
arti del cielo stellato possiamo concludere che esso è sempre e assolutamente
un riferimento esoterico e spirituale se posto come coronamento, sfondo o
completamento di gestualità rituali o luoghi significativamente
“rituali”. Il cielo stellato è sempre associato all’anima umana e
alla sua dimensione spirituale, e la contemplazione del cielo stellato è sempre
vista come un modo per raggiungere una comprensione più profonda di sé e della
realtà, per il Massone una perfetta via da percorrere, come un ideale
“Cammino di Santiago” lungo la Via Lattea.
La volta stellata è anche il simbolo dell’ideale di
fratellanza, ciascun fratello è avvolto dalla stessa volta celeste, uniti l’uno
all’altro dalle stesse luci e dallo stesso mistero, dallo stesso segreto; il
fratello di Loggia è uguale, per ideale di fratellanza, al fratello di un altro
differente luogo sulla terra, uguale al fratello di qualsiasi altra lingua
troppo lontano fisicamente per essere incontrato nella vita profana. Il cielo
della volta stellata del tempio, benché notturno, lo testimonia la presenza
delle stelle, non è nero ma turchese colore di un momento particolare del
giorno, quello dell’idea che, una volta infranto il velo della Notte, precede
l’Alba e il Sorgere del sole della fratellanza.
Non ha valore rituale, quindi, questa o quella
costellazione, il cielo stellato della Loggia, come in arte, non determina il
valore esoterico del Tempio. Non importa quale sia la sua rappresentazione e
cosa contenga – che rimane una libera scelta – ma l’importante è che ci sia
poiché è un “simbolo”!
L’Iniziato
che percorre la Via Iniziatica è in grado di ascendere al Cielo. Non si tratta
di ottenere la Salvezza con la fede, quanto di ascendere al Cielo, diventando
Divino.
[1] Dal termine
indoeuropeo Tem. Il sistema morfologico dell’indoeuropeo (così come
il sistema
fonologico e in genere tutta la grammatica di questa
lingua)
è una ricostruzione frutto del confronto tra le lingue indoeuropee di attestazione
più antica
e, in mancanza
di queste,
tra le
lingue moderne, ipotizzandone una origine comune. L’indoeuropeo è infatti
l’ipotetica protolingua preistorica ricostruita che si ritiene comunemente
essere
[2] Cfr. Michele
Galassi – La volta celeste, il paradigma ermetico
e la “coincidenza de lio osti” – Ma io 2015
[3] Parola ebraica
(‘âmën), passata anche in altre lingue semitiche (siriaco, etiopico, ecc.),
nelle versioni greche e latine del Vecchio Testamento e nei varî testi del
Nuovo. Deriva dalla radice semitica ‘mn col senso “sostenere, esser
saldo”, quindi “esser sicuro, certo, veritiero”
[5] Si chiama
così l’edificio, in particolare il tempio, privo di copertura nella parte
centrale. Nessun tempio conosciuto era esattamente del’ tipo descritto da
Vitruvio (III, 2) come ipetrale; vi si accostavano l’Olympieïon di Atene
e il tempio
di Apollo
a Selinunte.
cfr. A.
Choisy,
Vitruve, l, Parigi 1909, p. 165
[6] Cfr. Religione e
Sacro – Allocuzione nella Gran Loggia del 5 novembre 2022 Fabio Venzi
LA GRANDE
RELIGIOSITA’ DELL’EROE DEI DUE MONDI: IL SUO CREDO IN DIO, NEL VERO E NEL GIUSTO
di
Aldo Chiarle
GIUSEPPE GARIBALDI, INTOLLERANTE
Dl OGNI IMPOSTURA DEI PRETI “PESTE DELL
‘ITALIA
Ancora oggi pochi hanno la visione chiara della
religiosità alta e sublime di Giuseppe Garibaldi; la pubblicistica di dozzina
lo fa passare per antireligioso e negatore di Dio.
Nulla di più inesatto, perché della religiosità e di
Dio Giuseppe Garibaldi ha sempre fatto norma di vita. Annota l’eroe: “Chi
è Dio? E’ il regolatore del mondo. E’ quella intelligenza infinita la cui
esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia
che regge i corpi celesti disseminati, chiunque deve confessare”
“Come tutti gli esseri, io sono dotato di una
quantità di intelligenza e se l’intelligenza universale che anima tutto è Dio,
io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Divinità, sarei una parte e
questa idea mi nobilita, mi soddisfa fa qualcosa del mio nulla e contribuisce a
sollevarmi dalle miserie di questa vita.
“Io accenno, ma non insegno, poiché mi sento
troppo infinitamente nulla al cospetto dell’onnipotente per poterne ragionare.
Semplice bella e sublime è la religione del vero; essa è la Religione del
Cristo, poiché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’Eterna Verità. “Non
fare agli altri ciò che non vorreste per voi” e “Chi non ha
sbagliato, getti la prima pietra sul delinquente”. “Di fratellanza il
primo concetto e simbolo di perdono il secondo. Simboli, precetti, dottrine
che, radicati negli uomini, costituirebbero quel grado di perfezione e
prosperità a cui è suscettibile giungere”
Ma se era grande la religiosità di
Garibaldi, grande era la sua reazione contro le imposture religiose.
Il suo anticlericalismo non era di maniera, non era
vuota retorica ma era l’esplosione di un animo generoso, conscio della assoluta
inconciliabilità del prete con un domani migliore, ln cui il trionfo della
libertà e della giustizia spianasse il cammino all ‘illuminato progresso.
“E’ dovere di ogni italiano di combattere il
prete, peste dell’Italia”, egli scriveva il 25 agosto del 1868 e il I
gennaio 1889 scrive da Caprera ad un convegno di liberi pensatori, augurandosi
presto fosse cancellata “la cancrena sacerdotale che appesta il
paese”.
Agli organizzatori di un solenne comitato per
estendere a Roma e al Lazio la “Pressione delle corporazioni religiose,
così il generale nel 1870: “abolire le corporazioni religiose è salvare l’
Italia dalla rogna più pericolosa da cui possa essere colpita una nazione ..
.il sacerdozio è puntello di ogni tirannia mascherata… non istiamoci garruli
ed indolenti a contemplare cretinamente ciò che si trama a Roma per colpirci
col doppio gioco della menzogna e del furto”
E successivamente aderendo al
Congresso razionalista di Bruxelles proponeva i seguenti punti:
I liberi pensatori sono apostoli del vero, cioè della
ragione, della scienza, e però sono anche i migliori istitutori dei popoli e le
scuole debbono essere laiche.
I preti, a qualsiasi religione rivelata appartengono
(buddismo, maomettismo, cattolicismo, ecc.), sono falsi apostoli. Essi, gli
autori delle torture, dei roghi, dei sacrifici umani, sono i naturali nemici
delle nazioni, che hanno mantenuto e che mantengono sempre in sanguinose
discordie.
E pochi mesi prima della sua morte, quasi presago
della fine, Garibaldi scrisse due lettere, una ai messinesi e l’altra ai
palermitani e le volle scrivere di suo pugno.
Ai messinesi: “…ricordando il più grande
eroismo di popolo che registri la storia del mondo, il Vespro, vi rammenterò
soltanto che gli assassini dei nostri padri di quell’epoca furono mandati e
benedetti da un papa e che i successori di quell’infallibile scellerato hanno
venduto l’Italia settanta volte allo straniero e che oggi stesso stanno
trattando di venderla e non vi riescono per mancanza di mediatori e di
barattieri”. Ai palermitani “A te, Palermo, città delle grandi
iniziative!
Maestra nell’arte di scacciare i tiranni, a te
appartiene di diritto la sublime iniziativa di scacciare dall’Italia il
puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti, il patriarca della
menzogna, che villeggiando sulla destra del Tevere, sguinzaglia di là i suoi
neri scagnozzi….”.
Ma I ‘idiosincrasia per la “nera tonaca”
copre un sottofondo ma serio, è la sensibilità di un grande uomo per i problemi
dello stato di diritto, per una società laica responsabile e democratica,
“L’Italia – scrive Garibaldi – è il paese dove il governo e i preti,
mantengono diciassette milioni di analfabeti”
E il suo giudizio sulle Leggi delle Guarentigie, dopo
Porta Pia, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa è deciso e drastico:
“L’Italia amoreggia oggi con l’idea sacerdotale e la lecca, l’accarezza,
supplicandola genuflessa, acciocché le mantenga i suoi figli nella ignoranza e
nell ‘abbruttimento, chiamando l’atto suicida delle garanzie”.
Per Garibaldi il papato rimane “sempre il mortale
nemico della libertà italiana e lo ha sempre contro in tutte le sue battaglie:
gli austriaci da parte loro e i preti non mancano mai di fare le indagini
possibili per scoprirmi… i preti poi dal pergamo e dal confessionale
suscitano le cittadine ignoranti a far la spia per la maggiore gloria di
Dio”
Nel suo testamento, vergato di pugno, scrive: “Ai
miei figli, ed a quanti dividono le mie opinioni, io lego I ‘amore mio per la
Libertà, per il Vero, il mio odio per la menzogna e la tirannide”
“Siccome negli ultimi momenti della creatura
umana, il prete profittando dello stato in cui si trova il moribondo e della
confusione che sovente vi succede, s ‘inoltra e mettendo in opera ogni turpe
stratagemma e coll’impostura di cui è maestro che il defunto compiti,
pentendosi delle sue credenze passate ai doveri di cattolico, in
considerazione, io dichiaro che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio
accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole, scellerato di un
prete che considero atroce nemico del genere umano e dell ‘Italia in
particolare. E che solo in istato di pazzia o di ben grassa ignoranza, io credo
possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada”
Terminiamo questa carrellata sul pensiero di Garibaldi
uno scritto che ci auspichiamo venga meditato perché di palpitante attualità:
“Quando io penso al potere dei preti, conservato ad onta d’ogni
scelleraggine appenda credibile e di cui dovrebbe essere incapace l’umana
natura anche di idearle, dico che in questo secolo che si chiama civile mi
viene sovente il dubbio che cotesti cretini a cui appartengo per forme, altro
non sino che una delle tante famiglie di scimmie da me vedute nel nuovo
mondo”
“Un prete è un impostore. Chi può provare il
contrario? E vi vuol poi tanta matematica per capirlo? Eppure la potenza di
quell ‘essere malefico continua. Le plebi ne sono affascinate ed il despotismo
si serve di cotesto fascino per malmenare i popoli. E si grida da una parte e
si fa i sordi dall’altra, ed intanto va avanti questo bordello chiamato
costituzione di popolo libero”.•