NAPOLEONE SOTTO L’ACACIA

NAPOLEONE SOTTO L’ACACIA

di Aldo A. Mola

Ma davvero Napoleone fu iniziato massone? L’interrogativo è vecchio di secoli. Circolava già quando Napoleone era sul trono, al culmine della gloria. Continuò a serpeggiare perle corti e nei circoli dei vecchi «grognards» mentre l’Aquila era a Sant’Elena e tutti s’attendevano che prima o poi qualche strana congrega ripetesse l’impresa dell’Elba e gettasse nuovamente l’«uom fatale» sui campi di battaglia di un’Europa esangue e disposta a barattare la tranquillità col servaggio. Ne discussero infine storici illustri, sempre alla cerca — o in attesa — della «prova provata»: un verbale di loggia, una patente, qualche documento «segreto». Sarebbe però assurdo accreditare come massoni solo i Fratelli la cui iniziazione risultasse debitamente comprovata da inoppugnabile fonte documentaria.

Tanto per esemplificare, a tutt’oggi non sappiamo quando e dove abbia avuto luogo l’iniziazione di Carducci, né quando e dove il «33» Giuseppe Garibaldi, Gran Maestro effettivo e ad vitam, abbia raggiunto il grado di Maestro. Eppure nessuno dubita che l’uno e l’altro siano stati massoni a tutto tondo, se non altro perché professarono a lungo e pubblicamente la loro appartenenza all’Ordine.

Non troppo diverso, spiega Francois Collaveri, è il caso di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone. Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, poi di Napoli e di Spagna — ove fu re —, questi fu a lungo sospettato di non esser mai stato neppure iniziato. E lo si disse soprattutto da parte di certi bigotti della «regolarità», i quali speravano screditare Corpi massonici d’oggi gettando ombra sui loro antichi antenati. Ma poi venne casualmente ritrovato il verbale dell’iniziazione di Giuseppe Bonaparte e del suo amico Saliceti e anche i più astiosi negatori della sua documentata iniziazione dovettero acquetarsi. In attesa che da qualche fondo archivistico balzi fuori la «prova provata», Francois Collaveri ci spiega in termini quanto mai convincenti perché anche l’iniziazione massonica di Napoleone Bonaparte dev’essere accolta senza residue riserve da parte della storia”. A quest’opera, Napoleone imperatore e massone, l’ottantasettenne Collaveri — figlio e nipote di massoni insigni, egli pure da tanti decenni grande dignitario della Gran Loggia di Francia, alto funzionario dei ministeri della difesa e degli interni dopo la Liberazione e prefetto d’Algeri — s’è accinto sulla scorta della vasta preparazione già versata in La Franc-Maconnerie des Bonapartes (Paris, Payot, 1982), un «classico», che merita d’essere tradotto in Italia, frutto di decennali esplorazioni nel fondo massonico della Biblioteca Nazionale di Parigi e di sistematico scavo in cento e cento archivi di provincia.

Confutate le versioni leggendarie e romanzate sull’iniziazione (come anche certe interessate attribuzioni di spiriti antimassonici), sottoposte a severo vaglio quelle non adeguatamente documentate sul dove e sul quando (a Valence, a Nancy, a Malta o a Parigi), Collaveri conclude che Napoleone venne iniziato in una loggia militare «scozzese» durante la campagna d’Egitto, nel 1798-99.

Furono proprio gli «scozzesi» a rivendicare per primi e con precise indicazioni di tempo e di luogo l’appartenenza di Napoleone al loro rito, dichiarando altresì che i massoni francesi avevano pertanto diritto alla protezione del «trono». Proprio quando da console a vita ascese a imperatore, Napoleone volle però l’unificazione tra «scozzesi» e «fratelli» del Rito francese: e venne quindi celebrato come «Napoleone di tutti i riti». Non in una ma in centinaia di tenute di loggia, ora al riparo dei lavori rituali, ora in agapi aperte anche a profani o in cerimonie di quelle logge d’adozione cui presenziava la «sorella» imperatrice Giuseppina: la quale era in Massoneria non meno dei fratelli dell’imperatore (Luciano, Luigi, Giuseppe, Gerolamo), come dei cognati (Murat, Borghese, Baciocchi), dell’Arcicancelliere dell’Impero, principe Cambacérès, di quasi tutti i Marescialli e Grandi feudatari (Massena, Ney, Soult…), di circa 250 tra generali e ammiragli e di quasi tutti gli alti dignitari dell’Impero e di ecclesiastici quali Alès Bermond d’Anduze o del vescovo designato di Piacenza, Bernardo Marentini. Aquile sotto l’acacia, dunque? La Massoneria bonapartistica fu al lora davvero prona dinanzi all’Imperatore? Oppure — come un tempo si disse — la Massoneria liquidò Napoleone a Waterloo (una battaglia che vide in campo i «fratelli» duca di Wellington, Cambronne, Scharnhorst, Grouchy, von Bliicher: massoni, insomma, sul l’uno e sull’altro fronte) perché «traditore» dei princìpi inguaribilmente repubblicani e rivoluzionari dell’Ordine? La questione va posta — come fa Collaveri — in altri termini: si tratta di verificare quale ruolo abbia avuto il massonismo della dirigenza napoleonica come cemento della dirigenza rimasta «liberale» e «ugualitaria» anche durante l’Impero, e di capire come il «dispotismo» del grande uomo politico si sia positivamente conciliato con la modernizzazione della società francese e, suo tramite, europea.

Non si spiegherebbe, altrimenti, per quali motivi Napoleone avrebbe consentito che la sua appartenenza all’Ordine fosse ripetuta innumerevoli volte e che la nascita di suo figlio, il «re di Roma», venisse celebrata come quella d’un «Louveteau», cioè del figlio d’un massone regolare.

Il volume di Collaveri, arricchito da una pregevole appendice di documenti inediti o pressoché sconosciuti in Italia, è impreziosito da trenta illustrazioni, riprodotte su ottima carta patinata, che costituiscono un libro nel libro e ne rendono anche più gradevole la spedita lettura, incoraggiata dallo stile cartesiano dell’Autore, che libera una volta per tutte i massoni dal «complesso dell’imperatore».

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