SULLA OPPORTUNITÀ Dl DISTINGUERE SIMBOLO E SEGNO NELLA LIBERA MURATORIA

SULLA OPPORTUNITÀ Dl DISTINGUERE SIMBOLO E SEGNO NELLA LIBERA MURATORIA di Luciano Rossi

La mia memoria non è delle migliori; le fonti non le trovo più. Ricordo appena che, in un suo dialogo, Galileo disputa con un interlocutore. Quest’ultimo sostiene, credo, che i pianeti come Marte, Giove, Saturno non debbano chiamarsi pianeti ma stelle. Al che Galileo risponde, sempre che io non ricordi troppo male, che questo gli può andare benissimo, ad un patto: che sia chiaro che Venere ha una natura diversa dalla stella polare. Insomma Galileo fa così poca difficoltà circa i nomi con cui le cose vengono chiamate, che senza problemi può accettare che i pianeti vengano chiamati stelle, purché resti chiaro che essi son stelle diverse da quelle che intende lui.

Se il mio ricordo è molto inesatto chiedo di essere scusato; in fondo tanta precisione non è importante qui. Anche se quel che ricordo non fosse aderente al testo di Galileo, o, di più, anche se Galileo non la avesse mai detta, quella affermazione esprime nondimeno esattamente quel che io voglio comunicare. In effetti capita quasi sempre che in Massoneria si chiamino “simboli” delle entità che io chiamerei più opportunamente segni. ln merito a ciò, devo dire che la mia posizione è la seguente: va benissimo continuare a chiamarli “simboli”, purché sia chiaro che per trovarne la profonda valenza simbolica non ci si può limitare ad una semplice traduzione segnica. Più avanti farò in modo che si capisca, magari senza definirli, cosa intendo per entrambi i termini. Ogni definizione scontenterebbe qualcuno: invece a me serve solo promuovere l’impegno a fare esperienza del simbolo. A questo scopo una sola evidenza è necessaria per noi: la ricerca della profonda natura del simbolo è essenziale in Massoneria, altrimenti ci si ferma alla superficie; al di là dei nomi è dunque importante che siano distinte due operazioni profondamente diverse, perché esse si rivelano due esperienze profondamente diverse. In questo contesto suppongo che le due esperienze facciano capo, per convenzione provvisoria, ai termini Simbolo e Segno.

La trattazione delle concordanze e discordanze fra Simbolo e Segno è davvero vastissima nel Novecento. Se ne sono occupate l’Ermeneutica e la Semeiotica, la Psicologia e la Filosofia, la Comunicazione e la Medicina, la Linguistica e la religione.

Tutti noi abbiamo notato che la gente parla di segni di impazienza o dei segni della peste, e che, qualche volta, invece di parlare, si esprime a segni, o che, quando ci vede, si sbraccia in segni di saluto; in altri casi, più spesso in privato, si fa il segno della croce o dà segni di squilibrio. Consentitemi di rinunciare a dare la definizione di segno: “Troppe cose sono segno e troppo diverse fra di loro”. Mi sia permesso di limitarmi al classico: “qualcosa che sta per qualcos’ altro”, con la sola condizione che questo qualcos’altro io sappia che cosa è. Il contrassegno caratterizzante del termine pare essere allora: “io so” (cosa sta dietro il segno). Io so cosa sono l’impazienza e la peste, la croce e lo squilibrio, ecc.

Non dando le definizioni di simbolo e di segno non privo nessuno di qualcosa di importante: la vastità degli scritti su questi due termini appare imponente, anche se ricca di discordanza di opinioni. Non riassumerò nemmeno telegraficamente quelle ricerche; sarebbe per me opera ponderosa e occuperebbe un ‘inutile spazio. Inutile per due motivi: per i non addetti ai lavori sarebbe troppo, per gli addetti troppo poco. Darò tuttavia qualche indicazione nelle note bibliografiche con la speranza di stimolare qualcuno.

Io qui tratterò molto brevemente l’argomento e in un modo assai semplice e ristretto. Mi limiterò infatti al solo campo massonico e alla dimostrazione della tesi seguente:

“E opportuno individuare due diverse operazioni per descrivere certi termini, perché esistono davvero più modi di ‘conoscere’ la squadra e il compasso, il piombo e la livella, ecc.”

Generalmente questi strumenti vengono dai Liberi Muratori chiamati “simboli “, senza tanti problemi; è un uso ormai invalso ed accettato, ma qualcuno più pignolo (è infelice la vita dei pignoli!), in qualche caso, in qualche loro uso, preferisce chiamarli “segni Ebbene, essi non sono né l’uno né l’altro. Essi sono semplicemente strumenti di lavoro massonico che possono essere conosciuti ed usati in tanti modi, riassumibili in due differenti livelli principali. Simbolo e segno sono soltanto quindi due diverse qualità semantiche di detti strumenti che derivano unicamente da due nostre diverse capacità di conoscere.

Perché è utile per la Libera Muratoria, anzi importante, distinguerli? Lo è, credo, per promuovere e per stimolare ancora di più, ove necessario, quella capacità di conoscere, per lei ineludibile, che è propriamente gnostica e iniziatica; qui la definirò, con un atto arbitrario ma largamente condiviso, come autenticamente simbolica. Appena appare chiaro che l’operazione di accedere all’autenticamente simbolico serve per suggerire, stimolare, indurre un desiderio di profondità e di infinito sperimentati nella carne, allora la distinzione tra simbolo e segno non appare più una pignoleria ma un bene indispensabile: è necessario che la Libera Muratoria sia sempre accompagnata dalla convinzione che, dopo aver interpretato o tradotto tutto ciò che ci era possibile, dovrà continuare a scavare ancora in altri siti più profondi di quanto non lo sia la mente conscia.

Faccio un esempio.

La Squadra è uno strumento che può servire certamente come segno e che in dubbiamente può essere considerato (prendiamone uno fra i tanti che vengono riferiti) segno di rettitudine, ma questo tipo di interpretazione è caratteristico del sapere convenzionale e dunque squadra è rettitudine solo se i due che stanno comunicando fra loro, scrittore e lettore, oratore e uditore, sono d’accordo (ossia convengono) su questa segnatura e per tutti e due vale la stessa convenzione. Convenzione per altro non arbitraria, in quanto così si è convenuto perché era conveniente (mi scuso per il gioco di parole); infatti rettitudine suona come retto modo di costruire, come angolo retto, ossia angolo normale, ossia norma, ossia obbligazione, quindi retto modo di comportarsi: tutte cose che lo strumento ‘squadra’ indubbiamente è nell’arte edile o muratoria. Ma passando al modo simbolico, e ripetendo ciò che fa Eco nel suo esempio della ruota

posso sentire la squadra in un modo peculiare che non riesco a presentare con parole; e se proprio ci sono costretto comincio ad esprimermi con termini quali: l’obbligazione da me liberamente accettata, il cammino iniziatico stesso che sto facendo, il mio divenire, la scalata del monte sacro, il lavoro su me stesso, quel senso piacevole di giustezza e quiete interiore che avverto di me nei rari giorni in cui mi sento un buon Muratore, ecc. Tutti modi per cercare d’ esprimere un’esperienza che va al di là delle parole.

Squadra come simbolo, ai suoi estremi confini, è dunque un’esperienza. Sì, … ma esperienza di che cosa? Semplicissimo: la squadra è esperienza della squadra. E questo è tutto per chi sa ed è nulla per chi non sa. Le parole, che trionfano nell’illustrazione del segno, si fermano impotenti davanti al simbolo. Il linguista, che si dilunga sul segno ed ivi culturalmente si esalta, è costretto a restare fuori dal simbolo così come il profano resta fuori dalla porta del tempio. Squadra, nel modo simbolico non si può dire; squadra si può solo esserlo. La squadra che si può dire non è la vera squadra, .. per parafrasare così il celebre versetto: il tao che si può dire non è l’eterno tao. Solo due iniziati che siano già squadra sanno cosa sono squadra, pietra, levigatura. Solo due iniziati che siano già squadra possono passarsi con uno sguardo quell’esperienza intima che è la squadra: questo è il comunicare iniziatico. Fuori di questa espressione Intima i segni massonici non sono veri simboli, ma solo formule astratte, vuote di esperienza. E i profani, proprio perché non hanno questa esperienza, spesso lo pensano. Pensano, e se ne sorprendono, che uomini seri, dignitosi, spesso di cultura e di successo si riuniscano in stanze scure per fare delle cose buffe e vuote, delle pantomime ridicole e prive di senso. Non sanno che quei gesti sono la ripetizione consapevole e rivissuta di ciò che accadde in illo tempore. O forse alcuni lo sanno, ma ciò che non sanno, perché non lo possono provare, è che questi gesti non sono la ripetizione formale di gesti, bensì emozioni del cuore. E quando pensano ad una tradizione, allora pensano spesso ad un segreto operare di antichi congiurati, ad un mistero fantastico e inquietante di cui magari diffidare e da cui stare lontani. E tutto questo perché non c’è accesso al simbolo se non vivendolo,

se non facendo. A chi chiede del simbolo possiamo purtroppo opporre solo un invitante “provare per credere”. Al simbolo si può accedere solo con un atto di fiducia e coraggio. Occorre varcare una porta al di là della quale non si sa cosa ci sia; si sa solo che c’è l’esperienza del simbolo. Bussare la prima volta con paura ed entrare tre mando nel Tempio sono i primi atti costruttivi di se stessi e i primi atti di conoscenza, perché conosciamo in quel momento l’emozione che abbiamo costruito varcando la soglia del tempio e di noi stessi. Dopo quel passo non siamo più quelli di prima perché abbiamo sentito, accettato ed espresso quella emozione; ne siamo già stati un po’ trasformati ed abbiamo conoscenza della trasformazione avvenuta. Provando la gioia, il dolore, la rabbia, la paura, noi le conosciamo e ci conosciamo perché queste emozioni sono quel noi che già esisteva ma che era sconosciuto.

Dunque è il grande mistero della loro simile esperienza a render possibile fra due persone la comunicazione del simbolico. Ancora un esempio: la bandiera. L’accostamento bianco, rosso e verde è per tutti segno dell’Italia. Ma per qualcuno la bandiera rappresenta molto di più di una entità geografico-politica: essa è per lui un tremore del cuore, un’ebbrezza dello spirito, un sentire per cui egli può dare anche la vita. Diversa è la bandiera che incontriamo in dogana alla frontiera e quella che precedeva gli alpini sul Monte Grappa.

Si può fare un’altra osservazione. Il segno un tempo è stato segreto: il simbolo non lo è stato mai. A differenza del simbolo, che devi indagare da solo, perché non può essere trasmesso, il segno doveva essere rivelato; poteva esser conosciuto solo tramite la rivelazione: inutile era scavare in sé per trovarlo. Come avresti potuto mai sapere che cosa era stato convenuto, in passato, in modo libero, scegliendo una lettura fra le tante, per indicare la conoscenza o il dovere o ancora la fratellanza o la vittoria sulle passioni? Indicare le passioni col nome di metalli non era l’unica possibilità. E ancora perché sono stati necessari segni segreti e peculiari per indicare certi concetti? Se avessimo potuto dire direttamente “rettitudine” avremmo potuto evitare di dare tante spiegazioni, non vi pare? Invece no! Il linguaggio doveva essere criptico nel suo complesso perché quando nacque doveva servire per comunicare in segreto fra affiliati. Oggi i dizionari dei segni si trovano sulle bancarelle. Una cosa che invece non si troverà mai su nessuna bancarella è un dizionario dei simboli, intendendo naturalmente, e momentaneamente, per simbolo anche quello di cui diremo di qui a poco.

Come ho già detto squadra è simbolo di qualcosa di inesprimibile che si ricollega in modo oscuro alle origini dell’anthropos. E lo è in modo talmente oscuro da rendere libero ciascuno di noi di riempire quell’espressione con le proprietà più personali, più soggettive ed inesprimibili: talché non si riesce a dire, in questo senso, altro che questo: “la squadra è la squadra e basta”. Aggiungendo di solito: “e chi la conosce sa cosa intendo”.

Questa “nebulosità di contenuto” è essenziale perché un simbolo mantenga il suo carattere iniziatico e per la impossibilità di interpretazione che il simbolo presenta nel momento in cui esprime il suo carattere sacro. Finché resta non tradotto, finché non c’è l’attribuzione di un significato, il simbolo è “fresco”; se lo frusto con lunghe e dettagliate esegesi, e le ritengo esaustive, il simbolo “avvizzisce” e non è più tale: non gli rimane più quello spazio di indeterminazione che lo rende tanto più forte quanto più la sua indeterminazione è grande. La parola è forte se è equivoca, ambigua, colma di infinito; solo finché la parola, dice Scholem, resta priva di significato, è pregna di significato.

Ma la tentazione di interpretare c’è: costante e forte. Come mai? Verrebbe da pensare che la tentazione di interpretare esiste quando nell’esegeta è più forte l’amore di sé che l’amore del simbolo: insomma non gli importa che il simbolo muoia, purché lui ne abbia gloria. Ma se così fosse, se fosse così facile distruggere un simbolo, ci sarebbe da tremare . con tutte le tavole sui simboli che vengono lette nelle nostre Logge. Per fortuna non è così: il vero simbolo pare più forte del nostro intelletto, pare trascenderlo.

Abbiamo detto che conoscere la squadra non è interpretare, ma viver[a senza parlare. In altre parole conoscere la squadra non è dire: “squadra significa rettitudine e quant’altro mi riesce di dire ‘, svuotando il problema e ponendo fine a tutto; è piuttosto tacere e lasciare che 1a squadra conservi tutta la forza trasformativa che il mistero le conferisce.

Vivere il simbolo è un’esperienza che affascina e sopraffà, ti fa trovar di là senza sapere come, ti trasforma senza darti conoscenza intellettuale, ti prende per portarti dove non sai. Noi cerchiamo di interpretare il simbolo, riducendolo così a segno, perché abbiamo paura. Per svuotarlo, indebolirlo, e salvarci così da un’esperienza al termine della quale non sappiamo come saremmo. Ecco perché forse abbiamo creato il segno, o meglio il livello segnico del simbolo! Si ha simbolo ogni volta che, dopo aver attribuite al termine in questione tutte le connotazioni segniche possibili, rimane un residuo ineliminabile, un senso sottostante e inafferrabile, inesauribile e molteplice.

Fra tutte le accezioni possibili di simbolo a noi deve interessare quella che ci pertiene: ossia quella archetipica e sacrale; un “qualcosa” attraverso il quale parli una Voce che viene da lontano. L’opera dei Liberi Muratori, ormai da tanto tempo, non è più operativa: si è trasformata; la nuova opera non è più reale, ma simbolica. O meglio, tale attività è ancora reale dal punto di vista psichico, in quanto il simbolo è una potente realtà così come lo sono il dolore o la paura, ma non è più concreta; e però corrisponde ad una antica attività concreta, in un modo che é, ad un tempo, misterioso e affascinante. I nostri padri, quando smisero di costruire cattedrali, non vollero però deporre del tutto maglietto e cazzuola, squadra e filo a piombo. Ricordavano troppo bene come questi strumenti erano stati loro di ausilio nel creare le giuste linee che donavano forza e bellezza alla loro opera.

Sentivano che tali strumenti sarebbero stati ancora di aiuto, che non si poteva smettere di lavorare in modo simile a prima. E così può essere capitato che essi abbiano imitato dapprima gli antichi gesti teatralmente, come in un rito; e che sia accaduto allora, come per associazione di idee, come per programmazione neurologica, che essi abbiano provato le stesse esperienze interiori che avevano provato quando con quei gesti sollevavano e muravano mattoni concreti. Capirono forse allora che quei gesti, privi ormai di efficacia esteriore, avevano però conservato tutto il loro potente effetto psichico. Così, coloro che erano depositari di tanta maestria smisero di costruire templi di pietra, ma non smisero di costruire interiormente. Solo che i loro gesti erano diventati apparentemente strani. Strani perché vuoti ormai di oggetto esteriore, strani perché solamente psichici. Ma lo psichismo ha sempre un significato, anche se quasi mai a noi è dato di sapere quale esso sia. Dunque nell’operare di oggi ogni Libero Muratore che continua a compiere quei gesti strani, deve non dico capire l’esatto correlato perché questo non gli è possibile, ma intuire, attraverso sensi misteriosi e lungo vie di penombra, che cosa essi possano mai significare, quale messaggio essi gli inviino dalle lontane regioni buie e luminose da cui essi provengono. Nessuno lo può aiutare a capire. Gli deve bastare il conoscere la legge generale ossia che ad ogni utensile concreto corrisponde un utensile psichico; dopo di che deve procedere da solo. Noi invece siamo spesso abituati a cercare le cose sui libri; ma questo è pigrizia, sfiducia, forse inganno, certo lenta atrofizzazione delle nostre migliori qualità intrinseche. Ho detto altrove che dobbiamo rompere i libri affinché non si rompano i nostri cuori. Credo che sia la sede giusta per ripeterlo.

Se guardiamo cosa è il simbolo del compasso nei libri dei nostri Autori preferiti troviamo le loro interpretazioni del simbolo. Verità soggettiva per loro, ma non per noi. Per noi la loro resta una intuizione estranea, per quanto affascinante essa sia. Così come resterebbe estranea, a loro, la nostra fantasia soggettiva. Dobbiamo cercare una via personale, perché il simbolo sfugge a tutti e la verità del mito, per ognuno di noi, è solo il processo con cui ognuno di noi insegue la propria verità. Per tornare ai libri è doveroso aggiungere che si rivela, tuttavia spesso necessario, specialmente all’inizio del cammino, affidarci ai libri allo scopo di s6stenere il nostro passo incerto, nelle buie giornate in cui questo vacilla, ma quello cui dobbiamo tendere è un altro processo. Quello cui dobbiamo tendere è poterci fidare di noi stessi, è poterci affidare ad un sapere senza fondamento in visioni altrui, ad un sapere che sgorga solo da noi, ad una mistica che non si appoggia ai profeti, ma riconosce, fa proprio ed esprime ciò che le porta la visione diretta della propria divinità interiore, del proprio segreto. Questo esercizio mistico appare inevitabile per poter accedere al segreto massonico.

Come fare?

Semplicemente mettersi al lavoro anche se non si sa ancora come. Solo lavorando si diventa capaci di lavorare. Fabricando fit faber, ci suggerisce una massima latina: ossia “è solo costruendo che il costruttore diventa tale”.

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