VOCI PROPRIE DELLA MORTE

1.Voci proprie della morte: terminologia funeraria e caratteristiche delle divinità infere

In ogni cultura l’uomo ha posto come termine della propria esistenza attiva il momento della morte, un momento che ha sempre cercato di rimandare in tutti i modi, ma che non ha mai potuto evitare. Le civiltà antiche hanno fatto della vita terrena l’unico ambito in cui l’uomo poteva muoversi e proprio questo ha precluso in buona parte diverse e trascendenti dimensioni oltremondane. La morte, in quest’ottica, viene ad assumere un carattere tragico poiché priva l’uomo di tutto ciò che ha un qualche valore: le conquiste materiali che è riuscito a realizzare in questa vita, e le gioie di cui gode grazie ad esse. L’arrivo del cristianesimo e delle religioni orientali, prime fra tutti l’ebraismo, il culto di Iside e il mitraismo, cambia di fatto questa situazione introducendo l’idea del primato della vita celeste su quella terrena, offrendo così agli uomini una dimensione nuova e ben più ampia di quella costretta entro gli angusti limiti della vita biologica. Anche Roma, come tutte le civiltà a lei precedenti o contemporanee, concepisce quello terreno come l’unico mondo che abbia un qualche valore e si affanna nella ricerca dei beni materiali. O meglio: crede nell’esistenza di una dimensione oltremondana ma la immagina così desolante, così grigia, così monotona da non poter certo reggere il confronto con le gioie di questa terra. La sorte che attende i morti non è, nell’ottica romana, una delle più invidiabili: ridotti ad umbrae, proiezioni sbiadite di ciò che furono in vita, fantasmi di se stessi, conducono all’interno della loro tomba una vita dimezzata, triste e senza felicità. Privati della materialità del corpo, non sono altro che spettri esausti che la nostalgia della vita precedente spinge talvolta a ritornare sulla terra per rivedere i luoghi che li accolsero prima della morte. Diventa allora ovvio il terrore cieco, ma anche l’odio istintivo, che il Romano sviluppa verso la morte, cioè verso colei che presto o tardi, improvvisamente o dopo lunga malattia, gli toglierà il bene più prezioso: la vita.

Nella terminologia che le civiltà classiche hanno utilizzato per designare la morte e le sue divinità appaiono evidenti il senso di una dolorosa impotenza di fronte ad un evento terribile ed il disperato attaccamento all’esistenza terrena. Scorrendo rapidamente il lessico della morte si nota immediatamente come uno dei sentimenti più diffusi sia il disprezzo, l’odio per una sorte di cui ci si sente vittime. Gli aggettivi riferiti alle divinità dell’oltretomba, ed in particolare alla Mors, malvagia personificazione antropomorfa partorita dalla fantasia popolare, sono i più duri ed aggressivi che si possano immaginare: essa viene definita turpis, squalida, horrida, lurida; è come se attraverso questi violenti attacchi verbali l’uomo volesse rivalersi per quello che gli è stato sottratto. Nel processo di antropomorfizzazione i Romani hanno attribuito alle divinità ctonie tutte le peggiori caratteristiche umane, prime fra tutte l’invidia e la violenza, che rappresentano i loro tratti fondamentali.

Il mondo romano è ricchissimo di attestazioni, epigrafiche e letterarie, di esecrazione verso queste divinità che trascinano in modo crudele gli uomini nel loro triste mondo sotterraneo. I Carmina Latina Epigraphica offrono moltissimi esempi di delicata pietà nei confronti dei propri cari che sono stati colpiti dall’ invidia letale della Mors per la loro bellezza o per la loro giovane età, ma presentano altresì delle invettive durissime contro questa malvagia entità che in alcuni casi viene accostata ad un serpente. Gli animi esacerbati dal lutto si lasciano andare ad attacchi feroci, tanto inutili quanto istintivi, contro un destino ritenuto ingiusto, come nel caso di Frontone, solitamente molto pacato, che in una famosa lettera all’imperatore Antonino Pio biasima duramente la sorte crudele che si è accanita sul suo amato nipotino e ha invece lasciato in vita turpi criminali meritevoli dei peggiori castighi.

Letteratura e superstizione popolare nel corso dei secoli attribuiscono sempre nuove caratteristiche alle varie divinità infere giungendo così a intrecciarle e a confonderle fra di loro. Un esempio di questo processo è l’immagine del letum, di cui è assai dibattuta l’etimologia, che originariamente definisce semplicemente l’evento del decesso, come prova l’espressione leto dare, ben documentata anche in epigrafia, il cui significato è appunto dare la morte, uccidere. Dietro l’influsso della mitologia greca si sviluppa, soprattutto in ambito poetico, la personificazione di Letum come divinità della morte, ed in questo senso appunto lo vediamo collocato da Virgilio all’ingresso dell’Ade.

Il termine subisce un’ulteriore evoluzione – probabilmente dovuta alla superstizione popolare che tende a concretizzare ed individualizzare le personificazioni dei concetti astratti – per cui, in un’epigrafe urbana, lo troviamo nella forma maschile di Letus: (“mortis acerbus eripuit letus”), con il carattere di demone della morte, paragonabile per ciò al greco Thanatos. Ma l’esempio più significativo in questo senso è quello della figura schiettamente popolare dell’Orcus: derivato probabilmente da un analogo elemento ctonio etrusco, a Roma finì per designare indifferentemente la divinità sovrana delle regioni infernali (Plutone), in questo assimilato in tutto e per tutto a Dis (pater), e più tardi lo stesso regno dei morti. L’importanza di questa divinità è comunque molto elevata presso i Romani poiché la vediamo comparire molto spesso negli autori con le caratteristiche tipiche della morte: viene definita pallidus, violenta rapitrice di uomini, dotata di una forza straordinaria e irresistibile, incorruttibile nella sua missione. Inoltre i tratti crudeli e odiosi di questa divinità trovano conferma nel fatto che Cicerone, nel suo violentissimo attacco contro Verre, arrivi a definire il proconsole di Sicilia Orcus a significare la connotazione assolutamente negativa del personaggio.

La popolarità di questa figura è ulteriormente attestata dalla sua diffusione nel lessico corrente e nei vari ambiti della vita quotidiana: gli schiavi manomessi per testamento dopo la morte del padrone vengono, infatti, definiti liberti orcini, a significare lo stretto legame fra la loro libertà e l’evento del decesso. Il senso della morte, intesa come entità spietata ed ineluttabile che sovrasta e schianta le forze dell’uomo, è reso molto bene nel mondo romano con la parola fatum: è il destino, la dolorosa necessità che presiede alla vita di ogni uomo e che ne sancisce con fredda determinazione l’inizio e la fine.

Accanto a questo termine – che originariamente viene usato nella mitologia latina per indicare la sentenza divina, la volontà celeste, in particolare quella di Giove – si sviluppa per naturale conseguenza la sua forma plurale, fata, con cui vengono definiti gli oracoli e le predizioni. Per influsso dei miti greci, cui la cultura latina attinge a piene mani, questi fata, richiamando l’idea della sorte e quindi delle sue divinità, le Moire, divengono delle entità preposte alla vita ed alla morte di ogni uomo, per cui in molte fonti li troviamo anche con il nome di Parcae che è appunto l’esatto corrispondente romano delle Moire elleniche.

E’ contro queste divinità, invida , iniqua , che si esprime tutta la rabbia di chi non riesce a rassegnarsi all’ineluttabilità del morire, esse sono le grandi livellatrici: davanti alla loro forza, alla violenza del loro estremo richiamo, non esistono più nè ricchi nè poveri, nè re nè schiavi, tutti subiscono il medesimo destino di morte. Questo tema è molto ricorrente già nella letteratura greca: per nessuno c’è scampo, “Muoiono anche i figli degli dei” sentenzia perentorio il coro dell’Alcesti, e lo vediamo del resto molto presente anche in ambito latino: “Ille licet ferro cautus se condat et aere,/ mors, tamen inclusum protrahit inde caput.”, scrive Properzio, “Nulla certior tamen / rapacis Orci fine destinata / aula divitem manet / erum. Quid ultra tendis ? Aequa tellus / pauperi recluditur / regumque pueris.”, afferma altrove Orazio. Sono numerosissime le attestazioni epigrafiche che rendono, ancora più delle opere poetiche, l’idea di quale fosse il sentimento comune su questo tema.

Da queste lapidi viene al lettore un messaggio di dolorosa riflessione sulla condizione umana e sui suoi limiti, ed un monito all’umiltà. “Orbem sub leges si habeas dum vivis, ad Orchum / quid valet? Hic nulla est divitis ambitio” recita la parte finale di un’epigrafe di Narbonne in Francia. In una concezione della vita immanente e materialista, come quella propugnata dall’élite romana, l’ unico ceto che ha qualcosa da perdere, non è concepibile nei confronti della morte nessun attributo positivo, giacché essa è la negazione per eccellenza, colei che abbatte le aspettative umane, che insomma distrugge la vita, unica dimensione in cui si giocano tutte le speranze. In ambito epigrafico ritroviamo ancora una volta l’espressione più evidente di questo attaccamento esasperato al quotidiano: l’epigrafia funeraria, infatti, è una vera e propria cartina di tornasole della società dominante. “[ Homo tantum ] in vita possidet quantum utitur”, è questo il messaggio ultimo, amarissimo, che proviene da un sepolcro veronese.

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