DA ESCULAPIO A IPPOCRATE

DA ESCULAPIO  A  IPPOCRATE

di Giovanni Emiliani

Un costante antropologia comune a tutte le civiltà della terra è costituita dalla sacertà della figura del medico: egli è l’interprete, il tramite e l’equilibratore delle opposte forze della natura determinanti lo stato di salute e di malattia. Gli dei gli sono benigni, le sue mani spostano «energie», le sue conoscenze sulle «virtù » delle piante e dei minerali sono tali da consentirgli di estrarne «principi attivi » e di servirsene a sollievo delle sofferenze fisiche e psichiche. Il suo potere

Viene dall’alto, il suo carisma è pari a quello di un sacerdote e di un re,

La tradizione occidentale fa capo al sogno del dio Rama, narrato nel Ramajana: il solenne bianco vegliardo che compare a Rama febbricitante, pronuncia tre parole che suonano, in sanscrito «a-hesch-

Heil-Hopa» (la speranza di salute viene dal bosco): tramandato nelle lingue ariane d’occidente, da questo telegrafico aforisma deriva il greco «Asclepion» indi il latino Aesculapius», un nume di seconda classe, medico di bordo della nave Argo, in rotta per la Colchide alla ricerca del Vello d’Oro, simbolo della verità iniziatica. Consacrato nell’olimpo classico, Esculapio ebbe il suo massimo tempio in Epidauro, meta di pellegrini alla ricerca di consigli per ricuperare la perduta salute. Si affollavano davanti al tempio (Astanti, Astanteria) e apprendevano dai sacerdoti il responso dell’oracolo dispensatore di guarigione e conforto.

Il primo personaggio storico medico, filosofo e naturalista fu il greco Ippocrate la cui teoria «umorale» ed i suoi «aforismi » sono passati inalterati fino ai nostri giorni, assieme al «Giuramento d’Ippocrate » che costituisce il canone fondamentaledi ogni deontologia medica passata e presente.

Il culto di Esculapio passò in Roma repubblicana ed un tempio dedicato al dio fu eretto al centro dell’isola Tiberina, ancor oggi sede di un celebre nosocomio.

Il giuramento di Ippocrate è passato integralmente nel testo e nello spirito dal culto classico greco-romano a quello cristiano per la sua validità universale: ancor oggi, durante la cerimonia del Diploma di Laurea, prima della consegna, il candidato viene invitato a giurare di tener fede agli impegni prescritti. Questo si fa in tutte le facoltà mediche delle principali università occidentali; in Italia non si fa più. Si dice che sarebbe opportuno ripristinarne l’usanza, ma troppe sono le ragioni politiche che l’ostacolano e se ne comprende bene il perché. In primis, perché il concetto di «scienza e coscienza» è sostituito da una miriade di regolamenti spesso contraddittori e banali; inoltre per non polemizzare con le «forze innovatrici» sempre pronte a buttare a mare le anticaglie» e a «rompere colla tradizione». Su questa base, la professione medica ha perso il suo smalto, è considerata un mestiere come un altro» e come tale deve essere remunerato, anche se i «Testi delle Leggi Sanitarie» contemplano che responsabilità civili e penali sono ben più gravi di quelle delle altre attività  professionali.

Nell’ultimo mezzo secolo la figura medico è progressivamente decaduta un ruolo-tecnico-burocratico sostanzialmente impiegatizio. Le cause sono molteplici, tra le quali non bisogna escludere la mancanza di selezione all’accesso alla facoltà: per troppi anni la vocazione è stata adulterata dall’opportunismo (negli anni Quaranta, per essere esenti dal) servizio militare, privilegio riservato allora solo agli studenti di medicina poi per ragioni economiche, poi perché  ci si sistema alla svelta convenzionandosi colle mutue senza bisogno di «farsi un nome» e così via. Si è giunti quasi rapidamente alla «pletora» medica, alla disoccupazione, al «bisogno di guadagni subito» per familiari necessità, rinunciando  ovviamente alle illusioni ed alle ambizioni; a farsi strada per i propri meriti e per il sapere, oltre alla propria figura  morale ed al prestigio, la cui conquista ha sempre avuto un posto preponderante nelle aspirazioni dei migliori

Purtroppo, l’immancabile ingresso di mercanti nel tempio ha alimentato la reazione e la campagna denigratoria della classe medica da parte del «terzo pagante»: in altre parole non è più il paziente quello che giudica e «onora» il medico, ma il funzionario responsabile della spesa pubblica del servizio sanitario nazionale, elefantisiaco carrozzone politicoèburocratico sperperatore ed inefficiente,

Sgredito dai partiti nella logica della lottizzazione del potere, assediato da molte migliaia di giovani medici alla ricerca di un qualunque «posto fisso», appesantito da una progressiva eri  cerca di salute» («fame di farmaci», «fame di esami», di cure termali, di invalidità e così via). L’ingorgo del sistema, le liste chilometriche di attesa, vanno a scapito della efficienza e della moralità, nonché ovviamente della economicità.

Ma il grande problema da affrontare è questo: quale è nel «sistema» la posizione reale del medico ed il suo «rapporto» col malato? Oggi il malato è un «numero», uno sprovveduto «avente diritto», un «utente» che sceglie il «medico di fiducia» secondo criteri topografici o di comodo che tolgono ogni senso ed ogni reciprocità di rapporti umani,

I grandi fenomeni regressivi che colpiscono la classe medica nella più sacra e tradizionale delle sue virtù è la «demotivazione»: egli sa di essere solo un tramite, non più fra la provvidenza e l’uomo, ma fra l’organizzazione e l’utente in un rapporto di disistima reciproca fra gli opposti estremismi che si chiamano lo «scroccone sociale» da un lato, sempre in caccia di favori, di certificati compiacenti, di esami inutili; dall’altro lato la burbanza del potere che taccia il medico di essere incapace di opporsi agli abusi e di essere indegno delle cifre che guadagna col «sistema forfettario».

Eppure, nella stragrande maggioranza, il medico italiano compie il suo dovere.

I vecchi, gli emarginati, gli abbandonati da una famiglia disgregata ed impietosa, trovano nel medico l’unico interlocutore.

Più che un palliativo agli acciacchi quotidiani a volte un placebo, un esame che li rassicuri nella loro cupa patofobia, il medico offre loro una parola buona, un sorriso una battuta che spesso giova più di un tranquillante. E questa è carità cristiana o pietas pagana, se vogliamo, ma è pur sempre un insostituibile atto di solidarietà umana che il medico non trascura mai, a qualsiasi livello professionale egli operi.

Il tempo disponibile è poco per un colloquio amorevole e persuasivo, ma il medico lo fa sempre, anche se assillato dai «moduli» da scrivere e da firmare, dai «tabulati » e dalle futili «statistiche», egli resiste ai sospetti, alle minacce fiscali, alla ricerca ossessiva delle incompatibilità. Resiste e persiste, nonostante i tentativi di trasformare il suo camice bianco nella tuta dell’operatore sanitario o nelle mezze maniche dell’impiegato. Quel camice bianco è il simbolo di una tradizione che va portato con orgoglio e dignità perché esso è quanto rimane della immacolata tunica del sacerdote di Esculapio e del solenne impegno sottoscritto nel «Giuramento d’Ippocrate»,

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