armonia e monade, Leibniz:
Presentazione di Rossella Fabbrichesi Leo
Il testo è nato quale dispensa del seminario tenuto nell’anno 1997/98, presso la seconda cattedra di Filosofia Teoretica della Università Statale di Milano, ed è finalizzato alla lettura della Monadologia di Leibniz. Ma in realtà le ambizioni del volume sono maggiori: a partire dalle tesi metafisiche di Leibniz, viene proposta la rivisitazione di alcune nozioni-chiave della sua filosofia, e ciò mediante il loro accostamento alle ipotesi teoretiche più innovative di due logici atipici della nostra epoca, Peirce e Wittgenstein.
Se si deve segnalare il connotato di maggior novità della ricerca, allora questo consiste proprio nel tentativo di individuare alcune linee d’identità nei percorsi dei tre autori, che sembrano segnare un orizzonte comune di interpretazione della ratio logica nel suo complesso. Per chiarire sinteticamente l’impostazione del lavoro: appare insensato militare dalla parte del Leibniz logico, antesignano delle ricerche logiciste, o difendere a spada tratta le sue ineliminabili aspirazioni metafisiche e teologiche, perché in Leibniz il percorso logico e quello metafisico risultano inscindibili. Non solo: si illuminano effettivamente a vicenda a partire da una potente ipotesi teoretica di interpretazione del reale e del conoscere, i cui lineamenti bisogna assecondare, piuttosto che rimuovere.
Quel che è curioso per chi proviene dalla tradizione di studi peirceani, come l’autrice, è ritrovare in questo intreccio metodologico la stessa impostazione che Charles Sanders Peirce, due secoli dopo, avrebbe impresso al suo lavoro. Grande logico e matematico egli stesso, erede di quel “campo dissodato” di cui parlava Kant in riferimento a Leibniz, seminato dalle scoperte della characteristica, del pensiero-segno, del simbolismo, del calcolo logico-algebrico, delle tesi riguardanti la continuità e l’infinitesimale, Peirce avrà lo stesso atteggiamento di Leibniz verso queste discipline: “La metafisica…non è punto differente dalla vera logica… cioè dall’arte di inventare in generale”. Wittgenstein, come si sa, fa virare anch’egli la ‘vera logica’ verso temi metafisici ed etici: “Sì, il mio lavoro si è esteso dai fondamenti della logica all’essenza del mondo”, scrive nei Quaderni.
Vi è dunque un ground della logica che va scoperto e portato alla luce: Leibniz, Peirce e Wittgenstein mantengono viva questa intuizione attraverso i secoli che vedono il rafforzamento del metodo logico-formale, e il rapido degenerare della sua consapevolezza filosofica. E questo ground rimanda ai temi dai quali l’istituzione del logos deriva: l’iconicità , la scrittura, l’etica, la pragmatica. E’ sembrato ad esempio possibile ravvisare nello svolgimento del pensiero leibniziano relativo alla forza e all’attività un’anticipazione di alcuni temi pragmatisti svolti da Peirce negli scritti del 1878. Che a proposito della monade si debba preferire il termine “Monadare” ci fa proprio pensare alla sostanza come attività, disposizione ad agire, risposta . Ma l’intera concezione leibniziana della sostanza è modernissima: il suo essere pensata come nodo di relazioni, di relazioni tutte interne e potenziali – ecco un’altra idea che torna sia nel Tractatus che in On a New List of Categories; la monade come puro limite, nozione ancora una volta wittgensteiniana, del Wittgenstein che, leibnizianamente, scriveva che “il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro”. E, ancora la nozione di espressione come proiezione, concepita nel Quid sit idea e mai abbandonata, che più di un interprete ha accostato all’Abbildungstheorie di Wittgenstein, e che porta Leibniz alla consapevolezza del fondamento semiotico di ogni contenuto di pensiero.
La metafisica di Leibniz, a ben vedere, è tutta giocata tra i termini apparentemente opposti della tradizione: tra unità e molteplicità, identità e differenza, privato e pubblico, individuo e mondo. Sorprendentemente, Leibniz raccoglie gli estremi: la monade è “parte totale”, perché quel che è da pensare, nel profondo, è come si dia che “tutto il mondo sia l’oggetto di ogni mente”. E’ nota la sua risoluzione del problema, affidata all’ordine monadologico. Meno nota, meno pubblicizzata la sua insistenza sulle operazioni attive che contraddistinguono le relazioni proprie di ogni anima: ogni relazione è in realtà un’azione, e un’azione propriamente percettiva e rappresentativa – un’azione segnico-pragmatica, in termini contemporanei. Non più io sono, né io penso, ma io opero, produco, so fare. Sotto il dominio del fare, la monade è “flusso”, passaggio. Si individua a partire da ciò cui dà luogo, dalle pratiche in cui è inserita: ogni cosa è là dove agisce, scriveva Peirce, dove agisce come segno. Leibniz aveva, per parte sua, già contribuito a dissolvere le ingenuità della localizzazione semplice.
Ma un altro punto qualificante della riflessione leibniziana è che quest’azione non è mai causale o fisica, ma solo ideale ed espressiva. E’ questa la chiave di interpretazione anche del tema dell’armonia prestabilita, da sempre ‘ bestia nera’ dei critici dell’opera del filosofo tedesco. Leibniz dice infatti a chiare lettere che l’essenza di ogni monade sta nelle azioni che questa conduce, e che ogni azione in senso proprio è percezione, ovvero espressione generale dell’universo, o, detto ancor meglio, rappresentazione. Tanto che si può arrivare a modernizzare il detto leibniziano traducendolo così: si dice sostanza ciò che esercita attività, ma attività precipua dell’anima è il rappresentare, per cui si dice sostanza ciò che esercita una funzione espressiva e rappresentativa. Monade è quell’unità reale e attiva che produce effetti rappresentativi (monadare è symbolizare, potremmo azzardare). Ma allora l’essenza propria di ogni monade sta nell’attività di rinvio, di rimando, nell’essere – per – altro, là dove questo ‘altro’ non è poi mai ‘il mondo’, ma il percepito di altre percezioni, il rispecchiarsi stesso della monade-specchio in altri riflessi, in quel gioco di sguardi che piacque tanto a Merleau-Ponty.
Leibniz può essere così davvero compreso a partire dalle metafore che predilige: la monade viene di volta in volta tratteggiata come specchio, replica del mondo (dove riecheggia l’idea della piega, magistralmente sottolineata da Deleuze), eco, arcobaleno, prospettiva, sguardo sul mondo e del mondo su se stesso (perché – come scrive Calvino, il cui Palomar viene qui accostato ai temi leibniziani – “l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo”). E c’è poi il tema del corpo, stranamente dimenticato dagli interpreti, perfino da Merleau-Ponty che su di esso ha poi edificato il proprio edificio teorico: il corpo è il mezzo attraverso il quale l’anima si rappresenta l’universo; l’angolazione grazie alla quale il mondo ci è dato è permessa dal corpo, dal corpo proprio, e l’anima non si rappresenta la realtà esterna, ma ciò che accade nel proprio corpo, e attraverso di esso, ciò che avviene nel cosmo: “così si conoscono i satelliti di Saturno e di Giove solo per il movimento che si fa nei nostri occhi”, scrive ad Arnauld.
Ecco che la strada verso l’armonia prestabilita è tratteggiata, come dicevamo prima: nulla accade all’anima che venga dall’esterno, perché l’esterno, potremmo dire commentando la proposizione appena letta, è un movimento dell’interno, o, come altrove scrive, perché “a noi non possono capitare che pensieri e percezioni”. Leibniz rivela la sua stoffa di grande filosofo quando dimostra l’insensatezza dell’ipotesi dell’influsso causale, o di una relazione diretta tra mente e corpo, tra pensieri e cose. La sua risposta al ‘ragionevole’ Bayle, precursore di quello spirito illuminista che ridicolizzerà le posizioni di Leibniz sull’argomento, è, a leggerla attentamente, di enorme spessore. Non solo, nell’interpretazione che viene qui offerta prefigura una soluzione dell’eterno problema del rapporto tra le due res , procedendo nella direzione della semiotica, disciplina elaborata da Peirce nel 1867. Ripercorriamo brevemente l’argomentazione: essa procedeva da un esempio che sarebbe diventato famoso, quello del cane colpito da un bastone mentre si apprestava a mangiare, e che dunque passava improvvisamente dal piacere al dolore. Bayle insisteva: come puoi dire, tu Leibniz, che esso provi sentimenti tanto contrastanti senza che intervenga qualcosa dall’esterno a provocarne il repentino mutamento? Ma questo ‘esterno’, gli obietta Leibniz, come viene percepito se non come una rappresentazione? Il cane non percepisce infatti il bastone ‘in sé’; il cane percepisce il dolore, che è rappresentazione del colpo di bastone, e questo viene a sua volta rappresentato come suo dolore. Ecco la chiusura della monade: il principio del cambiamento è nel cane, poiché “nell’anima le rappresentazioni delle cause sono le cause delle rappresentazioni degli effetti”. Dalla parte dell’anima non abbiamo che rinvii tra rappresentazioni, dice espressamente il filosofo, “perché come un movimento segue un altro movimento, così una rappresentazione segue un’altra rappresentazione in una sostanza la cui natura è di essere rappresentativa”. Ogni segno sta per un altro segno, scriveva Peirce – immemore per altro del suo antesignano – nell’infinito rinvio della semiosi illimitata. La claustrazione monadica si coniuga perfettamente con la sua apertura al mondo, perché il mondo è tutto nelle rappresentazioni che di esso si danno, tutto concentrato – e così sdoppiato – nello specchioe nella replicamonadica. Manifestando quell’anticartesianesimo che Peirce farà suo, Leibniz si rende conto che l’anima non può essere considerata come una tavoletta di cera che passivamente riceva dall’esterno materiale di sensazione, ma deve essere intesa come attiva espressione fondata sulle proiezioni dei propri stati rappresentativi. Tra le due res vi è dunque solo rapporto di espressione, di proiezione, di rappresentazione – mai contatto fisico e meccanico. Eco, arcobaleno, corda tesa, tela elastica: il comune modello epistemologico di questi topoi leibniziani è quello del decentramento, della proiezione, del rimbalzo, dello sdoppiamento, della specularità; d’altro canto la chiave della conoscenza, per il Leibniz della characteristica, era l'”arte della sostituzione”. Della sostituzione segnica, ben inteso, cioè di quella disseminazione di simboli e segni attraverso cui si sostituisce e costituisce, insieme, il mondo.
I luoghi dove si trovano geniali anticipazioni delle teorie semiotiche o ermeneutiche contemporanee sono in Leibniz molteplici, ma quel che è più interessante è che essi sono elaborati per rispondere al problema metafisico per definizione, quello della relazione cose-pensieri, soggetto-oggetto. Leibniz dimostra bene come ogni dottrina causalistica e naturalistica della conoscenza sia insensata, perché non spiega come l’oggetto stia nel pensiero, come due enti tanto dissimili come la res cogitans e la res extensa comunichino e si scambino relazioni. La teoria dell’armonia prestabilita, allora, lungi dal rispondere all’inclinazione metafisica di una mente atteggiata teologicamente e chiusa agli sviluppi più vivaci del pensiero moderno, potrebbe esser letta come il tentativo di spiegare la comunicazione tra le res nei termini di una relazione espressiva e proiettiva tra sostanze rappresentative, cioè segniche, là dove corrispondere equivarrebbe a stare per, esser presente (come segno) in assenza di ciò cui il segno rinvia (l’oggetto). La distanza invalicabile, eppur sempre perfettamente scandita, tra le res, non sarebbe allora altro che la distanza segnica, per cui ogni segno infinitamente rinvia all’oggetto e infinitamente lo manca. Armonia come eco, proiezione, espressione, rimando “ideale” tra sostanze che vivono in uno stato di assoluta “autarchia”: “l’anima è l’eco delle cose esterne, e tuttavia non ne dipende”, scriveva l’autore a Des Bosses.
La monade sembra dunque presentare caratteri che si potrebbero definire a pieno titolo semiotici. Si pensi alle caratteristiche che meglio la contraddistinguono: la percezione o espressione, che non è altro che capacità rappresentativa; l’implicazione di tutti i suoi stati, passati, presenti e futuri, cioè la capacità semiosico-inferenziale; l’attività, cioè la capacità operativo-pragmatica; il suo esser prospettiva, punto di vista sull’universo, cioè la capacità interpretativo-ermeneutica. Le sue qualità fondamentali, a ben vedere, sono quelle che contraddistinguono le unità segniche. Se è vero che solo una teoria così composta poteva offrire a Leibniz gli strumenti per uscire dalle secche del dualismo cartesiano, è altrettanto vero – secondo quanto si sostiene in questo testo – che tali strumenti sembrano, tutto sommato, ancor oggi validi per contrastare il cartesianesimo diffuso in gran parte della nostra cultura , sia filosofica che scientifica
Rossella Fabbrichesi Leo