IEHI OR …CHE LA LUCE SIA…

Iehì Or  …Che la luce sia…

di Sergio Magaldi

Questa tavola è stata pubblicata sul primo numero di LUZ – Editrice Har Tzion Latina 1998.

   Il primo giorno “Dio disse: Che la luce sia. E la luce fu”. Il noto versetto del Genesi pone subito una questione di metodo suscettibile di trasformarsi in un problema sia di natura teologica che cosmologica. Non è mia intenzione l’esegesi né la rassegna di tutto ciò (forse troppo) che su questo versetto si è detto e scritto. Mi limiterò ad attirare l’attenzione su qualche interrogativo che discende dal primo dei dieci “Dio disse” del Berescith o Genesi [1]

   Un primo interrogativo è se la luce preesista alla creazione. Il Sepher ha Zohar [2] non ha dubbi in proposito, ritenendo la luce già esistente e fonte di un segreto indicato dalla ghematria [3] dei nomi luce e segreto aventi entrambi lo stesso valore numerico [4]. A questo segreto si allude allorché è detto che una fiamma oscura, troppo oscura per essere vista, zampilla dall’Infinito. Si tratta di En-Soph-Or luce infinita che non si lascia vedere. Da questa infinita pagina oscura e velata come notte profonda si leva improvviso un minuscolo punto di luce.

   Una metafora, accessibile all’ esperienza comune, per descrivere questo fremito dell’Infinito è la fiamma che sale da una brace o da una candela che brucia. Nella fiamma che sale si notano due luci, la prima bianca e brillante, l’altra, più in basso, nera e che serve da trono di gloria alla luce bianca. Le due luci sono indissolubilmente legate. Il Sepher Yezirah [5], forse il più antico testo ispirato alla Qabalah, presenta in proposito un’immagine che ebbe molta fortuna nelle speculazioni dei primi cabalisti storici. Si tratta delle fiamme che divampano alimentate dal carbone ardente. Tali fiamme sono le luci o sephiroth [6] che si diffondono a partire dal primo punto di luce distintosi nella nerezza del carbone. Quel punto è la corona dalla quale ben presto si estendono altre nove luci: “Quando è conformato, Egli produce nove luci, che risplendono fuori di Lui, dalla Sua conformazione. E da Lui stesso queste luci scaturiscono, ed emettono fiamme, e si slanciano fuori e si estendono da ogni lato, come da un’alta lanterna i raggi di luce dardeggiano giù in ogni lato. E quei raggi di luce, che si estendono, quando qualcuno si avvicina per esaminarli, non si trovano, e vi è solo la lanterna. Così è Lui il Santissimo Antico Uno: Egli è quell’altissima Luce nascosta con ogni Nascondiglio, e non è trovato; eccettuati quei raggi (…) Ma Egli è in verità la Luce Superna, che è nascosta e non è conosciuta. E tutte le altre luci sono accese da Lui e da Lui derivano il loro splendore.  C’è un’altra metafora, non accessibile a tutti, e che forse è già più di una metafora: è la visione ad occhi chiusi del mistico che tutta la letteratura sull’argomento descrive come l’apparire, dal fondo buio, di un chiarore improvviso seguito da uno splendore su cui si staglia una forma o si accende l’intero spettro dei colori [7]. Per chi si diletta di ghematrie non sarà inutile osservare come la parola   h z j m   Machazeh [8], che in ebraico significa visione, faccia riferimento per il suo valore numerico ad altre significative parole. Del resto, la stessa esperienza quotidiana ci mostra, anche se su piani diversi e, per così dire, inferiori, che ogni nascita avviene nella luce ma prende forma nel buio. Senza neppure voler approfondire il discorso su taluni rituali collettivi in cui dono e appropriazione della luce ricapitolano simbolicamente il primo istante della creazione [9]

   Quel punto di luce, adombrato dalla luce infinita e per noi oscura, è il primo dei dieci “Dio disse” del Genesi ed è anche il primo istante della creazione. Facendosi altro da sé, l’Infinito si determina ad essere il finito illimitato. É davvero così? L’invisibile puntino da cui lo yud [10] -la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico- è tracciato è davvero altro? Osserviamo intanto che quel puntino di luce è per noi invisibile[11] proprio come la luce oscura e, dunque, partecipa della stessa natura di questa. Da che riconoscere allora la luce che si diffonde da quel primo punto? La risposta è nel successivo versetto del Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”. La separazione consentì all’uomo -vista l’impossibilità di percepire il puntino luminoso o primo istante della creazione- di vedere finalmente la luce attraverso le cose. Ciò che significa vedere la luce nel contrasto con le tenebre. Naturalmente questa oscurità non ha nulla a che vedere con l’Oscurità da cui scaturì il primo punto di luce: “Questa luce scaturì dal cuore dell’Oscurità (…) dalla luce nascosta prese forma una segreta via d’accesso grazie all’oscurità del mondo di quaggiù e la luce poté manifestarsi”. Poco dopo, Rabbi Yossi chiarisce che l’oscurità che consente alla luce i manifestarsi nelle cose del mondo non ha nulla a che vedere con l’oscurità originaria: “Rabbi Yossi lo spiega così: (non si tratta dell’oscurità originaria) perché se tu affermi che è di questa Oscurità chiusa che sono state scoperte le profondità, sappi che tutte le supreme corone sono lì ancora nascoste e che per questo sono dette profondità”. Insomma, parafrasando lo Zohar, si può dire che sulla pagina scura dell’Infinito appare la pagina bianca della Torah, così come su questa pagina bianca appaiono le lettere scure della Torah.

   A guardar bene, tuttavia, non c’è né doppia oscurità né doppia luce perché l’oscurità di quaggiù è solo apparente e l’oscurità di lassù non è altro che l’infinita luce che si svela in un punto e subito si nasconde per manifestarsi nel contrasto. Che la separazione della luce dalle tenebre sia soltanto apparente lo Zohar non si stanca di ripeterlo: “Elohïm separò la luce dalle tenebre (Genesi 1:4). Ora non bisogna credere che si tratti di una vera separazione. Infatti il giorno scaturì dal fianco destro della luce, la notte da quello sinistro. Entrambi nacquero insieme e poi furono separati…” Più avanti la separazione luce-tenebre è assimilata a quella tra maschio e femmina. Ciò non è detto per sminuire la donna come sembrerebbe a prima vista, perché semmai, a pensarci bene, la luce non si manifesta che a partire dal buio e questa pare proprio una verità che, anche se per motivi diversi, vale tanto per lassù come per quaggiù: “ Rabbi Isacco domandò: se così è, perché è detto: Elohïm differenzierà la luce dalle tenebre (Genesi 1:4)? Egli ricevette la risposta seguente: la luce fa nascere il giorno, l’oscurità fa nascere la notte. Dopo di che Egli li riunisce insieme ed essi diventano uno, come è scritto;  fu sera fu mattina, un (solo) giorno (Genesi 1:5), ciò significa che la notte e il giorno sono chiamati uno. Quanto al versetto citato sopra: Elohïm differenzierà la luce dall’oscurità, questo riguarda il tempo dell’esilio in cui regna la separazione. Rabbi Isacco disse: sino a quel momento il maschio era luce, la femmina oscurità. Dopo di che furono riuniti per essere uno. Essi non furono separati che per distinguerli (…) poiché in effetti non erano che uno, perché non c’è luce che per l’oscurità né c’è oscurità che per la luce. Essendo uno, differiscono nei loro colori ma restano sempre uno, così com’è scritto: Giorno uno (Genesi 1:5)

   Occorre tener presente che l’assimilazione della luce infinita con Dio, che sembra emergere da quanto detto sopra, è solo un’approssimazione concettuale e che la possibilità di descrivere sia l’infinita luce (En Soph Or) che l’infinito (En Soph) è negata risolutamente sia dalle prime scuole storiche della Qabalah sia dalle speculazioni successive che hanno nello Zohar il loro punto di riferimento. Si consiglia piuttosto di astenersi da simili indagini e addirittura si arriva a dire che sarebbe meglio non essere mai nati piuttosto che rivolgere l’attenzione in questa direzione. Quando, nella scuola di Isacco il cieco, si nomina En Soph è più che altro per sottolineare l’impossibilità di conoscere l’infinito, [12] mentre nello Zohar non si smette di ripetere che è impossibile afferrare l’essenza del segreto di ogni segreto, del senza principio e senza fine, di quell’infinito di cui si riesce ad immaginare appena, attraverso i sephiroth, una particella di luce piccola come la testa di un ago. In tutta la Qabalah regna pieno accordo sull’idea che; il Santo nome è ugualmente celato e manifesto. É celato come infinito (En Soph) e come luce infinita (En Soph Or), è celato però anche come finito illimitato, uno, testa, corona o Kether perché è un punto di quella infinita luce che si rivela solo nel diffondersi delle sue nove luci e nel contrasto con l’ombra dei corpi. E se pure Dio fosse identificato con l’infinita luce, bisognerebbe comunque distinguere questa concezione da tutte quelle che identificano Dio con la Luce per contrapporgli, in eterna lotta, il principio o dio delle Tenebre. Simili concezioni dualistiche non hanno cittadinanza né in Genesi, né in Zohar e neanche nella posteriore Qabalah di Luria. Neppure si dovrebbe parlare di ideali punti di contatto tra Qabalah e Gnosi, considerando che “La linfa segreta che anima i vari mondi gnostici è una concezione radicalmente dualistica, che oppone il corpo allo spirito, questo mondo di tenebre al mondo della luce…”

   É interessante osservare come, più o meno nello stesso periodo in cui si diffondono le idee dei cabalisti di Provenza e di Girona, il filosofo e teologo inglese Roberto Grossatesta presenti una metafisica della luce che, nel solco del platonismo agostiniano, s’inserisce nella prospettiva del più volte citato versetto del Genesi (1:3). Del resto, come ricorda Pietro Rossi, nel presentare le opere di Grossatesta, la speculazione legata alla luce era, nella tradizione occidentale e cristiana “un filone ininterrotto, anche se è nel XII secolo che si ha un impatto decisivo con le opere dello Pseudo Dionigi e di alcuni Padri greci, in particolare Gregorio Nazianzeno e Massimo il Confessore, attraverso i quali i Latini vengono in contatto con la riflessione teologica e mistica greca che si era sviluppata senza soluzioni di continuità dalla tradizione neoplatonica. Prima, erano il pensiero di Agostino e la sua ermeneutica dei testi sacri, in particolare della Genesi, le fonti e la guida per la riflessione dei Latini”. A proposito di Agostino, va ricordata la sua antica adesione al manicheismo quando sulla scia di Mani [13] riteneva Dio una sostanza luminosa e corporea: “Io pensavo, Dio, mio Signore e Verità, (scriverà nelle Confessioni) che Voi foste un corpo brillante e immenso ed io un pezzetto di questo corpo”. C’è da chiedersi se Agostino si sia mai liberato di una concezione siffatta semplicemente sostenendo la creazione ex nihilo e affermando che Dio creò senza una preesistente materia, ma semplicemente volendo che tutte le cose fossero. Quel che ora interessa sottolineare è che Grossatesta, in parte riprendendo Agostino, in parte seguendo Aristotele, dica che all’origine dell’universo stiano una materia prima informe e una luce come prima forma corporale e causa della tridimensionalità: “ Ritengo (scrive Grossatesta) che la forma prima corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce. La luce infatti per sua natura si propaga in ogni direzione, così che da un punto luminoso si genera istantaneamente una sfera di luce grande senza limiti, a meno che non si frapponga un corpo opaco. La corporeità è ciò che necessariamente è prodotto dall’estendersi della materia secondo le tre dimensioni, sebbene l’una e l’altra, cioè la corporeità e la materia, siano sostanze in se stesse semplici, prive di qualsiasi dimensione”. La luce è detta corporeità o forma prima dei corpi perché appartiene alla sua natura il diffondersi, il propagarsi in ogni direzione trascinando con sé la materia: “La luce che è la prima forma della materia prima creata, moltiplicandosi da se stessa per ogni dove in un processo senza fine ed estendendosi in ugual misura in ogni direzione, al principio del tempo si diffondeva traendo con sé la materia in una quantità grande quanto la struttura dell’universo”. La costituzione dell’universo in una sfera ha origine, secondo Grossatesta, dall’istantanea propagazione o moltiplicazione della luce, ma la distribuzione disuguale della materia è causata dalla disgregazione e dall’aggregazione, cioè dalla rarefazione e dalla condensazione. La disgregazione primordiale della luce dà origine alla prima sfera, da questa sfera la luce dà origine ad altre sfere sempre meno rarefatte e meno spirituali sino all’ultima delle nove sfere celesti, cui si aggiungono le quattro del mondo inferiore degli elementi: “In questo modo dunque si sono originate le tredici sfere di questo mondo sensibile, vale a dire le nove sfere celesti inalterabili, nelle quali non c’è aumento, generazione o distruzione, perché sono totalmente compiute, e quattro che al contrario sono alterabili, nelle quali c’è accrescimento, generazione e distruzione, come è naturale per ciò che non è totalmente compiuto. Ed è chiaro anche perché ogni corpo superiore, secondo il lume generato da sé, sia la specie e la perfezione del corpo successivo (…) La terra, poi, in forza della concentrazione in se stessa delle luci superiori, è tutti i corpi superiori; per questo dai poeti è chiamata Pan, cioè tutto…”

   Non c’è dubbio che quella di Grossatesta, più che una metafisica, sia una cosmologia fondata sulla luce e sulla ricerca del primo istante della creazione e che ad una prima analisi presenti molti punti in comune con la Qabalah speculativa, a cominciare dalle tredici sfere che troppo ricordano le tredici conformazioni della barba del Macroprosopo per continuare con le nove sfere celesti, ora presentate come successiva degradazione della luce secondo un’influenza neoplatonica certamente visibile tanto nella Gnosi come nella Qabalah lurianica, ora considerate come inalterabili. Per finire alla terra dove si concentrerebbero tutte le luci superiori, esattamente come avviene per Malchuth-Terra posta al fondo dell’Albero sephirotico. Le convergenze sembrano fermarsi qui, considerando che manca nella Qabalah una metafisica che riconduca tutto, anche il primo istante della creazione, alla solita medievale dialettica di materia e forma anche se la forma si identifica con la concretezza della luce che si diffonde [14].

   Le vere differenze, tuttavia, tra le analisi di Grossatesta e quelle della Qabalah speculativa emergono ove si confrontino entrambe con le ipotesi cosmologiche della scienza e con le verifiche attuali della fisica. In Genesis and the Big Bang del 1990, il fisico e teologo Gerald L.Schroeder ritiene che scienza e Bibbia siano d’accordo su un punto fondamentale e cioè che nulla si possa dire su prima del principio. Il concetto è frutto di una tradizionale speculazione cabalista: la prima lettera del Berescith o Principioè una b beth, una lettera aperta solo sul davanti secondo la modalità di scrittura dell’ebraico che va da destra a sinistra:  t y c a r b  Berescith. Ciò significa che solo gli eventi accaduti dopo il principio sono accessibili all’indagine umana, esattamente come avviene per la scienza accettando l’ipotesi del Big Bang,[15] teoria secondo cui l’universo attuale è il risultato di una grande esplosione originatasi da un minuscolo punto ad altissima densità privo di tempo e di spazio e in cui la materia era totalmente assorbita in energia: “L’universo prenatale conteneva tutta la materia dell’universo presente, vale a dire circa 100 miliardi di galassie, ciascuna con i suoi 100 miliardi di Soli (…) Tutto quello che possiamo vedere adesso era compresso in un volume più piccolo di una capocchia di spillo [16].” Dopo il Big Bang, l’energia cominciò a condensarsi in particelle che si muovevano a una velocità inferiore a quella della luce, dando vita al fenomeno della prototemporalità, più tardi, consolidandosi l’energia in materia dotata di massa, ebbe inizio il tempo vero e proprio. Ciò spiega perché via via che la forza del campo gravitazionale aumenta, determinando una maggiore densità di materia, il tempo trascorra più lentamente, sin quasi a fermarsi sulla soglia dei buchi neri, dove la densità di materia è al massimo. Il processo, come osserva G.L. Schroeder, può essere visto anche in modo reversibile: “A temperatura e pressione normali, la materia è organizzata in molecole. Con l’aumento della temperatura, la struttura molecolare si distrugge e restano i singoli atomi. Un aumento della pressione distrugge anche la struttura atomica finché restano solo nuclei atomici ed elettroni liberi. Infine, anche i nuclei sono compressi così fortemente l’uno contro l’altro da frantumarsi. Quando la compressione raggiunge temperature che superano l’energia di riposo delle particelle, cioè quando la E supera la corrispondente mc2, [17] le particelle si trasformano liberamente da massa in energia”.

    Dal canto suo, Grossatesta postula una materia prima informe su cui agisce la luce come prima forma corporale, il che significa accettare l’esistenza di spazio, tempo e materia prima ancora del principio. Del resto la scienza contemporanea si è sempre più allontanata dall’ipotesi di un’azione combinata di forza (l’aristotelica forma) e materia per spiegare la realtà, quando addirittura non ha annullato questi concetti nella ricerca di una particella semplice che, naturalmente, non è più l’atomo e che potrebbe ben presto non essere più nemmeno il quark, configurandosi piuttosto come un invisibile e tuttavia esistente minuscolo punto di energia pura. Ciò, da quando Einstein ha mostrato la verità  della formula E = mc2  che permette di convertire la massa in energia [18].

Quel che convince meno delle analisi di G.L. Schroeder è l’idea, desunta da Maimonide [19], che la creazione dei cieli e della terra dal nulla sia alla base della Bibbia. La confutazione, che Maimonide fa della tesi aristotelica dell’esistenza ab aeterno del mondo, non conduce necessariamente ad abbracciare l’idea di una creazione dal nulla perché rimarrebbe comunque irrisolto il problema del rapporto di Dio col nulla. La Qabalah dello Zohar adombra già qualcosa di diverso e più tardi Ytzchaq Luria sviluppando un’idea talmudica formula la dottrina dello Tzimtzùm secondo la quale l’esistenza dell’universo è possibile per un processo di contrazione di Dio che si ritira lasciando libero un punto: “Quando si pensa (commenta Tikkunè Zohar, XIX) che il Santo, benedetto Egli sia, è infinito e che riempie tutto, si capisce che l’idea di creazione sarebbe stata impossibile senza lo Tzimtzùm (…) Il Santo (…) ha dunque contratto la santa luce che costituisce la sua essenza [20] .” Il ritiro di Dio che lascia scoperto un punto concorda abbastanza con l’idea zoharica di una luce infinita troppo oscura per essere vista finché non si sveli in un punto di luce bianca. Anche qui si tratta, naturalmente, di un’approssimazione concettuale, in grado, tuttavia, sia di risolvere il falso dilemma di una esistenza del mondo ab aeterno o della sua creazione ex nihilo, sia di evitare ipotesi sul prima del principio e sulla natura di Dio che non sia la totalità stessa, tenuto conto che l’essenza di luce in cui Dio certamente consiste è solo la totalità presupposta dal primo dei dieci Dio disse del Genesi. Dio non volle semplicemente che le cose fossero (come sostengono Agostino e Maimonide) Egli, per così dire, si ritira da un punto e lascia risplendere la luce perché l’uomo realizzi il suo progetto di mondo. C’è una ghematria dello Tzimtzum piuttosto illuminante: è la parola ebraica Matzpun  con lo stesso valore numerico (266) e che in ebraico significa coscienza. É con il ritiro di Dio che l’uomo prende coscienza di sé rispetto al tutto.


[1] Dio disse, è citato nove volte nel 1°Capitolo del Genesi e precisamente ai versetti: 3-6-9-11-14-20-24-26-29. Compare una sola volta nel versetto 18 del 2°Capitolo. Qui, tuttavia, il nome di Dio non è più soltanto Elohïm, perché è preceduto dal Tetragramma o nome di quattro lettere: yud-he-waw-he. La questione riguardante il nome o i nomi di Dio è assai complessa. In particolare perché solo la decima volta che appare Dio disse, il nome Elohïm è preceduto dal Tetragramma? Una possibile risposta è data dall’osservazione che nelle precedenti nove volte Dio crea singoli aspetti della realtà, mentre la decima volta, dopo il cielo e la terra, Egli crea anche l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza. Si veda sulla questione: Yehudah ha-Lewi (medico e teologo castigliano vissuto tra il 1086 e il 1141) in Il re dei Khazari, trad.it. di E.Piattelli. Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp.193-197 e 214-217. Sull’importanza della creazione dell’uomo in funzione della completezza del nome di Dio, Isacco il Cieco, maestro della prime scuole storiche di Qabalah ebraica sorte in Provenza e in Catalogna attorno al 1200, soleva dire che nel giorno in cui Dio creò il cielo e la terra il nome non era completo perché l’uomo non era stato ancora creato e il sigillo non era stato ancora posto. Cfr. C.Mopsik,  Les Grands Textes de la Cabale, Verdier, 1993,  p.74. Mi sembra significativo osservare (in prospettiva di quanto dirò più avanti) che Isacco è detto il cieco perché in possesso di un eccesso di luce, cfr. Azriel de Girona, Quatro Textos Cabalisticos, introd. trad. y notas por M.Eisenfeld, Riopedras Ed., Barcellona, 1994, introd. p.26.  

[2] Sepher-ha Zohar o Libro dello Splendore è un vero e proprio corpo completo di letteratura della Qabalahe si compone di 24 sezioni oltre ad alcuni trattati. Sugli argomenti, la data di composizione, l’autore: cfr. G.G. Scholem, La Cabala, trad. it. Roma 1989, pp.215-244 e il recente G.Busi, La Qabalah, Laterza, Bari, 1998, pp. 70-75. Per un maggiore approfondimento cfr. i capitoli V e VI di Le grandi correnti della mistica ebraica di G.G. Scholem nella traduzione italiana pubblicata nel 1965 per le edizioni Il Saggiatore, Mondadori. Una nuova edizione del libro è apparsa nel 1990 per la casa editrice, Il Melangolo di Genova.

[3] S’intende con ghematria il valore numerico dato dai cabalisti ad una singola parola o ad un’intera preposizione in forza del corrispondente valore numerico d’ogni lettera dell’alfabeto ebraico. I segreti numerologici (scrive G.G. Scholem, La Cabala, cit. p. 40) sodot, avevano due scopi. In primo luogo, assicuravano che i nomi fossero scritti esattamente come i compositori di ghematriot li ricevevano dalle fonti orali e scritte (…) In secondo luogo con questo mezzo era possibile assegnare significati mistici e intenzioni (kavvanot) a questi nomi, che servivano d’incentivo ad una meditazione più profonda…

[4] z r Raz segreto ha lo stesso valore numerico (207) di r w a Or luce. Infatti, Raz è formata delle lettere resch (200) e zain (7), mentre Or dalle lettere alef (1), waw (6) e resch (200). Circa il valore numerico delle lettere ebraiche, tra i tanti testi in circolazione, si consiglia: P.A. Carrozzini S.I., Grammatica della lingua ebraica, Marietti, 1988.

[5] Sul Sepher Yezirah o Libro della creazione, la cui data di composizione secondo gli studiosi oscilla tra il II e il VI secolo d.C. cfr. G.G. Scholem, Le Origini della Kabbalà, Bologna, 1990, pp.32-44 e, dello stesso autore, La Cabala, cit. pp. 14, 30-61, 70-72, 96, 101 e ss.

[6] Sephiroth è stato spesso tradotto con emanazioni, facendolo derivare dall’etimologia greca, con ciò stabilendo un collegamento tra Qabalah e neoplatonismo. Più corretta è la derivazione dall’ebraico r p s Safor che significa contare e che dei sephiroth fa dunque dei numeri. Numeri primordiali della creazione, ben distinti dai misparim o numeri ordinari. I sephiroth sono perciò luci o pure forme del molteplice. Nella tradizione cabalistica, i sephiroth si dispongono sui tre pilastri dell’Albero della vita. Ad ogni sephirah o luce o forma del molteplice è attribuito un nome. Alla colonna centrale appartengono: 1 Kether (corona), 6 Tepheret (bellezza e armonia), 9 Yesod (fondamento o generazione), 10 Malchuth (regno o terra). Alla colonna di destra: 2 Hochmah (sapienza), 4 Hesed (grazia), 7 Netzach (vittoria). Alla colonna di sinistra: 3 Binah (intelligenza), 5 Gheburah (rigore o severità), 8 Hod (splendore).

[7] L’esperienza mistica della visione dei colori è compresa (a parere di Abulafia 1240-1291, forse il maggiore tra i mistici ebrei) tra quelle della Qabalah, sebbene di tipo inferiore. Cfr. M.Idel, L’esperienza mistica in Abraham Abulafia, trad. it. Jaca Book, Milano, 1992, p. 61. Di rilevante interesse su Abulafia anche il IV capitolo del citato Le grandi correnti della mistica ebraica.

[8] Il valore numerico di Machazeh visione è 60, con lo stesso valore: Kli recipiente (uno dei 72 nomi di Dio), Ganaz nascondere, Hineh ecco! Halakhah regola di vita, Gaon sapiente. In Abulafia è anche frequente la ghematria ha Machazeh (65) la visione con Adonaï (65), terzo tra i nomi di Dio, dopo il Tetragramma ed Elohïm.

[9] Così, è per l’iniziato della massoneria che entra nel buio del tempio per ricevere la luce, luce che gli sarà concessa dalla loggia che pure è immersa nell’oscurità o meglio che brilla di una luce troppo oscura per essere vista…

[10] Così, l’Infinito penetra la sua stessa aria e scopre un punto, lo yud. Cfr. Le Zohar, cit. 16 b, p.100.

[11] La luce che il Signore, benedetto il Suo Nome, aveva creato (…) fu subito nascosta, perché gli impuri non potessero gioirne (…) Ella fu riservata per i giusti (…) Ma sino il giorno stabilito (il giorno del mondo a venire) rimarrà nascosta, custodita in segreto. Cfr. Le Zohar, cit. Berescith II, 31 b-32 a, p.179.

[12] Cfr. G.G.Scholem, Le origini della Kabbalà, cit. p.330. Sulle prime scuole di Qabalah, su Isacco il cieco e i suoi allievi, oltre al già citato testo del Mopsik, ibid. pp. 247-588. 

[13] Mani, principe persiano vissuto tra il 216 e il 277 d.C. riteneva la realtà il prodotto della lotta incessante della Luce contro le Tenebre. Alla provvisoria vittoria delle Tenebre, avrebbe presto seguito la definitiva vittoria della Luce.

[14] Circa l’originalità tutta ebraica della Qabalah non dovrebbero più esserci dubbi anche se un grande studioso come G.G.Scholem ha cercato di dimostrare i molti contatti, almeno ideali e teorici, tra Qabalah e Gnosi (cfr. opere citate) e C.Mopsik (cfr. op. cit.) si limita a riproporre la questione auspicando una ulteriore approfondita indagine. Associandomi nell’auspicio con uno studioso così serio come il Mopsik, mi limito ad osservare che forse si dovrebbe mutare di prospettiva. Se si continua a guardare alla Qabalah come ad un sistema filosofico non c’è dubbio che punti di contatto con altri sistemi possano essere trovati soprattutto in relazione al tempo e/o alle affinità storiche, geografiche, culturali o magari ideali. Il fatto è che la Qabalah sembra proprio irriducibile a lasciarsi trasformare in sistema consistendo più che altro nella tradizione orale, nel commento del testo biblico, nella profonda conoscenza dell’alfabeto cosiddetto sacro in funzione delle ghematrie e delle permutazioni delle lettere e per l’apprendimento di particolari tecniche di meditazione.

[15] Cfr.Gerald L.Schroeder, Genesi e Big Bang, trad. it. Milano, 1996, p.78. Circa il Big Bang come teoria più probabile sull’origine dell’universo: ibid. pp. 93-106.

[16] Cfr. L. Lederman – D. Teresi, La particella di Dio, trad. it. Mondadori, Milano, 1996, p.417

[17] La nota formula di Einstein dice che l’energia (E) è uguale alla massa (m) moltiplicata per la velocità della luce (c) al quadrato. L’energia si misura in chilojoule (KJ), la massa in chilogrammi (Kg) e la velocità della luce in metri il secondo (m/s).

[18] Cfr.L. Lederman – D.Teresi, op. cit. Leon Lederman, premio Nobel per la Fisica nel 1988, nel libro, dopo uno stimolante immaginario dialogo con Democrito, sviluppa un’analisi che lo porta sulle tracce della particella di Dio vero e proprio primo mattone per la costruzione dell’universo.

[19] Mosè Maimonide, medico, filosofo e teologo cordovese vissuto tra il 1135 e il 1204, interpretò la legge ebraica e si occupò dei fondamentali concetti biblici sulla scia dell’aristotelismo imperante, pur non condividendo l’idea aristotelica dell’esistenza ab aeterno del mondo. La citazione di Schroeder a sostegno della creazione dal nulla si trova in M. Maimonide, La Guida dei Perplessi, II parte, cap.13.

[20] Scrive in proposito G.G. Scholem, ibid. p.271: originariamente Luria parte da un pensiero assolutamente razionalistico, ed anzi, se si vuole, abbastanza naturalistico. Come può esistere un mondo, quando l’essere di Dio è dappertutto? Come può esistere in questo luogo concreto qualcosa di diverso da Dio, giacché Dio è tutto in tutto? Come può Dio creare dal nulla, se non può esservi un nulla, giacché il suo Essere penetra ogni cosa?

NOTE

[1] Dio disse, è citato nove volte nel 1°Capitolo del Genesi e precisamente ai versetti: 3-6-9-11-14-20-24-26-29. Compare una sola volta nel versetto 18 del 2°Capitolo. Qui, tuttavia, il nome di Dio non è più soltanto Elohïm, perché è preceduto dal Tetragramma o nome di quattro lettere: yud-he-waw-he. La questione riguardante il nome o i nomi di Dio è assai complessa. In particolare perché solo la decima volta che appare Dio disse, il nome Elohïm è preceduto dal Tetragramma? Una possibile risposta è data dall’osservazione che nelle precedenti nove volte Dio crea singoli aspetti della realtà, mentre la decima volta, dopo il cielo e la terra, Egli crea anche l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza. Si veda sulla questione: Yehudah ha-Lewi (medico e teologo castigliano vissuto tra il 1086 e il 1141) in Il re dei Khazari, trad.it. di E.Piattelli. Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp.193-197 e 214-217. Sull’importanza della creazione dell’uomo in funzione della completezza del nome di Dio, Isacco il Cieco, maestro della prime scuole storiche di Qabalah ebraica sorte in Provenza e in Catalogna attorno al 1200, soleva dire che nel giorno in cui Dio creò il cielo e la terra il nome non era completo perché l’uomo non era stato ancora creato e il sigillo non era stato ancora posto. Cfr. C.Mopsik,  Les Grands Textes de la Cabale, Verdier, 1993,  p.74. Mi sembra significativo osservare (in prospettiva di quanto dirò più avanti) che Isacco è detto il cieco perché in possesso di un eccesso di luce, cfr. Azriel de Girona, Quatro Textos Cabalisticos, introd. trad. y notas por M.Eisenfeld, Riopedras Ed., Barcellona, 1994, introd. p.26.  

2] Sepher-ha Zohar o Libro dello Splendore è un vero e proprio corpo completo di letteratura della Qabalahe si compone di 24 sezioni oltre ad alcuni trattati. Sugli argomenti, la data di composizione, l’autore: cfr. G.G. Scholem, La Cabala, trad. it. Roma 1989, pp.215-244 e il recente G.Busi, La Qabalah, Laterza, Bari, 1998, pp. 70-75. Per un maggiore approfondimento cfr. i capitoli V e VI di Le grandi correnti della mistica ebraica di G.G. Scholem nella traduzione italiana pubblicata nel 1965 per le edizioni Il Saggiatore, Mondadori. Una nuova edizione del libro è apparsa nel 1990 per la casa editrice, Il Melangolo di Genova.

3] S’intende con ghematria il valore numerico dato dai cabalisti ad una singola parola o ad un’intera preposizione in forza del corrispondente valore numerico d’ogni lettera dell’alfabeto ebraico. I segreti numerologici (scrive G.G. Scholem, La Cabala, cit. p. 40) sodot, avevano due scopi. In primo luogo, assicuravano che i nomi fossero scritti esattamente come i compositori di ghematriot li ricevevano dalle fonti orali e scritte (…) In secondo luogo con questo mezzo era possibile assegnare significati mistici e intenzioni (kavvanot) a questi nomi, che servivano d’incentivo ad una meditazione più profonda…

4 z r Raz segreto ha lo stesso valore numerico (207) di r w a Or luce. Infatti, Raz è formata delle lettere resch (200) e zain (7), mentre Or dalle lettere alef (1), waw (6) e resch (200). Circa il valore numerico delle lettere ebraiche, tra i tanti testi in circolazione, si consiglia: P.A. Carrozzini S.I., Grammatica della lingua ebraica, Marietti, 1988.

5] Sul Sepher Yezirah o Libro della creazione, la cui data di composizione secondo gli studiosi oscilla tra il II e il VI secolo d.C. cfr. G.G. Scholem, Le Origini della Kabbalà, Bologna, 1990, pp.32-44 e, dello stesso autore, La Cabala, cit. pp. 14, 30-61, 70-72, 96, 101 e ss.

6] Sephiroth è stato spesso tradotto con emanazioni, facendolo derivare dall’etimologia greca, con ciò stabilendo un collegamento tra Qabalah e neoplatonismo. Più corretta è la derivazione dall’ebraico r p s Safor che significa contare e che dei sephiroth fa dunque dei numeri. Numeri primordiali della creazione, ben distinti dai misparim o numeri ordinari. I sephiroth sono perciò luci o pure forme del molteplice. Nella tradizione cabalistica, i sephiroth si dispongono sui tre pilastri dell’Albero della vita. Ad ogni sephirah o luce o forma del molteplice è attribuito un nome. Alla colonna centrale appartengono: 1 Kether (corona), 6 Tepheret (bellezza e armonia), 9 Yesod (fondamento o generazione), 10 Malchuth (regno o terra). Alla colonna di destra: 2 Hochmah (sapienza), 4 Hesed (grazia), 7 Netzach (vittoria). Alla colonna di sinistra: 3 Binah (intelligenza), 5 Gheburah (rigore o severità), 8 Hod (splendore).

7] L’esperienza mistica della visione dei colori è compresa (a parere di Abulafia 1240-1291, forse il maggiore tra i mistici ebrei) tra quelle della Qabalah, sebbene di tipo inferiore. Cfr. M.Idel, L’esperienza mistica in Abraham Abulafia, trad. it. Jaca Book, Milano, 1992, p. 61. Di rilevante interesse su Abulafia anche il IV capitolo del citato Le grandi correnti della mistica ebraica.

8] Il valore numerico di Machazeh visione è 60, con lo stesso valore: Kli recipiente (uno dei 72 nomi di Dio), Ganaz nascondere, Hineh ecco! Halakhah regola di vita, Gaon sapiente. In Abulafia è anche frequente la ghematria ha Machazeh (65) la visione con Adonaï (65), terzo tra i nomi di Dio, dopo il Tetragramma ed Elohïm.

9] Così, è per l’iniziato della massoneria che entra nel buio del tempio per ricevere la luce, luce che gli sarà concessa dalla loggia che pure è immersa nell’oscurità o meglio che brilla di una luce troppo oscura per essere vista…

10] Così, l’Infinito penetra la sua stessa aria e scopre un punto, lo yud. Cfr. Le Zohar, cit. 16 b, p.100.

[11] La luce che il Signore, benedetto il Suo Nome, aveva creato (…) fu subito nascosta, perché gli impuri non potessero gioirne (…) Ella fu riservata per i giusti (…) Ma sino il giorno stabilito (il giorno del mondo a venire) rimarrà nascosta, custodita in segreto. Cfr. Le Zohar, cit. Berescith II, 31 b-32 a, p.179.

[12] Cfr. G.G.Scholem, Le origini della Kabbalà, cit. p.330. Sulle prime scuole di Qabalah, su Isacco il cieco e i suoi allievi, oltre al già citato testo del Mopsik, ibid. pp. 247-588. 

[13] Mani, principe persiano vissuto tra il 216 e il 277 d.C. riteneva la realtà il prodotto della lotta incessante della Luce contro le Tenebre. Alla provvisoria vittoria delle Tenebre, avrebbe presto seguito la definitiva vittoria della Luce.

[14] Circa l’originalità tutta ebraica della Qabalah non dovrebbero più esserci dubbi anche se un grande studioso come G.G.Scholem ha cercato di dimostrare i molti contatti, almeno ideali e teorici, tra Qabalah e Gnosi (cfr. opere citate) e C.Mopsik (cfr. op. cit.) si limita a riproporre la questione auspicando una ulteriore approfondita indagine. Associandomi nell’auspicio con uno studioso così serio come il Mopsik, mi limito ad osservare che forse si dovrebbe mutare di prospettiva. Se si continua a guardare alla Qabalah come ad un sistema filosofico non c’è dubbio che punti di contatto con altri sistemi possano essere trovati soprattutto in relazione al tempo e/o alle affinità storiche, geografiche, culturali o magari ideali. Il fatto è che la Qabalah sembra proprio irriducibile a lasciarsi trasformare in sistema consistendo più che altro nella tradizione orale, nel commento del testo biblico, nella profonda conoscenza dell’alfabeto cosiddetto sacro in funzione delle ghematrie e delle permutazioni delle lettere e per l’apprendimento di particolari tecniche di meditazione.

[15] Cfr.Gerald L.Schroeder, Genesi e Big Bang, trad. it. Milano, 1996, p.78. Circa il Big Bang come teoria più probabile sull’origine dell’universo: ibid. pp. 93-106.

[16] Cfr. L. Lederman – D. Teresi, La particella di Dio, trad. it. Mondadori, Milano, 1996, p.417

[17] La nota formula di Einstein dice che l’energia (E) è uguale alla massa (m) moltiplicata per la velocità della luce (c) al quadrato. L’energia si misura in chilojoule (KJ), la massa in chilogrammi (Kg) e la velocità della luce in metri il secondo (m/s).

[18] Cfr.L. Lederman – D.Teresi, op. cit. Leon Lederman, premio Nobel per la Fisica nel 1988, nel libro, dopo uno stimolante immaginario dialogo con Democrito, sviluppa un’analisi che lo porta sulle tracce della particella di Dio vero e proprio primo mattone per la costruzione dell’universo.

[19] Mosè Maimonide, medico, filosofo e teologo cordovese vissuto tra il 1135 e il 1204, interpretò la legge ebraica e si occupò dei fondamentali concetti biblici sulla scia dell’aristotelismo imperante, pur non condividendo l’idea aristotelica dell’esistenza ab aeterno del mondo. La citazione di Schroeder a sostegno della creazione dal nulla si trova in M. Maimonide, La Guida dei Perplessi, II parte, cap.13.

[20] Scrive in proposito G.G. Scholem, ibid. p.271: originariamente Luria parte da un pensiero assolutamente razionalistico, ed anzi, se si vuole, abbastanza naturalistico. Come può esistere un mondo, quando l’essere di Dio è dappertutto? Come può esistere in questo luogo concreto qualcosa di diverso da Dio, giacché Dio è tutto in tutto? Come può Dio creare dal nulla, se non può esservi un nulla, giacché il suo Essere penetra ogni cosa?

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