PRIMA TORNATA NAZIONALE DEI MAESTRI SEGRETI

PRIMA GIORNATA TORNATA NAZIONALE DEI MAESTRI SEGRETI  (Ottobre 2010 – Roma Hilton)

CULTURA E GLOBALIZZAZIONE: IL SUPREMO CONSIGLIO DIFRONTE ALLE TRIBU’

David Cerniglia

Cultura e globalizzazione: il Supremo Consiglio di fronte alle tribù.
Cavalieri convenuti da tutte le Valli intorno al Libro, Fratelli carissimi tutti, ci siamo riuniti oggi con la consapevolezza che meno la memoria d’una comunità è territoriale più è spirituale, con la speranza che i nostri rituali possano influenzare il corso delle cose e, anche se non ci sono garanzie di successo, con la convinzione che il RSAA rappresenti un progetto di vita. La decisione di riunirci in questa Tornata nazionale non obbedisce alla volontà di piacere né al piacere di una teatralità didascalica che rinnovi continuamente l’apparato degli specchi. Obbedisce piuttosto alla necessità della verifica e della riflessione, senza compiacenza e senza ridondanze. In un mondo rinchiuso in un perpetuo presente o abusivamente abbandonato alle emozioni commemorative, e tuttavia senza memoria, i dinosauri o gli ultimi dei Moicani rischiano di divenire le sole frequentazioni onorevoli. Diventa allora essenziale mantenere lo sforzo e consacrare degli spazi alla comunicazione della riflessione: non per dire ai Fratelli ciò che essi devono pensare e fare, ma perché essi padroneggino meglio le scelte loro offerte. Il R.S.A.A. non ha credenze da promuovere, ma aiuta a comprendere meglio come noi crediamo. Pensare e comprendere sono per noi un’esigenza identitaria ed esistenziale. Mentre tra coloro che si sono autopromossi difensori del vivere comune, dichiarando di prendere sul serio l’esistenza collettiva, sciamano i fornitori di collera e i venditori di false speranze, io non ho nessuna buona novella da annunciare. Rinuncio chiaramente ad ogni influenza politica. Perché la politica è dopo tutto un perenne effetto d’annuncio. Quelli che eccellono nell’offerta d’indignazione, rifiutano d’assumere la complessità del reale e, armati di una spada di legno, additano il cattivo da odiare al ritmo dell’attualità. Adirati, infaticabili e magniloquenti, cavalcano l’onda. Poiché vi è sempre un’onda, l’impegno è garantito. E poi, se l’onda li sfratta, cambiano casa come i paguri. Ma, dietro l’insorto si cela sovente il cortigiano e spesso l’insulto precede la cialtroneria. Fu così che, alla fine degli anni settanta, le idee libertarie del ‘68 – autonomia, individualismo, libertà – diventarono il miglior alleato del mercato e del management di una società individualista, edonista e ludica: dopo la decostruzione dei valori tradizionali, operata dalle così dette “avanguardie”, si entrò nell’era del consumo di massa senza il quale l’economia mondiale non avrebbe potuto “girare”. Trovava conferma in tal modo l’ipotesi freudiana della sublimazione: più si possiede una vita interiore ricca, meno si è sottomessi a quella logica della mancanza che spinge al consumo compulsivo. Quelli che suonano il piffero della speranza, svalutano il presente e indicano la fine del tunnel utilizzando ora le note della metafisica platonico-cristiana ora le note della Ragione trascendentale kantiana. Un po’ meno attaccabrighe dei venditori di collera, ma anch’essi esperti di processi, i venditori di speranze sono gli eletti che, al di sopra del quotidiano trambusto umano, possono avventurarsi in quei luoghi esoterici ove la verità si offre loro alla vista. La promozione di una metafisica o di una razionalità universalmente valida, l’universo di idee pure ed illuminate, diventerebbe il veicolo principale del progresso: libertà, uguaglianza, fratellanza. Tuttavia la triplice alleanza non scampa alla censura dell’esame critico.
L’uguaglianza milita contro la libertà, il sogno di libertà si distanzia dall’uguaglianza e la fraternità è di dubbia efficacia finché gli altri due valori non riescono a coesistere. Invano la modernità ha lottato per conquistare i tre valori insieme e di quella fiduciosa sicurezza poco oggi resta. Né le cose vanno meglio nella nuova commedia chiamata post-modernità ove i nuovi orizzonti, che sembrano infiammare l’immaginazione, sono quelli di libertà, diversità e tolleranza.
La libertà si riduce alla scelta del consumatore. La diversità significa solo varietà di stili commerciabili. La tolleranza, osannata come panacea universale, si traduce in “vivi e lascia vivere”. Una volta che i legami reciproci si riducono alla tolleranza, la differenza significa distanza ed assenza di cooperazione. Talora un’insensibilità nutrita d’indifferenza che frammenta invece d’unire. Talora una sorta d’armistizio: il semplice rinvio ad una resa dei conti finale. Può dunque l’ordine regnare a Babele? “Ordo ab chao”, la scritta che campeggia a fianco delle nostre aquile, indica una soluzione o piuttosto solleva un problema? Qualunque cosa si dica o faccia un noi si oppone a un loro, lungo una linea di demarcazione: un’identità si costruisce quando si crea una frontiera, reale o immaginaria. Pensare a questo problema è probabilmente il lavoro più difficile del nostro tempo. Il problema è che noi, soggetti di credenze, invenzioni e desideri, abitiamo la cultura e la cultura non è il luogo naturale della confluenza e dell’armonia. Se uno spermatozoo e un uovo bastano per fare un feto, per fare un uomo occorre molto di più: un territorio, una lingua, una memoria condivisa e delle norme. Una sorta di prisma formato dall’insieme delle relazioni che un gruppo di uomini, storicamente costituito, intrattiene con lo spazio, il tempo, la terra, il sesso e la morte. Questo supplemento di bagaglio, aggiunto al programma genetico della specie, definisce la cultura dei vari gruppi sociali: un indice variabile che forma la mentalità orientando definizione e riproduzione dell’ordine costituito. La scienza e la tecnica, nomadi e cosmopolite, ci danno talora l’illusione di creare un sentimento d’appartenenza e d’identità: una sola organizzazione dell’aviazione civile, solo tre scarti ferroviari e tre sistemi per la trasmissione televisiva a colori. Ma ci sono nel mondo 196 Stati e ben 6000 idiomi differenti: luoghi della memoria e memoria dei luoghi, che frazionano la specie umana in personalità variamente orientate e favoriscono l’etnocentrismo. Quando la frenesia tecno-economica destabilizza gli equilibri, all’unificazione galoppante del mezzo tecnico-economico corrisponde una balcanizzazione politico-culturale e spesso la mondializzazione s’accompagna a un ritorno identitario arcaico: una sorta di progresso retrogrado, in cui la globalizzazione degli oggetti e dei segni porta alla tribalizzazione dei soggetti. Così come il fattore economico fu determinante nel XIX secolo e il fattore politico nel XX, è probabile che il fattore culturale faccia del XXI il secolo delle minoranze. Ma mentre le antiche tribù erano gruppi rigidamente strutturati e con un’appartenenza controllata, la ricerca di un ancoraggio identitario porta sovente a un neotribalismo in cui le tribù, spesso ignare del loro seguito e dal seguito variabile, esistono solo in virtù delle decisioni individuali di ostentare i tratti simbolici della fedeltà tribale. Quando gli sforzi di autocostruzione dei singoli individui vengono frustrati, queste nubi di comunità si scompongono e rapidamente scompaiono all’orizzonte. E’ questo un problema d’ingegneria associativa antico ed apparentemente irrisolvibile. O la comunità è il prodotto di scelte individuali e in tal modo la sua esistenza soffre degli stessi rischi e delle stesse ansie del resto della società.
Oppure la comunità, con i suoi principi e i suoi valori, precede ogni altra scelta individuale e in tal caso può entrare in conflitto con la libertà personale di autoaffermazione. Sicuramente la comunità non è un posto naturale ove trovare una sistemazione sicura, soprattutto dopo il passaggio della pesante nave della modernità. La turbolenza, che essa ha generato, costringe i marinai a modificare la rotta delle loro barche. Ma se le bussole sono impazzite non è vero che sia impossibile orientarsi in quelle acque. Equipaggiamento leggero per navigare a vista: questo serve per la navigazione.
Così, mentre frughiamo nella nostra scatola degli attrezzi, ci rendiamo conto che l’oceano, orizzonte d’alto mare senza lidi né porti, rappresenta un’occasione di formidabile emancipazione.
Ed è oltre l’oceano che nasce il R.S.A.A.: dal dubbio legittimo che bastino tre gradi e dalla volontà di superare una memoria condizionata dalla geografia di infinite identità nazionali, quella delle fortezze assediate, delle patrie e delle bandiere. Nasce oltre l’oceano da un sentimento d’incompiutezza, per maturare e consolidarsi nel corso del XIX secolo attraverso un processo di internazionalizzazione e il fiorire dei gradi. Poiché un ordine adeguato alla complessità del mondo non può essere né particolare né statico, l’identità del pensiero scozzese si definisce col pensare un ordine del non equilibrio, capace di evolvere sempre verso ordini di livello superiore. L’architettura della piramide scozzese concilia l’uno e il molteplice, rende coese le forze, ma non ammette sintesi che non sia apertura a nuove domande. Questa dialettica, che allarga l’esercizio ermeneutico all’infinito, non prevede la rassicurante sintesi hegeliana e si configura nel contrapporsi di domanda e risposta del dialogo socratico. Gli “scontenti” che, in autonomia di pensiero e d’azione, vogliono elevarsi dal particolare all’universale, dall’antico al moderno, senza rinunciare né all’uno né all’altro, sono impegnati in un’impresa dura e temeraria solo con gli strumenti della ragione e con la consapevolezza che il risultato finale potrà indebolire la ragione stessa. Strettamente connesse in un nuovo orizzonte tre sono le parole chiave del Rito Scozzese: contingenza, ironia e solidarietà. La nozione di contingenza allontana dalla visione della storia e della cultura, ma non eclissa gli assoluti della tradizione metafisica. Nella sua presa d’atto della contingenza degli eventi e dei fenomeni storico-culturali, il R.S.A.A. istruisce dei vocabolari contingenti e condivisi, ciascuno dei quali propone un nuovo modo di guardare al mondo e alle civiltà: una pratica testuale per la ridescrizione di noi stessi nei termini di un vocabolario assunto come decisivo ma non definitivo. Trentatré vocabolari decisivi che si confrontano ai fini di una migliore ridescrizione di noi stessi e che proprio relativizzandosi conquistano una propria autonomia. Attraverso il confronto tra differenti vocabolari avvengono profondi mutamenti: temi, che sembravano essenziali, impallidiscono e nuovi ne brillano che possono cedere il passo ad altri ancora. Vivere nella contingenza significa allora vivere senza garanzia o, meglio, con una certezza provvisoria e pragmatica, valida fino a nuovo avviso. L’atteggiamento ironico consiste in questa consapevolezza. Per ironia intendiamo appunto il riconoscimento della contingenza del proprio vocabolario finale. Dire che “gli uomini di idee sono disprezzati dalle plutocrazie e temuti dalle teocrazie”, è un’affermazione tragica. Dire che “i due vincitori della partita impegnata dal secolo dei Lumi sono quelli che nessuno si aspettava: l’Eterno e gli affari”, è un’affermazione ironica. La consapevolezza ironica della contingenza non conferisce al suo possessore nessun potere, non conduce al dominio né lo sostiene, ma promuove la coesistenza e rende possibile il cammino dalla tolleranza alla solidarietà: per trasformare un armistizio in pace, in un destino comune.
Perché la tolleranza, come condizione di pluralismo, da sola non basta. Facile solo nel vuoto delle convinzioni, la tolleranza è una virtù privata, centrata su di sé e contemplativa, che si confonde spesso con indifferenza, condiscendenza, atto di grazia, permesso sospensivo. Per questo motivo la tolleranza è facile preda di chi è privo di scrupoli e rende possibile molte crudeltà. Per questo la tolleranza non è condizione sufficiente della solidarietà o, per meglio dire, la solidarietà non è conseguenza predeterminata della tolleranza. Come i nostri rituali ci ricordano, la solidarietà, orientata verso la comunità e militante, significa disponibilità a combattere nell’interesse della differenza altrui e non solo della propria. Avendo assunto chiaramente queste nostre differenze ed essendo fermamente decisi a renderle le più feconde possibili, ci interroghiamo infine su quale dovrebbe essere una vita temperata dalla consapevolezza ironica della contingenza e dalla solidarietà. Come perfezionare il disegno impostato dal Supremo Consiglio nel lontano 1805? In primo luogo lo Scozzese deve restare libero e a distanza da tutte le lobby per non perdere la sua credibilità. E’ questo distacco dal potere che garantisce la sua indipendenza e la sua integrità. Egli difende il suo onore ma rifugge dagli onori che lo addomesticano e lo disattivano. Custode del linguaggio, preserva il senso delle parole per fare della chiarezza un impegno. Poiché il mondo cambia più velocemente della nostra intelligenza del mondo, egli veglia e si apre alla singolarità dell’evento. Il suo pensiero aperto al campo dei possibili, deve fecondare il reale e non rinchiudersi nella disperazione, nel rancore, nella calunnia. Egli si divide tra la passione di comprendere, il diritto di rifiutare, il dovere di chiarire. Resta comunque un artigiano che perfeziona la sua opera con la coscienza dei suoi limiti e dei suoi errori. Oggi, con questa precisa coscienza, auguro un buon lavoro a voi tutti.
Per il bene della Universalità del Rito ed alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo.

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