MORTE E UTOPIA, OSSIA DEL FUNERALE DI UNA FATA

(di Michele Moramarco)

Vi ricordate le Utopie, le descrizioni di società ideali composte da uomini nuovi e qualche volta bizzarri, che dal Rinascimento fino al Romanticismo impegnarono l’immaginazione di filosofi, letterati, religiosi e politici? Dalla Città del Sole di Campanella alla Nuova Atlantide di Bacone, dalla città cristiana di Johann Valentin Andrea e fino al laborioso falansterio di Fourier, per secoli fu tutto un fiorire di ideazioni di giustizia, di bellezza e di ordine. Poi, dalla seconda metà dell’800 (forse anche a seguito della critica di Marx all’utopismo), quei sogni più o meno felici finirono in soffitta. Nel Novecento non sono mancate risonanze utopistiche le più diverse, dall’estetica urbana della Carza del Carnaro di D’Annunzio e De Ambrisa certi progetti comunitari pacifisti o “hippy”. Ma l’ultimo secolo del millennio ha pure assistito a un fenomeno singolare, quello delle “utopie negative”, un esempio delle quali è contenuta nel celeberrimo 1984 di George Orwell, lo scrittore inglese che prefigurò la degenerazione dei sistemi tecno-burocratici e immaginò la figura, sfuggente e incombente al tempo stesso, del “Grande Fratello”, presa poi a prestito dal recente, intellettualmente luttuoso programma televisivo. Riflettendo sulla morte, mi sono posto una domanda: quale rapporto ha l’oscuro capolinea della vita (cui la cremazione sembra conferire un estremo bagliore) con l’immaginazione utopica? Utopia è, etimologicamente, nessun luogo, ma ad di là del significato “topografico”, essa si identifica con l’ignoto ed il suo fascino, con la possibilità e la libertà che questa implica. L’Utopia non è, infatti, solo geo-sociale, può essere esistenziale, cosmica, metafisica. Se l’Utopia è  ignoto, in nessun “luogo” umano come nella morte fisica essa può manifestarsi pienamente. Nel De rerum natura, Lucrezio sostiene che essa ci è ignota tanto da vivi (essendo remota ai nostri sensi e di conseguenza al nostro intelletto, fino all’inconcepibilità: possiamo vedere e pensare ad un corpo morto, non alla condizione della morte), quanto da morti (giacché Lucrezio credeva che l’individuo, morendo, fosse riassorbito nella materia incosciente). Ma anche per chi coltiva idee di sopravvivenza o immortalità, la morte resta – con Dio – il soggetto più inconoscibile e paradossalmente più aperto di cui l’umanità dispone. Leggende e miti, sogni e profezia hanno avuto al centro la morte, intesa come portale d’accesso all’invisibile (al quale, peraltro, condurrebbero anche talune porticine o finestre disseminate nella nostra vita quotidiana: intuizioni, ispirazioni, affetti ecc.). Viene allora in mente il pittore, incisore e poeta William Blake (1757-1 827), mal visto da molti suoi contemporanei, sia oscurantisti, sia illuministi: i primi temevano la sua libera esplorazione dei simboli e delle dottrine spirituali, i secondi la sua predilezione per l’immaginazione come facoltà specifica dell’uomo. Un bel giorno, Blake indicò ad un amico un angolo del suo giardino dicendo: guarda laggiù, vedi il corteo di piccole creature che avanza? Perplesso, l’amico replicò che non vedeva nulla. Il poeta continuò: sì, guarda, sono tanti, molto piccoli e stanno procedendo, vedi? Recano un petalo di rosa e su di esso giace una piccola fata, guarda! Stanno arrivando in quel punto … ora la depongono. La visione del funerale della fata era solo follia? Immaginifica creatività di un artista? Oppure era una finestra aperta su realtà di altro ordine, su un universo parallelo? L’essenza dell’Utopia sta nella presa di coscienza che – comunque si configuri la realtà ultima – l’immaginazione liberante non è un sottoprodotto della psiche, ma una facoltà altissima che l’uomo ha il diritto di esercitare anche al cospetto della morte. L’immaginazione appartiene all'”ultima libertà” dell’uomo, quella che nessuno può toglierli. Per questo Blake il ribelle diceva: siate immaginativi (siate pittorici, siate musicali…); guardate i funerali delle fate, e se non li vedete guardate meglio, e se ancora non li vedete: immaginateli. Così in voi nascerà la bellezza e la morte spirituale sarà sconfitta, avrebbe aggiunto il poeta romantico John Keats: di due sole cose sono certo in questo mondo, della verità dell’immaginazione e della sacralità degli affetti

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