MAZZINI E MARX

Mazzini e Marx

di Gian Biagio Furiozzi

 Università di Perugia

I centenari sono spesso utili per fare il punto sui personaggi (o sugli avvenimenti) di cui si celebra la ricorrenza. Così, il primo centenario della nascita di Giuseppe Mazzini dette l’avvio a una ripresa di studi sul suo pensiero e sulla sua azione, oltre che alla promozione della grande edizione dei suoi scritti. E va detto che a interessarsi a lui non furono solo personalità dell’area repubblicana, ma anche quelle dell’area socialista. Sulla rivista di Filippo Turati C r i t i c a S o c i a l e, su quella di Bissolati e Bonomi Azione Socialista, e su altre ancora, uscirono articoli che esaminavano il rapporto tra Mazzini e il socialismo. Allo scoppio della prima guerra mondiale, furono alcuni esponenti socialisti (Gaetano Salvemini, Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati) a riprendere con più convinzione le sue idee sulla necessità dell’abbattimento dell’impero austro-ungarico e di una nuova sistemazione dell’Europa. Tuttavia, è stato a ridosso di questo secondo centenario che si sono approfonditi i rapporti dell’Esule genovese con il socialismo, con il comunismo e con lo stesso Carlo Marx: un rapporto che non può essere liquidato (come talvolta si è fatto) facendo riferimento soltanto a qualche espressione ferocemente polemica, come quella uscita dalla penna, non certo tenera,         dell’autore del C a p i t a l e, secondo cui Mazzini non sarebbe stato che un “vecchio asino reazionario”. Qualche merito il Genovese lo avrà pure avuto, se la parola “Manifesto”, che ancora oggi viene usata in italiano in tutto il mondo, fu coniata da lui nel 1831 allorché fondò la Giovine Italia. Così come fu lui a coniare il termine “nazionalismo” e l’espressione “tratta dei bianchi”, con riferimento ai bambini italiani sfruttati per le strade di Londra. Fu sempre lui a utilizzare per primo il termine “Internazionale” per una associazione politica comprendente vari Paesi, anche se questo termine era stato inventato dall’inglese Bentham. Mazzini e Marx erano accomunati dalla condizione di esuli politici. Entrambi vissero a lungo in Inghilterra. E questo Paese rappresentò per entrambi un punto di riferimento per le rispettive riflessioni politiche. Per Marx l’Inghilterra rappresentava la prefigurazione dello sviluppo che avrebbe dovuto avere, a suo parere, la società capitalistica, destinata a uno scontro finale con un proletariato sempre più organizzato e cosciente di sé. Avrebbe dovuto essere, in sostanza, il primo Paese socialista (e poi comunista) del mondo. Previsione che, come quasi tutte quelle marxiane, sarebbe stata clamorosamente smentita dalla storia, la quale avrebbe curiosamente fatto scoppiare la prima rivoluzione comunista in un Paese arretrato come la Russia zarista, tanto che Antonio Gramsci l’avrebbe definita una rivoluzione “contro il Capitale”, inteso come libro… Per Mazzini, invece, negli anni Quaranta dell’Ottocento l’Inghilterra rappresentava un modello politico per ciò che già allora essa era: cioè uno Stato costituzionale rappresentativo, basato su un Parlamento eletto dai cittadini (anche se non da tutti), su un equilibrio dei poteri e sul riconoscimento delle principali libertà individuali: di associazione, di stampa, di religione, di corrispondenza, etc. A quest’ultimo proposito, va ricordato che Mazzini divenne una celebrità, in Inghilterra, proprio in occasione della violazione della sua corrispondenza da parte della polizia, cosa che provocò, nel 1844, un lungo dibattito in Parlamento e sulla stampa inglese. Se Marx ed Engels teorizzavano l’ateismo, sappiamo che Mazzini credeva in Dio, anche se non era seguace di alcuna religione particolare. Egli sottolineava più il concetto di dovere che quello di diritto. Affermava il valore della famiglia. Dava importanza alla volontà individuale e ai valori morali. Circa la questione sociale, che Mazzini riteneva peraltro essere la questione più importante insieme a quella nazionale, tanto da dedicare I doveri dell’uomo agli operai italiani, le differenze con la concezione marxiana sono ovviamente notevoli, come ha dimostrato Franco Della Peruta in numerosi scritti, a partire dal classico Democrazia e socialismo nel Risorgimento. Egli non guardava al proletariato come attore esclusivo del rinnovamento sociale e politico, ma era favorevole a una alleanza tra ceti medi, operai e artigiani. Considerava essenziale una collaborazione tra l’intelletto, il lavoro e il capitale. Più che di proletariato, parlava genericamente di popolo. Non dedicò troppa attenzione al ruolo delle campagne. Solo dopo l’Unità, osserva sempre Della Peruta, egli manifestò maggiore apertura verso il ruolo delle masse contadine. In ogni caso, per lui l’indipendenza dell’Italia doveva venire prima di ogni altra cosa. Anche se indirettamente, tuttavia, Mazzini ha svolto un ruolo nella stesura del Manifesto del Partito Comunista scritto da Marx e da Engels nel 1848, come ha dimostrato recentemente Salvo Mastellone. Infatti, tra l’autunno del 1846 e la primavera del 1847 Mazzini pubblicò su un giornale inglese una serie di articoli dal titolo Pensieri sulla democrazia in Europa nei quali è contenuta una forte e preveggente critica del comunismo, che avrebbe condotto – predisse – a uno Stato autoritario governato da una gerarchia arbitraria. Più che a una dittatura del proletariato, esso avrebbe condotto ad una dittatura della classe politica comunista sulla massa dei cittadini. Egli anticipava così, fin d’allora, la teoria della “nuova classe” che sarebbe stata esposta oltre un secolo dopo da Milovan Gilas. Il comunismo, aggiunse Mazzini, avrebbe portato ad una società chiusa come quelle delle api e dei castori, alla soppressione delle libertà fondamentali, alla disgregazione della famiglia, all’abolizione della proprietà privata e al materialismo. Per replicare a queste accuse, venne chiamato a Londra il giovane Carlo Marx che, insieme a Federico Engels, nel 1848 avrebbe dato alle stampe il famoso Manifesto. Giuseppe Mazzini, dunque, alla metà dell’Ottocento era al centro del dibattito politico in Europa. Nonostante questi contrasti, come sappiamo, Mazzini e Marx, insieme all’anarchico Bakunin, furono i promotori della Prima Internazionale, fondata a Londra nel 1864. Questo si spiega con il fatto che la Prima Internazionale, a differenza della Seconda, non fu composta solo da socialisti marxiani ma, per l’appunto, da socialisti di varie tendenze, da anarchici e da repubblicani. Il 1° articolo dello Statuto affermava infatti che a essa potevano aderire tutti coloro che fossero interessati alla “emancipazione delle classi lavoratrici”, tanto che vi aderì anche Giuseppe Garibaldi. Certo, si trattò di una coabitazione assai contrastata, e a tratti vivacemente polemica. Polemica accentuatasi in occasione della Comune di Parigi del 1871, sostenuta da Marx e da Bakunin e fortemente criticata dal genovese, che ne condannò il carattere violento, collettivista e autoritario. Nel giugno del 1871, in tre articoli sulla Roma del P o p o l o, condannando tanto il terrore del Comune parigino quanto la feroce repressione dell’Assemblea di Ve r s a i l l e s , Mazzini difese la repubblica democratica fondata sul principio del p r o g r e s s o morale, intellettuale, economico  da svolgersi per mezzo dell’associazione. Invece condannò la repubblica proletaria teorizzata da coloro che in nome della questione sociale fomentavano l’odio, invocavano il ricorso alla forza e badavano solo ai problemi economici. Ripropose la repubblica popolare rappresentativa, per conciliare mediante l’associazione la classe operaia con la classe media. Respinse infine la lotta di classe, che politicamente avrebbe preparato la dittatura . Pochi giorni dopo, sullo stesso giornale, ribadì che suo impegno era di combattere il m a t e r i a l i s m o e i sistemi di un socialismo arbitrario, settario, violento, che nega ogni tradizione dell’umanità, nega le più sacre tendenze ingenite nell’uomo e guida logica – mente all’anarchia e al dispotismo. Per qualche tempo Mazzini sperò di poter neutralizzare l’influenza di Marx e, giovandosi delle simpatie che egli riscuoteva fra i trade-unionisti inglesi, di sostituirsi a lui nella effettiva direzione dell’Internazionale. D’altra parte Marx cercò in tutti i modi di contrastare l’azione mazziniana in Italia, utilizzando anche l’azione concorrente di Bakunin, il cui viaggio in Italia fu da lui favorito e incoraggiato proprio, come confessò, con l’intento di “porre delle mine” contro Mazzini. Il fatto è che Mazzini e Marx erano troppo diversi per temperamento e per cultura, oltre che per visione politica. Marx ostentava un ironico disprezzo per Mazzini, a cui rivolse in ogni occasione ogni tipo di insulti e di nomignoli: lo definì Teopompo, il buon Giuseppe, san Piero l’Eremita, arrivando a definirlo leccapiatti della borghesia. Ma, come ha osservato a suo tempo Nello Rosselli, si tratta di sbeffeggiamenti a cui non bisogna dare un peso eccessivo, allorché si ricorda che era una incorreggibile abitudine dell’autore del C a p i t a l e di rivolgerli a tutti coloro che attraversavano il suo cammino, o che comunque non condividevano le sue idee. Nel caso di Giuseppe Mazzini, poi, vi si univa una punta d’invidia per la immensa popolarità da lui conquistata in tanti anni di lotta, e di mal celato timore per le vaste influenze delle quali poteva e sapeva disporre. I due uomini, insomma, erano nati per non intendersi. E, osserva ancora Nello Rosselli, mentre Marx “si studia e si ammira, ”Mazzini “è sentito” in ogni parte del mondo: per la sua sensibilità, per la sua umanità, per la sua larga simpatia umana. Profondamente pervaso di spirito religioso, Mazzini conquistava i suoi lettori e i suoi ascoltatori non tanto e non solo con la forza logica del ragionamento, quanto con il calore della sua persona – le convinzioni, con frequenti e sapienti ricorsi al sentimento, all’intuito, alla fede, col tono ispirato della parola. Così, se da Marx venne formulata una ferrea legge economica che, se non annulla, certamente attenua l’influsso dei valori morali, da Mazzini venne una predicazione di amore; venne il sogno della solidarietà fra le classi sociali, una dottrina di educazione e di elevazione morale. Lo stesso Mazzini, pur riconoscendo che Marx era “uomo d’ingegno acuto”, aggiunse che questi era di tempra dominatrice, geloso delle altrui influenze, senza forti credenze filosofiche o religiose e con più elemento d’ira che non d’amore nel cuore. Nel corso dell’ultimo secolo, numerosi autori hanno cercato di provare l’esistenza di un “socialismo” mazziniano, anche se assai diverso da quello marxiano: da Aurelio Saffi (1905) a Francesco Mormina Penna (1907), da Federico Comandini (1914) a Oliviero Zuccarini (1922). Rodolfo Mondolfo, nel classico volume Sulle orme di Marx, effettuò un tentativo (che Gian Mario Bravo ha definito non riuscito anche se elegante e intelligente) di dimostrare una convergenza generale tra il pensiero dei due autori; ma è significativo che nel volume mondolfiano non venga accennato all’atteggiamento di Mazzini verso la Comune di Parigi. In anni più vicini a noi, Ettore Passerin D’Entreves ha rinvenuto alcune convergenze, in una relazione al convegno su Mazzini e l’Europa, del 1972, dove con equità mette alla luce le possibilità di sviluppo e i limiti dell’insegnamento mazziniano. Vanno infine citati i lavori di Aldo Romano, Richard Hostetter, Pier Carlo Masini e Gastone Manacorda. Resta isolata e assai singolare l’affermazione di Piero Gobetti secondo cui Mazzini e Marx sarebbero da considerare i due più autore – voli rappresentanti del liberalismo contemporaneo. Quello che si può riconoscere, come osservò anche Michele Bakunin, è che l’azione mazziniana preparò il terreno per le future scelte rivoluzionarie di molti giovani già suoi seguaci. Con ciò concorda Gian Mario Bravo, secondo cui l’azione di Mazzini fra gli operai, nelle associazioni, per la creazione di un partito democratico e repubblicano, predispose le masse lavoratrici ad accogliere le proposte dell’Internazionale, avanzate da Marx e da Engels fin dal 1847- 48, allorché parlarono di un “partito politico di classe”, e riaffermate poi, dopo l’organizzazione internazionale degli anni ’60, come conseguenza dell’insegnamento della Comune. Ne sarà testimonianza l’evoluzione di personaggi come Andrea Costa e Carlo Cafiero. È stato osservato a questo proposito, che molti seguaci lo abbandonarono per alimentare le schiere dell’estrema sinistra, perché Mazzini sarebbe rimasto ancorato ad una tematica valida negli anni ’30 dell’Ottocento ma non più nei decenni delle rivoluzioni democratiche. Forse è vero, ma resta il fatto che gli stessi Marx ed Engels, pur nella confutazione accesa, avrebbero recepito dal mazzinianesimo quanto esso aveva offerto di costruttivo per l’emancipazione e l’organizzazione del movimento operaio. Mazzini criticava, con grande chiarezza ed estrema durezza, ogni forma di socialismo autoritario, lo abbiamo visto. Ma va precisato che, al tempo stesso, egli criticava il liberalismo, per il suo esasperato individualismo e perché si identificava per lo più con il sistema monarchico in generale e con quello sabaudo in particolare. Sottolineava in questo contesto la forma della libera associazione democratica dei cittadini, portatori certo di diritti, ma anche soggetti ai doveri. Rivendicava per quei tempi uno spazio politico tra liberali di destra ed egualitari di sinistra. Egli si dichiarò più volte contrario alla proprietà e al capitale accumulati con il lavoro degli altri, mentre il vero produttore di beni muore di fame. Protestò contro i privilegi politici concessi ai proprietari terrieri e ai capitalisti, come se il denaro – disse – fosse sinonimo di virtù e di intelligenza. Manifestò, però, rispetto per la proprietà che fosse frutto di lavoro, credendo nel “progresso collettivo” e nella democrazia repubblicana, la quale doveva mirare all’educazione, all’associazione e al progresso, e non all’individualismo. I teorici comunisti pensano al “mondo”, osservò, invece bisogna occuparsi del miglioramento dell’“uomo”, richiamandosi al problema educativo e riconoscere il principio religioso della fraternità. Pur accettando le istanze di giustizia che erano alla base di molte correnti socialiste, egli rifiutò sempre la lotta di classe e la violenza come mezzo di lotta politica. Nel Manifesto del partito comunista Marx afferma che la conquista della democrazia consiste nell’arrivo del proletariato alla condizione di classe dominante. Due anni dopo, in un suo M a n i f e s t o, Mazzini gli risponderà che occorreva pensare allo stabilimento della “Democrazia europea”. E per lui la democrazia era il progresso di tutti attraverso tutti sotto la guida dei migliori e dei più saggi.

Questa definizione mazziniana della democrazia è riportata nel Dizionario di Oxford, a testimonianza della sua fama nel mondo anglosassone. Scopo finale della democrazia, aggiunse Mazzini, doveva essere lo sviluppo della vita sociale: una definizione che Salvo Mastellone, suo massimo studioso contemporaneo, ha giustamente definito “veramente straordinaria”. Possiamo essere senz’altro d’accordo con lui, in considerazione dell’importanza che essa ancora riveste per le prospettive future dell’umanità. E a coloro che ancora oggi insistono ad accusare Mazzini di essere un pensatore non più attuale perché non avrebbe colto l’evoluzione verso la società industriale e a considerare attuale, ormai, solo la sua “spinta etica”, possiamo replicare, con Giuseppe Galasso, che, soprattutto dopo il crollo del comunismo e delle altre ideologie totalitarie, l’insegnamento mazziniano resta più attuale e valido di quello marxiano, perché riesce a coniugare l’etica della responsabilità individuale con quella della solidarietà sociale.

Tratto dalla rivista HIRAM 2007/3

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