NOTE SULLA SIMBOLOGIA DEL RAMO D’ORO

(Barcelona) The Golden Bough – Joseph Mallord William Turner – Tate Britain

Giuseppe Alvaro Renderò il deserto un lago d’acqua e la terra arida una fontana. Nel deserto pianterò il cedro, l’acacia, il mirto e l’olivo selvatico… Isaia, 41, 18-19 Pochi archetipi hanno esercitato nel tempo un fascino così profondo e fecondo come quello dell’ Albero, il cui simbolismo è diffuso virtualmente in ogni cultura umana. Pur se la trattazione esaustiva del suo significato esoterico e dei suoi innumerevoli miti va ben oltre le possibilità di questa tavola, merita di essere ricordato che l’albero, come l’uomo stesso, è dotato di una duplice natura, terrena e celeste, e simboleggia quell’ asse del mondo ponte fra il mondo della materia e quello dello spirito, cui sono riconosciuti significati e poteri immensi di conoscenza e di vita. Come “arbor vitae” o “arbor philosophica” spesso viene rappresentato capovolto, con le fronde in basso e le radici in alto, a significare il processo della creazione che – a partire dallo spirito – si manifesta nei multiformi aspetti del mondo sensibile. Uno dei più antichi esempi di albero rovesciato è quello descritto nelle Upanishad: “Questo universo è un albero che esiste eternamente, con le radici in alto e i rami che si estendono in basso. La pura radice dell’albero è Brahman, l’immortale, in cui i tre mondi (cioè il cielo, la terra e gli inferi) hanno il loro essere, che nessuno può trascendere, che è veramente il sé”. Metafisicamente l’Albero rappresenta la forza universale, che si dispiega nella manifestazione come l’energia della pianta dalle radici invisibili si dispiega nel tronco, nei rami, nel fogliame e nei frutti. All’ Albero, con alto grado di uniformità, si associano idee di immortalità e di conoscenza sovrannaturale da una parte, di tentazione e di forze mortali e distruttrici (serpi, demoni o draghi) dall’altra. In questa sede ci occuperemo soltanto del carattere “immortalante” dell’albero, carattere che come vedremo passa per analogia a sue singole componenti (rami, frutti…), che diventano quasi simbolo del simbolo. Già le Tradizioni più antiche testimoniano di una “bevanda di immortalità” che stilla dall’albero come “soma” o “amrta” nel mondo vedico, come “haoma” nelle antiche culture iraniche e soprattutto nella Qabbalah, ove al grande e possente “Albero di Vita” è connessa una “rugiada” per virtù della quale si produce la resurrezione dei morti. Altre volte sono i frutti dell’albero a promettere l’immortalità, come nel caso delle mele del Giardino delle Esperidi o dell’Albero della Vita biblico. Infine, ancora più spesso, sono i rami che appaiono come pegno di resurrezione ed immortalità: il mirto dei misteri eleusini, il “ramo d’oro” di Enea, l’ulivo e le palme della tradizione cristiana e più in generale i rami di alberi sempre verdi o che producono fiori gialli od olii usati nelle lampade, segno evidente della loro natura ignea e solare…. Lo studio di questi antichissimi simboli rivela importanti e ricorrenti analogie. Consideriamo ad esempio il vischio: questa pianta parassita che sottrae acqua e sostanze minerali alle altre piante era ritenuta dagli Antichi una pianta del regno intermedio (né albero né cespuglio) e secondo la leggenda nasceva dove il fulmine aveva colpito un albero. Per la sua natura sempreverde il vischio era considerato una panacea, nonché simbolo di immortalità. Particolarmente apprezzati nell’antica Roma e presso i druidi celtici, erano i ramoscelli di vischio che crescevano sulle querce. Secondo Ranke-Graves, essi erano considerati gli organi sessuali della quercia, così che quando i druidi li tagliavano con un falcetto d’oro a scopi rituali, attuavano una vera e propria castrazione simbolica. Il denso succo delle loro bacche rappresentava così lo sperma (che in greco significa “seme”) della quercia ed era considerato un liquido con grandi doti ringiovanenti. Plinio afferma che i druidi tagliavano i rami di vischio con falcetti d’oro, li raccoglievano in un panno bianco e li offrivano poi agli Dei insieme al sacrificio di due tori bianchi. Le tradizioni di tutto il mondo antico raccomandavano infatti l’uso delle mani nude o di strumenti d’oro nella raccolta delle erbe medicinali particolarmente preziose, allo scopo di preservarne la forza. Ecco ad esempio come la Sibilla descrive ad Enea, desideroso di ritrovare nell’Averno il padre Anchise, proprietà e modalità di raccolta del ramo d’oro: …Poiché se tanto amore e così grande desiderio si trova nel tuo animo di solcare due volte la palude Stigia e vedere due volte il nero Tartaro e ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale, è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro…. e ancora: …Pascendosi le colombe volando avanzano fin dove con lo sguardo potessero giungere gli occhi di chi le seguiva. Quindi, quando giunsero all’ingresso del maleodorante Averno, veloci si levano in volo e discese per l’aria limpida, si posano nel luogo desiderato sull’albero dalla doppia natura (NdT: sia vegetale che aurea) da cui rifulse pei rami lo scintillio dell’oro. Come il vischio, che si riproduce su un albero, suole nel freddo invernale verdeggiare di fronda novella nei boschi, e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l’aspetto dell’oro frondoso sull’elce ombroso, così la sottile foglia d’oro tintinnava al vento leggero…. E’ proprio grazie al ramo d’oro, simbolo dell’albero della vita e analogo dell’aurea verga di Hermes, Enea può attraversare – da vivo – il regno dei morti nelle viscere della terra (“interiora terrae”), compiendo così il suo viaggio iniziatico di rigenerazione. Verde ed oro, simboli di vita e luce… E veniamo dunque all’acacia, di cui si conoscono 1.200 specie. La botanica classifica l’acacia fra le leguminose della famiglia delle mimosacee, piante arboree o arbustive originarie dell’Australia o dell’Africa centrale. Le acacie in genere presentano foglie bipennate, spesso modificate per adattarsi alle temperature elevate e all’aridità delle regioni australi in cui crescono. Alcune specie recano brevi rami appiattiti simili a spine, detti fillodi, che contribuiscono a svolgere la funzione fotosintetica delle foglie. I semi commestibili, il legname pregiato e le gomme ricavabili da alcune varietà conferiscono al genere un grande valore commerciale. Sul piano esoterico, la natura sempreverde, la presenza di fiori gialli e soprattutto il legno duro e resistente fanno dell’acacia un simbolo del superamento della morte presso numerose culture antiche. Secondo gli Egizi, gli Dei erano nati sotto l’acacia della dea Saosis, a nord di Heliopolis e lo stesso Horus era emerso da un albero di acacia. Leggende posteriori collegarono l’acacia non solo alla nascita, ma anche alla morte ed alla vita ultraterrena. Nel Libro dei Morti, alcuni bimbi divini accompagnavano il defunto al sacro albero di Acacia, parti del quale venivano battute e schiacciate dal morto: queste parti erano ritenute dotate di un magico potere curativo. Gli Arabi consideravano l’incorruttibile acacia una manifestazione di el-Huzza, Dea il cui nome significava “forte, possente” il di cui santuario si trovava nella valle di Nakhla ed era costituito da tre alberi di acacia arabica, in uno dei quali si manifestava la Dea. Anche gli Ebrei attribuivano all’acacia un altissimo significato simbolico, tanto da farla entrare nella costituzione dell’Arca dell’Alleanza. Era questo il recipiente nel quale Israele aveva riposto le Tavole della Torah, dopo averle ricevute sul monte del Sinai; su di esse erano incisi i Dieci Comandamenti. L’Arca (si noti come questa parola di origine indoeuropea che indica il “custodire” è alla radice di “arcano”, cioè “esoterico, segreto”), fu trasportata per tutti i 40 anni di viaggio nel deserto, e accompagnò Israele durante i lunghi anni di conquista della Terra Promessa, fino a venire posta nel Tempio costruito dal Re Salomone. Si trattava di una cassa lunga due cubiti e mezzo (Esodo, 25, 10 sgg.; ogni cubito è circa mezzo metro), larga un cubito e mezzo, e alta un cubito e mezzo; veniva trasportata inserendo due lunghi pali negli appositi anelli, come illustrato dalla figura. Quando Israele si accampava, al centro dell’accampamento veniva eretto il Tabernacolo, e nel Santo dei Santi era riposta l’Arca. Questa era composta di due pezzi principali: un parallelepipedo inferiore e un coperchio che lo chiudeva, un chiaro riferimento alla terra e al cielo. Il parallelepipedo inferiore era formato da tre distinte scatole. Le due esterne erano entrambe d’oro, mentre quella mediana era di legno d’acacia. Senza approfondire i numerosi significati di questa scelta, ci limiteremo a ricordare che lo strato di acacia separava le lamine d’oro come un isolante elettrico, onde permettere a ciascuna delle due di costituire uno schermo separato. Una doppia schermatura, insomma, in grado di isolare completamente la Torah dai campi energetici negativi, e di captare solo quelli positivi. I tre strati del recipiente inferiore alludono anche alle tre dimensioni spaziali cui si aggiunge la dimensione temporale (il coperchio costituito da un’unica lamina d’oro sovrastata dai Cherubini) e la “quintessenza”, rappresentata dalle Tavole della Torah. E veniamo infine al mito di Hiram, cuore pulsante della simbolica massonica ed in particolare del 3° grado: per non aver voluto svelare la parola sacra ai tre cattivi compagni (simboleggianti l’ignoranza, il fanatismo e l’avidità), il saggio Architetto viene ucciso e sepolto sotto un ramo d’acacia. Lì viene trovato da uno dei nove Maestri inviati alla sua ricerca ed infine disseppellito da tre persone, il Maestro Venerabile e i due Sorveglianti; ogni tentativo di riportare in vita il cadavere fallisce finché il Maestro Venerabile invita i Sorveglianti, sconvolti perché ad Hiram si stacca la carne dalle ossa, ad unire i loro sforzi in una catena vivente e – grazie alle risorse dell’Arte – desta a nuova vita il Maestro assassinato. Non possono sfuggire le analogie fra questo mito ed i molti altri basati sul ciclo vita-morte-resurrezione. Fra tutti ricorderò nuovamente quello di Osiride, dio egizio della vegetazione, ucciso con l’inganno dal fratello Seth. L’illustrazione in alto, tratta dal testo ermetico Atalanta fugiens di Michael Maier (1618) narra il dramma in tre tempi. In alto a sinistra Seth, coperto dall’arco, imbraccia ancora la spada sanguinante mentre ai suoi piedi giace Osiride smembrato. Accanto accorre Iside che rappresenta il secondo tempo del dramma: ritrova il fratello-marito e presumibilmente s’appresta a vendicarlo. Infine, in primo piano, la riesumazione di Osiride operata da tre personaggi, due soldati romani – evidentemente stupiti – ed un ineffabile sapiente orientale raffigurante, secondo il costume dell’epoca, Ermete Trismegisto. Superfluo sottolineare le analogie fra i soldati e il sapiente dell’illustrazione ed il Maestro Venerabile e i Sorveglianti del mito massonico. In effetti, secondo una ipotesi ben documentata, proprio questa illustrazione ermetica del mito d’Osiride sarebbe alle origini della leggenda di Hiram e dei tratti essenziali del rituale d’iniziazione al terzo grado. Acacia, in greco acacia, significa esente da colpa, innocente, non nocente. Massonicamente si dirà che il Maestro “conosce l’Acacia” ed anche che si diviene Maestri passando da Squadra a Compasso attraverso l’Acacia, cioè che si diviene incorruttibili ed immortali “procedendo dalla rettitudine (Squadra) all’iniziativa “Compasso” passando per l’Acacia (innocenza)”. Simbolo fra i più importanti nell’Istituzione muratoria, l’acacia rappresenta l’iniziato che esce dalla bara di Osiride per trasformarsi in Horus; dell’Agnello di Dio (Cristo) che resuscita; dello stato di rigenerazione che ogni uomo dovrebbe raggiungere superando se stesso. Poiché l’ucciso sopravvive simbolicamente in ogni Maestro, il ramo di Acacia allude agli ideali massonici che sopravvivono alla morte. Gli annunci mortuari massonici vengono ornati con questo simbolo e ramoscelli di Acacia vengono deposti sulla tomba del Fratello defunto… Secondo Osvald Wirth l’Acacia è emblema della sicurezza e della certezza, poiché la morte simbolica di Hiram, come quella di Osiride e di Cristo, non rappresenta il disfacimento dell’essere, ma una trasformazione che conduce alla Luce, che il colore giallo dei suoi fiori sembra preannunciare. Infine, Mackey nella sua enciclopedia riafferma che l’Acacia massonica con «…la sua natura sempre verde ci rammenta l’immortalità dell’anima libera da macchie». Indicazione che nel termine ‘libera’ cela una consonanza col trentaquattresimo verso aureo di Pitagora: «Allora, lasciato il corpo, salirai al libero etere. Sarai un dio immortale, incorruttibile, invulnerabile». Compreso il suo significato, siamo dunque sempre degni dell’Acacia? Certamente no e non c’è nulla di umiliante nell’ammettere le nostre debolezze umane. Osvald Wirth confessava: “Ammesso nove lustri fa in Camera di Mezzo, non posso ancora vantarmi di conoscere l’Acacia. Come voi, in realtà sono rimasto Compagno. I miei viaggi non sono finiti ed io lavoro senza posa a conquistare la Maestria, che sono ben distante dal possedere”. L’essenziale, cari Fratelli, sta tutto in quel lavorare “senza posa” la nostra pietra, sforzandoci di trasformare questo simbolo sublime – il ramo d’oro – in realtà vivente.

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