I MISTERI DEGLI ETRUSCHI

I misteri degli Etruschi

di F. I.

Gli Etruschi, chiamati Tusci o Etrusci dai Romani e Tirreni o Tyrseni dal Greci, sono ancor oggi circondati da un alone di mistero incentrato su due principali problemi. Il primo è quello della loro origine, il secondo è quello della lingua.

La questione delle origini, per Erodoio (V secolo a.C.), era più che pacifica: gli Etruschi provenivano dalla Lidia, in Asia Minore, da dove, sotto il regno di Ati, figlio di Mani, molti partirono per salvarsi da una terribile carestia e, guidati dallo stesso figlio di Ati, Tirreno, approdarono nella terra degli Umbri, cambiando il nome da Lidi in Tirreni. “Nei loro poemi” ha scritto Raymond Bloch in ‘Gli Etruschi’, Il Saggiatore, 1959, Virgilio, Ovidio, Orazio chiamarono spesso gli Etruschi, Lidi. Secondo Tacito, sotto l’Impero romano … i Lidi si consideravano ancora fratelli degli Etruschi. Seneca prende, come esempio di migrazione di un intero popolo, quella degli Etruschi, e scrive: ‘Tuscos Asia sibi vindicat’, cioè “l’Asia rivendica a sé la paternità degli Etruschi”.

Un altro greco, storico e filosofo, Dionisio di Alicarnasso, vissuto a Roma sotto Augusto (negli anni 30-8 a.C.) contraddisse l’ipotesi dei Tirreni emigrati dalla Lidia. Rilevata la diversità di lingua e di religione fra Tirreni e Lidi, Dionisio così sentenziò: “Mi sembra, quindi, che coloro che asseriscono che gli Etruschi non sono un popolo immigrato da terre straniere, bensì una razza indigena, hanno ragione; e ciò mi pare derivi dal fatto che essi sono un popolo antichissimo che non assomiglia ad alcun altro sia per quanto concerne la lingua che per i costumi”.

La questione dopo duemila anni è tutt’altro che risolta e fra le diatribe degli storici contemporanei si va facendo strada una terza ipotesi mediana alle altre due: “La civiltà etrusca, come noi la conosciamo” ha scritto Annette Rathje in ‘Gli Etruschí, 700 anni di storia e di cultura’, Edizioni Daga Print, Roma, 1987 “si sviluppò senza dubbio sul territorio italiano, come incontro di un’antica tradizione italica con più elevate culture (Oriente e Grecia). La domanda ‘da dove vengano gli Etruschi’ diventa una falsa questione”.

La lingua etrusca è divenuta, o meglio è ridiventata, leggibile in epoca recente (ma si era conservata fino al V secolo della nostra era) dopo gli strenui sforzi compiuti dai glottologi sulle circa 10.000 iscrizioni trovate in Toscana oltre a quelle, abbastanza lunghe della ”tegola di Capua”, del “cippo di Perugia” e delle bende di lino di una mummia greco-romana trovata ad Alessandria e ora conservata nel Museo di Zagabria. Quest’ultimo reperto, in particolare, contiene circa 1.500 parole, ma poiché si tratta di formule rituali relative a un calendario sacro enumerante cerimonie religiose, solo 500 parole differiscono le une dalle altre. In sostanza, l’etrusco è grosso modo incomprensibile nel significato delle frasi, anche se è ormai noto il senso di un discreto numero di parole e nonostante che studiosi e dilettanti sfornino di continuo ipotesi e “chiavi” interpretative puntualmente rivelatesi inadatte. Archeologi e linguisti si lamentano della mancanza, per la lingua etrusca, dell’equivalente della “lapide di Rosetta” che consentì a Champollion l’interpretazione dei geroglifici egizi. Nell’attesa, quindi, che si trovi una iscrizione bilingue o trilingue sufficientemente lunga da soddisfare tutti i dubbi morfologici e sintattici dell’etrusco, non resta che accantonare il problema, forse anch’esso falso, dato che la lingua è soltanto uno dei mezzi espressivi di un popolo.

Agricoltori nonché agrimensori e poi urbanisti, metallurghi e quindi temibili guerrieri con le loro armi di bronzo e poi in ferro, artisti ma anche mercanti, navigatori, pirati e colonizzatori, gli Etruschi hanno parlato sia con i fatti storici di cui sono stati protagonisti in tutto il bacino del Mediterraneo dal IX al I secolo a.C., sia con le mirabili testimonianze della loro arte, sia con l’eredità culturale, religiosa e morale che hanno travasato quasi per intero nella civiltà di Roma, contribuendo a strutturarla fin dalle sue origini.

A guardare, però, le gesta storiche degli Etruschi, le loro testimonianze artistiche e urbanistiche e i loro “lasciti” ai Romani, c’è il rischio di incappare in altri falsi problemi e di non “vedere” tutta insieme la realtà profonda di questo popolo che presenta tante affinità con le culture dell’Asia Minore, di Babilonia, della Grecia, ma anche con quelle maltese (se non altro con quella di Tarxien della decadenza e con l’ipogeo di Hal Saflieni), fenicia e punica. Eppure mantiene una sua originalità basandosi su una religione rivelata che informa di sé, in modo totale quanto angoscioso, la vita pubblica, familiare e individuale.

Per capire gli Etruschi, come per altri popoli, occorre domandarsi quale fosse la loro cosmogonia, la loro teogonia e quindi quali fossero le applicazioni analogiche, pratiche, rituali e profane, pubbliche e private (se mai una privatezza possa esistere in un ambito fortemente impegnato della onnicomprensività di un legame fatale tra gli uomini e gli dei).

Secondo Raymond Bloch, gli Etruschi mostrano aspetti singolari e chiaramente differenziati rispetto al Greci e ai Romani. Il loro atteggiamento di fronte alla divinità e al destino “è più inquieto – ha scritto -se non addirittura angoscioso e il loro stesso modo di vivere sembra improntato alla ricerca di presagi che prefigurino un avvenire sul quale è pressoché impossibile esercitare una qualche influenza”. Tutto nella vita del singolo, della città e del popolo etrusco sembra, per Bloch come per altri storici, “obbedire a una sorta di predeterminazione, che non può produrre se non una forma di pessimismo diffuso”. In questa frase, tuttavia vanno rilevate due astrazioni, due figure retoriche e strutturali tipiche del pensiero moderno occidentale, ma incomprensibili, fors’anche inconcepibili, tre millenni or sono.

La predeterminazione, per il pensiero dei popoli coevi a quello etrusco, poteva essere intuita, intravista come ritmo e ordine mai compiutamente intelligibili di un mondo fortemente unitario in tutte le molteplici manifestazioni dal divino, all’umano, al naturale. Il concetto poi di pessimismo (o di ottimismo) diffuso, non poteva altro che essere un effetto, un segnale non certo una causa comportamentale, indicante la rispondenza e l’accordo dell’anima collettiva a quel ritmo, a quell’ordine.

“Diversamente dai Greci e dai Latini, ma analogamente a parecchie popolazioni orientali, gli Etruschi – è sempre Bloch a scriverlo – concepiscono la natura come subordinata a un fine universale: i fenomeni che si offrono vengono concepiti come prodotti dalla volontà divina per rendere l’uomo consapevole dei propri doveri e del proprio destino futuro. Tutto si riduce, dunque, alla mantica, che appare appunto la scienza universale”.

  Anche nelle valenze e nelle pieghe di questo concetto si può celare qualche trappola. L’indovino etrusco, difatti, sia che fosse àugure (specializzato nell’interpretazione del volo degli uccelli), aruspice (letttore delle viscere e del fegato degli animali sacrificati), esperto in brontoscopia (tuoni), cultore dei librifulgurales (sul fulmini) o semplice astrologo non si limitava all’osservazione e alla divinazione degli ostenta (prodigi), ma provvedeva all’espiazione, al ripristino dell’ordine violato, alla facilitazione del presunto volere degli dei o alla deviazione, al ritardo della sciagura prevista in arrivo. Di più, come gli sciamani, gli indovini etruschi sconfinavano nella magia in quanto è stato tramandato che sapessero provocare certi prodigi ed erano sacerdoti, nel senso etimologico del termine, in quanto depositari dei rituales.  

Anche nelle valenze e nelle pieghe di questo concetto si può celare qualche trappola. L’indovino etrusco, difatti, sia che fosse àugure (specializzato nell’interpretazione del volo degli uccelli), aruspice (letttore delle viscere e del fegato degli animali sacrificati), esperto in brontoscopia (tuoni), cultore dei librifulgurales (sul fulmini) o semplice astrologo non si limitava all’osservazione e alla divinazione degli ostenta (prodigi), ma provvedeva all’espiazione, al ripristino dell’ordine violato, alla facilitazione del presunto volere degli dei o alla deviazione, al ritardo della sciagura prevista in arrivo. Di più, come gli sciamani, gli indovini etruschi sconfinavano nella magia in quanto è stato tramandato che sapessero provocare certi prodigi ed erano sacerdoti, nel senso etimologico del termine, in quanto depositari dei rituales.

Padroni, evidentemente nell’epoca più arcaica, del sapere che abbracciava la vita e la morte, le scienze e le arti, la religiosità e la guida della cosa pubblica, i sacerdoti etruschi seppero far sbocciare nella società della nascente età del ferro, fra il 900 e il 720 a.C. della rozza cultura villanoviana, una civiltà stupenda che trasformò i piccoli villaggi imperniati su famiglie autonome, in città-stato possenti e ricche che prefigurano il sogno imperiale di Roma.

Come mito delle proprie origini, o meglio delle origini della loro fioritura, gli Etruschi ci hanno tramandato la leggenda di Tagete, figlio di Genio e nipote di Giove, piccolo come un bambino, dai capelli argentei e dalla saggezza di un vegliardo, scaturito da una zolla di terra toccata dall’aratro di un contadino, che insegna all’intera Etruria tutta la disciplina che abbracciava il sapere, umano e ispirato al divino, più avanzato. Un’altra figura, muliebre stavolta, profetessa, ninfa o sibilla, denominata Vegola o Begoe, completa l’insegnamento di Tagete con l’ars fuIguratoria e con l’agrimensura, rivelatasi di basilare importanza per gli Etruschi prima e per i Romani più tardi.

Questi miti non possono attenere soltanto al dominio (fin troppo recintato di alti steccati) della storia delle religioni bensì possono per lo meno essere usati come strumenti per la comprensione della storia e della cultura di un popolo, siano esse sacre o profane. Non è infatti privo di significati pratici per il glottologo lo schema del “fegato di Piacenza” (bozzetto in bronzo di un fegato di pecora trovato in quella città nel 1877) con le sue 40 caselle contenenti ciascuna il nome di un dio, con le sue delimitazioni spaziali e con le sue 16 caselle del bordo che sono chiaramente di derivazione astronomica e astrologica. Questo stesso schema è analogo a quello di reperti affini babilonesi ed è ancor oggi presente nella pianta della città di Roma. Né dovrebbe essere priva di significati pratici la lunga litania di formule scritte sulle bende della mummia di Zagabria, solo che si cercasse di compenetrasi nella visione del mondo tipica degli Etruschi.

Questa visione comportava un misterioso consiglio di Dei superiores et involuti, a cui era sottoposta la triade di divinità principali: Tinia (Giove), Uni (Giunone) e Metirva (Minerva). I templi dedicati a questa triade dovevano essere collocati nelle città in excellentissimo loco nei tre punti cardinali principali (Est, Sud e Ovest, il Nord essendo cieco come sede inaccessibile degli dei) o in un unico punto (come nell’Acropoli greca) e in un solo tempio a tre celle (come in quello di Giove sul Campidoglio, a Roma, o come quello di Apollo, a Veio).

Al di sotto della triade principale, vi sono altre triadi di divinità più o meno simili a quelle dell’Olimpo greco-romano: Aplu (Apollo), Artumes (Artemide), Turms (Mercurio), Nethuns (Nettuno), Maris (Marte), Turan (Venere) ecc., raggruppate a 12, come i segni dello Zodiaco, a 7, come i Pianeti, a 16 come le zone del cielo.

Da queste concezioni religiose oltre che dall’applicazione nel tessuto urbano delle regole sacrali dell’agrimensura nacque la prescrizione dei Libri rituales etruschi sulla disposizione a scacchiera della pianta delle città con un ben determinato orientamento stabilito dagli àuguri.

Dei templi etruschi, con le strutture portanti in legno, le mura in argilla cotta al sole, le tegole del tetto e gli ornamenti del frontone e del crinale in terracotta, non è rimasto granché data la deperibilità dei materiali impiegati.

Del santuario di Volthumna, in una imprecisata località della zona del Lago di Bolsena, dove ogni anno si riuniva l’intera Etruria, è rimasto appena il ricordo del nome. (Che anche questo santuario, come avveniva davanti al tempio di Tarxien, a Malta, venisse eretto con tronchi di alberi considerati fausti?)

E rimasta invece, cospicua, la testimonianza di ciò che era stato progettato per l’eternità immobile, a volte serena e a volte (spesso nel periodo della decadenza) cupa. Il destino ultramondano ha rappresentato una delle principali preoccupazioni degli Etruschi ed è grazie a questa angoscia, stemperata o accesa secondo le varie epoche, che si conosce quasi tutto di loro. “Glietruschi – ha scritto ancora Annette Rathie – tennero in gran conto i loro morti. Come gli Egizi, credevano che i defunti continuassero a vivere nella tomba. Perciò seppellivano i morti insieme ai loro oggetti personali e facevano molto per proteggerli”, sia – è il caso di aggiungere mediante opportuni rituali sia mediante statue di “guardiani”.

Nel periodo delle origini, con una consuetudine tipicamente orientale, si bruciavano le spoglie e se ne mettevano le ceneri in urne dette canopi.

A partire dall’VIII secolo a.C. i morti vengono seppelliti in fosse scavate nel tufo. Dal VII secolo vengono costruite intere camere funerarle ricoperte di terra “a tumulo”. Nascono poi intere necropoli che si trovano sulle alture, nelle vicinanze delle città e lungo le strade principali, e in esse sono stati trovati, spesso saccheggiati, i più importanti tesori dell’arte etrusca: sarcofaghi, armi, monili, suppellettili, vasellame, statue, rilievi, iscrizioni e affreschi. Questi ultimi, soprattutto raffigurano nel periodo arcaico una visione del mondo, sia pure d’oltretomba, serena e agiata, ovviamente per le classi dominanti.

Dopo il 474 a.C., tuttavia, quando stavano per volgere a compimento i secula che il Fato aveva concesso agli Etruschi, e dopo che si erano manifestati adeguati prodigi e moniti divini (in pratica dopo la pesante sconfitta di Cuma che spodestò i Tirreni dal predominio sul mari) l’atmosfera delle tombe diventa cupa e via via terrificante. Alta (Ade) e Phersipnai (Persefone) si trasformano in esseri spaventosi che, insieme con un Caronte livido e ghignante, accompagnano le anime in un viaggio, in cui altre figure repellenti e minacciose non lasciano presagire nulla di buono. Come se anche le anime dei singoli non fossero che brandelli di un’anima collettiva giunta a compimento dei suo ciclo… prima che un altro ciclo fiorisse e fruttificasse in altra forma.

(tratto da “Hiram”, n. 9-

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