LA VILLA SETTE FINESTRE A COSA

dal catalogo della mostra: “La villa di Settefinestre a Cosa”

………………Si tratta dunque, per la Valle d’Oro, di aziende cospicue. Il para­gone con quelle dell’ America         schiavistica   è fuorviante, visto che le prime si fondano su una varietà di colture intensive, mentre le secon­de sono caratterizzate dalla «monocultura» estensiva (come i latifondi schiavistici siciliani?).

      D’altra parte una completa specializzazione delle colture è concepibile solo in società i cui territori siano omoge­neamente pervasi da una rete di efficienti comunicazioni, da un «mer­cato nazionale», in cui cioè il commercio abbia condizionato integral­mente la produzione, per cui tutto può comprarsi e tutto può vender­si: ciò avviene soltanto con il capitalismo (in Italia a partire dalla fine del secolo scorso). I fondi delle ville romane – quindi anche dell’agro cosano – dovevano pertanto sempre presupporre delle coltu­re promiscue, da articolarsi fondamentalmente in due settori: a) desti­nato al consumo locale (della villa) e b) destinato al mercato mediter­raneo.

      Il consiglio catoniano di vendere, ma di non comprare (2, 7) e il carattere chiuso ( da caserma), della villa, si spiegano appunto con il fatto che all’interno stesso di questa struttura produttiva si rispecchia la doppia realtà del mondo romano di quest’epoca: ora chiuso nella produzione di derrate essenziali ( cereali), cioè nell’autosufficienza, ora invece aperto alla produzione di derrate di qualità (vino), cioè verso il mercato transmarino. La villa insomma deve cercare di essere autosufficiente, proprio nella misura in cui vuole esportare i suoi pro­dotti migliori.

      Nell’agro cosano la derrata scelta a diventare merce era, appunto, il vino: «vinea est prima» (Catone, I, 7). Ce lo dicono i torchi e il serbatoio vinario connesso con la cantina della villa di Settefinestre, il grande scarico delle anfore vinarie di Ses(tius) al porto marittimo di Cosa e il forno ceramico, producente anfore vinarie, al porto flu­viale dell’ Albegna.

      D’altra parte l’astratta dimensione di 500 iugeri nulla ci dice, di per sé, circa la dimensione vera e propria del vigneto e quindi circa l’aspetto manifatturiero-commerciale di queste aziende schiavistiche. Quest’ultimo dato può essere ricavato soltanto sottraen­do all’intera superficie del fondo quella relativa alla coltura dei cerea­li, direttamente necessaria alla sussistenza dell’instrumentum: dagli schiavi agli animali.

      Dagli agronomi romani possiamo ricavare alcuni dati di fonda­mentale importanza (che possono essere confrontati con l’esperienza, assai più dettagliata, che abbiamo dell’agricoltura italiana dell’età moderna).

 a)Uno schiavo poteva coltivare fra i 2 e i 2,5 ettari di vi­gna e poco più di 6 ettari coltivati a grano.

 b) Occorrevano kg. 32,5 di grano per seminare un quarto di ettaro. c) Il seme rendeva di me­dia quattro volte. d) Un campo veniva seminato a grano ad anni al­terni, per la pratica del maggese o della rotazione con leguminose fer­tilizzanti. e) Ogni sei ettari ce ne volevano 0,8 destinati alla produzio­ne di legna, canne e vimini (per il sostegno delle viti). f) La resa me­dia di un vigneto era di 890 litri di vino a quarto di ettaro. g) Ventisei litri di vino avevano un valore minimo di partenza di 15 sesterzi. h) Una nave quale quella di Giens (Tchemia-Pomay-Hesnard 1978) pote­va trasportare 6500 o 8500 anfore. i) La razione annuale di grano per uno schiavo era di kg. 331, mentre per il fattore e la fattoressa era di kg. 273 ciascuno. l) La razione annuale di vino per uno schiavo era di lt. 262.

      Da questa serie di dati possiamo ricostruire, attraverso una serie di calcoli che non è qui il caso di riprodurre, un modello ideale per una proprietà di circa 125 ettari di terreno arativo – quale quella di Settefinestre – finalizzata alla produzione di vino per la vendita sul mercato mediterraneo. a) Il fondo doveva essere lavorato da circa 42 schiavi (compresi il fattore e la fattoressa), 11 buoi; vi pote­vano inoltre pascolare (almeno nelle stagioni fredde) 112 pecore. b) Dei 125 ettari, 50 erano destinati a vigneto, 7,5 alla produzione di legna, canne e vimini, 66 alla coltura dei cereali, al prato, all’oliveto e infine 1,5 ai fabbricati e ad altre attività. c) Il fondo poteva produrre annualmente lt. 122.616 di vino, di cui lt. 11.004 servivano per l’auto­consumo e lt. 111.612 per la vendita, per un valore complessivo di 63.900 sesterzi.

      Tre torchi ( quali quelli della villa di Settefinestre) era­no in grado di spremere le vinacce di tale vigneto. Il vino da esporta­re poteva riempire per tre quinti o per metà una nave quale quella di Giens, o per intero una di dimensione più piccole. Tale quantità di vino poteva inoltre alimentare per un anno 426 lavoratori adulti, pari a circa 213 famiglie.

      Sul terreno che serviva alla sussistenza dei 42 schiavi – 66 ettari a cereali, prato e oliveto e 4 a vigneto, per un totale .di 70 ettari – avrebbero potuto vivere 40 famiglie contadine e circa 160 individui di diversa età. La sussistenza di uno schiavo sarebbe pertanto sostanzialmente equivalente a quella di una tradizionale fa­miglia contadina………………………..

…………………………i Sesti erano dunque non solo produttori di vino, ma anche di contenitori (mezzi di trasporto) intesi come valori di scambio, cioè funzionali non soltanto alle proprie vigne, ma vendibili a qualsiasi al­tro produttore, come a un certo L. Titius, il cui nome appare sui tap­pi di anfore bollate SES(ti) rinvenute nel relitto navale del Grand Congloue.

      E’ possibile pertanto in questo caso farci un’idea sulle seguenti questioni.

 l)    La dimensione della produzione vinaria di un fondo (probabil­mente) della famiglia senatoria romana dei Sesti e il suo sistema di lavorazione in una villa durante un secolo circa.

2)   La strada, la laguna e il porto attraverso cui questa merce vina­ria raggiungeva i mezzi da trasporto transmarini. In particolare, la natura e la localizzazione dei contenitori anforici collegabili alla fa­miglia dei Sesti e grosso modo il numero di navi necessarie a traspor­tare la vendemmia di un anno (sappiamo che P. Sestio possedeva una ricca flotta).

3)   Le rotte commerciali e la distribuzione geografica dei centri di consumo del vino prodotto nei fondi dei Sesti.

      Si tratta, come si vede, di una delle fortunate e rare occasioni in cui l’archeologia riesce a ricostruire un intero processo produttivo. Molti sono però ancora i punti interrogativi e tanto il lavoro che resta da fare.

      La crisi di questa produzione vinaria si collega alla crisi dei ceti imprenditoriali e dirigenti romani, che si compie in età giulio-claudia (Syme 1958). Un bollo di Luni ci restituisce il nome di un ultimo membro della famiglia dei Sesti: P. Sextius Quirinalis, forse il figlio di L. Sestius Quirinalis, console del 23 a.C. Con questo personaggio raggiungiamo probabilmente l’età tiberiana. Non conosciamo altri se­sti dopo di lui, o altre famiglie che possano aver svolto un ruolo ana­logo a partire dalla tarda età giulio-claudia. Plinio ci ha tramandato un elenco dei vini più pregiati d’Italia (N H, 14,59- 72): fra questi quel­lo di Cosa è, non a caso, assente (Manacorda 1978, c.s. e c.s.a).

      I dati delle fonti letterarie ben si accordano con quelli della cultu­ra materiale della Valle d’Oro. Nel giro di tre o quattro generazioni questo caso di sviluppo – uno dei tanti del miracolo economico roma­no – finisce, come gli altri, in un vicolo cieco. Il lavoro razionale degli schiavi scompare con la fine della vita di lusso in villa. Mutamenti di proprietà, mentalità e cultura – prima ancora che la concorrenza dei vini provinciali d’occidente – portano a quel caso irreversibile di sot­tosviluppo che si chiama latifondo (imperiale), che si chiama Marem­ma tardo-antica.

       L’Italia centrale tirrenica, che aveva fornito i ceti dirigenti e im­prenditoriali dello stato romano – chiusosi in meno di quattro secoli il movimento ascendente e discendente della sua floridezza – tende or­mai a perdere il suo primato. La morte di questa radice comporterà, in un secondo tempo, la morte di tutta la pianta: la caduta dell’impe­ro romano.

      Le statistiche basate sui materiali ostiensi indicano lo svolgimento storico seguente: sviluppo nel II° secolo a.C. ed ancor più nel I, quindi graduale decadenza nei primi due secoli dell’età imperiale. Muore così un ceto dirigente, un modo di lavorare schiavistico, una produzione rurale e cittadina basata sulla cooperazione forzata di molti uomini e sulla esportazione di un gran numero di merci. Entra in crisi anche la stessa produzione letteraria, figurativa e culturale dell’Italia romana.

      La Penisola riacquisterà una posizione centrale nel Mediterraneo solo nel tardo medioevo. Più tardi lo stesso Mediterraneo non potrà più essere considerato come l’ombelico del mondo. Nelle campagne lo schiavo cede il passo al colono dipendente, da sorvegliare al momento del raccolto – se la rendita è in natura – ma non più durante tutto l’anno, come accadeva per gli schiavi nel costoso sistema della villa.

      Il lavoro torna a fondarsi esclusivamente sulla famiglia contadina, sul piccolo lotto assegnatole, e la rendita sullo sfruttamento sempre più brutale dei poveri più che non su una manodopera schiavistica, spe­cializzata e disciplinata. I contadini vivono di nuovo sparsi nelle cam­pagne o raccolti in paesi, ma non più nelle ville-caserme. Essi regola­no la loro vita e la loro attività non più sui manuali di agricoltura bensì sulla memoria tradizionale e parcellizzata del lavoro familiare nei campi.

      Le ville non servono assolutamente più. Vengono semmai usate in modo improprio o piuttosto cadono in rovina. Non si produ­ce più per mercati lontani, ma in primo luogo per la propria sopravvi­venza e per le necessità immediate di un padrone assente. Il capitale commerciale e il lusso fuggono la campagna e si ritirano nuovamente nelle mura cittadine. Il contadino si riappropria del possesso (non della proprietà) della terra su cui vive e degli strumenti che gli servo­no per coltivare e allevare. Si assiste così ad una nuova ruralizzazione di campagne un tempo fortemente urbanizzate. Proprietà e città per­dono in questo modo il ruolo imprenditoriale e produttivo di un tem­po per tornare ad essere fonti di consumo e di spreco. Ma in condi­zioni assai più degradate (Carandini 1979 a).

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