DALLA PIAZZETTA ELLA CHIESA. . .

    RACCONTI DEL MISTERO

Dalla piazzetta della chiesa…

…verso l’ignoto

di

Valentino Romano

Non s’era mai vista tanta gente nella piazzetta della Chiesa. ” Neanche durante le feste patronali”, pensò Giuseppe arrivandovi. Il brusio della folla era sostenuto, eppure non dava fastidio.

Ognuno parlava con i vicini, ma sembrava farlo in uno spazio molto più ampio, per cui il vociare di tutti non disturbava nessuno. Giuseppe avvertiva una strana sensazione dello spazio: gli capitava di pensare alla ‘piazza” come ad un luogo le cui dimensioni s’ingrandivano progressivamente per consentire alla gente che era presente d’ aumentare continuamente.

Le distanze tra le case, la Chiesa, gli alberi e la strada apparivano però sempre uguali.

Era come se lo spazio si adeguasse al numero sempre crescente delle persone che vi confluivano, pur rimanendo inalterato.

 non fu l’unica stranezza che Giuseppe credette di cogliere. Guardò tra la gente nel tentativo di scorgervi volti conosciuti e ne percepì una seconda: non ne riconosceva nessuno; ma ognuno di essi aveva comunque per lui qualcosa di familiare.

Era come se fossero tutte persone che – per qualche verso – avessero attraversato la sua memoria, ognuno deponendovi, in chissà quale meandro, un diverso messaggio. Ora questo, insieme con tutti gli altri, veniva stranamente richiamato, riaffiorando in una confusa simultaneità.

Se però Giuseppe, per totalizzare meglio il ricordo, provava a fissare un volto, questo sembrava sfocarsi nei contorni e divenire anonimo, ancor più degli altri. E così per il primo, per un altro e per un altro ancora.

Proprio come quando si vuole ridare volto e nome ad una persona vista appena in passato e di cui, per un motivo qualsiasi, se ne riaccenda improvvisa memoria.

Giuseppe poi era sempre stato un distratto, abituato a non registrare i particolari che lo circondavano: spesso gli capitava di accorgersi di un mutamento nelle cose che erano intorno a lui solo parecchio tempo dopo che quello era avvenuto.

Quella volta non poté tuttavia accorgersi che anche gli abiti avevano un che d’insolito: la loro foggia era diversa come se fossero stati confezionati in tempi diversi.

Fu scosso allora da un fremito di paura verso un ignoto che non riusciva a comprendere.

Decise di saperne di più: si diresse verso la Chiesa per trovarvi qualcuno che lo aiutasse a capire; sulla porta aveva scorto un gruppo di preti.

Non so se la speranza o la paura – o forse entrambe – gli fecero credere di individuarvi un volto finalmente amico.

“Ci cascava pure lui, pensò. Come la gran parte degli uomini che, avendo paura di ciò che non capiscono, tentano di esorcizzarlo rifugiandosi in Dio”.

Pochi metri lo separavano dal gruppo: affrettò il passo, mentre una inenarrabile commistura d’apprensione, turbamento e insieme di curiosità, gli pervadeva il cervello.

Era quasi giunto a metà strada quando sentì chiamarsi per nome.

Guardò verso quella direzione un attimo, cercando di collegare al timbro della voce che aveva udito il volto di una persona conosciuta.

Il richiamo si ripeté: più chiaro, più deciso.

E dalla folla vide staccarsi due persone che avanzavano verso di lui, una delle due tenendosi appena dietro all’ altra.

Anch ‘egli, istintivamente, si mosse verso di loro, senza avere tuttavia il tempo di riordinare le idee.

“Figlio…” mormorò uomo più vicino e 10 ripeté, in rapida sequenza, altre due volte.

Allora riconobbe suo padre !

Dal fondo dei suoi ricordi, imperioso, riemerse lo stesso richiamo appena udito. Erano le ultime parole che suo padre aveva pronunciato, prima di morire.

Fluirono nella sua mente le medesime sensazioni di allora.

La malinconia ed il rimpianto della separazione si ripresentarono in tutta la loro intensità.

Ma fu un istante, solamente un istante.

Poi gli sguardi d’ entrambi, dopo essersi tanto cercati, si ritrovarono: e si parlarono nella lingua che solo il sangue conosce, dicendosi cose che avevano sapore d’ antico e riannodando tenere, complici e mai sopite intese.

Il rimpianto del passato perduto lasciava in Giuseppe il posto alla commozione di un presente assurdamente ricomposto.

L’altro uomo gli rivolse anch’egli la parola: “Proprio non mi riconosci?”

Giuseppe cominciò a tremare: in lui aumentava il panico di chi si trova in una situazione che non capisce. Pur tuttavia, non aveva paura di quell’uomo. Le sue sembianze avevano un che di vagamente familiare: gli ricordava qualcuno.

Improvvisamente capì: doveva essere suo nonno che pure non aveva conosciuto, perché era morto prima che lui nascesse:

L’ angoscia l’ avviluppò.

Cosa poteva mai essere quel luogo, che cosa accadeva intorno a lui di tanto assurdo da annullare tempo e spazio, stravolgendone i rapporti consueti

Il padre, come una volta, come sempre, capì e gli sorridesse con l’espressione appena malinconica di un tempo: “Giuseppe, possibile che ancora non capisci? Questo è il nostro paese. Ci siamo tutti: generazioni d’oggi insieme a quelle di ieri. Siamo la generazione di sempre. Siamo l’uomo, anzi la sua memoria. Quella che ci circonda è la comunità intera del nostro paese. Ognuno di noi vede le persone che ha amato così come vuole ricordarle e da loro percepisce l’ immagine di quelli che ci hanno preceduti. Così tu vedi me e, tramite me, vedi tuo nonno. L’amore è memoria del passato… E la memoria è l’ unica vera sapienza…”.

“…Allora papà, vuol dire che anch’io…”.

Giuseppe s’interruppe, mentre un lampo di luce gli baluginava nel cervello; rimase muto, ancora incapace di accettare la realtà…

“Si, figlio mio, è così: tu sei appena morto e questo è il luogo che in vita si chiama aldilà”

“Già, solo che adesso è aldiquà”, pensò Giuseppe con la solita immediata ironia che gli aveva permesso tante volte di superare momenti difficili. Sorrise, pensando alle sue paure da vivo.

Gli doleva morire ad esempio perché non sopportava l’ idea del distacco con suo figlio.

Ora invece tutto pareva aver perso l’ importanza attribuita alla vita: era sereno.

Aveva percepito la vera essenza della morte.

Fino ad allora ne aveva colto solo gli aspetti esteriori, intuendo che con i suoi silenzi essa irrideva al vociare convulso, e spesso a vuoto, della vita; che con il disfacimento delle forme ne abbatteva le diversità; che con I’ immobilità ne annullava il frenetico rincorrere e rincorrersi.

Adesso gli era finalmente anche chiaro che la morte non era né la fine né l’inizio di nulla; non conosceva delusioni perché non sapeva illudere; lasciava alla vita le gioie, perché suoi erano gli affanni: non distribuiva premi e nemmeno comminava condanne. Essa cancellava le colpe, rendendo inutile il perdono.

Tutto, la morte accetta, ogni cosa tollerando, con la pazienza estrema di chi è consapevole della propria superiorità finale.

         La sua vittoria stava soprattutto nel fatto che non divideva, ma univa.       

E così, senza più bisogno di parlare, con il padre che gli s’ appoggiava al braccio e con il nonno che li seguiva dipresso, Giuseppe s’ incamminò, finalmente pago, verso I ‘eternità.

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