LA SCOPERTA DEL VINO

dalle riviste “Archeo”e “Archeologia Viva”

Note varie di cucina

“La scoperta del vino”, di Carlo Zaccagnini.

      L’annuncio è di poche settimane fa: analisi ai raggi infrarossi effettuati nei laboratori dell’università della Pensylvania su giare e otri provenienti dal sito di Godin Tepe, nell’Iran Occidentale, hanno rivelato tracce di acido tartarico.

      Ciò rappresenta un sicuro indizio che gli antichi recipienti fossero colmi di vino: i reperti ceramici risalirebbero al 3500 a.C. ed a tale data potrebbe comunque fissarsi la più antica esperienza di vinificazione, che gli studiosi americani non esitano ad attribuire ai Sumeri. In attesa di conoscere in dettaglio i risultati delle analisi e la precisa collocazione stratigrafica dei contenitori esaminati, è possibile sin d’ora avanzare qualche nota di commento.

      L’acido tartarico non è contenuto solo nell’uva: in questo caso, ed in considerazione anche della forma dei manufatti ceramici, è comunque ragionevole ritenere che esso derivi da uva fermentata piuttosto che da altri prodotti ortofrutticoli. La zona dell’antico sito di Godin Tepe risponde perfettamente ai requisiti geo-climatici indispensabili per la viticoltura, a differenza della pianura mesopotamica, dove non si dà coltivazione di vite e dove il vino è sempre un prodotto di importazione da zone più o meno distanti.

      I Sumeri conoscevano però la vite e la bevanda fermentata da essa prodotta: ne fa fede la presenza, tutt’altro che sporadica, del segno geshtin (che rappresenta una foglia di vite appesa ad un arbusto) nelle tavolette cuneiformi arcaiche, risalenti almeno alla metà del III millennio.

“In vino veritas”, di Sergio Rinaldi Tufi.

……………. In Oriente, per esempio in Mesopotamia, il vino rimane un prodotto raro e costoso in confronto con la preponderante popolarità della birra.

      In Grecia è, ovviamente, ben noto; ma il suo uso, nel rito o nel simposio (si tratta di due fenomeni ben distinti) è in genere ben controllato, per non dire limitato.

      Nella commedia classica, si può dire che sia rara la presenza di personaggi ubriachi; nella ceramica attica, si conosce un solo caso (una coppa conservata a Londra) di raffigurazione di banchetto degli dei.

      Anche nella raffigurazione omerica, di vino si parla poco: se ne parla, per meglio dire, in casi drammatici, sanguinosi, estremi (partenza da Troia; uccisione di Agamennone; episodio di Poliremo). Nelle abitudini greche, inoltre, il vino è sempre misto ad acqua; solo gli schiavi, i barbari o gli dei devono vino puro……………..

“Il vino in Cina” di Massimo Baistrocchi

……………….il vino ha una grande importanza nell’evoluzione e nello sviluppo dell’arte cinese del bronzo. Un’antica leggenda riporta che “inventore” del vino sarebbe stato Yi Din.

      In realtà, tutte le popolazioni primitive apprendono, ad un certo stadio della loro evoluzione, che è possibile ottenere una bevanda inebriante, con un processo naturale, dalla macerazione di granaglie e di frutta. Ben presto l’uomo, con lo sviluppo delle sua conoscenze, ha imparato a produrre artificialmente questa fermentazione per poter sfruttare le caratteristiche “tossiche” del vino, vale a dire il suo potere inebriante: un mezzo per accedere ad una “dimensione” diversa, soprannaturale, per contattare ed entrare in simbiosi con la divinità e gli antenati. I più antichi resti di vino sino ad oggi scoperti in Cina risalgono a circa il I millennio a.C.

      Essi sono stati trovati in una tomba a LousHan, nella provincia dello Henan, risalenti alla dinastia Shang. Il vino era conservato in uno zun di bronzo sigillato. Esami al carbonio 14 di alcuni materiali contenuti nella tomba indicano che la sepoltura è antica di 3.200 anni. Inoltre nel 1974 sono stati scoperti, in una tomba principesca a Pingshan, nella provincia dello Hebei, altri due grandi vasi sigillati di bronzo risalenti alla dinastia Han occidentale (206 a.C. – 24 d.C.): uno di essi conteneva ancora i resti viscosi di vino che, nonostante siano trascorsi da allora duemila anni, hanno ancora un aroma alcolico!

      L’esame dei depositi trovati sul fondo dei vasi ci permette di sapere che il vino era stato ottenuto facendo fermentare una mistura di miglio e riso. Anche in un fang yi (vaso per la conservazione del vino) della collezione Hardy di Hong Kong sono stati rinvenuti residui completamente solidificati di una sorta di idromele, che conferma la formula di una mistura di granaglie su una base di riso………….

……………………..Tra i manufatti in bronzo di Zhengzhou, meritano particolare at­tenzione alcuni splendidi ding (vasi per cottura e offerta di cibo) rinve­nuti nel sito denominato Duling. Il pi(j interessante di questi ha forma rettangolare, misura circa I m di al­tezza e pesa 82 kg. L ‘imponenza del vaso e la grande qualità della sua or­namentazione (maschere e figure zoomorfe, borchie e vari altri motivi decorativi) sono la dimostrazione dell’ alto livello raggiunto nell’ arte e nelle tecniche di fusione, oltre che nella lavorazione del metallo, da parte degli antichi fabbri cinesi.

      Altri oggetti appartenenti alla fase antica della dinastia Shang sono ov­viamente i variatissirni vasi rituali in bronzo, da quelli per la cottura dei cibi (ding, li) ai contenitori per cibo (gui), da quelli per vino (jue, gu, jia, you, lei) a quelli per acqua (pan, he).

      Tutti questi oggetti, se venivano utilizzati in cerimonie religiose ed in particolari festività civili, come anche in ban­chetti e per doni ai re e ai principi di regni vici­ni o alleati, erano soprat­tutto oggetti collegati coni riti di inumazione propri di una società aristocratica che fondava il suo potere e la sua sopravvivenza sulla schiavitù.

      Rispetto al periodo precedente, si nota un notevole sviluppo nelle tecniche di fusione e di fabbricazione dei vasi. Spesso negli oggetti si riconoscono ancora tracce di saldatura, specie sui fian­chi, il che conferma ulterior­mente l’ uso della tecnica di fondere i singoli pezzi sepa­ratamente in stampi e poi di assemblarli.

“Il vino dei romani”

……………….. Poi ci saranno gli asparagi di montagna, raccolti dalle contadine quando smettono di filare la lana, e grandi uova ancora tiepide del loro fieno, con le galline che le hanno fatte. Inoltre grappoli d’uva conservati per molti mesi come erano sul tralcio, pere di Segni e pere dell’Oriente. In più, dalle stesse ceste, mele dal profumo purissimo.

      L’ unica bevanda alcolica in uso era il vino: lo si profumava con miele e foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano; e lo si beveva caldo con acqua. I condimenti erano molto diversi dai nostri, perché i Romani mischiavano abitualmente i sapori aspri con quelli dolci: la carne poteva essere condita con il miele, il pesce con la frutta, i dolci con il pepe.

      Frequenti risultano le salse di pesce, tra cui il celebre garum, I dolci erano assai raffinati; e i cuochi romani si sbizzarrivano nelle forme, portando in tavola (ce lo racconta Petronio nella cena di Trimalcione) tordi fatti di segala, frutti di mare fatti di mele cotogne, e simili.

“Cucina nell’antico Egitto”   di Edda Bresciani

……………………………Si consumavano grassi vegetali (olio d’oliva, di sesamo) e animali, mentre anche il latte aveva le sue applicazioni in cucina sia come coibente nella cottura sia sotto forma di una specie di burro, o come formaggio. Spezie ed erbe aromatiche come il cumino o il timo, benché conosciute come piante nell’Egitto faraonico, non sembra che abbiano avuto una utilizzazione in gastronomia, ma solo in medicina.

      L ‘equilibrio dietetico era integrato con bevande, come la birra (insieme con l’acqua fresca, era la bevanda egiziana preferita, apprezzata dai vivi e augurata per il benessere della vita futura), preparata con la fermentazione di farina d’orzo impastata, imperfettamente cotta, fermentata con malto, insieme con acqua e con l’aggiunta di datteri, poi filtrata; e come il vino d’uva, prodotto nei vigneti del Delta, in quelli del Sud del paese, ed anche delle oasi che si allineano nel deserto libico parallelamente alla valle del Nilo, ma anche importato dalla Siria.

       Le anfore vinarie che numerosissime sono state rinvenute nei siti archeologici faraonici portano di regola, scritta sulla superficie del recipiente, l’indicazione del vigneto e spesso del vignaiolo responsabile, oltre all’anno regio di produzione: una vera e propria etichetta di denominazione d’ origine controllata!

      Si conoscevano anche altre bevande, più o meno alcoliche e ottenute sempre con la fermentazione di bacche vegetali o di frutti: la più nota è lo scedeh, che veniva bevuto con riprovevole intemperanza dai giovinotti dissipati che frequentavano le case di piacere nell’Egitto ramesside.

      «Pane e birra, bovini e volatili» erano gli alimenti che – con l’augurio di averne a migliaia! – le preghiere per le offerte cercavano di assicurare anche per i defunti, poiché le credenze escatologiche egiziane antiche prevedevano la continuazione della vita post mortem affidata all’assunzione, come durante la vita sulla terra, di cibi e di bevande: ecco quindi la ripetitività ossessiva delle domande di offerta per i morti, le raffigurazioni del defunto come commensale seduto davanti a tavole coperte con ogni sorta di cibarie, ecco la deposizione, nelle tombe stesse, di alimenti pronti per essere miracolosamente consumati per tutta l’eternità………….

“Cucina nell’antica Mesopotamia” di Claudio Saporetti

…………………………….Nell’intimità delle loro case, commercianti, artigiani e contadini avevano certo un menu un po’ più vario: al pane potevano aggiungere la verdura, come le leguminose, radici commestibili, aglio e cipolle, pennuti da cortile o catturati con le reti, latte, pesci e frutta, come i fichi e tanti datteri. Il sesamo dava l’olio, e si dolcificava con il miele. Anche se non mancava il vino, importato dall’estero, la bevanda fondamentale era la birra, prodotta in cento qualità differenti.

      Era bevuta in grandi bicchieri di terracotta o metallici, oppure direttamente da un otre, per mezzo di lunghe canne, come ci testimoniano varie impronte di sigilli antichissimi: pare che fosse un modo per evitare di ingoiare i grani di orzo che galleggiavano nel liquido. Sembra davvero che la birra fosse indispensabile in ogni pasto. Sono, a questo proposito, molto indicative le prime frasi di una simpatica favoletta, chiamata “Il Poveruomo di Nippur”, che descrivono la situazione di un poveraccio privo di pane, di birra e di carne.

      Probabilmente dando in cambio i suoi vestiti, costui riesce ad acquistare una vecchia capra da mangiare. Ma si accorge che non può cucinarsela: «Ti pare che macelli la capra a casa mia? – dice – ­Tutt’altro! Non sarò io a mangiarla! Non ho nemmeno la birra. E poi i miei vicini mi sentirebbero e si adirerebbero, ed anche i parenti ed i famigliari si adirerebbero con me!».

      È un soliloquio molto indicativo: pare davvero che senza birra  non si potesse mangiare.

“Cucina presso gli antichi Cristiani” di Fabrizio Bisconti

……………………….. anche i cibi base che i Cristiani devono consumare: innanzi tutto il pane, che è alla portata di tutte le borse, e il pesce arrostito, in memoria del miracolo della moltiplicazione.

      Ci si doveva guardare da tutti quegli alimenti che stuzzicavano l’appetito, ma era permesso far uso di cipolle, olive, legumi, latte, formaggio e di vivande cotte, ma senza salse.

      Il vino doveva essere bevuto con moderazione: S. Paolo raccomanda il vino a Timoteo, ma solo come medicina; il piacere del vino – scrive S. Giovanni Crisostomo (IV sec.) – non è male o peccato, mentre lo sono l’intemperanza e l’ubriachezza; S. Basilio Magno (IV sec.) ricorda che il vino è dono di Dio e deve essere usato convenientemente. In sintonia con il costume di allora il vino veniva usato in miscela con acqua: berlo puro – come sentenzia ancora S. Giovanni Crisostomo – ­era sinonimo di ubriachezza.

      Non mancarono taluni movimenti rigoristi che proibirono l’uso del vino, in quanto considerato opera diabolica, e per questo vennero ironicamente definiti aquarii…….

“Cucina presso l’antica Cartagine” di Sandro Filippo Bondi

……………………………Abbondanti erano i melograni (che vari autori latini chiamano significativamente “mele puniche”), le mandorle, le noci e le pe­re, nonché i datteri, le cui palme sono spesso rappre­sentate sulle monete e sugli ex-voto di Cartagine. Quanto ai fichi, chi non ri­corda che proprio mostran­do in Senato alcuni di que­sti frutti provenienti da Cartagine e ancora freschi, Catone convinse i Romani della pericolosa prosperità e vicinanza dell’avversaria? 

      Nell’agricoltura, e dunque nelle abitudini alimentari, di Cartagine un ruolo di as­soluta preminenza aveva la vite, impiegata sia per la produzione di vino sia per quella di uva da tavola. Le rappresentazioni figurate sulle stele ci assicurano del­la diffusione dell’uva sulle mense dei Cartaginesi e, quanto al vino, si sa per certo che essi ne bevevano volentieri, indulgendo al consumo in maniera anche eccessiva, se è vero che, a credere alle parole di Plato­ne, si era dovuta promulga­re a Cartagine una legge che vietava di bere vino a varie categorie di abitanti, dalle più modeste (schiavi, solda­ti) a quelle investite di mag­giori responsabilità (giudi­ci, magistrati pubblici in ca­rica, nocchieri).

      La qualità del vino da tavo­la cartaginese non doveva però essere propriamente eccellente, a giudicare dal­l’ affermazione di Plinio, se­condo cui i Cartaginesi era­no noti per usare la pece per le loro case e la calce per i loro vini. Una sola qualità di vino incontrò favore anche al di fuori del mondo punico: era il passum, rica­vato da uva secca secondo un procedimento che l’agronomo cartaginese Magone illustrava dettagliata­mente.

      Quanto ai condimenti, il prodotto più usato (come è sempre accaduto nei paesi mediterranei) era l’olio di oliva, sia d’importazione si­ciliana, sia di produzione locale; vale la pena di nota­re in proposito che proprio le genti fenicie introdusse­ro in Nord Africa l’oleicol­tura, apparentemente non praticata dagl’indigeni nel periodo precedente alla fondazione di Cartagine.

      Sembra comunque che i Cartaginesi facessero un uso smodato anche dell’a­glio, come attesta ancora Plauto, che definisce un personaggio del suo Poenu­lus «più pieno d’aglio e d’u­piglio [una varietà locale di aglio] dei rematori roma­ni».

      Seguendo l’ordine dei no­stri pranzi di oggi, l’ultima notazione va riservata ai desserts: sulla tavola dei Cartaginesi dovevano esse­re serviti soprattutto dolci a base di farina, come quel tipo di torta dall’indicativo nome di «punica» che fu conosciuto anche fuori del­l’ Africa e che, come testi­monia il latino Festo Avie­no, «era chiamato probum [“squisito”] perché più di ogni altro gradevole». E forse proprio a guarnire ci­bi di questo genere erano destinati i cosiddetti «stam­pi per focacce» in terracot­ta, decorati con motivi geo­metrici o animali e ritrova­ti in grande quantità in tut­te le regioni di cultura pu­nica.

      I Cartaginesi ebbero nel­l’antichità fama di persone austere e, come diceva lo storico greco Plutarco, osti­li ai piaceri. Ma, immagina­ti di fronte alle mense im­bandite dei ricchi prodotti della loro terra, essi acqui­stano ai nostri occhi un aspetto meno arcigno e se­vero di quello con cui, sot­tolineandone l’avidità nei commerci e la durezza in guerra, li vollero dipingere gli antichi scrittori, tratteg­giandone il carattere con quel tanto di pregiudizio che spesso si accompagna alla considerazione di una civiltà diversa e, oltretutto, nemica e sconfitta………

“Cucina presso gli Etruschi” di Giuseppe Sassatelli

……………………. I banchettanti, generalmente in coppia e semisdraiati su letti triclinia­ri, sono provvisti di coppe per bere il vino.

      Quest’ulti­mo viene preparato all’in­terno di grandi vasi conte­nitori da servi, che poi lo prelevano con mestoli e lo filtrano con un apposito co­lino. Imestoli, spesso in nu­mero di due e di diversa grandezza, probabilmente costituivano anche delle unità di misura, mentre l’u­tilizzo del colino si spiega col fatto che al vino veniva­no aggiunte spezie o altri in­gredienti solidi, per cui era necessario filtrarlo.

      Dopo tale operazione il vino veni­va versato nelle brocche, portato in tavola e servito ai commensali, che lo beveva­no nelle loro coppe. Questo ciclo costituisce una sequenza quasi rituale nel­le pitture di Tarquinia e di Chiusi. E anche in quelle aree dove mancano le tom­be a camera e non ci sono pitture (come ad esempio nell’Etruria padana), l’allu­sione al banchetto e al vino avviene attraverso la depo­sizione nella tomba degli utensili che servivano a que­ste operazioni: un grande vaso contenitore, due me­stoli e un colino, le brocche per servirlo e le coppe per berlo.

      Sia attraverso le pit­ture che attraverso il servi­zio di mensa deposto accan­to al defunto, si allude es­senzialmente al consumo del vino. Questa insistenza sta a significare prima di tutto che il momento evoca­to, più che un banchetto nel vero senso della parola, è in realtà un simposio, cioè la riunione conviviale (o quel­la parte delle riunioni con­viviali) in cui ci si limitava all’uso di questa bevanda……………..

“A tavola con i Romani” di Anna Maria Liberati

………………………  IRomani coltivavano il fru­mento (triticum), il farro (far), l’orzo (hordeum), il lupino (/upi­nus), la fava (faba), il fagiolo (pha­se/us), il trifoglio (cytisus), il lino linum), la canapa (cannabis), l’er­ba medica (herba medica), ed inol­tre ortaggi (olera) come la cipolla (cepa), l’aglio (allium), il porro (porrus), e l’asparago (asparagus).

      Numerosi erano i frutteti, dove ve­nivano particolarmente curati tutti gli alberi che conosciamo anche noi, meno gli agrumi e il cachi. Grande cura si aveva inoltre della vite, disposta in filari o unita all’ olmo e ad altri alberi.

      La preparazione del vino era simile alla nostra: staccati con un (falcetto «falcula vineatica), i grap­poli di uva (racemi) venivano rac­colti in appositi canestri (corbulae) da dove erano poi scaricati in cesti più grandi e quindi posti sui carri.

      L ‘uva era pigiata in appositi tini (lacus- labra) e le vinacce (vinacea) erano poi messe nel torchio (torcu­lar). Il mosto (mostum), versato in vasi di terracotta coperti di pece all’esterno, si lasciava fermentare e poi si travasava in anfore di argilla, chiuse con sughero e pece. Su ques­te anfore si scriveva il nome dei consoli in carica quell’anno, sistem­a questo che serviva ad indicare l’età del vino.

      Ciò che era prodotto con la fatica dell ‘uomo era poi natural­mente gustato a tavola.

Il pane anche allora era l’ele­mento principe dell’alimentazione; poteva essere di frumento o di farro e di diverse qualità: dal pane bianco, di lusso (panis candidus), a quello, sempre bianco, ma meno pregiato (panis secundarius), fino al pane nero (panis militaris e plebeius).

      Non essendo conosciuti thè, caffè, o liquori, l’unica bevanda era il vino. I vini più pregiati veni­vano dalla Campania, come il Coe­cubum, il Massicum, il Falernum, il Calenum. Tra i vini stranieri mol­to apprezzati erano quelli che pro­venivano da Chio, Sicione, Rodi, Cipro e dalle isole del Mar Egeo in genere.

      Il vino puro era usato solo nelle libagioni. Con gli antipasti veniva mischiato al miele e nel corso del pranzo era addirittura bollito (o unito ad acqua bollente) e mischia­to col garum o col pepe. Veniva attinto dal cratere dove già si trovava preparato con l’acqua nella giusta proporzione (indicata di vol­ta in volta dal re del convito) trami­te una specie di mestolo dal lungo manico (cyathus) e si mesceva nelle coppe filtrandolo mediante un co­latoio, in quanto non si conosceva la tecnica di produrre vino perfet­tamente limpido…………….

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