PENSIERI A SE STESSO, UNA MEDITAZIONE ISPIRATA AL TRATTATO DI MARCO AURELIO “RICORDI” I° LIBRO

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I “pensieri a se stesso” o “Ricordi” sono una raccolta di scritti di Marco Aurelio Annio Vero, un imperatore romano della dinastia degli Antonini che regnò a Roma nel secondo secolo D.C.. Marco Aurelio fu imperatore dal 161 al 180 D.C., succedendo ad Antonio Pio, che lo aveva adottato su indicazione del suo predecessore Publio Elio Adriano.

Si tratta di testi scritti in più periodi e raccolti in libri, frutto di una meditazione legata alla pratica della vita filosofica stoica; furono composti durante le campagne militari che Marco condusse alle frontiere della Germania tra il 170 e il 180 D.C.

Inizia infatti così il secondo libro: “Scritto nel territorio dei Quadi presso il fiume Granua”.

Nel mondo antico la meditazione è pratica collettiva, o anche individuale, ma sempre connessa ad una sorta di dialogicità implicita (ne vediamo traccia in certi testi di Seneca sulla felicità, sulla vecchiaia o sulla morte).

Essa assume molti volti, a seconda delle scuole, ma ha una caratteristica comune: non è un percorso di ricerca, ma di applicazione della ricerca alla vita.

I “pensieri” di Marco Aurelio richiamano i principi della scuola stoica e sono il frutto di una meditazione su di essi operata mediante il legame con l’esperienza vissuta, interiore ed esteriore.

L’uomo è stato considerato da sempre l’imperatore-filosofo: il punto di arrivo della scuola stoica.

Voglio evitare di impegnarmi in un’esposizione di quella corrente filosofica (la stoica appunto)  nell’ambito della quale il Marco Aurelio dei “pensieri” viene solitamente ascritto dalla critica moderna; non ho le conoscenze approfondite per farlo.

L’idea di questa tavola è, piuttosto, quella di cogliere il senso profondo della figura di un uomo del passato che, da una posizione di assoluto privilegio, sente il bisogno di parlare con se stesso e tocca aspetti essenziali dell’esistenza.

Del resto alcune delle tematiche fissate nell’opera che ci è stata tramandata sono le basi di alcuni principi del pensiero massonico moderno.

Perché è interessante  la  figura di quest’uomo vissuto tanti secoli fa?

Non è per il libro in se stesso –  per quanto nell’antichità lo scrivere fosse una cosa assai rara e non consueta, se non per i filosofi di professione, ma non certo per uomini “d’azione” (a parte Cesare e Cicerone, nell’antichità pochissimi statisti hanno lasciato tracce scritte compiute delle loro gesta) – e non certo per lo stile dello scritto: un po’ lezioso e pesante.

E’ interessante, secondo me, perché il Marco Aurelio dei “pensieri” anticipa i tempi: per arrivare a vedere un’opera simile occorre che passino molti secoli e arrivare a Montaigne con i suoi “Saggi”.

Ma egli, a differenza di Montaigne (che scriverà ben al chiuso del suo castello di campagna) è un uomo di azione calato in un contesto di un’epoca storica che vede per il mondo classico l’inizio della disgregazione.

Nel libro è difficile non cogliere l’idea che ci troviamo di fronte ad un grande dignitosissimo, attore – perdente della storia; è paradossale che egli, l’uomo più potente del mondo, si renda conto che le vittorie conseguite non potranno fermare il corso della storia; avverte chiaramente che la fame dei barbari avrà la meglio sulla forza dei romani; sente che è già in atto la crisi irreversibile dell’Impero Romano.

Come tutti i grandi perdenti finisce però per suscitare nei posteri un grande affetto ,poiché la sconfitta ha una dignità che la vittoria non merita.

Vengono in mente la parole che farà dire la Yourcenar nelle “Memorie di Adriano” all’Imperatore Adriano nella lunga lettera immaginaria al piccolo Marco Aurelio, quando, troppo severo con se stesso, non si concedeva nulla dei frutti e degli svaghi che la vita poteva offrirgli nella Villa Adriana di Tivoli; dice più o meno: “mi chiedo a che ti serva tanta virtù, su quale scoglio ti infrangerai poiché è certo che ciò accadrà”.

Venendo alla poetica del libro.

Nel libro Marco tenta di spiegarci la nostra esistenza puntando sulla forza del cuore filtrata dalla dura disciplina del dovere.

La forte spinta emotiva del libro è dovuta al tentativo di allargare la coscienza fino ad abbracciare l’umanità.

La massima che ispira il libro è questa: non perder mai di vista il grafico di una esistenza umana, che non si compone mai, checché si dica, d’una orizzontale e due perpendicolari, ma piuttosto di tre linee sinuose, prolungate all’infinito, ravvicinate e divergenti senza posa: che corrispondono a ciò che un uomo ha creduto di essere, a ciò che ha voluto essere, a ciò che è stato; tutto ciò non è sotto il nostro controllo: quello che noi possiamo fare è operare per il bene, rifuggire il male, curarsi dell’essenziale.

“Corri sempre per la via più breve – la via più breve è quella secondo natura – così da parlare e agire sempre nel modo più valido. Un simile proposito, infatti, libera dalle fatiche di una campagna militare, di ogni incombenza di governo, dell’eccessiva raffinatezza”.

Non si deve mai perdere di vista l’essenza.

Ricordati che sta nascosto dentro di te ciò che muove i fili della tua esistenza, ed è attività, è vita, è l’uomo, se così si può dire. Non confonderlo mai, quando te lo immagini, con l’involucro che lo avvolge, né con gli organi che gli sono stati modellati intorno …”.

E quanto più ti senti coinvolto tanto più  devi essere distaccato.

“Quanto vale, di fronte alle leccornie e ai cibi di questo genere, accogliere la rappresentazione: «questo è il cadavere di un pesce, quest’altro il cadavere di un uccello o di un maiale», e, ancora, «il Falerno è il succo di un grappolo d’uva», e «il laticlavio sono peli di pecora intrisi del sangue di una conchiglia»; e, a proposito dell’unione sessuale: «è sfregamento di un viscere e secrezione di muco accompagnata da spasmo»! Quanto valgono queste rappresentazioni che raggiungono le cose in sé e le penetrano totalmente, fino scorgere quale sia la loro vera natura. Così bisogna fare per tutta la vita, e, quando le cose ci si presentano troppo persuasive, bisogna denudarle e osservare a fondo la loro pochezza e sopprimere la ricerca per la quale acquisiscono tanta importanza. Perché la vanità è una terribile dispensatrice di falsi ragionamenti, e ti lasci più incantare proprio quando più ti pare di impegnarti in cose di valore”.

Marco Aurelio fa propria una coscienza lucida e forte di avvertire la prossima fine dell’Impero, quale lui lo presiede, ed elabora in ciò una saggezza profonda, quasi non toccata dal divenire. Perché in fondo al saggio stoico nulla importa se non questo: vivere con onestà ogni minuto.

Il Marco Aurelio che ci piace vede davanti a sé il mutare del destino e, dalla posizione privilegiata che ricopre (di capo della superpotenza del mondo antico), accetta di prendere parte al gioco vestendo i panni di chi deve resistervi.

E che per far ciò usa le armi di cui dispone: una buona dose di filosofia per sé – per rendere sopportabile ciò che altrimenti sarebbe intollerabile – e una buona dose di cinica violenza per gli altri: possedeva le più potenti forze armate di tutti i tempi e le usò – si dice – senza risparmio: nel libro non sono riportati gli eccidi – che pure vi furono – di intere popolazioni barbariche.

Un (breve) inquadramento storico.

Era nato a Roma nel 121 D.C., da una nobile famiglia equestre di origine spagnola.

Fu designato ancora giovane da Adriano a succedere ad Antonino Pio, purtroppo per lui, Marco maritò la figlia di Antonino Pio, tale Faustina.

Non ebbe fortuna coi figli né con Faustina: tra un amante e l’altro ebbe, sì, il tempo di dargli quattro figli: due femmine e due gemelli.

Di questi però uno morì precocemente mentre l’altro, Commodo, che sarà suo successore, si rivelerà  un pessimo reggitore di Roma.

Veniva dalla famiglia d’origine spagnola degli Aureli, una “Gens” che si era guadagnata il soprannome di “Veri” per la loro onestà nell’amministrazione della cosa pubblica (una rarità all’epoca).

Era rimasto orfano a pochi mesi e della sua educazione si occupò il nonno (Adriano) che gli dette ben 17 precettori di cui 4 in grammatica, uno in matematica e sei in filosofia.

Si appassionò alla filosofia stoica che non solo volle studiare a fondo, ma anche praticare.

A 12 anni cominciò a dormire nudo sul letto ed iniziò una dieta ed un’astinenza (anche sessuale) tanto severe che la sua salute alla fine si dice ne risentì.

Ma questo non gli impedì poi di essere soldato fra i soldati e di condividerne fatiche e disagi nei lunghi anni di direzione della guerra alla frontiera germanica.

Antonino Pio lo aveva designato, seguendo i dictat del suo mèntore, come suo Cesare quando era ancora adolescente ed associato al suo governo quando era ancora giovanissimo.

Quando salì al trono aveva 40 anni.

Probabilmente non aveva né inclinazione per le armi, né esperienza di esse, visto che non riportò mai decisive vittorie ma trascinò una guerra avanti per anni e anni.

Fu costretto a combattere contro nemici interni ed esterni per quasi tutta la durata del suo regno.

E tanto fece con  coscienziosa determinazione.

Durante il Regno di Marco Aurelio si cominciano ad evidenziare i segni dell’incipiente declino: i  tentativi di invasione dei barbari nelle frontiere danubiane e la fragilità delle strutture sociali ed economiche del mondo antico tipiche di una società chiusa.

Per capire il senso dei dialoghi, che sono effettivamente intrisi da una profonda tristezza, non si può non riflettere sul fatto che ci fu durante quei tempi una escalation di guerre ai confini (guerre, che gli faranno passare almeno vent’anni in accampamenti militari; prima in oriente, poi sul confine danubiano).

Quelle guerre orientali, si portarono dietro una tremenda conseguenza: la peste; infatti terminate le operazioni di guerra ad Oriente (anni 161 – 166 D.C.)alcune Legioni tornarono in Italia e portarono con sé il contagio.

La peste giunse a Roma spargendo lutti e desolazione lungo il suo cammino; imperversò per anni nei quartieri di moltissime città dell’Italia centrale; Roma ebbe interi isolati che furono interdetti dai soldati a titolo sanitario (si dice, ma è un dato esagerato, che perirono di peste almeno 200.000 persone solo nell’Urbe).

Dietro l’epidemia arrivò la carestia secondo un rituale che era consueto nel mondo antico, poiché quel mondo era basato su di una economia per lo più di sussistenza.

Mentre la peste infuriava nella stessa Roma, giunse un’altra grave crisi esterna.

Cominciò la serie di dure guerre sul Danubio, che doveva occupare, con brevi interruzioni, i rimanenti anni del regno di Marco (167 – 180).

La causa: un grande movimento migratorio iniziato dai Germani del Baltico, a loro volta premuti da famelici popoli scandinavi che si riversarono a sud in cerca di cibo e pascoli stanziali.

I confini lasciati da Traiano al nord  erano troppo vicino all’Italia per non suscitare apprensioni in chi governava.

La prova fu data dall’invasione improvvisa di un’orda di Marcomanni che distrusse parte del nord-est del Veneto, penetrando in profondità fino ad Oderzo e che furono a stento ricacciati al di là delle Alpi con un esercito raccogliticcio fatto di schiavi e avanzi di galera.

I rimedi dell’epoca che si poterono escogitare furono i seguenti: l’annessione del territorio dei Marcomanni (area fra l’Elba e l’Oder) e successivamente di quello dei Quadi (tribù stanziate nell’odierna Moravia), la Boemia e la Moravia sarebbero diventati il baluardo settentrionale dell’Impero.

Durante queste campagne di contenimento e rafforzamento il nostro Marco scriverà i pensieri a se stesso.

Non vedrà il compimento del suo disegno strategico: morirà a Vienna (all’epoca chiamata Vindobona) poco prima di porvi termine; chi gli succederà  (il figlio Commodo) amava troppo la bella vita romana per cimentarsi nell’ambiziosa impresa: in breve, rinunciò ad annettersi il nord e ripiegò a Roma dopo aver stipulato, in tutta fretta, un trattato, giusto salvando le apparenze, e lasciando le frontiere immutate.

Ebbe una fortuna da morto, smentendo alcuni suoi scritti: quella di non essere dimenticato; sia per l’opera letteraria che per la sue effige.

I Cristiani non gli distrussero la statua equestre eretta in suo onore avendola scambiata per quella del loro “protettore” Costantino che, a conti fatti, fu un uomo assai peggiore di lui.

La statua equestre e dorata di Marco che troneggia in Piazza del Campidoglio, innalzatagli postuma dal figlio in un momento di rimorso – l’originale è nei musei capitolini – ce lo raffigura in un incedere solenne: ha le sembianze del guerriero, ma lo sguardo è quello del filosofo che vede la fine di una fase storica.

Ci piace pensare  – dato che la statua è, per la verità, poco espressiva mancando degli occhi – che da quello sguardo dal Campidoglio sgorghi tutta la contraddizione fra un dettato morale teso alla libertà ed alla eguaglianza ed una necessità di real-politik che tende a conservare e consolidare l’imperialismo in atto.

Quando gli si richiese per l’ultima volta la parola d’ordine, la risposta, si dice, di Marco Aurelio fu: “andate verso il sole nascente, il mio sole tramonta”.

E con lui tramontava anche il mondo antico.

Da allora in poi la crisi assumerà proporzioni vastissime; nel secolo III, sarà temporaneamente arrestata da Diocleziano e Costantino, fino alla rovinosa caduta finale del V secolo.

Anche per questo, forse, fu l’ultimo dei grandi Imperatori romani.

Quali sono le idee che Marco ci tramanda dal suo lontanissimo passato? Sono idee attualissime e certo apprezzabili dai liberi Muratori.

Il destino dell’uomo è fissato nella natura; la natura ha dato all’uomo uno spirito; segue che il destino dell’uomo non è nel soddisfare i sensi – che ci accomunano con gli altri animali – ma nel pensare e nell’agire conformemente alla sua natura razionale cioè alla parte divina di sé.

Il successo delle nostre azioni non dipende solo da noi; alcune cose sono in nostro potere altre no; il successo esterno non è sicuro; può anche venire a mancare: non si deve averne angustia, il vero successo è la cura della salvezza dell’anima; lo scopo della vita è perfezionare il proprio essere. Nell’anima ogni uomo è libero quanto Dio.

L’uomo deve impiegare tutte le sue forze in un lavoro positivo: non nella passività, ma nell’azione si trovano il bene e la virtù dell’essere razionale.

Il bene è ciò che ci migliora, il male è ciò che ci peggiora interiormente.

La morte non deve spaventarci perché in essa c’è un processo naturale che secondo l’ordine cosmico porta al dissolvimento dell’individuo e al trapasso delle parti che lo compongono in altre forme di essere.

Gli affetti rappresentano per l’uomo morale il pericolo più insidioso perché limitano la libertà dello spirito.

Morirà a Vienna di malattia, forse di peste, impegnato nella guerra contro i Quadi: aveva fatto promettere al figlio che la sua opera sarebbe stata conclusa e i confini rassicurati e ristabiliti; il figlio, come ho detto, non lo ascoltò nemmeno; ma così aveva parlato Marco:

“Prerogativa propria dell’uomo è amare anche chi sbaglia. E questo si verifica, se ti si presenta il pensiero che si tratta di parenti e che sbagliano per ignoranza e senza volerlo, e che tra poco entrambi, tu e chi ha sbagliato, sarete morti..”.

A se stesso (Pensieri) – Il Trattato di Marco Aurelio

Marco Aurelio

A se stesso

(pensieri)

LIBRO I

1            Da mio nonno Vero: il carattere buono e non irascibile.

2            Dalla fama e dal ricordo che si conservano di mio padre: il comportamento riservato e virile.

3            Da mia madre: la religiosità, la generosità e la ripugnanza non solo a compiere il male, ma anche all’idea di compierlo; ancora: il tenore di vita semplice e distante dalla condotta dei ricchi.

4            Dal mio bisnonno: non aver frequentato le scuole pubbliche, aver avuto buoni maestri tra le mura di casa, e aver compreso che per questo genere di cose non si deve risparmiare.

5            Dal mio precettore: non esser stato sostenitore dei Verdi né degli Azzurri né dei gladiatori armati di parma o di quelli armati di scutum; la resistenza alle fatiche e la sobrietà nelle esigenze, contare sulle proprie forze e non immischiarsi; non prestare ascolto alla calunnia.

6            Da Diogneto: l’indifferenza per ciò che è vacuo; non prestar fede alle fole di ciarlatani e imbroglioni su incantesimi, cacciate di demoni e simili; non perdersi a colpire le quaglie sulla testa o dietro ad inezie del genere; tollerare la franchezza di linguaggio; aver acquisito familiarità con la filosofia; aver ascoltato prima Bacchio, poi Tandaside e Marciano; aver scritto dialoghi quand’ero ragazzo; aver desiderato un lettuccio con una pelle e tutte le altre cose di questo genere connesse con l’educazione greca.

7            Da Rustico: aver capito la necessità di correggere e curare il carattere; non aver deviato verso ambizioni da sofista, non dedicarsi a scrivere di questioni teoriche o a recitare discorsetti ammonitorî ovvero a impressionare la gente esibendo il modello dell’asceta o del benefattore; essermi allontanato dalla retorica, dalla poesia e dal brillante conversare; non girare per casa in toga e non fare cose analoghe; scrivere le lettere in modo semplice, come quella che egli stesso scrisse a mia madre da Sinuessa; la disponibilità a riavvicinarsi e riconciliarsi con chi si è irritato o ha mancato verso di noi, non appena decide di tornare sui suoi passi; leggere con estrema attenzione e non accontentarsi di afferrare il senso generale, e non trovarsi sùbito d’accordo con chi chiacchiera; l’incontro con i commentarî di Epitteto, che mi fornì dalla sua biblioteca.

8            Da Apollonio: l’atteggiamento libero e senza incertezze nel non concedere nulla alla sorte e nel non guardare, neppure per poco, a nient’altro che alla ragione; restare sempre uguali, nei dolori acuti, nella perdita di un figlio, nelle lunghe malattie; aver visto con chiarezza, in un modello vivo, che la stessa persona può essere molto energica e pacata; non irritarsi mentre si da una spiegazione; aver visto un uomo che evidentemente considerava come l’ultima delle sue qualità l’esperienza e l’abilità nell’insegnare i principî teorici; aver imparato come si devono ricevere dagli amici i cosiddetti favori: senza sentirsi inferiori per averli ricevuti e senza respingerli, peccando di tatto.

9            Da Sesto: la benevolenza; il modello di una famiglia patriarcale; il concetto di vita secondo natura; la dignità autentica; la capacità di cogliere in cosa prendersi cura degli amici; la pazienza verso chi, privo di istruzione, crede anche a ciò che non ha esaminato in termini scientifici; la capacità di trovarsi bene con tutti: cosicché il suo conversare era più accattivante di ogni adulazione, eppure, in quel preciso momento, agli occhi dei suoi stessi interlocutori, egli restava degno del più alto rispetto; l’intelligenza e il metodo nell’individuare e disporre i principî indispensabili per la vita; non aver mai dato segno esterno di ira o di altra passione, essendo invece, nello stesso tempo, assolutamente impassibile e affettuosissimo; la disposizione a elogiare, e senza troppo rumore; un’ampia cultura, senza spazio per l’esibizione.

10          Dal grammatico Alessandro: non censurare e non redarguire in maniera offensiva chi parlando incappa in un barbarismo o in un solecismo, ma, con il giusto tatto, limitarsi a pronunciare l’espressione corretta, come se si stesse rispondendo o manifestando la propria approvazione o analizzando la sostanza della questione, non il termine usato, oppure attraverso un’altra forma altrettanto garbata di rilievo.

11          Da Frontone: aver valutato il grado di invidia, tortuosità e ipocrisia del potere tirannico, e come in generale costoro che da noi si chiamano patrizi siano, in certo modo, più insensibili all’affetto.

12          Da Alessandro il Platonico: parlando o scrivendo una lettera a qualcuno, non dire spesso e senza una ragione stringente «non ho tempo», e non declinare continuamente, in questo modo, i nostri doveri nelle relazioni con chi ci vive accanto, col pretesto degli impegni che ci assediano.

13          Da Catullo: non trascurare un amico che ci accusa di qualcosa, anche se capita che ci accusi senza ragione, ma cercare di riportarlo al suo rapporto consueto con noi; parlar bene, di cuore, dei propri maestri, come insegna quello che si racconta di Domizio e Atenodoto; l’amore autentico per i figli.

14          Da Severo: l’amore per la famiglia, l’amore per la verità, l’amore per la giustizia; aver conosciuto, grazie a lui, Trasea, Elvidio, Catone, Dione, Bruto, ed essermi formato l’idea di uno stato con leggi uguali per tutti, governato secondo i principî dell’uguaglianza politica e di uguale diritto di parola, e l’idea di una monarchia che al di sopra di ogni cosa rispetti la liberty dei sudditi; ancora da lui: la giusta misura e la costanza nell’onorare la filosofia; fare del bene ed elargire con generosità; l’ottimismo e la fiducia nell’affetto dagli amici; la schiettezza verso chi meritasse la sua riprovazione; il fatto che i suoi amici non dovevano ricorrere a congetture per capire cosa volesse o non volesse: al contrario, il suo intendimento era chiaro.

15          Da Massimo: governare se stessi e non lasciarsi confondere in nulla; il buon umore in ogni circostanza e in particolare nelle malattie; il carattere ben temperato: dolcezza e dignità; la capacità di adempiere i propri impegni senza cedere alla sofferenza; il fatto che, quando diceva qualcosa, tutti avevano fiducia che quello fosse davvero il suo pensiero, e, quando faceva qualcosa, che agisse senza cattive intenzioni; la capacità di non farsi sorprendere o sbalordire, e di non cedere, in nessuna circostanza, alla fretta o all’indugio o alla disperazione, oppure alla depressione o al sarcasmo, o, ancora, alla collera e al sospetto; la propensione a fare del bene, al perdono e alla sincerità; l’impressione che offriva: di chi non si lascia piegare piuttosto che di chi si sta raddrizzando; il fatto che nessuno avrebbe mai pensato di essere disprezzato da lui né avrebbe mai osato di ritenersi superiore a lui; il saper scherzare in modo buono.

16           Da mio padre: l’indole mite e la fedeltà incrollabile alle decisioni attentamente meditate; il rifiuto di ogni vanagloria per i cosiddetti onori; l’amore per il lavoro e la tenacia; la disponibilità ad ascoltare chi ha da proporre qualcosa di utile alla collettività; l’atteggiamento inflessibile nell’attribuire a ciascuno secondo il merito; l’esperienza nel vedere dove occorra tirare, dove invece allentare; l’aver posto fine agli amori con i fanciulli; il rispetto per gli altri e l’aver consentito agli amici di non banchettare sempre con lui e di non doverlo per forza seguire nei suoi viaggi: anzi, il farsi sempre ritrovare amico come prima da chi per qualche necessità era rimasto a casa; lo scrupolo e l’insistenza, durante le riunioni di consiglio, nel cercare soluzioni, e non, come si dice, «non ha concluso il suo esame, accontentandosi delle prime impressioni»; il modo di conservare gli amici, senza mai provare fastidio per loro, e neppure un folle attaccamento; l’autosufficienza in tutto e la serenità; la lungimirante preveggenza e il provvedere a ogni minima cosa senza atteggiamenti teatrali; il fatto che, sotto di lui, furono ridotte le acclamazioni e ogni forma di adulazione verso il potere; l’attenzione continua alle necessità dell’impero, la gestione oculata della spesa pubblica e la tolleranza verso le critiche abituali in simili casi; non esser superstizioso per quel che riguarda gli dèi, né demagogo per quel che riguarda gli uomini, in cerca di consenso o di favore tra la massa, ma sobrio in ogni circostanza e saldo, mai volgare o smanioso di novità; saper far uso di ciò che serve a confortare la vita, e che la sorte fornisce in abbondanza, senza boria, e, insieme, senza accampare pretesti, in modo, se c’è, da goderne senza artifici, e da non sentirne il bisogno se manca; il fatto che nessuno lo avrebbe potuto definire un sofista o un buffone o un pedante, ma un uomo maturo, completo, immune alle adulazioni, capace di provvedere agli interessi suoi e altrui; inoltre, l’onore riservato ai cultori autentici della filosofia, senza tuttavia offendere gli altri, e senza neppure, però, farsi fuorviare da loro; ancora: l’affabilità e la gentilezza, ma senza esagerazione; la cura che aveva della sua persona: nei giusti limiti, e non come chi è troppo attaccato al proprio corpo, senza indulgere al lezioso e neppure cadere nella sciatteria, cosicché grazie alla propria personale attenzione riduceva al minimo la necessità di ricorrere all’arte medica o ai farmaci, e con l’esclusione di ogni impiastro; soprattutto il suo saper cedere il passo, senza invidia, a chi possedeva una certa abilità, per esempio nell’eloquenza o nello studio delle leggi o dei costumi o di altre materie, e l’impegno con il quale aiutava ciascuno a divenire famoso nel settore in cui aveva particolare talento – e seguendo sempre nella sua azione le tradizioni avite, non cercava di mettere in luce neppure questa linea di condotta; ancora: la tendenza non a trasferirsi e spostarsi avanti e indietro, ma a restare a lungo negli stessi luoghi e nelle stesse attività; la capacità, dopo i suoi violenti attacchi di cefalea, di tornare sùbito fresco e pieno di energie al lavoro consueto; il suo non avere molti segreti, ma pochissimi, rarissimi e solo su questioni di Stato; il buon senso e la misura nell’allestimento di spettacoli, nell’edificazione di opere pubbliche, nelle elargizioni al popolo e simili: da uomo che tiene d’occhio quello che si deve fare, non la gloria che può seguire alle sue azioni.

Non prendeva bagni in ore inconsuete, non aveva la fissazione di edificare, non pensava sempre ai cibi, ai ricami e ai colori delle vesti, alla bellezza degli schiavi. La veste che veniva da Lorio, dall’abitazione di campagna di laggiù, e la maggior parte di quel che accadde a Lanuvio; come si comportò con l’esattore che lo implorava a Tuscolo, e ogni analoga occasione. Non ebbe alcun atteggiamento rude, inesorabile, violento, o tale che qualcuno potesse dire: «fino al sudore»; ma ogni cosa veniva da lui valutata analiticamente, come in un momento di riposo, senza turbamenti, con ordine, con fermezza, nell’armonia dei fattori interni. Gli sarebbe adatto quanto si tramanda di Socrate, e cioè che sapeva sia godere sia rinunciare a quelle cose di fronte alle quali i più si mostrano deboli al momento di astenersene e smodati al momento di gustarne. L’esser forte e resistere con tenacia e, in entrambi i casi, mantenere la sobrietà sono caratteristiche di un uomo che possiede un animo diritto e invincibile, come ad esempio dimostrò nella malattia di Massimo.

17           Dagli dèi: l’aver avuto buoni nonni, buoni genitori, una buona sorella, buoni maestri, buoni familiari, parenti, amici, quasi tutti; il fatto che non sono arrivato a commettere una colpa verso nessuno di essi, pur avendo una disposizione tale per cui, se ve ne fosse stata l’occasione, me ne sarei macchiato – ed è un beneficio degli dèi che non si sia verificato nessun concorso di avvenimenti che potesse rivelarmi per quello che sono; non esser cresciuto troppo a lungo presso la concubina di mio nonno; aver conservato intatto il mio vigore e non aver avuto rapporti sessuali prima del tempo, anzi, aver atteso ancora dopo che era giunto il momento; esser stato sottoposto a un sovrano e a un padre che avrebbe eliminato ogni mia alterigia e mi avrebbe condotto a pensare che a corte si può vivere senza bisogno di guardie del corpo o di vesti pregiate, di candelabri o statue di questo genere e di un consimile sfarzo, e che anzi ci si può limitare a un tenore di vita assai vicino a quello di un privato, senza perciò risultare troppo modesti o trasandati di fronte alle incombenze che il sovrano deve affrontare nel pubblico interesse; aver avuto un fratello quale il mio, capace, con il suo carattere, di spronarmi ad aver cura di me stesso, e, insieme di gratificarmi con il suo rispetto e il suo affetto; non aver avuto figli deficienti o deformi; non aver fatto troppi progressi nella retorica, nella poesia e nelle altre discipline, in cui forse sarei rimasto irretito, se mi fossi accorto di procedere con facilità; aver prevenuto i miei precettori attribuendo loro la posizione alla quale mi parevano ambire, e non aver rinviato la cosa in attesa, considerata la loro giovane età, di farlo in séguito; aver conosciuto Apollonio, Rustico, Massimo; essermi spesso e con chiarezza rappresentato quale sia la vita secondo natura: cosicché, per quanto sta agli dèi e alle comunicazioni, agli aiuti, alle ispirazioni che da essi provengono, nulla ormai mi impedisce di vivere secondo natura – che a questo obiettivo manchi ancora qualcosa, semmai, a colpa mia, perché non osservo i suggerimenti e, diciamo quasi, gli insegnamenti che vengono dagli dai; il fatto che il mio corpo abbia così a lungo resistito in una simile vita; non aver toccato Benedetta né Teodoto, e, anche più tardi, caduto in passioni amorose, esserne guarito; essermi tante volte adirato con Rustico, ma senza mai far nulla di cui poi pentirmi; il fatto che mia madre, pur destinata a morir giovane, abbia egualmente vissuto con me i suoi ultimi anni; il fatto che ogniqualvolta ho voluto soccorrere una persona povera o che aveva altre necessità, non mi sono mai sentito rispondere: «Non ho abbastanza denaro per farlo»; e non essermi trovato in un analogo stato di bisogno, ridotto a dover ottenere da altri; il fatto che mia moglie fosse così, tanto docile, tanto affettuosa e semplice; aver avuto per i miei figli tanti precettori adatti; il soccorso ricevuto attraverso i sogni, in particolare contro gli sbocchi di sangue e le vertigini; e […] a Gaeta […] … e, quando desiderai accostarmi alla filosofia, non essere incappato in un sofista e non esser rimasto seduto a leggere gli autori, ad analizzare i sillogismi o ad occuparmi dei fenomeni celesti. Perché tutte queste cose esigono l’aiuto degli dai e il favore della sorte.

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