PLATONE E IL MITO DELLA CAVERNA..

PLATONE E IL MITO DELLA CAVERNA…

Il caldo sole d’ agosto non finirà giammai di stupirmi !

Non tirerò in ballo i festanti vacanzieri, che succintamente vestiti sostano accaldati sul bagnasciuga, mentre a piedi nudi cercano refrigerio scavando piccole buche, nella sabbia bagnata. Non si illuda neanche chi, impugnando un bastone, con calzoni di velluto e scarponi, si avvia con determinazione verso lunghi e tortuosi sentieri di montagna, mentre il sole d’ agosto, malgrado il verde dei boschi, implacabile, surriscalda i muretti di pietra lungo i costoni.

Il solleone è, al contrario, ancor più generoso – pensate un po’ – proprio con chi rimane in città, impedito a raggiungere luoghi ameni di svago e, come spesso avviene, di apparente riposo.

Sembrerà strano sentirlo, ma è stupendamente meraviglioso il silenzio della città vuota, con le strade deserte e senza l’ ammorbante puzzo degli scarichi combusti delle auto L’inconscia esigenza, poi, di dare un plausibile senso alla mancata partenza, diventa necessaria, impellente quasi, per predisporci meglio a bene impiegare il tempo, che considerata la totale assenza di incombenze di lavoro, non è certo limitato.

Ma, senza che me lo aspettassi, cosa incredibilmente insolita, sento farsi strada, tra le tante cose lasciate in sospeso, il desiderio, non molto convinto all’ inizio in verità, di mettere ordine tra i libri e gli scritti, ammonticchiati sui tavoli di lavoro della stanza “degli inferi “, ovvero lo studio inaccessibile a tutti. La prima sensazione, che colpisce chi inavvertitamente ha la sventura di varcare quella soglia, è di entrare in una giungla, dove al posto degli alberi vi sono pile di libri, che partono dal pavimento, e poi giornali, mille e mille oggetti, ricordi, simboli, immagini ed altro, sulle pareti e sospesi, che farebbero la felicità di un rigattiere. Un luogo da cui nessuno ha fatto mai ritorno e particolarmente chi, animato da fraterno spirito di sacrificio, ha tentato, avventurandosi senza una guida, di tracciare un sentiero percorribile, nella grande savana della carta stampata che è il luogo in cui vivo i miei momenti dedicati allo spirito.

Presto m’ accorgo, dando un’occhiata qua e là, che l’inesperienza degli anni verdi, purtroppo ormai lontani, spesso fa passare sotto i nostri occhi indifferenti, argomenti di notevole interesse.

A parte la parentesi scherzosa del luogo dove sono solito isolarmi, per scrivere e meditare, questo preambolo mi è servito per meglio raccontarvi quel che mi è capitato nei giorni scorsi, rileggendo la “Repubblica ” di Platone, non quella di Scalfari.

Ho riscoperto un Platone nuovo, che non ricordavo. Non certo il filosofo pedante e noioso, che parla di cose comprensibili solo da chi è addetto ai lavori, ma il saggio ed illuminato “opinionista ” che ben 2600 anni addietro, con parole semplici e non roboanti, affrontava argomenti di notevole spessore esistenziale, dicendo solo quel che andava detto, riuscendo ad essere, anche per noi del XX secolo, attuale come non mai.

Eccovi una, fra le tante, bellissima allegoria di cui Platone si serve per farsi capire dal suo interlocutore, sfuggendo così alle macchinose esposizioni, e ai giri di parole, che spesso, per la condizione umana, imbrigliano il pensiero. E’ quella della “caverna “, che riporterò con parole mie nel tentativo di evidenziare l’ attualità del pensiero del grande filosofo.

Alcuni uomini – dice Platone – sono da sempre incatenati in una caverna, con le facce rivolte verso la parete di fondo, tenuti saldamente stretti tanto da essere impossibilitati a girare la testa. Alle spalle di queste persone, fuori della caverna, vi è una strada e tra l’ingresso della caverna e la strada, un muro ad altezza d’ uomo e, ancora dietro, un grande e immenso fuoco.

Immaginiamoci – continua Platone – che alcuni passanti percorrano la strada portando sulle spalle una serie di oggetti diversi: casse, statue, armi, bandiere e candelabri. La luce del fuoco, illumina gli oggetti e proietta, sulla parete di fondo della caverna, soltanto l’ ombra degli stessi e non quella degli uomini, che viene fermata dal muro, lungo la strada. Gli uomini, incatenati nella caverna, che non hanno visto mai nulla di simile, vedranno soltanto ombre vaghe e confuse degli oggetti, tra l’altro distorte dalle asperità della caverna ed ingrandite per la distanza, tremolanti per il danzare delle fiamme. Per essi, quelle ombre rappresentano la realtà, I ‘ unica e sola realtà che conoscano, confermata, tra l’ altro, dal vociare di coloro che passano, per la strada. Ad un certo punto, però, accade un fatto imprevisto. Uno dei prigionieri riesce a liberarsi e a fuggire. Appena fuori dalla caverna, però, presto rimane abbagliato dall ‘ impatto con la luce del fuoco e, cosa non da meno, stordito dalle mille e mille domande che improvvisamente sembrano accavallarsi nella sua mente. Pian pianino, poi, i suoi occhi assuefatti alla luce, gli consentono di distinguere cose che egli non aveva giammai visto. Gli fanno capire, senza mezzi termini, che la “realtà ” in cui credeva, non era quella delle ombre proiettate sul fondo della caverna e neanche di tutto ciò che pensava, allora. La realtà, si rende presto conto, è ben diversa. In un impeto generoso, egli avverte, impellente, il desiderio di raccontare ai suoi compagni di prigionia quanto diverso sia il mondo all’esterno. Decide, generosamente, di ritornare nella caverna. Presto, egli si renderà conto, purtroppo, di quante difficoltà sarà costretto ad incontrare, e quanto vani saranno i di spiegare agli altri la “vera realtà” che è fuori della caverna: fra tutte, quella legata all’ assoluta carenza di giusti vocaboli per la formulazione dei concetti esaurienti, e chiari, necessari per farsi credere dai compagni di prigionia.

Che dire poi, dello smarrimento da cui sarà pervaso allorquando, adattatosi alla luce, per un certo lasso di tempo, immerso nel buio, non distinguerà più nella caverna le ombre che una volta erano tutto il suo mondo, e che continua ad esserlo per gli altri incatenati? I suoi amici, malgrado i suoi tentativi, non gli crederanno: “E’ impazzito – essi diranno – anzi, è in preda alle allucinazioni”.

Triste destino attende il nostro generoso fuggitivo. Egli non verrà creduto da nessuno e rimarrà inascoltato e isolato da tutti. In compagnia della sua solitudine.

L’intimo significato di questo racconto allegorico, ci induce a fare qualche considerazione.

Ben “sei secoli” prima del Cristo, Platone già sapeva che la “realtà ” non è che l’interpretazione di un qualcosa che spesso appartiene al mondo delle illusioni.

Com’è possibile che un messaggio tanto antico – che viene da così lontano – sia stato ignorato, così come ignorati sono stati, sistematicamente, altri autorevoli messaggi del passato? Gesù, quando affermava “Il mio regno non è di questo mondo” – non voleva, per caso, dire la stessa cosa? Non ci sfiora il sospetto di aver trattato alla stessa maniera del prigioniero che torna alla caverna, gli astronauti, alcuni dei quali rimasero seriamente danneggiati psichicamente, al rientro dai viaggi spaziali? Anch’essi, a seguito della esaltante esperienza spaziale, raccontarono di aver vissuta una realtà sconosciuta, completamente diversa da quella sulla terra: una realtà che stava tra cielo e terra, molto simile alla frase “Ci sono più cose tra cielo e terra… che Shakespeare fece dire ad Amleto.

E intanto, la vita continua. Tutto rimane immutato perché l’uomo considera – o gli viene fatto credere – che l’unica realtà è quella esistente e che conoscerà “l’altra realtà “, solo dopo la morte. Per il momento, è cosfretto a vivere una realtà fatta di ombre, si, come quelle della caverna, perché imprigionato nel corpo fisico – la sua condanna – abituato, di conseguenza, a conoscere un solo aspetto della realtà, quello della sua esistenza umana.

Riflettiamo, per un solo istante. Guardando un “albero”, noi non facciamo altro che osservare una rappresentazione cerebrale e mentale: il risultato, cioè, di una serie di stimolazioni tattili o visive, che percorrendo un itinerario interiore, forniscono una percezione esclusivamente personale. Noi, conosciamo l’ immagine mentale di una cosa concreta, che è fuori di noi, e la chiamiamo con il nome che sin da piccoli ci hanno insegnato. Non sapremo mai se quel nome, per altri, definisca una immagine mentale uguale alla nostra e se le stimolazioni visive e tattili, sortiscano le stesse sensibilizzazioni.

A questo punto, mi sembra che l’immagine dell’albero sia molto simile ad un’ombra proiettata sulla parete di una caverna e che fornisca, a coloro che ivi stazioneranno, tutta una serie di realtà apparenti, che si adatteranno perfettamente a tutti, a seconda del grado di cultura, di sensibilità e di percettività. Potremmo dire, quindi, che la realtà non è molto diversa da quella che consideriamo essere l’ immaginazione e, per quanto paradossale possa sembrare in apparenza, potremmo definirla come la concordanza del “maggior numero di definizioni ” di uno stato immaginativo, che la definiscano, indicandola come “unica realtà ” La vera e unica realtà, come diceva Platone, è la nostra realtà, quella che percepiamo: quel che conta è l’ immagine che ciascuno ha di se stesso, perché è la unica, realmente esistente. Ed ecco che la “psicodinamica ” – che insegna a scoprire la propria realtà – entra di forza nell’ argomento e ci induce a non dare eccessiva importanza alle ombre e, di conseguenza, a non aver paura di affrontare, conoscere l’ interiorità della propria immagine. Anzi, indispensabile diventa l’ impegno che ogni essere umano deve riporre nel migliorare la propria realtà interiore e, per quanto è possibile, a perfezionarla. Questa è l’ incredibile e piacevole scoperta, che ho voluto raccontarvi. Platone! Chi era mai costui che conosceva la psicodinamica? Pensate un po’ , eravamo nel 600 avanti Cristo…             

 Silvio Nascimben

Presidente del Collegio Circoscrizionale della Puglia

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